martedì 29 dicembre 2015

Mario Arturo Iannaccone "Persecuzione" (Ed. Lindau)

di Domenico Bonvegna

In appendice al libro dal titolo “Persecuzione”, di Mario Arturo Iannaccone, pubblicato da Lindau (2015), c'è una lunga lista di beati e canonizzati di martiri assassinati prima e durante la guerra civile spagnola. Una lista che da sola testimonia l'eccezionale violenza nei confronti della Chiesa spagnola. Nel complesso l'opera di beatificazione iniziò dopo il 1998 con San Giovanni Paolo II, poi Benedetto XVI, quindi è continuata con papa Francesco. Prima le opere di beatificazione andavano a rilento, perché la Chiesa intendeva evitare che la memoria di questi assassinati dagli anarco-comunisti repubblicani fosse usata politicamente o strumentalizzata in certi ambienti politici (leggi destra franchista).
Perchè sono stati beatificati solo i religiosi uccisi dai rojos?
Nel libro troviamo alcune risposte sulla persecuzione della Chiesa in Spagna. Per esempio nel capitolo 7°, Iannaccone spiega perché sono stati beatificati soltanto i religiosi uccisi dai rojos.”La risposta è stata data molte volte ed è sempre la stessa: molti di coloro che furono uccisi dai repubblicani, lo furono per l'odio di questi verso la fede cattolica, mentre non è provato sia avvenuto lo stesso per coloro che morirono per mano della parte nazionale”. Poi esistono altri religiosi che morirono come “soldati della Repubblica”, perché precettati. Altri furono innocenti vittime della guerra ma non si può provare che morissero per la fede e questo li accomuna agli oltre 300.000 morti che questa guerra costò alla Spagna. Tuttavia, molti di coloro che furono assassinati, non sono stati beatificati o santificati, furono però dei “veri eroi e come tali meritano di essere ricordati (a non pochi di essi sono stati dedicati statue, monumenti, piazze, vie, parchi...)ma non furono, fino a che non viene provato il contrario, martiri della fede”. Iannaccone in merito alle beatificazioni, precisa che “la Chiesa beatifica o canonizza solo i martiri cattolici, anche se ammira eroi non cattolici o cattolici non morti in odium fidei e comunque rispetta tutti i morti di quella immensa tragedia”.
Lo studioso ricorda alcune opere autorevoli sulla persecuzione religiosa. Ma soltanto negli ultimi tempi, gli storici sono riusciti a chiarire molti punti oscuri, anche se c'è ancora molto da fare. Dopo le beatificazioni del 28 ottobre 2007 (498 persone) e del 13 ottobre 2013 (522 persone) sono state scritte quasi 200 libri, saggi storici e di approfondimenti di aspetti generali o particolari. Molte di queste opere sono apologetiche scritte nelle diocesi. Però, l'opera più importante ed esaustiva, riguardo i beati, sono i due volumi curati da Vicente Carcel Ortì, Martires del Siglo XX en Espana (BAC, Madrid 2013), si tratta di circa 2500 pagine, dove si ricostruisce le radici dell'aggressione alla religione e alla Chiesa nel 900' spagnolo. Tuttavia l'immensa opera di monsignor Ortì racconta anche una breve biografia dei 1523 tra santi e beati proclamati dopo la Guerra Civile, quasi tutti a partire dal 1992 a oggi sotto i tre ultimi papi. Praticamente è uno studio che aggiorna le precedenti pubblicate sempre dallo stesso autore.
Il testo di Iannaccone che ho letto, racconta giorno dopo giorno l'assassinio dei beati, “un'impressionante e secca cronaca delle uccisioni suddivise per data”.
I primi attacchi alla Chiesa spagnola
Iniziarono il 18-19 luglio 1936, furono incendiate chiese, uccisi parroci, religiosi, laici cattolici. “la furia iconoclasta distrusse metodicamente tutte le immagini delle  numerose chiese, cappelle, conventi e così le croci, le insegne del Sacro Cuore...”. Molti degli assassinati laici e religiosi cattolici avvenne il 25 luglio, giorno di Santiago Apostolo, un lungo elenco di religiosi, dai carmelitani ai lasalliani, i passionisti, i domenicani, fino ai mercedari. Una quarantina di pagine. Tutti questi ed altri centinaia di casi, secondo Iannaccone, “mostrano un'azione coordinata nel territorio controllato dai repubblicani nelle primissime ore dell'alzamiento, come tutto fosse già pronto”.
La ritualità dell'assassinio dei religiosi.
L'8° capitolo viene dedicato ai casi più celebri, le uccisioni di gruppo come il massacro dei 51 clarettiani di Barbastro, uccisi in uno spazio di tempo che va dal 20 luglio al 18 agosto, un vero e proprio rito di morte protratto nel tempo. I giovani seminaristi tenuti prigionieri, in condizioni proibitivi, in un estate calda, hanno subito un lento calvario, sono stati uccisi poco alla volta. I carnefici miliziani tentarono in tutti i modi di farli abiurare, introducendo nel luogo della prigionia, anche delle donne, qualche prostituta e alcune miliziane addestrate alla seduzione. Inoltre davanti al luogo in cui li tenevano prigionieri, i miliziani, fecero sfilare alcune donne vestite con i paramenti sacri. “Era una forma di scherno feroce che in questo caso prendeva di mira la virilità di uomini che vestivano tonache”. Iannaccone nel testo si sofferma sulla questione dei vestiti dei religiosi, per i rivoluzionari rossi, “i vestiti clericali femminili e soprattutto maschili erano considerati innaturali perchè negavano il sesso anatomico”. Alcuni preti uccisi, che chiedevano il motivo, gli è stato detto: “Per i vestiti che porti”
Comunque sia, “dai documenti risulta che dei circa 8000 religiosi uccisi soltanto uno abbia abiurato”. Lo storico descrive l'assassinio anche nei particolari, “Dopo essere stati fucilati fu dato loro il colpo di grazia e lasciati lì a sanguinare perchè non sporcassero di sangue il camion. Qualche ora dopo i miliziani tornarono, caricarono i cadaveri e li seppellirono in una fossa comune gettando sui corpi acqua e calce viva. Ignoravano che le loro vesti portavano cucito un numero che avrebbe consentito di identificarli”. Tutti i religiosi prima di morire gridarono: “Lunga vita a Cristo Re! Lunga vita al Cuore di Maria. Lunga vita alla Chiesa Cattolica!”, perdonando i propri aguzzini.
A Consuegra (Toledo) vennero uccisi 20 francescani, un'esecuzione accettata dal sindaco e dai membri del consiglio comunale. Una giunta socialcomunista che “considerò un dovere far fucilare dei naturali nemici della Repubblica”, tra l'altro il sindaco accompagnò gli esecutori dell'assassinio sul luogo della fucilazione come fosse un atto politico dovuto.
A Toledo oltre ad essere uccisi 16 carmelitani, furono distrutti circa 30.000 volumi di grande valore storico, con molti incunaboli e manoscritti antichi lì conservati da secoli. Iannaccone sottolinea come la diocesi di Barbastro sia stata la più colpita dalla repressione, qui c'è stata la percentuale più alta di preti assassinati di tutta la Spagna.“Fu più violenta di quella rivolta contro coloro che avevano partecipato alla sollevazione militare. Segno che esisteva una motivazione separata, mascherata da altri pretesti: eliminare la Chiesa dalla vita della Spagna”.
Venivano uccisi anche i religiosi, monaci, che operavano negli ospedali, magari più rinomati, più avanzati e moderni per il trattamento di gravi malattie. Il fatto che fosse gestito da religiosi, risultava intollerabile per coloro che erano stati educati a ideologie radicali. Come gli 11 hermanos dell'Hospital Infantil de Malavarrosa uccisi a Cabanyal de Valencia. Beatificati da papa Francesco assieme ai 498 martiri il 13 ottobre a Tarragona.
Poi c'è il caso dei 46 hermanos maristas (Montcada, Barcellona). I maristi furono secondo Iannaccone una delle congregazioni più colpite dai miliziani comunisti. Naturalmente nessuno di loro aveva qualche particolare vocazione politica. Sarebbe interessante poter raccontare la loro storia. In questo momento penso ai fratelli maristi che ho conosciuto alcuni anni fa nelle scuole di Taormina.
Iannaccone nel libro non risparmia i dettagli più cruenti delle uccisioni, come il caso del giovane padre Gabriel Albiol Plou. Una crudeltà estrema, a costo di sembrare sadico, vale la pena fare la descrizione, peraltro abbastanza simile ad altri assassinii:“gli tagliarono entrambe le orecchie e poi lo costrinsero a bagnare le ferite con l'acqua di mare. Fu frustato e bastonato in tutto il corpo. Gli furono bucati gli occhi, rendendolo cieco. Gli tagliarono la lingua, poi i genitali, quindi gli fu infilata la baionetta in un orecchio. Dopo la tortura fu colpito da alcune pallottole e lasciato morire lentamente a dissanguarsi”.
Uno degli aspetti più sconcertanti delle esplosioni anticattoliche della Spagna del '900 è quella delle esumazioni ed esposizione di cadaveri mummificati, ridotti a scheletri o decomposti di religiosi e religiose, estratti dai sepolcri ed esposti davanti alle chiese e conventi o addirittura nelle pubbliche vie. Esistono diverse testimonianze fotografiche. Ricordo bene un numero speciale di un giornale storico degli anni '60, dove in copertina c'era una mano insanguinata che teneva la Spagna; é qui che ho visto per la prima volta le immagini raccapriccianti delle esumazioni dei cadaveri. 

lunedì 28 dicembre 2015

Gabriele Camelo, "Boliviario" (Ed. Paoline)

di Sandra V. Guddo 

“ L’effimero e la Fede “ . Avrei scelto queste due semplici parole , come sottotitolo a questo straordinario libro, che già dal suo titolo,rappresentato dal neologismo Boliviario ( Bolivia + diario ) è testimonianza della fertile creatività del suo autore Gabriele Camelo : una giovane penna alla sua opera prima, che , con un grande bagaglio culturale sorretto da una forte motivazione,  parte per la Bolivia come V. I. S. ( Volontario internazionale per la Solidarietà ). Gabriele racconta la sua esperienza di volontario ma ancor prima cerca di spiegare a chi glielo chiede il perché di quella partenza improvvisa che interrompe un fruttuoso percorso lavorativo, da tempo intrapreso,  che lo avrebbe condotto che alla cosiddetta sistemazione economica  frutto di un lavoro stabile. Ma lui dà un calcio a tutto questo , vuole cambiare vita ed andare alla ricerca di se stesso in un cammino impervio che gli riveli ancora più luminosamente chi è e chi vuole essere. Intanto sa chiaramente chi non vuole  diventare “ io non voglio ritrovarmi la sera ad accendere la televisione e a stare impalato di fronte al culetto delle veline e ad ascoltare il rumore degli applausi a comando e il rumore delle risate finte. Io la smetto . Basta coi rumori. Parto per cercare l’essenza. Musica . “
Gabriele  cerca il proprio Sé autentico e non banale, iniziando una ricerca escatologica ed esistenziale che lo porterà a scoprire il vero senso della vita . Sente che è necessario per lui andare in Bolivia, a Santa Cruz,  per aiutare quei tanti , troppi bambini che vivono per strada e che hanno fatto della strada la loro casa. Così si susseguono racconti carichi di pathos, assolutamente veri che condurranno il protagonista – scrittore a ridefinire il significato dell’essere cristiani oggi, armati della fede che può essere l’unica via di salvezza in un mondo dove  dolore e sofferenza non possono essere eliminati. Allora che senso ha partire come volontario se non è possibile venirne fuori ? Se non è possibile cancellare lo schifo morale e fisico dove crescono questi bambini ?
Gabriel riesce a trovare la risposta “ Io non posso fare a meno, fare altro che vivere la speranza per lui , per tutti questi ragazzini come Deiby che  “ sa solo picchiare, rubare e - diventato adolescente – sommergerà il suo dolore in tagli profondi sulle braccia, come tutti gli altri bambini di strada , che imparano a piangere con il sangue. “
Gabriel non può fare altro che sperare e pregare per loro  il “ Padre Nostro “ nel suo stentato spagnolo . In realtà sta facendo molto di più , a mio parere, li ama e li accetta così come sono questi ragazzini che non hanno mai conosciuto il calore di una carezza o di un abbraccio , che non hanno mai ascoltato parole di pacificazione verso un’umanità che sembra avere perduto l’anima oltre che il corpo , preda della “ Colla “. La colla è la droga che i bambini sniffano o foglie di coca appallottolate che masticano in bocca per ore per stordirsi e non sentire i morsi della fame e tutta la sofferenza che si portano dentro.
In tal modo, il nostro autore è nettamente in antitesi con certi filosofi del cosiddetto “ esistenzialismo “ ; ci riferiamo in particolar modo a Martin Heidegger , secondo cui la morte viene considerata come l’unico momento in cui l’uomo, non essendo almeno in questo sostituibile, è autentico , mentre per tutto il resto della sua esistenza egli non è altro che “ Geworfenheit “ cioè l’uomo si pone su questa terra come solitudine ontologica dell’individuo. Gabriel invece sostiene la forza benefica , se non addirittura salvatrice del dialogo , del comunicare. La rabbia infatti esplode quando non si sono chiariti con l’altro le nostre esigenze, i nostri dubbi e le nostre rimostranze . Forte di questa convinzione , utilizza con questi bambini estremamente difficili, prima di qualsiasi altro strumento educativo, il dialogo anche se non sempre funziona subito ed occorre supportarlo con premi e castighi e a volte anche con forme educative basate sul rigore. Dopo un percorso doloroso in cui Gabriele spesso si sente incompreso ed isolato da tutti, quando è convinto di avere fallito, quando la pressione esercitata dall’ambiente ostile e animalesco nel quale si trova ad operare , ecco che alcune manifestazioni d’affetto di questi bambini lo faranno ricredere e lo faranno rientrare in Italia, dopo un anno di volontariato, arricchito e con un senso non di divertimento né di felicità ma con “ una lieve, leggera gioia . “
La narrazione si svolge sotto forma di diario utilizzando la prima persona, com’è ovvio, trattandosi di esperienze che lui vive sulla sua pelle, con un linguaggio brillante e sobrio mai sdolcinato e melenso, senza sbavature o descrizioni strappalacrime, neanche quando parla dei bambini ospedalizzati e intubati  o dei  molti altri bambini  che hanno subito violenze fisiche e psicologiche terribili al punto da preferire la strada anziché una famiglia dove gli abusi e le violenze, al suo interno, sono routine quotidiana: padri ubriachi che picchiano mogli e figli, che spacciano, rubano e istigano i loro figli anche piccoli a fare lo stesso. Violenza cieca e bruta che trasforma questi bambini in esseri in cui il dolore trova sfogo riproducendo i medesimi alienanti comportamenti dei loro genitori.
 Il suo è un linguaggio colorato che utilizza ad esempio per descrivere il circo “  un circo boliviano che , come tutto il resto del mondo boliviano, sembra degli anni settanta . La tenda è piena di buchi (… ) la luce del sole, di mattina, trapassa le tende blu e colora il pulviscolo di blu; la luce degli strobo e dei fari –di notte –anch’essa si posa sulla polvere dell’arena e colora l’aria del circo boliviano di giallo, arancione, rosso, viola “.
In quel circo , Gabriele ha avuto modo di esibire i suoi numeri di giocoliere, di mago, di uomo mangiafuoco, di trampoliere, di scultore di palloncini, abilità grazie alle quali  egli riuscirà a conquistare molti di questi bambini che vivono la disperazione quotidianamente ma che troveranno, nelle semplici attività proposte dal giovane educatore, momenti di gioia ma soprattutto occasione di apprendimento.
Apprender “ è molto importante, forse può diventare il punto di partenza per iniziare il Cambiamento , per diventare più forti dentro ed iniziare un nuovo cammino.
Il  linguaggio che il nostro autore utilizza in questo splendido diario è carico di odori e sapori “ Camminare per le strade della Bolivia significa camminare assaggiando il sapore lievemente salato della polvere che si deposita in gola ( …. ) significa camminare e incontrare Deiby, undici anni, occhi rossi, mani sporche, maglietta sudicia e puzza di piscio e droga nel naso. “
Tante altre storie, altrettanto drammatiche, come quella del piccolo Deiby, entrano nella vita di Gabriel ( così viene chiamato dai ragazzi di strada ) come un uragano spogliandolo di tutte le sue certezze ,tranne il conforto di scrivere la sua esperienza da cui nasce questo diario e la forza della preghiera che lo ha guidano a superare suoi dubbi, dubbi che possono rivelarsi , in molti casi, più corrosivi dell’acido muriatico ma che egli riesce a superare per non sentirsi solo nella solitudine.
“ Boliviario “  ha meritato un prestigioso riconoscimento con la consegna della targa “ Pietro Mignosi “  nell’ambito del Premio Letterari Internazionale  “ Pietro Mignosi “ 2015.

E noi lettori e suoi sostenitori non possiamo che congratularci con Gabriele Camelo per il primo  traguardo raggiunto a cui, ne siamo certi, ne seguiranno altri non meno importanti.

martedì 15 dicembre 2015

Giorgio Bàrberi Squarotti "Le avventure dell’anima 1998-2013" (Ed. Thule)

di Nicola Romano


Tenere in mano un libro di Giorgio Bàrberi Squarotti è come evocare, per quel che l’autore rappresenta con la sua consistenza intellettuale di lungo corso, la storia della letteratura italiana dal secondo Novecento fino ad oggi. Lo conoscevo per nome e per la fama di attento critico letterario, sin dai tempi in cui abitai a Torino (ed erano gli anni ’70), ma ebbi modo di conoscerlo di persona nel 1993, allorquando egli occupava un posto in Giuria al Premio “Città di Como”, che vinsi in maniera inaspettata poiché, da finalista, il riconoscimento si seppe durante la cerimonia. Mi colpì la sua sorprendente umiltà nel relazionarsi cordialmente con un autore come me, che ero soltanto agli inizi dell’avventuroso cammino nel mondo della poesia. C’incontrammo ancora a Palermo in occasione d’un convegno, ricordammo insieme quel nostro primo incontro, dove in Giuria c’era – lo ricordo adesso - anche Luciano Erba. Per non dire il fatto che, ad ogni mio nuovo libro inviatogli, ha sempre risposto in maniera sollecita, puntuale e cortese, seppur con poche righe.
Ho premesso tutto questo in maniera personalizzata al solo scopo di sottolineare la sua amabile predisposizione umana e la sua sincera umiltà dimostrata in diverse occasioni, sensazioni che adesso ritrovo ancora una volta ribadite nel corso della lettura della sua raccolta poetica dal titolo “Le avventure dell’anima” (1998-2013), pubblicata in veste tipograficamente raffinata dalle edizioni Thule, e recante una pregevole prefazione di Vanessa Ambrosecchio. 
L’umiltà scritturale che tendo piacevolmente a sottolineare riguarda quella che è la convincente fierezza della sua capacità espressiva non disgiunta dai valori contenutistici scandagliati a vasto raggio, e che hanno a che fare con la sfera della vera essenza umana, dal momento che il complesso (senza complessità) del suo dettato è strutturato fra pensieri, circostanze e relazioni con le tante persone (che egli stesso rende alla fine come dei personaggi) incontrate per caso, o propriamente più contigue e familiari, che hanno fin qui accompagnato certamente il suo cammino di vita, persone che, per quelli che sono gli esiti dell’affabulante sviluppo descrittivo, sentiamo quasi palpitanti, vive e come se fossero a noi vicine e vere.
Quelle che maggiormente colpiscono, in questi versi di Giorgio Bàrberi Squarotti, sono soprattutto “le atmosfere” ariose e piene di vita che egli va a rappresentare attorno ad un avvenimento, ad una casualità o ad una memoria, tanto da far rivivere al lettore gli stessi gesti, le stesse parole e forse gli stessi sguardi che si affollano e si intrecciano nei vari quadri delle diverse scene facenti parte – queste – di un percorso creativo che si rivela originale e denotativo. E pertanto, i vari Elena, Anselmo, il dottor Murgia, Angelina, Diana, Maria, Bruno, Daniele ed altri, da semplici nomi comuni di persona si trasformano in figure essenziali che a turno salgono sul palcoscenico d’una rappresentazione quasi carnale, e vieppiù tramutati in deliziose solvenze lessicali attraverso delle felici trasposizioni poetiche. 
Per quella che è la nostra esperienza di militanti e di osservatori, siamo consapevoli della difficoltà dall’essere allo stesso tempo dei buoni critici e dei buoni poeti o prosatori, a volte l’una condizione esclude l’altra, ma nel caso di Bàrberi Squarotti dobbiamo prendere atto che non c’è scissione tra l’indagine/studio letterari e l’operatività scritturale, poiché entrambe le dedizioni fanno parte dell’incantevole mondo in cui Bàrberi Squarotti è da sempre immerso senza una soluzione di continuità, tanto da indurre a far dire – senza tema di smentita – che la sua semplice persona fisica ed il suo alto carisma rappresentano a tutto campo “la letteratura italiana”. 
Oltre ad una certa mitologia ancorata a dei «nomi» troviamo in questa raccolta un’altra mitizzazione che è quella dei «luoghi», di quelle numerose “località” che egli per lavoro o per diporto ha calpestato e che sono rimaste per ben precisi motivi nella sua parte sensibile, e che rivisitate a distanza di tempo diventano – alla nostra vista – dei luoghi certamente dell’anima, se sono stati prescelti per tracciare una sorta di viaggio memoriale il cui tessuto immaginario riesce a ben instaurarsi dentro al lettore. E, in buona sintesi, la materia di questa raccolta appare molto congruente e armonicamente trattata con una certa sensualità di linguaggio, pur residuando il comune e irrisolvibile convincimento che attraversare le pieghe dell’anima costituisce sempre un’intricata avventura!

Manifestazioni Culturali a Ciminna



mercoledì 2 dicembre 2015

Giuvanni Meli abate pi scherzu

di Carmelo Fucarino 

Comu fu e comu nu’ fu l’abate Giovanni Meli morì il 20 dicembre 1815, proprio duecento anni fa, mentre i convitati del castello di Schönbrunn con allegri brindisi azzeravano l’Europa illuminista e napoleonica e portavano indietro l’orologio della storia. Perché dirlo? Perché Meli fu un illuminato, esordì a quindici anni nell’Accademia del Buon Gusto (attiva fino al 1791), quando cantò il Trionfo della Ragione, passò a quella nobiliare, l’Accademia della Galante (il 1762 scrisse per caso La Fata Galante), per finire nel 1766 all’Accademia degli Ereini, l’Arcadia greca, localizzata, secondo Diodoro, sui monti dove sarebbe nato il tragico Dafni, inventore della poesia bucolica. 
Di tutta la sua vita frenetica voglio riprendere soltanto il momento della sua acme professionale e culturale, la data del 1787, quando da medico di Cinisi stipendiato dai benedettini di S. Martino delle Scale ottenne la cattedra di chimica all'Accademia degli studî di Palermo. Proprio in quell’anno raccolse e pubblicò in cinque volumi il suo corpus poetico. L’edizione completa, si badi bene, in sette volumi, sarebbe uscita il 1814.
Da questa prima superba edizione del 1787 voglio estrapolare passi dall’estroso e celebre componimento, il Ditirammu, poesia di un’altezza audace e di sfrontata e plebea comicità, degna dell’inventore del genere poetico richiamato nel titolo, quell’Arione, come affermava Erodoto, o chiunque egli fosse. Era un ritmo di melica corale in onore di Dioniso, dalla quale, diceva Aristotele, sarebbe nata la divina tragedia, genere poetico dionisiaco per eccellenza. Il ditirambo fu con i suoi abituali tetrametri trocaici la poesia della passione e del tragico, della morte e della resurrezione. Dai moderni pertanto fu intesa come poesia dell’abbandono e dell’estasi, della pazzia sfrenata nel deragliamento del vino.
Perciò, sintiti sintiti che bella compagnia si prepara ad invadere la taverna. Questo è siciliano, cari Verga e Buttitta e Camilleri, di un cromatismo pittorico che poveri moderni ve lo sognate e questa è poesia. Senza regole di prosodia e metrica, sfrenati come la combriccola. “Tutti silenziu, Sintiti sintiti”.
Sarudda, Andria lu sdatu, e Masi l’orvu,
Ninazzu lu sciancatu,
Peppi lu foddi, e Brasi galiotu
Ficiru ranciu tutti a taci-maci
’Ntra la reggia taverna di Bravascu,
Purtannu tirrimotu ad ogni ciascu.

E doppu aviri sculatu li vutti,
Allegri tutti misiru a sotari
E ad abballari pri li strati strati,
Rumpennu ’nvitriati
’Ntra l’acqua e la rimarra, sbriziannu
Tutti ddi genti chi jianu ’ncuntrannu.

E intantu appressu d’iddi
Picciotti e picciriddi,
Vastasi e siggitteri,
Cucchieri cu stafferi,
Decani cu lacchè
Ci jianu appressu facennuci olè.
Sarebbe bello seguire questa sganasciata brigata lungo il Cassaro della Palermo del 1787, che, se vi aggrada, potrete conoscere meglio dal sulfureo Goethe che, sbarcato a Palermo proprio il 2 aprile, era ospite nell’albergo di Francesco Benso alla Marina accanto a Palazzo Butera e lo percorreva morbidamente sulla munnizza per comodità delle carrozze. Ed era Palermo al-Aziz, per la cui bellezza mancavano le parole, non come si continua a vanvareggiare per tristo piacere sadomasochistico: «Com’essa ci abbia accolti, non ho parole bastanti a dirlo: con fresche verzure di gelsi, oleandri sempre verdi, spalliere di limoni ecc. In un giardino pubblico c’erano grandi aiuole di ranuncoli e di anemoni. L’aria era mite, tiepida, profumata, il vento molle. Dietro un promontorio si vedeva sorgere la luna che si specchiava nel mare; dolcissima sensazione, dopo essere stati sballottati per quattro giorni e quattro notti dalle onde!».
Ma seguiamo la nostra sfrenata brigata di seguaci di Dioniso nella loro scorribanda tra Cassaro e vicoli della vecchia Palermo, tra via dei Chiavittieri e via dei Coltellieri, per le vie dei Frangiai, dei Cassàri e dei Materassai, che oggi incrocia con via Giovanni Meli.
Allurtimata poi determinaru
Di jiri ad un fistinu
Di un so vicino, chi s’avia a ’nguaggiari,
E avia a pigghiari a Betta la cajorda,
Figghia bastarda di fra Decu e Narda;
L’occhi micciusi, la facciazza lorda,
La vucca a funcia, la frunti a cucchiara,
Guercia, lu varvarottu a cazzalora,
Lu nasu a brogna, la facci di pala,
Porca, lagnusa, tinta, macadura,
Sdiserrama, ’mprisusa, micidara.
Lu zitu era lu celebri ziu Roccu,
Ch’era divotu assai di lu diu Baccu;
Nudu, mortu di fami, tintu e liccu;
E notti e jornu facia lu sbirlaccu.
Mi dispiace abbandonarli in questo indiavolato fistinu, ma chi vuol conoscere il resto, Giuvanni è sempre pronto ad accompagnarvi. Vi riserva un Don Chisciotti e Sanciu Panza, due eroi nelle terre sicule:
Don Chisciotti spirdutu ntra timpesti;
Sanciu si agghiummarìa 'mmenzu 'a nivi.
Oppure sentire dell’Origini di lu Munnu:
Jeu cantu li murriti di li Dei,
chi vulennu sbiarisi cu nui,
crearu un Munnu chinu di nichei,
d'omini pazzi, eccettu 'un si sa cui;
jeu di li soi, e Tiziu di li mei...
Io voglio seguire solo per un po’ il caro Sarudda, che, tracannando un bicchiere dopo l’altro, fa un portentoso sberleffo ad un tipo che a Palermo si sciala in una trentina di siti assai diversi, qua e là, a dove capita, per più di quattrocento anni.
Primu di tutti Sarudda attrivitu
Stenni la manu supra lu timpagnu,
E c’un imperiu d’Alessandru Magnu,
A lu so stili, senza ciu nè bau,
A la spinoccia allura s’appizzau.
Fra i tanti abbacinati brindisi il nostro Sarudda ad un certo punto così s’adira, con una frase che mi fa venire i brividi per la sua sonorità. Ci pinsati, risentire ancora lu diantani, che solo noi di una certa età sentivamo dai nostri nonni! Altro che abate, come lo si babbiò per la strana foggia del suo vestito. A voi:
Scattassi lu diàntani,
Chi vogghiu fari un brinnisi
A Palermu lu vecchiu, pirchì in pubblicu
Piscia e ripiscia sempri di cuntinu
’Ntra la funtana di la Feravecchia;
E pisciannu e ripisciannu
Lu mischinu cchiù s’invecchia.
Jeu vivu in nomi to, vecchiu Palermu,
Pirchì eri a tempu la vera cuccagna;
Ti mantinivi cu tutta la magna,
Cu spata e pala, cu curazza ed elmu.
Ora fai lu galanti e pariginu,
Carrozzi, abiti, sfrazzi, gali e lussu;
Ma ’ntra la fitinzia dasti lu mussu,
Ca si’ fallutu ohimè senza un quatrinu.
Oziu, jocu, superbia mmaliditta
T’ànnu purtatu a tagghiu di lavanca;
Tardu ora ti nni avvidi, e batti l’anca;
Scutta lu dannu, pisciati la sditta.
Palermo la mischina di oggi, più tragica di quella del nostro Giuvanni, che avrebbe goduto del re profugo con tutta la sua regia, quel buonuomo che si divertiva in quella reggia stravagante di cineseria, oggi spregiata come Palazzina, mentre preparava ricottine, oppure riempiva carnè di selvaggina nella sua reggia di Ficuzza sotto l’incombente bosco sotto l’augusta Rocca Busambra.
Ma vàjanu a diavulu
St’idei sì malinconici;
D’ora ’nnavanzi in cumpagnia di Baccu
Vogghiu fari la vita di li monaci,
Quali cantannu, vivennu, e manciannu
Càmpanu cu la testa ’ntra lu saccu.
(Ditirammu, da Opere di Giovanni Meli, Salvatore Di Marzo editore, Francesco Lao tipografo, 
Palermo 1857). 

Duecento anni e non sembrano, Come si fa, cari miei, a scordarsi di un tale poeta che tutti ci invidierebbero, se avessero la fortuna di conoscerlo. Vergognatevi, palermitani dell’incuria e dell’abbandono, palermitani (lo scrivo minuscolo) dell’ignoranza, stanchi delusi disamurati.
Chi sono Porta, Belli e Pascarella, in confronto al maestoso, immenso Giuvanni?

Un riconoscimento si deve al Comitato organizzatore del Bicentenario della morte di Giovanni Meli (vedi portale incompiuto e derelitto del Comune), segretario Giovanni Mazza, consulente letterario Salvo Zarcone, presidente Centro studi Linguistici e Filologici Siciliani Giovanni Ruffino. Gli amici hanno visto il docu-film.
(Purtroppo impossibile trovare online il programma aggiornato dopo la sua generica e pomposa presentazione a palazzo Niscemi e conoscere gli eventi. Peccato!). 

martedì 1 dicembre 2015

Ambrogio Giacomo Manno,"Problemi epistemologici" (Ed. Leonardo da Vinci)

Segnaliamo un importante volume apparso nella collana Propedeutica filosofica, intitolato Problemi epistemologici. L’autore, il filosofo napoletano Ambrogio Giacomo Manno, alla luce delle recenti discussioni tra scienziati ed epistemologi, introduce allo studio della natura nei suoi valori immanenti e nella sua proiezione teologica. I saggi qui raccolti si soffermano sulle più importanti scoperte scientifiche, dall’origine dell’universo fino ai problemi riguardanti l’origine delle specie, senza tralasciare l’analisi del pensiero dei più noti filosofi della storia: da Agostino a Kant, da Bonaventura a Cartesio, nonché la ricerca di scienziati quali Einstein, Planck, Schroedinger, Fantappié, Dallaporta.
 Come l’Autore afferma nell’Introduzione, questi saggi nascono dall’insoddisfazione per le «teorie unilaterali che per secoli hanno dominato il campo del sapere, il meccanicismo, il determinismo, il positivismo, il neo positivismo, che insieme alla mortificazione della natura, avvilivano e degradavano la dignità dell’uomo». Da qui l’entusiasmo per «le nuove teorie scientifiche, che dimensionando le pretese monopolizzanti e assolutizzanti del dogmatismo scientista, hanno prospettato la scienza come sapere limitato, fallibilista, progressivo, aperto…Si può dire che, in proporzione dei suoi successi la scienza ha acquistato in umiltà e misura». Di seguito l’indice di questo lavoro:
 1. Origine e tempo dell’Universo secondo le ultime ipotesi; 2. Breve storia del Cosmo e della vita secondo le conoscenze attuali; 3. Problemi epistemologici e filosofici riguardanti l’origine delle vita e della specie; 4. L’origine dell'uomo e sua natura alla luce delle scoperte paleontologiche; 5. Incertezze e antinomie dell’antropologia attuale sull’origine dell’uomo; 6. Scienza, fede, ragione: una lezione dei Vedanta; 7. Il mondo alla luce di Dio secondo S. Agostino; 8. Anima e mondo: Itinerarium mentis in Deum secondo Buonaventura da Bagnoregio; 9. Il meccanicismo del ‘600-‘700 e il suo residuo nei secoli successivi; 10. Il concetto di scienza in Kant; 11. Le contraddizioni del noumeno e le pseudo critiche agli argomenti per l’esistenza di Dio. 12. I limiti della fisica matematica secondo Bridgam; 13. Induzione e intuizione nel pensiero scientifico secondo Medawar; 14. Criterio di falsificabilità, “Terzo Mondo”, indeterminismo e libertà in Popper; 15. Fisica classica e fisica quantistica; 16. Ipotesi sui processi vitali ed evolutivi in biologia; 17. La dialettica negativa di Adorno; 18. Un pluralista esclusivista: Hilary Putnam; 19. La dialettica decostruttiva di Rorty; 20. La natura in Heidegger; 21. Nuove frontiere della scienza nel rapporto psiche-soma; 22. Unità del sapere e del fare; 23. I grandi scienziati del secolo XX reclamano la metafisica e la religione come prospettiva fondamentale della scienza e della vita; 24. Futuro del Cosmo, futuro dell’uomo.

lunedì 30 novembre 2015

Orazio Ferrara, "Viva ’o Rre. Dalla conquista del Sud alla guerra per bande" (Capone Editore)

di Rocco Biondi

Libro piacevole, che si legge rapidamente quasi tutto d’un fiato.
Il Re di cui si parla è Francesco II, ultimo re del Regno delle Due Sicilie.
 E’ un libro che si schiera, a detta dello stesso autore, dalla parte filo-borbonica, pur rispettando scrupolosamente la verità storica, anche per la naturale inclinazione dell’autore a schierarsi sempre dalla parte dei vinti e dei perdenti. I Borbonici vengono considerati dalla storiografia ufficiale “negazione del diritto delle genti”, vigliacchi che scappano davanti a pochi eroici garibaldini, autori di tutti i mali che affliggono il Meridione. La verità è altra.
 Il libro, che nel suo nucleo centrale raccoglie i capitoli di un libro edito nel 1997, conserva l’impianto originario di agile pamphlet. I piemontesi, e inizialmente per loro Garibaldi, sono stati degli invasori che hanno annesso i territori appartenenti al Regno delle Due Sicilie. Vengono ora aggiunti, in questa edizione, due articoli di Pietro Chevalier, pubblicati da “La Civiltà Cattolica” nel giugno 1902, in cui si svelano “gli squallidi e meschini retroscena di come fu fatta l’Unità d’Italia e dei personaggi che si piccarono di farla, personaggi spesso da operetta e qualche volta anche un po’ cialtroni”. Chevalier era un diplomatico e patriota italiano, uomo di fiducia di Cavour che lo mandò a Napoli come diplomatico presso la corte dei Borbone negli anni decisivi 1859-1860.
 Orazio Ferrara, che negli anni Settanta appartiene al gruppo di giovani della destra estrema ed ha come punti di riferimento gli studi di Carlo Alianello e Silvio Vitale, maturò una forte identità meridionale. E queste radici squisitamente intellettuali, politiche o ideologiche, erano corroborate dall’avere la madre siciliana e il padre napoletano. Nato a Pantelleria, è vissuto per molti anni a Sarno in provincia di Salerno in Campania.
 Il libro si apre con il capitolo intitolato “Il Sud liberato”, dove le parole libertà e giustizia sono scritte sulla punta delle baionette dei soldati piemontesi, che pretendono che tutta l’Italia diventi Piemonte. Il Sud viene “liberato dalla tirannia dei Borbone” con il saccheggio e la rapina. Il capitale monetario del regno napoletano rapinato ammontava a più del doppio degli altri Stati italiani messi insieme. E si procede anche allo smantellamento sistematico dei cantieri navali napoletani, delle fiorenti industrie, dell’artigianato, del commercio, dell’agricoltura. Il Sud viene ridotto alla fame. Ma non basta, viene disintegrato completamente con la leva obbligatoria, il carico fiscale pesante, la burocrazia farraginosa e oppressiva, la mortificazione delle proprie tradizioni.
 E il Sud si ribella con il brigantaggio. Il Ferrara però usa il termine brigante solo nel senso negativo voluto dai piemontesi invasori, noi invece lo usiamo solo ed esclusivamente nell’accezione positiva di patrioti che difendono la loro terra e la loro patria. Dopo la sconfitta del brigantaggio, ai meridionali non resta che l’emigrazione, che dura fino ai giorni nostri.
 Nel 1860 la battaglia di Calatafimi, in Sicilia, non doveva assolutamente essere vinta dai soldati borbonici contro quelli di Garibaldi, secondo quanto era già stato stabilito da occulti poteri sovranazionali (leggi massoneria inglese e italiana). A questo fine molti comandanti e generali napoletani, a cominciare da Francesco Landi, erano stati comprati. I semplici soldati napoletani invece non riuscirono a nascondere la loro rabbiosa amarezza di chi si è visto tradito. Molti di loro crearono e accrebbero le bande brigantesche che per un decennio diedero filo da torcere all’esercito italiano, mandato per oltre la metà a reprimerle.
 I capi delle bande infatti (Pizzichicchio, Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Pilone, Romano, Chiavone, Crocco, ecc.) provengono quasi tutti dai quadri del disciolto esercito borbonico. Nelle bande brigantesche vi è una rigida disciplina pari a quella militare. Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri rispondono alle tragiche e ineludibili necessità della guerriglia e dell’autofinanziamento. Il segreto del successo dei briganti per così lungo tempo sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella straordinaria mobilità e nella copertura avuta dalle popolazioni locali; ma anche nella fede: accanto alla bianca bandiera gigliata sventolano anche i colorati stendardi dei santi protettori e di bellissime Madonne.
 I piemontesi ebbero ragione dei briganti usando l’inganno e le fucilazioni sommarie, senza processo e difesa. La vulgata nazionale insegnata per decenni nelle scuole fa acqua da tutte le parti. Una folta schiera di studiosi sta rivisitando la nostra storia patria, senza temere gli anatemi di revisionismo, lanciati dalle mummificate vestali di una vulgata storica nazionale, “ormai buona solo per i gonzi”.
 Dal Ferrara una sopravvalutazione viene fatta dandogli una valenza troppo positiva, secondo noi, della figura del legittimista catalano Rafael Tristany, che tra l’altro fece uccidere il capobanda sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone.
 Merito del libro del Ferrara è l’aver messo in luce fatti briganteschi poco noti. A cominciare dall’operato del brigante sarnese Orazio Cioffi, che «si mostrava generoso con i deboli, gentile con le donne, pietoso con i poveri; e in grazia di questo contava numerose simpatie in campagna e in città».
 Altri fatti che escono dal cono d’ombra, nella quale sono stati relegati dalla storia ufficiale, sono quelli legati alla banda Ribera. Operarono, con altri uomini, nella siciliana isola di Pantelleria, che allora era controllata al centro dai reparti sabaudi, e per il resto era nelle mani dei filo-borbonici. Per reprimere questa situazione fu mandato nell’isola un colonnello a capo di un reggimento di fanteria. Per il tradimento di una spia locale i ribelli furono intercettati in una vasta e profonda caverna. Dei quattro fratelli Ribera tre furono condannati dai piemontesi all’impiccagione: Giuseppe, Agostino e Pietro; mentre Giovanni riuscirà ad espatriare nelle Americhe. Ancora oggi quella Grotta dei Briganti, a ricordo del sogno infranto dei legittimisti panteschi, viene visitata da tanti turisti.
 Altro capobanda del quale si parla diffusamente nel libro è Antonio Cozzolino, detto Pilone. Nacque a Torre Annunziata (Napoli), ma sin da piccolo tornò con la famiglia a Boscotrecase da dove provenivano. Nell’esercito napoletano aveva raggiunto il grado di sergente maggiore. Con la sua banda, che riesce a contare una quarantina di unità, riporta diverse vittorie contro i piemontesi, anche spettacolari, ma per sopravvivere esegue anche estorsioni e sequestri. Non è sanguinario, né assassino a sangue freddo. Inafferrabile, il 14 ottobre 1870 viene colpito a morte con varie pugnalate alle spalle perché tradito. Ma egli, conclude il suo libro il Ferrara, «non è affatto morto, continua a cavalcare all’infinito per le strade della nostra terra, cui è sentinella il Vesuvio, e nel cuore di chi non ha dimenticato. Sempre.»



sabato 28 novembre 2015

La BlogsferaThule: siti, blog, indirizzi, video

Riportiamo di seguito tutti gli indirizzi disponibili con cui collegarsi:

Il sito personale di Tommaso Romano, con notizie e attività.
Il sito delle Edizioni Thule di Palermo, fondate nel 1971, con il prestigioso catalogo, notizie e novità.
Blog che Tommaso Romano aggiorna periodicamente con le sue idee controcorrente e l’informazione sulle sue attività
Blog di recensioni e notizie sui libri delle Edizioni Thule e della Fondazione Thule Cultura
Blog generalista di recensioni librarie e novità segnalate
Le Stanze della Fondazione Thule Cultura a Palermo, fra Liberty, Decò e contemporaneo, un viaggio fra libri, oggetti, mobili e bellezza
Blog che riunisce integralmente tutti i numeri della prestigiosa rivista fondata nel 1986 da Giulio Palumbo, Pietro Mirabile e Tommaso Romano
Blog di notizie e commenti di attualità, dottrina e polemistica
Blog degli Amici del Mosaicosmo e di Tommaso Romano con libri e documenti inseriti di difficile reperibilità 
Blog di studi tradizionali, genealogici, araldica, ordini cavallereschi, tradizioni gentilizie
Blog dei Clubs Empire fondati a Pescara nel 1976

Fondazione Thule Cultura
via Ammiraglio Gravina 95, 90139 Palermo 




martedì 24 novembre 2015

Come le radici del mandorlo Presentazione del volume di Tommaso Romano su Elio Corrao

di Ciro Lomonte

Comincio subito con l’ammettere la fastidiosa sensazione di imbarazzo che provo in questo momento. Non so perché il prof. Romano abbia insistito tanto affinché fossi proprio io, oggi, a presentare il suo libro sul prof. Elio Corrao[1]. Il ricco curriculum di entrambe le personalità palermitane meriterebbe ben altra presentazione.
Forse il motivo è che il prof. Romano stima la rivista on line Il Covile, di cui sono redattore, nella quale l’arte contemporanea è trattata ampiamente. Oppure che conosce il mio impegno per una rinascita delle arti, nel mio lavoro professionale di architetto e nell’attività didattica presso la Monreale School of Arts & Crafts – che abbiamo costituito di recente – e il Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia di Roma.
Non sono assolutamente adeguato al compito che mi è stato affidato. Molto meglio guardare direttamente alle opere del Maestro Corrao e leggere il libro. C’è però nel testo di Tommaso Romano un riferimento, quello sulle cosiddette arti minori, che mi può aiutare a non fare scena muta.
La creazione di ceramiche, nella quale Corrao si è distinto, è arte maggiore o arte minore? Dieci giorni fa osservavo con ammirazione il giovane scultore Mauro Gelardi montare su un ambone di marmo la sua ultima opera, una sontuosa aquila di bronzo. L’artista vero è artigiano, domina la materia. E allo stesso tempo ne è soggiogato, la ama appassionatamente, obbedisce alle sue regole interne, non le impone elucubrazioni cerebrali (anche perché la materia si ribella, non si può piegare alle teorie estranee alla natura delle cose). In me ha prodotto molta gioia osservare mese per mese come nasceva la scultura. Ma contemplare uno scultore impegnato a completare la collocazione di una sua opera con in mano trapano, pinze, silicone, è stata un’esperienza liberatoria! Un riconciliarsi con la realtà più genuina dell’arte. Che non è più definibile minore. Casomai possiamo chiamarla arte applicata. Ed è il magistrale esercizio di una virtù dell’intelletto pratico al servizio dei clienti.
Di tutto questo la CIA ha cercato di privarci. Sì, proprio la CIA, come dimostra il libro della Saunders[2]! All’indomani di due decenni di fascismo e di una guerra mondiale, gran parte degli intellettuali europei aveva abbracciato posizioni anticapitaliste. Per contrastare il richiamo del comunismo e la crescita del peso elettorale dei partiti di sinistra, la CIA non risparmiò né uomini né mezzi finanziari, dando il via a un’imponente campagna occulta che fece di alcuni fra i più illustri esponenti della libertà intellettuale dell’Occidente meri strumenti del governo americano. Grazie a documenti recentemente desecretati e interviste esclusive, l’autrice fornisce la prova di una vera e propria “battaglia per la conquista delle menti” ingaggiata dalla CIA al fine di orientare la vita culturale dell’Occidente attraverso iniziative ambiziosissime: congressi, conferenze internazionali, festival musicali. Ne furono un esempio le numerose mostre dedicate all’espressionismo astratto americano: per un decennio i vari Pollock, Gorky, Motherwell diventarono le vedettes delle gallerie europee. E generosi furono i finanziamenti che, tramite le sue “istituzioni”, la Cia elargì al settore dell’alta cultura, in cui si collocavano le riviste che ospitavano il dibattito politico e culturale (fra esse “Tempo Presente”, diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte). L’edizione italiana del 2007 (quella statunitense è del 2000) è arricchita da un’appendice di documenti relativi ai legami specifici tra l’agenzia governativa statunitense e gli intellettuali nostrani.
La Cia finanziò abbondantemente l’espressionismo astratto. Obiettivo dell’intelligence Usa era quello di sedurre le menti degli elettori di sinistra negli anni della Guerra Fredda. Fu proprio la Cia a organizzare le prime grandi mostre del “new american painting”, che rivelò le opere dell’espressionismo astratto in tutte le principali città europee: “Masterpieces of the Twentieth Century” (1952) e “Modern art in the United States” (1955).
In che misura il veleno con cui sono state irrigate le nostre radici ha causato la volgarità, la barbarie, il dilagare del brutto in tutte le manifestazioni della nostra vita quotidiana? Guardate la Palermo odierna e confrontatela con quella che era fino alla prima metà dell’Ottocento. È vero, anche la Palermo del floreale ha edifici stupendi e una certa qualità diffusa è stata presente sino alla metà del Novecento, ma il Piano Giarruso ne stava sfigurando irrimediabilmente il volto. Il Piano Regolatore del 1962 avrebbe dato il colpo di grazia. Com’è possibile che in una terra come quella italiana, che ha prodotto capolavori per millenni, il gusto si sia corrotto a tal punto?
Diceva Gregorio Magno, in qualche modo legato alla Sicilia: Corruptio optimi pessima. Chi sta molto in alto quando cade fa un tonfo più clamoroso. Consideriamo la ritrosia che c’è nelle Accademie di Belle Arti italiane attuali ad insegnare il figurativo. Persino i docenti di anatomia si inventano esercitazioni sulle idee più astruse e sulla trasgressione. Sono capriole intellettualistiche fini a sé stesse. Eppure le ricerche più avanzate dell’arte contemporanea sembrano andare proprio nella direzione della rappresentazione del corpo umano. A Barcellona, per esempio, è stato aperto il MEAM, Museu Europeu d’Art Modern, con una esposizione permanente di arte contemporanea figurativa. Uno dei segni dell’inversione di tendenza in corso.
Come scriveva Albano Rossi: «Non si può certo dire che Elio Corrao si sia fatto stregare da Pollock, né da Rauschenberg, da Vasarely, o da Burri. La ceramica non ha bisogno di fanatici, di scimmiottatori, di farisei, ma di artefici geniali ed accorti»[3].
Potremmo dire che l’opera del prof. Corrao ci conduce per mano fino a quel bisnonno pittore, Onofrio Tomaselli (1866 – 1956), autore della straordinaria tela del 1905 su I Carusi, i ragazzi delle miniere di zolfo. E ad un altro parente, Armando Tomaselli, scultore e architetto, di cui Tommaso Romano lamenta l’ingiusto confinamento nell’oblio. Corrao è il testimone di una forma di continuità, che ci riporta alle radici della creatività siciliana.
Non si tratta di tirar fuori gli abusati concetti di insularità d’animo, sicilitudine e altro ancora. Ci tocca invece il compito gratificante di riscoprire la nostra identità artistica, la nostra specificità, unica nel suo genere.
La Sicilia oggi è come un bellissimo albero, spezzato dalla furia degli elementi, da tempeste violente e inconsuete rispetto alla sua storia plurimillenaria. Le manca la chioma rigogliosa che la coronava in altre epoche. Ci diranno che i siciliani in realtà non esistono, che quelle fronde e quel fogliame erano di altri popoli, quelli che ci hanno conquistato e dominato. Ma non è vero.
La civiltà di Palermo, la civiltà degli innumerevoli bellissimi centri urbani della Sicilia, è come il mandorlo. Questa specie arborea (il prunus dulcis) è antichissima. Alcuni dicono che sia autoctona, altri importata dai fenici. Produce un seme prelibato, migliore di quello californiano, ottimo per la pasta reale, per i confetti, per il latte di mandorla e per altro. Vi si possono innestare ciliegio, pesco, albicocco e susino.
Le civiltà giunte da fuori sono proprio questo, almeno nel campo artistico: sono innesti che hanno prodotto frutti unici e saporiti perché il portainnesto era il nostro, quello della mente riflessiva, dell’occhio sognatore, della mano meticolosa e irrequieta dei nostri artigiani. È vero che è giunto più di un gene artistico dall’esterno (greci, romani, bizantini, persiani, normanni, catalani, aragonesi), ma ciascuno di essi ha subito modifiche sostanziali, perché il genotipo – nell’interazione con il nuovo ambiente dell’Isola – ha modificato il suo fenotipo. Sono i geni che forniscono le caratteristiche essenziali, la nostra terra e il nostro sole fanno la differenza.
La pianta è viva, anche se hanno fatto di tutto per sradicarla. Il mandorlo è vivo. Forse è giunto il momento di smetterla con l’introduzione di nuove varietà, come succede nella frutticoltura[4]. Forse sta per scoccare l’ora in cui comincerà a produrre arte siciliana sic et simpliciter, senza altre aggettivazioni. Ringraziamo Elio Corrao per averci spinto in questa direzione con il suo mezzo secolo di creazioni.



[1] Tommaso Romano, Elio Corrao, Fondazione Thule Cultura, Palermo 2015.
[2] Frances Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale, Fazi, Roma 2007.
[3] Albano Rossi, Le ceramiche di Elio Corrao, citato in Tommaso Romano, Elio Corrao, Fondazione Thule Cultura, Palermo 2015, p. 9.
[4] Debbo queste precisazioni all’amico agronomo Placido Volo, PhD.

lunedì 23 novembre 2015

Un testo di Calogero Messina: Il mio dialogo con il Can. De Gregorio - Elogio di una copertina

di Vittorio Riera

La copertina ha in genere un ruolo di protezione del libro o di identificativo di una collana cui il libro viene fatto appartenere. Le copertine grigie della storica BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), per fare qualche esempio, sono inconfondibili, si riuscirebbe a identificarle da appena un frammento, e così quelle su cartoncino giallo della BMM (Biblioteca Moderna Mondadori) o ancora quelle cobalto della Sellerio di Palermo. Vi sono infine copertine che, e sono la gran parte, oltre al titolo del libro, offrono una illustrazione lontana dal contenuto del libro stesso, ovvero, come nei libri di avventure per ragazzi, raffiguranti la scena madre del racconto (pensiamo alle copertine salgariane delle ricercatissime edizioni Viglongo di Torino). Potremmo continuare su questa falsariga, ma a noi interessano in questo momento le copertine che non esitiamo a definire ‘intelligenti’, quelle cioè che racchiudono in una mirabile sintesi il messaggio veicolato attraverso il libro. Ed è proprio il caso della copertina del testo che ci apprestiamo ad analizzare: Il mio dialogo con il Can. De Gregorio di Calogero Messina.
Appare evidente che in copertine del genere si intravede la mano dell’autore. Ecco allora il Messina, che è fine storico, fine poeta, filologo e fine scrittore, utilizzare la propria intelligenza per ‘costruire’ una copertina aderente al messaggio che ha voluto trasmetterci con il suo libro, messaggio che, lo ripetiamo, è già nel titolo stesso: “Il mio dialogo con il Can. De Gregorio”. Dialogo, ecco la chiave con cui il Messina ci invita a leggere il suo incontro con un personaggio, un sacerdote, perché, sembra anche dirci il Messina, è soltanto attraverso il dialogo, scevro da ogni preconcetto e presunzione, che si possono aprire e scoprire orizzonti insperati e che si può superare la tragica, e per certi aspetti, selvaggia realtà di oggi. Ecco anche perché taluni incontri è, direi, quasi provvidenziale che avvengano. E così era naturale che il Messina incontrasse un altro dei suoi fari e maestri, Virgilio Titone, o che incrociasse lungo il suo percorso di ricercatore lo storico di fama internazionale Helmut Koenisberger e che i quattro destini – quello del Canonico De Gregorio, di Koenisberger, di Titone e Messina – si intercettassero e si alimentassero a vicenda con un dialogo continuo e un conversare creativo. 
Ora, cosa c’è al fondo, al centro del ‘dialogo’ di Messina con il Canonico De Gregorio? Quale l’oggetto di questo dialogo? Chi ne è il destinatario? E qui tanto ruolo e spazio ha un giornale molto diffuso nell’Agrigentino: “L’Amico del popolo” che continua le sue pubblicazioni a sessant’anni dalla sua fondazione. Ecco, il popolo visto come protagonista della storia, che si identifica anzi con la storia. E qui ci si pone un’ulteriore questione: ma cos’è la storia per Messina? La risposta è disarmante nella sua semplicità: la storia deve raccontare della vita del popolo nei suoi molteplici aspetti: antropologici, folcloristici, poetici, letterari e via di questo passo; sono aspetti, questi, che poi ritroviamo puntualmente e coerentemente nella ormai vasta e diversificata produzione dello ‘storico’ Messina, perché tale, docente di storia moderna è stato ufficialmente il nostro amico, ma di una storia umanizzata, umanizzante e non esaltante i grandi personaggi storici o ridotta a pura elaborazione ed elencazione di sterili statistiche. Come riassumere, sembra essersi chiesto il nostro autore su una copertina questo messaggio? Come fare della copertina lo specchio della realtà di cui si discute? In poche parole, come fare ‘parlare’ la copertina?
Messina avrebbe potuto rivolgersi a un disegnatore, ma difficilmente avrebbe potuto trovarne uno capace di soddisfare le sue esigenze. Fa allora tutto da sé e struttura una copertina a guisa della prima pagina di un quotidiano: di spalla, la riproduzione della testata del settimanale citato sopra – “L’Amico del popolo” – dove sia lui e più ancora il Canonico hanno avuto modo di collaborare (il Canonico De Gregorio, si ricorda, è stato per più di vent’anni direttore di quel settimanale), a sinistra, a mo’ di editoriale, la riproposizione di un articolo dal significativo titolo “Pellegrini instancabili”, a destra, sempre di spalla, un altro articolo, a firma Messina, – “Aborto e cultura” – in difesa della vita con la foto di un bimbo appena nato. Al centro in alto, due foto di tre dei protagonisti del dialogo (Helmut Koenisberger, il Canonico De Gregorio, e Calogero Messina), a sinistra in basso, infine, il titolo del libro, in verde. Sull’ultima di copertina, campeggia la bella pacata figura del Canonico colto durante un discorso con dei fogli in mano mentre una delle più significative pagine dell’intero libro, non a caso in caratteri leggibili, gli fa da cornice. Una copertina, come si vede, inusitata, unica, per quel che ci consta, irripetibile, per niente anonima, una copertina, come si è detto, ‘parlante’, che fa un tutt’uno con il libro di cui è a protezione. Peccato che non sia stato possibile fare un riferimento in questa copertina a Virgilio Titone, che è stato uno dei fari, se non il faro, che ha illuminato e continua a illuminare il cammino fin qui percorso dal Messina.

venerdì 20 novembre 2015

Presentazione allo Studio 71 di un Volume sul Pittore Elio Corrao

Sabato 21 Novembre 2015 alle ore 17:30, Galleria Studio 71, 
via Vincenzo Fuxa 9, Palermo
Presentazione della Monografia d’Arte 
con un testo di Tommaso Romano sull’Opera del Maestro
Elio Corrao
Con testimonianze di Aldo Gerbino e Delia Parrinello,
 edito dalla Fondazione Thule Cultura.
Presenta il volume Ciro Lomonte, coordina Vinny Scorsone
A tutti gli intervenuti sarà omaggiata una copia del volume




martedì 17 novembre 2015

Spiritualità & Letteratura n° 86

E' online il numero 86 di Spiritualità & Letteratura, Collezione aperiodica di Testi diretta da Tommaso Romano. in questo numero Articoli, Poesie, Recenzioni ed Interviste di: Vincenzo Aiello - Girolamo Alagna Cusa - Maria Patrizia Allotta Giuseppe Bagnasco - Anna Maria Bonfiglio - Cinzia Demi - Arturo Donati - Rita Elia - Adalpina Fabra Bignardelli - Carmelo Fucarino - Luigi Impresario - Giuseppe La Russa - Serena Lao - Mario Luzi - Vito Mauro - Silvano Panunzio - Guglielmo Peralta - Teresinka Pereira - Maria Elena Mignosi Picone - Ivan Pozzoni - Nicola Romano - Tommaso Romano - Biagio Scrimizzi - Lucio Zinna.
Recensioni ai libri di: Giancarlo Licata, Vincenzo Arnone, Vincenzo Aiello, Adalpina Fabra Bignardelli, Giusi Lombardo.

giovedì 12 novembre 2015

Cinzia Demi, "Maria e Gabriele – L’accoglienza delle madri" (ed. Puntoacapo)

di Dante Maffia

Cinzia Demi è una sorpresa continua, una che dall’inquietudine umana e spirituale trae energia per prendere a volo quelle intuizioni che non sono la verità, “ma uno scalino della verità”, come fa dire Giorgio Saviane a Padre Sergio neLe due folle, suo romanzo d’esordio.
Non è casuale che mi sia venuto in mente Saviane, come non è casuale che mi venga in mente Renan. Non per affinità di temi trattati, ma per l’atteggiamento al limite dell’eresia, quella che con acutezza critica ed eleganza Massimo Morassochiama “l’azzardo di un’effrazione al lascito tradizionale”.
Comunque non sta nella esattezza o meno del rispetto delle fonti la freschezza della poesia di Cinzia, ma piuttosto nell’aver saputo rubare una scintilla divina riportandola al proprio seno, edificandola in sé e soltanto dopo proiettandola verso l’universo e verso l’Infinito.
In questi versi c’è un totale abbandono alla Luce che arriva da lontani siti e non s’arresta perché il lievito della leggiadria non può né deve restare statico e così le quartine scandiscono un vero e proprio percorso che dà l’idea, a me, di stazioni dalle quali ripartire di continuo per approdare alla Grazia.
Gabriele deve annunciare a Maria quel che accadrà, ma il turbamento diventa padrone e tuttavia nonsi oltrepassano i limiti della volontà divina, perché in tutti e due vige il principio dell’obbedienza e della castità.
Credo che l’idea di Cinzia Demi sia stata geniale: un incipit di romanzo meraviglioso tra Gabriele e Maria, che nella sezione Quasi uomo  quasi umano ha i momenti alti di poesia  del libro, perché il dettato si fa preghiera.
Cinzia è riuscita a impossessarsi del tema trattato fino a immolarvisi ed è per questoche a un certo punto può dire liberamente: “quasi uomo  quasi umano / come un corpo che ha raccolto / il giorno e la notte  / nelle sue pieghe d’animale // ti sarebbe piaciuto Maria / lo avresti raccolto e nutrito / cresciuto insieme a tuo figlio / radici gli avresti dato di casa // mite e deciso / ti avrebbe somigliato / consolato forse  nei giorni / delle foglie cadute”.
Credo che esiti così convincenti e così alti nella poesia religiosa siano stati raggiunti prima di Cinzia soltanto da altre due poetesse, Margherita Guidacci ed Elena Bono e da poeti come Idilio dell’Era e Carmelo Mezzasalma.
La voce di Cinzia resta voce al femminile, come deve sempre essere per non perdere la propria identità, ma si tratta di un femminile che sa entrare fermamente anche nell’animo di Gabriele per metterlo davanti alle proprie responsabilità.
In calce al libro noto che Cinzia, oltre a una Nota che spiega come “Dal grande mistero dell’Annuncio e dall’alto valore simbolico dell’accoglienza, racchiuso nel sacro evento, nascono le figure umanizzate di Maria e di Gabriele che non potranno non piacersi e che rinunceranno ai loro sentimenti per un fine più alto” riporta anche una Bibliografia Essenziale con nomi di grande prestigio. L’intento è sicuramente quello di avvertire il lettore che, nonostante l’effrazione lei si è documentata e ha cercato di entrare nell’argomento non solo con le sue percezioni ma anche con l’apporto di confronti di vario genere.
L’onestà intellettuale di Cinzia Demi è proverbiale, ma devo dire che leggendo Maria e Gabriele – L’accoglienza delle madri ho riscontrato un’autonomia e una franchezza che ha il sapore della sana teologia. Che però non ha inficiato il canto, non ha appesantito la fluidità poetica, anzi gli ha dato una forza che a tratti inquieta e a tratti rasserena, come deve accadere sempre nel rapporto con i testi pregni di significati e di valorietici e morali.
Un importante libro di poesia e, perché no? Di teatro di poesia, e chi non avesse voglia di sfogliare il Vangelo, si fermi sulle pagine di Cinzia, ne trarrà refrigerio: se donna prenderà maggiore consapevolezza del suo ruolo; se uomo saprà meglio guardare nel grembo dellemadri scevro da tentazioni irresponsabili. La castità è un valore illuminante, un valore che va ben oltre la rinuncia “come gemma da curare / strada da inventare / rubata alle paroledell’angelo”.

mercoledì 11 novembre 2015

Sebastiano Timpanaro, "Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi" (ed. Solfanelli)


Il presente lavoro di Sebastiano Timpanaro, che si avvale nelle sue argomentazioni della svolta critica segnata dagli studi di Walter Binni e di Cesare Luporini, è una serrata indagine, filologica e filosofica insieme, che porta in primo piano la sostanza concettuale dell'opera di Leopardi, il quale fece della poesia un passaggio testimoniale per la definizione del suo pensiero.
     La particolarità della posizione leopardiana, ancorata a una tradizione classicistico-illuministica, risiede nella rappresentazione del rapporto uomo-natura che esclude ogni metafisica consolatoria. Il critico, tenace avversario della linea idealista ottocentesca e poi crociana, vede nell'umana infelicità di cui ragiona il Leopardi materialista non già un romantico mal du siècle, né un'angoscia esistenziale, ma un'afflizione soprattutto fisica che egli converte in strenua strategia conoscitiva.
     Leopardi viene esaminato lungo il dispiegarsi di un pensiero lucido, corrosivo pur dietro le sue forme limpide, che Timpanaro va ricomponendo attraverso le categorie del «materialismo» e del «pessimismo» per ridefinirne la visione del mondo e dell'uomo, con un'indagine sempre puntuale e poggiata sulle fonti.
     L'appassionata esperienza di Timpanaro rimane uno dei rari esempi italiani di quella difficile unità fra campo di analisi e scelte di vita, fra ragione letteraria e ragione politica. Le pagine introduttive di Antonio Prete, che rivisitano con garbo e autorevolezza il lavoro del grande studioso, aiutano a metterci in ascolto di quell'interrogare che è il «respiro» della scrittura leopardiana.

martedì 10 novembre 2015

Gabriella Maleti, "Vecchi corpi" (Ed. LaRecherche)

Gentili Autrici e Autori, Lettrici e Lettori,
informiamo che è in linea l'eBook n. 191 della Collana Libri Liberi de LaRecherche.it (scaricabile gratuitamente): 

lunedì 9 novembre 2015

Irene Foderà, "L’officina della memoria" (Ed. Book Sprint)

di Sandra Vita Guddo

Ricostruendo, tassello dopo tassello, sulla scorta di ricordi di famiglia supportati da ritratti, vecchie foto e documenti  ritrovati attraverso un’accurata ricerca, Irene Foderà ci racconta nel suo libro “ L’officina della memoria “ la storia della Famiglia Pojero ed in particolare del suo bisnonno: Michele junior .
Il progetto di scrivere il racconto che, opportunamente, l’autrice definisce storico, nasce in occasione delle celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia a cui, secondo i fatti esposti, Michele junior diede il suo valido contributo partecipando attivamente alla mitica impresa del Generale Giuseppe Garibaldi e dei Mille . Il libro ha soprattutto il merito, come declama il titolo “ L’officina della memoria “ di scavare nel passato e riportare alla luce fatti di importanza storica che altrimenti sarebbero rimasti  relegati nel mondo dell’oblio .
La storia della famiglia Pojero, originaria di Napoli, si intreccia con quella della Sicilia e del Regno di Napoli, a partire dalla seconda metà del settecento fino ai primi anni del novecento raccontata, nelle sue fasi più salienti. Molte altre famiglie e comunità provenienti da Genova, da Firenze e dalla Calabria come i Florio ma anche dalla Francia e dall’Inghilterra si trasferirono nell’isola, in cerca di fortuna, contribuendo  a formare una classe imprenditoriale vivace ed intraprendente. Tra i maggiori imprenditori, famoso per la sua abilità di uomo d’affari, ci fu  Joseph Ingham , zio del più noto Giuseppe Witacher .
Ma tornando alla famiglia Pojero, il primo ad arrivare a Palermo fu Matteo, nato nel 1755 da Bartolomeo, stimato commerciante di agrumi e di sommacco ; con lui inizia la vera importante  svolta nella fortuna economica di questa famiglia che si rafforza quando, nel 1820, il figlio Michele senior inizia i suoi traffici con l ’America, principalmente a New York e a Boston. “
 Don Michele inoltre comprese l’importanza della pubblicità, da lui ritenuta indispensabile per aumentare il volume dei suoi affari. A tal proposito l’autrice inserisce un’ interessante fotografia che immortala uno specchio con la scritta pibblicitaria  “ Boston D. H. Tylly & co . Agenti della Pojero . “ In quello stesso periodo l’imprenditore palermitano acquista  “ per 322  onze  lo sciabecco Madonna della Misericordia, con tutti con tutti gli attrezzi e i fornimenti “ con cui intensificò i suoi traffici commerciali ed un palazzo in via Butera al civico n. 1 , proprio di fronte alla prestigiosa abitazione della famiglia Butera. Provvide anche alla costruzione di uno stabilimento per la lavorazione del sommacco da cui venivano estratti i tannini, impiegati in tintoria e nei processi di concia delle pelli.
Alla sua morte, avvenuta nel 1866, il giovane figlio Michele junior che, già  da tempo lavorava a fianco dell’anziano genitore,  è pronto a prendere le redini dell’azienda e ad incrementare  gli affari di famiglia tra molteplici difficoltà, tra le quali viene indicato il mancato sviluppo delle infrastrutture, deficienza che ancora oggi perdura  danneggiando irreversibilmente l’economia isolana.
A questo punto mi viene spontanea una riflessione: alcuni di questi imprenditori sembra abbiano avuto lo stesso destino “ sono arrivati in maniche di camicia e, dopo tre generazioni, si sono ritrovati in maniche di camicia “ come afferma Orazio Cancila nel suo interessante lavoro sulla famiglia Florio, intitolato: “ Storia di una dinastia imprenditoriale . “
Strano destino, dovuto sicuramente non soltanto al caso ma, come è documentato nel presente racconto storico, dalla constatazione che l’Unità d’Italia non portò i benefici sperati anzi le successive tasse e leggi emanati dal giovane regno, impoverirono il sud al punto da compromettere quella debole rinascita che era stata avviata da imprenditori capaci come i Pojero e tanti altri: “ La politica fiscale rimase oppressiva e strade, scuole, ospedali crebbero con molto rilento. Era ancora il mondo dove il contadino chiedeva la riduzione della tassa sul pane ( … ) . La prospettiva unitaria rivelò un’angolazione diversa da quella auspicata ed alcune questioni furono più difficili da gestire “ . Tale interpretazione dei fatti, tuttavia, sarebbe riduttiva e incompleta se non si considerassero altri importanti fenomeni e congiunture sociali ed economiche, nel quadro internazionale, che portarono ad un minore richiesta dei prodotti siciliani come il sommacco e lo zolfo, mentre nell’isola, come  scriveva Diomede Pantaleoni il 10 ottobre del 1891 al presidente del consiglio Bettino Ricasoli, in un lungo rapporto sulle condizioni della Sicilia  “  La sicurezza nell’isola era insostenibile; gli omicidi all’ordine del giorno e la vendetta personale l’unica forma di giustizia conosciuta “  .
L’autrice, Irene Foderà preferisce non approfondire tali aspetti poiché il suo intento principale, in questo breve racconto, è quello di parlare di Michele junior che, per il valido contributo dato al nostro Risorgimento, nel 1922, fu eletto all’unanimità socio della Società Siciliana di Storia Patria e “ al Museo del Risorgimento rimane la sua fotografia insieme alle altre dei garibaldini. “
L’episodio centrale di questa ricostruzione storica, riguarda la partecipazione attiva del giovane Michele, infiammato dalla passione politica, all’impresa di Garibaldi la cui avanzata in terra di Sicilia, dopo lo sbarco a Marsala, avvenuto l’ 11 maggio 1860, viene documentata tappa dopo tappa finché Il generale arriva a Gibilrossa e qui stanzia, in attesa di ricevere la carta topografica di Palermo con le postazioni borboniche . Sarà proprio Michele junior a recapitargliela: sfidando il pericolo di essere intercettato dalle forze borboniche, travestito da ufficiale della marina americana grazie anche al suo ottimo inglese, superò facilmente i posti di blocco, nascondendo, nel polpaccio della gamba destra, tutta la documentazione richiesta da Garibaldi. Inoltre “ In Sicilia, le armi, Garibaldi le avrebbe potuto acquistare dai bastimenti inglesi che erano ancorati nella baia di Palermo e Michele Pojero si prestò per questa missione. Mise a disposizione una sua imbarcazione ( … ) “
La narrazione, chiara e lineare, segue i fatti in ordine cronologico senza digressioni che potrebbero confondere il lettore. Molto appropriata la veste grafica e la copertina dove sono visibili il ritratto di Don Michele senior, divenuto senatore del Regno delle Due Sicilie , dopo la parentesi rivoluzionaria del ‘ 48,  e la foto del figlio con la divisa di un prestigioso collegio di New York dove, oltre ad imparare perfettamente la lingua inglese, condusse studi  di economia avanzata, abilità che gli torneranno estremamente utili sia per la sua attività commerciale ma anche per la sua esperienza di garibaldino: infatti diventerà traduttore ufficiale del Comitato  Rivoluzionario a testimonianza che, dietro l’impresa di Garibaldi, vi furono molti altri attori, inglesi e americani, il cui contributo, secondo un mio personale parere, è risultato determinante per l’esito finale dell’impresa dei Mille .