mercoledì 16 agosto 2017

150 anni di conflitti nord-sud

di Domenico Bonvegna

E’ passato un secolo e mezzo da quando è stata “fondata” l’Italia, ma ancora si discute, si scrive sul perchè non è stata raggiunta quell'unità fortemente voluta dalla Casa Savoia e da una minoranza illuminata di letterati e poeti che da tempo cercava di realizzare quel loro sogno proibito.“Appena l’Italia venne messa insieme con i pezzi raccolti, il Sud si ribellò e ingaggiò una sanguinosa guerra di secessione. Al Nord i favorevoli all’unità erano poche migliaia, al Sud anche meno. Trent’anni dopo l’unità, l’Italia era già scossa da tentazioni separatiste, sia al Nord che al Sud,[…]”. Paradossalmente gli argomenti di discussione di allora sono gli stessi di oggi: la corruzione civile, la criminalità organizzata, le clientele politiche, i differenti costumi, l’assistenzialismo. Sono i temi che affronta Romano Bracalini, giornalista e storico, in un interessantissimo e ben documentato pamphlet, pubblicato da Rubbettino nel 2010, “Brandelli d’Italia. 150 anni di conflitti Nord-Sud.
Il testo tenta di spiegare, senza nascondere nulla e senza interpretazioni arbitrarie le ragioni del Nord e del Sud. Bracalini fa una descrizione impietosa, a volte spietata e irritante delle differenze sostanziali esistenti tra l’Italia settentrionale e quella meridionale. Il libro ruota intorno alla questione della mancata unità politica del Paese. Anche se per la verità, nonostante le divisioni, in Italia, una certa unità esisteva ed era intorno alla fede cristiana. Però Bracalini che a tratti manifesta segni di anticlericalismo, ignora questo aspetto e anche la “guerra” nei confronti della Chiesa ad opera dei risorgimentisti.
Comunque sia per il giornalista, l’Italia era troppo diversa per essere unita in quel modo. A cominciare dalla lingua,“anziché un ausilio comune, era una barriera. Solo una minoranza esigua sapeva parlare l’italiano. L’analfabetismo, specie nel Mezzogiorno, aveva percentuali africane”. Bracalini nel libro si avvale del parere di innumerevoli storici e studiosi, tra i tanti, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Rosario Villari, Francesco Saverio Nitti, che hanno affrontato in particolare la questione meridionale, diventata cruciale, e talvolta, magari affrontata,  appassionatamente e troppo di parte.
Giovanni Sartori, qualche anno fa scriveva:“L’Italia è sempre stata divisa tra un Nord ricco e più pulito e un Sud clientelare e povero”. Mentre per l'economista Luca Ricolfi, “è la frattura tra Nord e Sud a minare il sentimento nazionale”. Peraltro il 40% degli italiani ritiene che,“l’Italia non sarà mai una nazione unita perché ci sono troppe diversità economiche e culturali”. Sembra che al Centro-Nord sia più forte il senso di appartenenza territoriale. Praticamente dal libro di Bracalini emergono“due Italie contrapposte e uno stato, specie al Sud, quasi inesistente in cui predominano le camorre e le clientele sostituite alla sovranità della legge. Un paese per metà europeo e per metà levantino, dove non funziona nulla (treni, poste, burocrazia)”. Tempo fa il settimanale britannico,“The Economist”, ridisegnando la cartina dell’Europa, mette l’Italia settentrionale in una fantomatica Confederazione del Nord, insieme ad altri Paesi come la Francia, Germania, Austria. Mentre l’Italia meridionale, farebbe parte della Grecia con una moneta più debole. Una divisione che assomiglia al modello Belgio. Secondo Bracalini prima o poi potrebbe accadere, anche perché l’Europa potrebbe essere divisa diversamente, non più sui vecchi modelli degli Stati-nazione, ma secondo aree economiche omogenee.
Il testo di Bracalini parte dal 1861 quando i briganti in nome di Dio e del Re iniziano a ribellarsi ai nuovi invasori venuti dal Nord. E qui si infrange subito il mito dell’unità,“i cultori del mito unitario, non potevano ammettere, se non come reazionaria, l’idea che il Sud ricusasse l’occupazione militare solo perché essa non rientrava nei desideri dei nuovi sudditi, i quali, trattati da popolo conquistato, avrebbero dovuto accettarne passivamente tutte le clausole”. Pertanto i risorgimentisti, infamarono “la ribellione, togliendole ogni carattere di legittimità; nessun principio di decoro venne riconosciuto ai ‘briganti’, termine col quale vennero designati malfattori e gente rispettabile; nelle rappresaglie non si fece distinzione tra plebe e signori, borghesi e preti”.
Il brigantaggio per i novelli liberatori,“appariva come l’ultimo sussulto del passato che andava stroncato senza pietà, un movimento funesto e feroce nemico dell’unità, della libertà e della vita civile”. Il nuovo Regno è stato costretto a mettere in campo un esercito poderoso come se dovesse combattere una guerra tra Stati. Le efferatezze e le brutalità di un esercito di conquista non ebbero più fine. Alla fine fu“una guerra di sterminio così orribile di ferocia che si dovette e si deve ancora nasconderla alla storia”.
Massimo D'Azeglio ha avuto il coraggio di dire la verità: per tenere il Regno ci vogliono 60 battaglioni. In pratica la popolazione meridonale rifiuta l'”Italia”. Così contro l'ipocrisia degli unitari, che preferivano parlare di generica “guerra al brigantaggio”, D'Azeglio, con la consuetudine franchezza, parlava di “insurrezione antiunitaria”. Tuttavia per Bracalini era chiaro che “il popolo meridionale aveva tutto il diritto di scegliere la forma politica che più desiderava, e non per questo essere tacciato di reazionario, solo perchè non desiderava sottostare a un governo che veniva con la pretesa di 'liberarlo' senza che nessuno glielo avesse chiesto”.
Praticamente anche qui al sud si è palesato, quello che è successo per altre guerre: “gli eserciti di invasione pretendono sempre che i popoli conquistati riconoscono la superiorità delle loro ragioni”. Così la cosiddetta “guerra al brigantaggio”, fu anche “una sporca guerra coloniale”, che per adornarla di buone intenzioni, venne camuffata dietro“la maschera ingannevole e falsa della missione 'civilizzatrice', prima nel Sud e poi in Africa”. Per Bracalini addirittura si può parlare di prima guerra di “secessione” italiana, tra l'altro svoltasi proprio nello stesso periodo della Guerra civile americana. Con la differenza che in America si combatterono due eserciti alla pari, qui al Sud Italia, fu combattuta tra due forze impari. Tra uno Stato baldanzoso militarista e un popolo povero e debole.
Nel 2° capitolo Bracalini sviluppa la tesi delle due Italie, una sempre avanti e l'altra indietro. Anche per quanto riguarda la storia del passato remoto,“non c'era in Europa un altro Paese in cui, in uno spazio tanto esiguo, il Noed e il Sud esprimessoro sistemi di governo così radiclamente opposti”. Bracalini tra storia e attualità vede troppi elementi comuni, del resto il libro ha il pregio di collegare il nostro passato al presente. Giustino Fortunato diceva che non solo i Borboni erano responsabili del degrado del reame. Una parte non trascurabile di colpa era anche dei napoletani, 'ai quali non si possono negare – riconosceva lo stesso Francesco Saverio Nitti – qualità antisociali notevoli: poco spirito di unione e di solidarietà”, ma anche “mancanza di educazione industriale e di spirito di lavoro[...]”.Qualcuno dava la colpa al governo degli spagnoli, ma anche Milano era stata dominata dagli spagnoli per quasi due secoli. Anche se poi passarono gli austriaci, gli asburgo. Bracalini mi sembra troppo severo nel giudicare il passato borbonico. Non è per niente indulgente nel giudizio sui sovrani napoletani. Sicuramente è lontano da certe leggende auree, create dal nostalgismo borbonico. Secondo lui c'erano antiche miserie, che dopo furono accentuate dai vari politici e ministri meridionali, come Francesco Crispi e Di Rudinì, che peraltro furono i peggiori nemici del Mezzogiorno. Secondo Luca Meldolesi, “la questione meridionale”, è frutto di tre flagelli: “criminalità, clientelismo, corporativismo”.
Ma nello stesso tempo descrive in maniera rigorosa anche la sciagurata politica piemontese, dello Stato militarista sabaudo, che aveva un debito pubblico enorme a causa delle numerose guerre intraprese. Il nuovo governo “riuscì solo ad assicurare più tasse per tutti”. Subito dopo l'unità, il Piemonte era lo Stato più indebitato e avrebbe dovuto pagare di più rispetto agli altri, “invece per una stranezza contabile, veniva a pagare, in proporzione, meno del regno delle due Sicilie, che era indebitato solo per la metà”. Sostanzialmente, furono dunque i cittadini delle province meridionali ad accollarsi il peso maggiore del debito piemontese. Oltre al danno anche la beffa per il Mezzogiorno.“Dopo aver subito l'occupazione 'piemontese' e le distruzioni che ne erano derivate, parve di dover pagare la propria parte per l'onore di essere stati presi a fucilate”. Non solo ma secondo Lorenzo Del Boca, cinquant'anni dopo, sono proprio i “terroni”, cioè i meridionali a dover pagar, il maggior tributo di morti per l'inutile strage della prima guerra mondiale.
Comunque sia per Bracalini, nell'impatto dell'unità, ci ha rimesso il Mezzogiorno, perchè era più debole. E se vogliamo per certi aspetti neanche per il Nord è stato conveniente l'annessione del Sud, questo aspetto viene considerato sempre da Del Boca, nel suo “Polentoni” (2011). “Fra gli sconfitti del Risorgimento ci sta a buon diritto il Nord. Il Nord vero, quello dei campi e delle fabbriche, che non soltanto si mantenne ostile a ciò che si andava profilando[...]”. Del resto, lo stesso Sidney Sonnino, ministro del tesoro, delle finanze e degli esteri, sull'unità, ha detto: “se questa è l'Italia era meglio non averla fatta”.
Il libro dà conto della rivolta separatista di Palermo (1866). Sette giorni intensi di grandi battaglie per le vie della città. I motivi dello scontento erano tanti. C'era chi voleva la repubblica indipendente, chi la restaurazione borbonica, chi chiedeva semplicemente pane e chi protestava per le limitazioni imposte alle feste di santa Rosalia, o per la soppressione delle corporazioni religiose. Il sindaco della città, Antonio Di Rudinì, tentò di difendere la città, ma dovette asseraglirsi nel palazzo reale. Mazziniani, autonomisti, borbonici, clericali, mafia, si trovarono a combattere sullo stesso fronte.
Per sedare la rivolta, le truppe del generale Raffaele Cadorna e soprattutto con il bombardamento per tre giorni di Palermo, da parte di otto navi da guerra italiane, si riuscì a conquistare la città. “Non tutti erano criminali e la loro protesta andava compresa”. La repressione fu dura e feroce. Molti furono i morti da entrambi gli schieramenti. Non si approfondirono le cause della sommossa. Bracalini, descrive con una certa meticolosità i caretteri della società siciliana, in particolare delle due città, Palermo e Catania, animate da evidenti contrasti atavici. L'autore evidenzia nel carattere siciliano una “insopprimibile sentimento di ribellione”, una alterigia ereditata dagli spagnoli e una suscettibilità ombrosa ereditata dagli arabi.
Bracalini ricorda che nell'intento di prevenire altre insurrezioni nel mezzogiorno e in Sicilia, in particolare, il governo regio, si fece promotore di un progetto di misure eccezionali di domicilio coatto e deportazione dei “briganti” nelle Americhe o in qualche remoto Paese asiatico. Addirittura si cercò di costruire un “carcere per meridionali” nell'isola di Socotra, nel Mar Rosso.
“Brandelli d'Italia” affronta anche la questione della capitale del nuovo Regno d'Italia. Dalla documentazione proposta da Bracalini si deduce che Roma è “la non capitale”, era la peggiore capitale che si potesse scegliere. In questo capitolo, forse emerge l'anticlericalismo del giornalista. Anche qui Bracalini fa una descrizione spietata, a tratti irriverente, della società romana e soprattutto dei suoi governanti. “Roma si accosta troppo al Sud”. “Roma non aveva nulla delle capitali modello europee, Parigi e Londra, metropoli imperiali di grandi Nazioni moderne”. Per Bracalini, “Roma doveva restare quale l'avevano trasformata i secoli: un grandioso parco di rovine in cui pascolavano le pecore”.
Una città di sudditi, paurosi e cinici, dove era presente un popolino violento e sboccato, avvezzo alla contumelia (“ma li mortaci tua” o “fijo de na mignotta”, erano gli improperi più in voga). Era la peggiore capitale che si potesse scegliere.
Se l'unità fu un errore, Roma ne costituiva la riprova.
Il capitolo va a concludersi con una serie di citazioni di esimi personaggi che certamente non danno descrizioni positive della città eterna.
Intanto noi ci fermiamo qui. Alla prossima.



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