mercoledì 31 maggio 2017

Guglielmo Peralta, "La via dello stupore" (Ed. Thule)

di Franca Alaimo

La via dello stupore di Guglielmo Peralta è un vero e proprio trattato articolato in 22 brevi capitoli a cui vanno aggiunti un glossario dei neologismi più usati dall’autore, e un’interessante riflessione conclusiva: Perché il tempo della povertà nonostante i poeti. 
In ogni capitolo l’autore sviluppa un aspetto di quel sistema etico-estetico-filosofico identificabile con il neologismo “Soaltà”, le cui radici vanno ricercate fin dalle sue prime pubblicazioni. Una così lunga fedeltà testimonia la coerenza di un pensiero che, dopo essersi confrontato con le più importanti correnti filosofiche, si è, nel corso del tempo, sviluppato ed arricchito fino a costruire una teoria organica, caratterizzata da riflessioni del tutto originali e dall’invenzione di una serie di neologismi (Peralta tende, di fatto, ad una lingua propria) che vanno letti anche quali densissime figurazioni poetiche.
Infatti, quando il filosofo è anche un poeta, come nel caso di Peralta, alla sistemazione razionale del pensiero si sovrappone la tendenza ad includere elementi e figurazioni dettati da quell’intelligenza emotiva e fantastica che, nella filosofia greca, diede origine a miti e favole, come quelli a cui ricorre il più immaginifico dei filosofi greci: Platone.  
Il trattato di Peralta attesta anche una forte esigenza di costruire nessi di significato fra i molti neologismi del suo vocabolario, con l’intento di ridurre distanze e trasformare la lingua in una tramatura fluida, che attesti l’inscindibilità dell’etica dall’estetica, della scienza dalla poesia, della ragione dall’emozione secondo una consequenzialità spesso imprevedibile, ma del tutto obbediente ad un criterio personale d’inclusività, a fronte dei compartimenti stagni a cui da tempo si è avviato il sapere umano.
Fatta questa premessa, è difficile dire più di quanto si sia già detto a proposito della Soaltà di Peralta, innanzitutto perché l’autore, che è il primo e più sapiente commentatore di se stesso, fornisce al lettore tutti gli strumenti necessari, compreso il glossario, per facilitargliene la comprensione; e poi perché già in molti si sono occupati di essa, fra i quali Barberi Squarotti (recentemente scomparso), la Monroy, e ancora, Scurria, Sasso, Zinna, e, recentemente, Donati, Lo Bue, Tommaso Romano, e, infine, Balbis, che nella prefazione ha citato anche me.
Ebbi, infatti, a scrivere una introduzione alla breve raccolta di poesie dell’amico Peralta: Sognagione, edita dalla casa editrice palermitana ‘The Lamp’. Mi scuserò, allora, se citerò qua e là me stessa, ma credo di non sapere trovare parole migliori per veicolare certe idee maturate a proposito della soaltà peraltiana e, in particolare, della sua terminologia (che ne è uno degli aspetti più intriganti). Volere spiegare quest’ultima, come scrivo in quella prefazione, sulla base della scienza dell’etimologia, sarebbe inutile e fuorviante, poiché essa si basa, invece, “su una rete di relazioni analogiche, di sovrapposizioni concettuali, di accorpamenti di parole o di scissioni al loro interno, e, perfino, su una sorta di procedimento sillogistico operato sui significanti, da cui germinano nuovi e sorprendenti significati”.
Nel glossario inserito ne La via dello stupore, l’autore, inoltre, separa i neologismi, cioè le parole nuove, da lui stesso inventate, e le parole gravide, quelle che, pur rimanendo inalterate, assumono altri significati; come, per fare un esempio, ‘bisogno’ che, ad opera di un trattino interno, diventa ‘bi-sogno’, indicando (cito Peralta) «l’origine dei sogni positivi, cioè delle idee che generano, a loro volta, le cose che servono alla vita dell’uomo, quelle che ne soddisfano le esigenze epifaniche, i bisogni indispensabili, necessari». Mentre leggevo questo incredibile glossario, mi è sembrato di potere assegnare le parole a tre aree semantiche: la terra, il cielo, l’interiorità; infatti, molte hanno a che fare con l’azione del coltivare, seminare e raccogliere frutti, tant’è che nel mezzo di questo recuperato eden svetta, dentro lo splendore della lux, l'albero soale; altre si ispirano alla terminologia astronomica come ‘astroparole’, ‘cielificazione’, ‘cielogramma’, ‘cosmosomatica’; e, infine, tutte trovano accoglienza nello spazio interiore, detto ‘antropografico’, perché  esso è quello «della creatività, dove vengono osservati e coltivati i fatti o fenomeni creativi, i quali costituiscono il sentire dell’uomo in relazione al suo habitat spirituale».
Sempre a proposito dei neologismi, nel corso della recentissima presentazione tenutasi nel mese d’aprile 2017 presso i locali della libreria Mondadori, ho annotato questa illuminante dichiarazione di Peralta: “sommare due parole equivale a crearne una terza attraverso un legame speciale d’amore”. A proposito sempre dei neologismi Antonio Martorana scrive che essi “rendono specularmente il mundus imaginalis dell’Autore, che è come dire la sua psiche, stando alla massima fissata da Jung: l’immagine è psiche”.
Sarebbe ancora più errato parlare di sperimentalismo, poiché la coniazione di parole e l’ingravidazione di senso di altre testimoniano una necessità di rinominazione del mondo allo scopo di purificarlo attraverso la novità dei suoni “rotondi”, come scrive Peralta.
Insomma, la terminologia peraltiana non è una “macchinosa costruzione”, come qualcuno potrebbe pensare: essa, infatti, (e continuo a citarmi) coincide con una “accensione spirituale ed una vibratilità percettiva che volta per volta investono l’atto creativo” avente come valori fondanti quelli più alti dello Spirito umano; “altrimenti non si spiegherebbe la qualità di un lessico che attinge ampiamente a quello evangelico”, instaurando una sorta di parallelismo “fra la funzione messianica del Cristo e quella del Poeta”, entrambi votati alla purificazione “della tragedia del mondo”.
Non per nulla le epigrafi scelte dall’autore sono rispettivamente di un poeta, Hölderlin, e di un papa, Karol Wojtiyla (anche lui scrittore di versi ed autore di una lettera indirizzata agli artisti): il primo esalta la missione del poeta come colui che deve cercare “quanto vi è di più alto e perfetto”, il secondo ricorda ad ogni uomo la necessità di approdare alla visione attraverso l’interpretazione dei segni e a “ciò che gravita dentro/e che matura come frutto nella parola”.
Dunque, Peralta sacralizza il poeta e la poesia, affidando loro la palingenesi universale, nel convincimento che sarà la Bellezza a salvare il mondo, così come affermò Dostoevskji. Non per nulla Salvatore Lo Bue ha parlato di misticismo peraltiano in nome di un sogno verbale pantocratore.
Per tornare alla Soaltà, all’interno dei capitoli che compongono La via dello stupore, si possono leggere varie definizioni della stessa, ma la più interessante a me sembra essere questa: «La soaltà che nella luce estiva si palesa, è la visione che accoglie il mondo nella sua unione di sogno e realtà correggendo la conoscenza difettiva che abbiamo di essa a causa dell’occhio».
Questo difetto dell’occhio sembra, infatti, essere il male più diffuso nella società contemporanea: nel capitolo conclusivo de La via dello stupore, Peralta definisce il mondo in cui viviamo  «assurdo e irrazionale, sempre più povero perché privo di questi sogni reali, ossia dei valori e delle virtù trasformati in sogni impossibili per la loro assenza» e l’umanità «arida e nuda», svilita dall’odio, dal crimine e dall’egoismo.
Eppure Peralta crede fermamente che il mondo potrà cambiare grazie all’accoglimento da parte di tutti gli uomini della Bellezza, ‘oggettiva e aperta alla vista di tutti’, anche se ‘non tutti ne avvertono l’essenzialità’. Ancora una volta vengono accostate la figura del Poeta e quella di Cristo: «Non è forse – si chiede Peralta ‒ il Poeta l’emulo di Cristo?» Come Cristo, infatti, somma perfezione, non fu compreso dagli uomini e crocifisso, allo stesso modo, nel mondo contemporaneo così povero, «la Poesia ha il suo calvario e la sua croce e gli uomini sono la sua crocifissione e il suo sepolcro».
La conclusione del capitolo ha toni commossi: si ha l’impressione che Peralta assuma il piglio solenne e ispirato di un profeta che si appella a tutti gli uomini, affinché imparino a riscoprire il valore della Bellezza, dell’Anima, della Poesia: questo ‘universo di carta’ ‒ ed è una sua definizione molto bella ‒ capace di ‘rendere il mondo più confortevole’.
Non credo che La Soaltà di Peralta possa essere facilmente condivisa, intanto per questa tracimazione di idealità e sogno a cui l’uomo contemporaneo è poco avvezzo, e poi per l’arditezza del linguaggio, che viene piegato a dire altro, investito anch’esso da una visionarietà etica non solo dello sguardo, ma anche dell’udito.
Certo è che si tratta di un edificio di concetti e punti di vista assolutamente singolari, sebbene tragga spunto, come ricorda Giannino Balbis che ha firmato la presentazione de La via dello stupore, dalla mistica cristiana, da Leopardi, Novalis, Pascoli, Dostoevskji, Todorov, e, ancora, Dante, Tommaso e tanti altri; a dimostrazione che Peralta non è un sognatore d’azzardo, ma un uomo di cultura che ha tratto un suo frutto particolare dalla lettura di tanti grandi scrittori e pensatori del passato e del presente.
Di primo acchito questa complessa visione di Peralta potrebbe essere giudicata non attuale in rapporto, specie se messa in rapporto con la ‘liquidità’ di cui parla Bauman per definire la realtà in cui viviamo; eppure, come osserva il già citato prefatore Balbis, la soaltà peraltiana, se accolta, porrebbe rimedio al carattere di provvisorietà che ha ormai assunto il valore estetico e porrebbe rimedio «a quel che lamenta Eco a riguardo del ruolo educativo un tempo esercitato da genitori e insegnanti e oggi tragicamente delegato ai mass media e all’industria culturale (…) la soaltà ha il crisma della palingenesi: è teoria estetica, ma anche filosofia di vita, proposta di un nuovo e salvifico galateo degli occhi, della mente, del cuore, nuova mirabile visione del mondo».
Mi piace concludere questo intervento con un pensiero del poeta cretese Nikos Kazantzakis, che mi sembra molto prossimo allo sguardo e alla terminologia peraltiani. Egli dice così: “credendo con passione in qualcosa che ancora non esiste, lo creiamo; l’inesistente è ciò che non desideriamo abbastanza, ciò che non abbiamo irrigato a sufficienza con il nostro sangue, così che possa prendere forza e varcare la soglia oscura dell’inesistenza”.


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