martedì 28 febbraio 2017

Maria Concetta Ucciardi, "Il crepuscolo dell’alba"; Giusy Lombardo "Maredentro"; Maria Patrizia Allotta " Il giglio e l’ortica" (Ed. Thule)

di Sandra V. Guddo

Tre donne, tre amiche, tre poetesse si sono messe alla ricerca, in modo diverso ma complementare, di quell’armonia che regola l’universo e sembrano avere timidamente trovato risposta con i loro versi in quell’Amor di cui cantò, molto tempo prima di loro, Dante Alighieri ( 1265 – 1321 )  che descrisse l’Amore come quella forza  che è  capace di  muovere “ il sole e l’ altre stelle “ .
Inevitabile non ricordarci della testimonianza molto più recente e assai vibrante di Albert Einstein ( 1879 - 1955 ) che, giunto in prossimità del suo percorso terreno, intuì da quel grande genio quale Egli era, che non tutto può essere riconducibile a complesse procedure aritmetiche o condensato in difficili  formule equazionali trovandosi in tal modo incredibilmente vicino a quanto aveva già scritto, secoli prima, il Sommo Poeta che ignorava i complicati logaritmi della matematica più avanzata!
Albert Einstein, nella lettera inviata alla figlia Leslie, dichiara che inutilmente gli uomini hanno cercato di spiegare l’universo con la sola forza dell’intelletto perché c’è un quid che sfugge a qualsiasi ragionamento e non si lascia imbrigliare in regole astratte ed in formule aritmetiche: quella forza misteriosa e potente è l’Amore. Fa paura l’Amore perché è l’unica forza che l’uomo non riesce a spigare completamente né  è  in grado di  controllare secondo i suoi desideri.
L’Amore è luce, l’Amore è gravità, l’Amore è potenza che consentirà all’uomo di trovare la via della salvezza dalle tenebre e dalla fine di ogni cosa.
Sono queste le riflessioni che sono immediatamente scattate dentro di me quando ho finito di leggere le tre sillogi poetiche, probabilmente perché la mia sensibilità è molto vicina alla loro per cultura o più semplicemente  per appartenenza di genere , essendo anch’io una donna.  Sto parlando di tre signore : Maria Concetta  Ucciardi, Giusi Lombardo e Maria Patrizia Allotta.
Tre Muse che con la  cetra ci hanno incantato, con le loro liriche che sono insieme musica e parole soltanto che la musica che accompagna i loro componimenti nasce dall’armonia che si sprigiona dal loro verseggiare.
Un poetare che colpisce perché appare insieme intenso e ritmico, lento e acuto, fluido e penetrante: in ultima analisi è proprio ciò  che caratterizza il loro modo di essere donne e poetesse che si distinguono proprio per il loro apparire, nello stesso tempo, lineari e controverse, trasparenti ed intellegibili, arieggiate e misteriose come lo sono le loro opere, edite tutte e tre dalla Fondazione Thule i cui titoli svelano e rivelano !

Il Crepuscolo dell’Alba “ di Cetti Ucciardi, un ossimoro solo apparentemente incomprensibile ma che indica, a mio avviso per come ho percepito ed assaporato il suo poetare delicato ed armonioso, la circolarità della nostra esistenza che oscilla tra buio e luce, tra crepuscolo ed alba. Ella infatti si pone pacatamente la domanda che da sempre assilla il genere umano sul senso della vita e della morte ma non esige, non pretende risposte: semplicemente accetta quello che altrove una Volontà Superiore ha stabilito; ciò le basta per ritrovare serenità non senza però qualche turbamento. Cetti Ucciardi trova nel poetare una ragione di vita che la spinge generosamente a mettere a nudo la sua anima e a svelare ai suoi lettori parti segrete di sé con l’intento  dichiarato di creare un ponte di comunicazione che possa essere di sollievo a chi soffre per la perdita di un caro amico o di un familiare molto amato. Ella vuole trasmettere un messaggio di luce e di speranza perché tutti i crepuscoli  sono sempre seguiti dall’alba che con la sua luce dissiperà il buio riaccendendo la fiaccola della speranza e della gioia che seppure a tratti la vita generosamente offre a chi sa accoglierla con animo puro.
Mare Dentro “ di Giusi Lombardo  racchiude nel titolo il mistero e la profondità del nostro navigare ma indica anche tutta la pienezza di chi, ricco della sua esperienza sedimentata negli anni, avverte il mare dentro con le sue onde che lentamente avanzano verso la spiaggia e ne mutano la sua configurazione: ogni granello di sabbia dopo essere stato sfiorato dalle acque del mare non sarà più lo stesso. Ella, dotata di una sensibilità particolare, avverte anche i più piccoli moti delle correnti marine che l’attraversano, la inquietano ed infine la cullano nel ritmo armonioso del suo eterno oscillare tra flussi e riflussi, tra le maree che si innalzano per poi ridimensionarsi e tornare al loro aspetto consueto dopo avere provato il brivido di essere diverso dall’abituale configurazione. Una versione al femminile dell’intrepido protagonista dell’Odissea che peregrina da un lido ad un altro sempre alla ricerca di quel quid indefinito che ciascuno di noi si porta dentro. Ebbene Giusi Lombardo con i suoi versi, ha avuto la capacità di estrinsecare il suo mondo interiore, di scandagliare gli abissi della coscienza umana  e di farcene dono con una semplicità ed una immediatezza comunicativa che non lascia indifferente anche il più superficiale dei  lettori.

il Giglio e l’ortica“ di Maria Patrizia Allotta  svela tutte le contraddizioni della condizione umana sempre combattuta tra scelte antitetiche ma dove la spinta ascensionale verso il divino diventa vincente sulle difficoltà del quotidiano andare tra amarezze, difficoltà e delusioni. Alla fine il giglio, simbolo di purezza e di salvezza, si erge vittorioso sul suo alto seppur fragile stelo, sulle asprezze della vita.
Senza scomodare il filosofo Blaise  Pascal, l’uomo con le sue debolezze sembra piegarsi  come una canna al vento ma non cede, non si spezza e resiste alla furia della tempesta senza che le sue radici profonde vengano sradicate anzi proprio da esse che affondano solide e sicure in un humus ricco e fertile, trae la forza per andare avanti seguendo il divino che è presente in tutto ciò che lo circonda. L’ortica sembra porsi decisamente in contrapposizione al giglio per il suo aspetto esteriore  poco piacevole alla vista e soprattutto in quanto essa risulta sgradevole  per  la sua caratteristica proprietà di essere pruriginosa al contatto ma nasconde in sé qualità medicamentose e salutari che vanno però ricercate al di là del primo impatto. Così è la poetessa Maria Patrizia Allotta che ci invita  ad andare oltre le apparenze per ricercare le essenze delle cose che spesso dietro un aspetto sgradevole nascondono proprietà salvifiche.
D’altra parte il giglio con il suo colore bianco splendente, che suggerisce immediatamente visioni di gioia è invece come sostiene Federico Garcia Lorca, il colore della pena.
Nelle sue poesie c’è dunque un forte richiamo a ricercare sempre la Verità che non appare ad occhi che non sanno guardare ma deve essere trovata con il linguaggio profondo e celato dell’anima.
Tre donne, tre amiche, tre poetesse  che con i loro versi superano le contraddizioni per andare alla ricerca, come nella migliore speculazione filosofica che procede per tesi ed antitesi, della più alta sintesi; versi che si confondono magicamente in un abbraccio panico con la Bellezza della natura a cui riconoscono il sigillo divino.

martedì 21 febbraio 2017

Radio Chesterton: un cattolico ai microfoni della BBC

di Luca Fumagalli

«Questo è il prezzo che pago in nome del cattolicesimo,
e cioè il fatto che è sempre in anticipo sui tempi»

Certa che G. K. Chesterton sarebbe stato «un tremendo successo al microfono», nell’agosto del 1932 la BBC gli propose la conduzione di alcune trasmissioni radiofoniche sulla letteratura contemporanea. Chesterton, che amava il dibattito almeno quanto scrivere un buon libro, accettò volentieri, ma pretese di poter trattare argomenti più generali, com’era suo costume. Il successo fu così grande e immediato che la collaborazione tra l’emittente e il celebre scrittore durò fino alla primavera del 1936, poche settimane prima della sua morte. Le trascrizioni degli interventi comparvero a cadenza regolare sul settimanale della BBC, «The Listener», e sovente innescarono vivaci dibattiti con lettori e ascoltatori. Alcuni di loro erano perfetti sconosciuti, altri invece erano intellettuali di primo piano come lo storico protestante George Gordon Coulton, il giornalista ed esperto di musica Percy A. Scholes, e il filosofo cattolico Angelo Crespi, noto per le sue tendenze filo-protestanti e per l’inveterato antifascismo. 
A raccontare questa pagina poco nota della biografia chestertoniana – almeno in Italia – ci pensa l’apprezzabile libretto Radio Chesterton che mi ha puntualmente segnalato l’amico Piergiorgio Seveso. Dai microfoni della BBC della sempre meritoria Rubettino che colleziona alcuni degli interventi radiofonici più interessanti di Chesterton, tra cui quelli dedicati alla carità, al Medioevo, alla riscoperta della gioia del vivere quotidiano e alla letteratura per l’infanzia. Degne di nota sono poi le trasmissioni sul tema della libertà, affrontato dal punto di vista cattolico, così come una menzione a parte merita il confronto con Bertrand Russell da cui, stando a Maurice Bering, il filosofo e matematico uscì con le ossa rotte.
Ogni volta Chesterton appare gioviale e sicuro di sé, preciso nelle argomentazioni come facile alla battuta. Lo stile paradossale tipico dei suoi scritti ritorna nella vivacità della parola, nell’arguzia delle citazioni e nell’apparente linearità dell’argomentazione, che non disdegna parentesi e avvitamenti provocatori. In verità, prima delle trasmissioni, il “voluminoso inglese” era sempre molto agitato e l’unica medicina in grado di tranquillizzarlo erano i volti della moglie e della segretaria; senza lo loro presenza fisica per lui sarebbe stato impossibile parlare a una massa incorporea. D’altronde la medesima attenzione al dato reale, che altro non è se non la manifestazione di quell’ideale cristiano di cui il mondo moderno sembra essersi dimenticato, è ciò che rende ogni suo discorso una scoppiettante apologia dell’esistenza, un intelligente inno alla gioia di vivere.
C’è chi era certo che sarebbe bastato a Chesterton un anno ancora per diventare la voce dominante del BBC, e furono tanti coloro che, pur non avendo mai letto una riga dei suoi libri, piansero la scomparsa di questo intrattenitore d’eccezione, un polemista di gran cuore che, come ricorda Maisie Ward, quando parlava «sembrava che stesse seduto a fianco a me nella stanza». Non a caso il 17 giugno del 1936, pochi giorni dopo la scomparsa, Edmund Bentley pronunciò un necrologio alla BBC in cui definiva Chesterton «non solo uno degli uomini più straordinariamente dotati del suo tempo, ma anche uno dei più amati». 
Leggere Radio Chesterton. Dai microfoni della BBC è dunque un modo divertente e godibile per sfuggire alle catene del pensiero unico, un’occasione per ricordare a tutti noi che solo la Verità, quella con la lettera maiuscola, rende veramente liberi.
da: www.radiospada.org

domenica 19 febbraio 2017

Presentazione del libro di Elena La Verde, "Abbracciare il tempo", Martedì 21 Febbraio


Napoli: presentato l’Elogio della Distinzione di Tommaso Romano

Presso la Galleria d’Arte moderna PRAC, in Napoli, sabato 11 febbraio, organizzato dall’Unione Monarchica, Italiana è stato presentato il volume del Prof. Tommaso Romano, “Elogio della Distinzione”.
In un’età di approssimazione ed appiattimento, il volume, edito da Fondazione Thule Cultura, e presentato dal Prof. Mario Anzisi e dal Presidente nazionale U.M.I. Alessandro Sacchi, si manifesta come un’idea editoriale fresca e gradevole.
Assente l’Autore, per un’improvvisa ed imprevedibile indisposizione, il pomeriggio letterario ha visto la partecipazione di folto ed interessato pubblico.





sabato 18 febbraio 2017

Anna Maria Guidi, "E-marginati" (Ed. Book Editore)

di Guglielmo Peralta

       
Quando la poesia dipinge nascono "ritratti" che nulla hanno da invidiare alla pittura. Questa silloge di Anna Maria Guidi è una "galleria d'arte", ma al posto dei "quadri" ci sono esseri in carne ed ossa che percepiamo con tutti i sensi. E ci sentiamo invasi dalla loro sorte, dal loro essere fuori, "E-marginati", ridotti a scampoli di vita, sì che ne proviamo com-passione. La descrizione dei loro tratti psico-somatici è così precisa, incisiva, concreta da restituirci di ognuno l'intera persona in corpo e anima, con un accentuato realismo da trompe l'oeil, che li ri-trae, fuori dal non-luogo in cui sono confinati, nel versante poetico, dove essi sono un'umanità grondante di abbandono e di solitudine, stretti in un grido di dolore taciuto, nella loro silenziosa richiesta d'amore e di aiuto. Questi umiliati e offesi, crocifissi dal silenzio e dall'indifferenza, hanno la consolazione dello sguardo pietoso della Guidi, che li restituisce all'esistenza traendoli dall'oblio e consegnandoli alla poesia, la quale li riscatta in testi che li nominano uno per uno e sono la loro denuncia e testimonianza. Perché essi vi parlano con la voce dell'Autrice. E il lettore, che conosce questa condizione dis-umana, non può che lasciarsi coinvolgere emotivamente da tanto amara rappresentazione, resa con linguaggio tanto figurato quanto concreto, scultoreo e inventivo, intriso di pathos e di sanguigno furore.
        Non manca in questa silloge l'invettiva contro la società globalizzata, in cui viene meno la comunicazione interpersonale a vantaggio di quella mediata dai mezzi tecnologici sempre più sofisticati e dove l'uomo finisce per restare ingabbiato nel labirinto virtuale. Ed ecco che di fronte al pericolo rappresentato dalla tecnica che consente all'uomo di estendere e imporre la propria egemonia sulle cose manipolandole, asservendole, stravolgendone la natura e il fine originario per cui sono state create, l'accenno, alla fine della silloge, alla Gelassenheit heideggeriana, è l'indicazione della via da seguire per evitare di con-cedersi "al varco senza scampo / del limite postremo"; è l' atteggiamento speculativo di fronte alla realtà: «l'abbandono» e il raccoglimento che lascia-essere gli enti, le cose così come sono, senza trasgredire e modificare l'ordine in cui sono state costituite e collocate. E qui, il riferimento va oltre gli enti materiali, nella direzione dello spirito, la cui assenza a causa della meccanizzazione del nostro intimo ci fa pendere sull'abisso confinandoci tutti al "margine" della vita, in prossimità di quel "varco senza scampo", ossia della morte, che tuttavia, per Heidegger, può liberare l'uomo se egli si abbandona agli enti e rinunciando al boomerang del "progresso" tecnologico si apre al mistero della verità dell'Essere e alla possibilità di approdare, attraverso il progetto dell'essere-per-la morte, a una vita più autentica, che, per la Guidi, significa sottrarsi al destino di E-marginati, rendere l'uomo "innamorato d'eterno".  

venerdì 17 febbraio 2017

Il dramma delle foibe

di Domenico Bonvegna

Mentre imperversa sulle nostre teste la crisi economica e quella politica del nostro Paese, chissà se abbiamo tempo e voglia di ricordare la grande tragedia che hanno subito migliaia di italiani tra il 1943 e il 1945 nelle terre giuliane, istriane e dalmate. Dopo l'istituzione nel 2004 della “Giornata del Ricordo”, dovremmo essere tutti al corrente del massacro di italiani che è stato compiuto dalle forze partigiane comuniste guidate dal maresciallo Josip Broz Tito (i titini).
Il mio contributo al ricordo delle vittime delle foibe è la presentazione di un libro che ho trovato recentemente nei miei consueti raid presso il solito outlet librario milanese. Il saggio è scritto da Giuseppina Mellace,“Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe”, Newton Compton (2015), riproposto dalla Biblioteca Storica de Il Giornale.
L'autrice, avvalendosi di diversi studi, soprattutto quelli di Raul Pupo, di Roberto Spazzali, ma anche di testimonianze scritte di intellettuali triestini, ha realizzato un buon testo documentato che ci offre una sintesi sui fatti che coinvolsero le popolazioni italiane dei confini orientali.
Le foibe rappresentano una storia dimenticata, negata, volutamente rimossa per decenni. La scrittrice romana è andata alla ricerca delle cause del fenomeno foibe, rivolgendo l'attenzione in particolare alla condizione delle donne, “da sempre testimoni silenziose e vittime mute della violenza della guerra”. Infatti alla fine del libro, nelle appendici, la Mellace, con un lavoro certosino, di ricerca, di confronto paziente di elenchi, dedica molte pagine a loro:“le donne infoibate, deportate, scomparse o condannate dai tribunali speciali”.
Un elenco dettagliato di nomi in ordine alfabetico, vittime degli slavi, vittime dei nazifascisti. Seguono poi una serie di documenti o stralci che illustrano meglio gli avvenimenti esposti nel libro.
“Le prime a sparire, proprio come accadeva per gli uomini, furono le donne legate alle istituzioni: non a caso le insegnanti furono particolarmente perseguitate e i loro cadaveri offesi e martoriati. Infatti era prassi ucciderle e poi impiccarle a un albero, talvolta per i capelli”.
Purtroppo capita spesso che siano proprio le donne a pagare un caro prezzo in tutte le guerre. Loro oltre a perdere la vita, spesso vengono irrimediabilmente ferite e violate nella loro intimità, così è capitato alla povera Norma Cossetto, o alle tre sorelle Radecchi. Albina, Caterina e Fosca.
Per affrontare il tema degli infoibamenti e delle deportazioni, la Mellace, tratteggia, a grandi linee, la fase storica in cui tale fenomeno è avvenuto. Siamo nella II guerra mondiale, con la lotta degli Alleati e la Russia contrapposti al nazifascismo, poi alla fine del conflitto, inizia un'altra battaglia, quella della “guerra fredda”. In questo contesto c'è il Partito comunista italiano di Togliatti che appoggia la linea politica del maresciallo Tito. Inoltre accenna alla questione economica, a quella immobiliare, e poi all'espansione slava della zona, che ha influito sull'esodo degli italiani, oltre 350 mila italiani fuggirono dall'Istria, dalla Dalmazia e il Friuli Venezia Giulia.
Interessante il capitolo che affronta l'esodo, un dramma dove intere comunità strappate alla proprie radici, per la Mellace, non fu “una migrazione, bensì una frattura, un punto di non ritorno, scelta politica e fu, per molte zone, plebiscitario, sebbene manchi, ancora oggi, una storia complessiva di tale fenomeno”. I numeri degli italiani che abbandonarono le terre dalmate giuliane e d'Istria sono impressionanti, a Fiume su 60.000 abitanti, 54.000 scappano. Pola su 34.000 abitanti, abbandonano in 32.000. Zara su 21.000, lasciano 20.000. Capodistria su 15.000 abitanti lasciano, 14.000 e via di questo passo per gli altri centri.
La Mellace, avendo ripreso lo studio di Pupo, racconta come il fascismo cercò in tutti i modi di “fascistizzare” quei territori, attraverso le scuole. In queste zone, il fascismo cercò di plasmare la società secondo il proprio modello culturale, introducendo tutte quelle opere che aveva fatto nel resto d'Italia. S'interessò soprattutto dell'istruzione dei giovani, con la riforma Gentile contribuì all'italianizzazione e quindi all'eliminazione delle lingue salve dalla scuola. Nel terzo capitolo, la Mellace, accenna anche ai campi di internamento e di concentramento italiani. In questo frangente mentre infuriava la guerriglia partigiana e quindi le varie rappresaglie, in Slovenia, si distinsero due generali italiani, Mario Roatta e Mario Robotti, quest'ultimo ordinava sempre più rigore e più fucilazioni. Ci furono deportazioni, anche qui è impossibile quantificare l'esatta cifra, il numero oscillerebbe tra i 25.000 e i 100.000 mila, tutto questo per stroncare la guerriglia partigiana. Poi arrivò la pesante invasione tedesca, con l'armistizio dell'8 settembre 1943, e così la popolazione italiana, si trovò presa tra due fuochi, da una parte i tedeschi, dall'altra il Movimento di liberazione del partito comunista jugoslavo.
Il maresciallo Tito richiedeva ai suoi uomini un'incrollabile fede comunista, che doveva essere comprovata, in territori come l'Istria e la Dalmazia che già si sentivano jugoslavi prima del crollo dell'Italia fascista, prefigurando una bolscevizzazione della zona. Pertanto chi non dimostrava una fede comunista sarebbe stato passato per le armi nel più totale silenzio.“La propaganda – scrive Mellace - fomentava il forte spirito nazionalista slavo che il fascismo aveva tentato di annientare. I partigiani, conquistato un territorio, ponevano come condizione alla classe dirigente locale, per la maggior parte dei casi italiana, la totale collaborazione, abbracciando la causa slava, oppure la sparizione o l'eliminazione fisica come 'nemici del popolo': una categoria che, non avendo una caratterizzazione definita, era applicabile a chiunque, e creava un diffuso senso di paura e di incertezza per il domani”.
Nel libro la Mellace parla di tre stagioni di violenze in una catena di furore popolare e di resa dei conti, sempre all'interno degli anni della seconda guerra mondiale. La prima all'indomani dell'8 settembre '43, le vittime oscilleranno tra le 500 e le 700, tutti concentrati sull'Istria,“caratterizzate da una ferocia disumana in special modo sulle donne, quasi a voler colpire gli uomini, gli italiani e quindi i fascisti, nei loro affetti più cari”. La seconda stagione, va dal 1 maggio 1945, con l'arrivo delle truppe di Tito a Trieste e l'ultima dopo la fine del conflitto mondiale.
Il 19 capitolo è dedicato ai “luoghi dell'orrore”, si comincia con la foiba di Basovizza e poi via via con tutte le altre. "Le foibe - scrive l'autrice - fornivano l'opportunità di uccidere in maniera celere senza grande dispendio di denaro per le munizioni", diventando in pratica delle "fosse comuni".
“La maggior parte delle vittime tra gli italiani apparteneva alla borghesia, gli oppositori più ferrei del partito comunista”.
In questi grandi “inghiottitoi naturali, propri dei terreni carsici, poco visibili poiché spesso la vegetazione copre le stesse voragini”, venivano scaraventati uomini e donne spesso legati l'uni agli altri da un fil di ferro. Nella maggior parte dei casi, bastava sparare al primo della fila che, cadendo, avrebbe trascinato con sé il resto dei prigionieri con lui legati. Per certi versi, scrive la Mellace: “ la celerità della sepoltura ne sviliva tutta la ritualità a essa legata, compresa l'elaborazione del lutto, e cancellava il diritto alla memoria del defunto”. Poi con la “spoliazione, prima dell'esecuzione, aggiungeva un ulteriore oltraggio alla vittima”. Questi morti non rappresentano un conflitto di razze, ma piuttosto ideologico, che si stava disputando per il controllo del territorio. Per la Mellace,“l'obiettivo non era eliminare i fascisti ma la classe dirigente italiana, in modo di creare il vuoto di potere che gli slavi si apprestavano a colmare”. E' interessante a questo proposito, l'intervista al professore Guido Rumici, che considera gli eccidi delle foibe sicuramente diversi dagli altri, ma non propende per una “pulizia etnica”. Infatti secondo lui in questa tragedia, ci sono anche “fattori nazionali, politici ed ideologici che si mescolano tra loro in un intreccio molto complesso che andrebbe visto in una prospettiva più ampia [...]”.
Quante furono le vittime?”. La Mellace non sa rispondere a questa domanda, per la verità, nessuno degli storici ancora ha risposto. In realtà, non sapremo mai con precisione quante furono le vittime delle foibe. Nessuno ha potuto quantificarle. I motivi sono tanti, innanzitutto perchè hanno distrutto i catasti, la documentazione, in pratica i titini hanno fatto tabula rasa per ricostruire un futuro diverso. Si creò una snazionalizzazione al contrario di quello che aveva tentato di fare il fascismo.  Molti archivi sono andati distrutti durante e nell'immediato dopoguerra. Inoltre le fonti slave sono state disponibili da poco tempo, dopo la fine della federazione jugoslava. Comunque sia il numero delle vittime oscilla tra un minimo di 5.000 e un massimo di 16.000.
Tuttavia si può scrivere, che“anche se rilevante, il numero degli infoibati è certamente inferiore a quello delle numerose stragi e sistematici stermini che si sono avuti nel corso della seconda guerra mondiale, ma la loro morte rimane pur sempre un crimine esecrabile e particolarmente sentito dai giuliani ancor oggi”.

giovedì 16 febbraio 2017

Mr Belloc racconta la Rivoluzione francese

di Luca Fumagalli

La caratteristica principale che rende ogni saggio storico di Hilaire Belloc un’emozionante avventura nel passato è l’imprevedibilità. Belloc, al pari del suo sodale G. K. Chesterton, ogni volta che tratta un argomento lo fa con arguzia, prendendo le distanze dalla banalità. Per lui il paradosso, il desiderio di fronteggiare l’errata opinione comune, non è una provocazione letteraria – come era per l’amico – ma si concretizza in una rilettura ingegnosa della storia. Anche il libro La rivoluzione francese (1915), da poco ripubblicato in Italia dalla casa editrice veronese Fede & Cultura, non sfugge a questa regola.
Per ammissione dello stesso autore, il saggio si configura più come una storia delle idee piuttosto che un racconto degli eventi. Il principale obiettivo di Belloc, infatti, è quello di dimostrare come sia possibile essere cattolici e allo stesso tempo ammirare la Rivoluzione francese. Un’impresa pericolosa, si dirà, ancor più se si considera che la Chiesa condannò in più occasioni l’ideologia del 1789. Ma lo scrittore anglo-francese non è certo tipo facilmente impressionabile, e il risultato del suo lavoro è un piccolo grande gioiello, un volumetto godibile nella lettura e coraggioso nelle asserzioni, dove i luoghi comuni di tanta storiografia vengono rimasticati e rigettati, smontati e brillantemente ricostruiti con credibile tridimensionalità.
Da parte paterna nelle vene di Belloc scorreva sangue francese, il repubblicanesimo per lui era qualcosa di naturale, da doversi accettare senza troppe obiezioni; e se questo lo distingueva dai principali autori cattolici inglesi di inizio XX secolo, tutti invariabilmente monarchici, non gli impedì tuttavia di cogliere con una certa genialità limiti e potenzialità di una forma di governo che all’epoca, agli inizi della Grande guerra, intuì quasi profeticamente essere il futuro che attendeva l’Europa.
La teoria politica della Rivoluzione, diretta debitrice delle carte di Rousseau e della “Dichiarazione d’indipendenza americana”, secondo Belloc contiene diversi spunti interessanti che, nel complesso, la possono rendere accettabile anche agli occhi di un cattolico. Certamente tale teoria pecca del grave limite di non riconoscere Dio come fonte di ogni potere, ma alcuni propositi fondamentali, quali l’uguaglianza innanzi alla legge e un ripensamento globale del concetto di giustizia, appaiono ai suoi occhi tutt’altro che disprezzabili. D’altronde i dissensi con il clero francese iniziarono solo in un secondo momento, quando le guerre con le potenze europee costrinsero i rivoluzionari a sfogare le frustrazioni contro uno spauracchio di comodo: venne scelta la Chiesa solo perché quest’ultima era così mondanizzata e preda dei fumi del gallicanesimo da risultare agli occhi dei più ormai indistinguibile dall’odiata aristocrazia.
Belloc non tace dei massacri di Vandea compiuti in nome di un falso concetto di libertà, dei numerosi martiri trucidati in odio alla fede e di quanti si opposero, compreso il Papa, alla barbarie rivoluzionaria. Ma, come ricordato, il suo scopo è un altro, e lo persegue ripercorrendo anche i fatti principali della storia militare della Rivoluzione – colpevolmente trascurata dagli storici – e studiando il carattere dei protagonisti del periodo, dal debole Luigi XVI al fumantino Robespierre.
La rivoluzione francese è dunque un’opera intelligente, condotta secondo un disegno didascalico che non annoia il lettore, costringendolo anzi a fare i conti con un episodio storico per troppo tempo privato della giusta complessità. Un libro ottimo per chiunque mal digerisce verità di comodo, banali e preconfezionate; ennesima perla prodotta dalla penna di uno dei polemisti più talentuosi dell’ultimo secolo.

da: www.radiospada.org

mercoledì 15 febbraio 2017

Presentazione del libro di Salvatore Lo Bue, "Un amore bellissimo. Leopardi e la felicità", Giovedì 16 Febbraio


Francesco Maria Cannella, "Non saltare giù dal letto prima di mezzogiorno" (Ed. Thule)

di Aldo Gerbino

Leggere Non saltare giù dal letto prima di mezzogiorno, che Francesco Maria Cannella ha pubblicato per le Edizioni Thule, mi ha fatto pensare alle parole usate da Giuseppe Baretti, il temibile Aristarco Scannabue, quando, nella sua settecentesca «Frusta letteraria», asserisce, - scagliandosi contro la ‘piatta’ e noiosa “Vita del Cellini” scritta dell’anatomista Antonio Cocchi, - d’essere questa, in modo assoluto, tutto il contrario della viva autobiografia celliniana. «Già ho detto», asserisce, «che Benvenuto Cellini ha scritto un meglio stile che non alcun altro italiano; uno stile più schietto e più chiaro, perché più secondo l'ordine naturale delle idee, le quali non ne presentano mai il verbo prima del nominativo, e non ce lo collocano mai in punta a' periodi e a una gran distanza da quello». E soprattutto – va ricordato –  come questo poliedrico artista del Cinquecento abbia fatto un uso ‘pre-moderno’della lingua quotidiana, ricca di verve, fuor dalla gabbia d’uno stile. Una scrittura, quella accolta nella sua “Vita”, affidata e confezionata con un linguaggio personale, da “boschereccio”, come amava definirsi lo stesso Cellini, in virtù di quella sua abilità a offrirsi in una sorta di impavido manufatto a tutto tondo, e ancora per quel suo valore intrinseco, già messo con forza in evidenza da Bruno Maier (per il quale la ‘Vita’ del Cellini è, paradossalmente, “un capolavoro di stile”), e, dove i termini appaiono composti là dove debbono stare, fuori da particolari ambiguità letterarie, con climax di cuspidi oscillanti tra celebrazione e denigrazione. E di climax narra la giovane lingua di questo contemporaneo outsider, mescolata nella anomalia spastica di un polimetro gergale e ostentatamente beffardo, alimentato da dolori giovanili, da eccessi tradotti in iperboli e metafore. Si ricalcano vie già percorse dai nostri sperimentalismi: dal futurismo alla stessa esperienza siciliana dell’Antigruppo, dove la lingua, pur non depurata, vive, – in quella misura amata da Céline, – dell’orrore della quotidianità, e di una certa ansia che Bàrberi Squarotti, nel suo autografo per Cannella, rintraccia come scrittura intensa e “vitalissima”. 

martedì 14 febbraio 2017

Vittorio Riera, "Calogero Messina e il canonico De Gregorio" (Ed. Herbita)

di Rosalba Anzalone

Questo volume di 144 pagine, fresco di stampa, frutto del paziente lavoro di Vittorio Riera, non è certamente un libro qualsiasi. Sarebbe veramente una distrazione imperdonabile non accorgersi di Calogero Messina e sarebbe davvero riduttivo chiamare soltanto canonico il De Gregorio senza guardare ai suoi vasti interessi culturali che moltiplicano ed ampliano prospettive e messaggi degni di tutt’altra menzione e diffusione.
Guardando all’autore del libro io mi permetto però di affermare che tale volume segna per Lui un passaggio irreversibile nel percorso di scrittura, da un estetismo culturale spontaneo e generico ad uno sguardo approfondito e più attento alla ricerca di inquadrature sempre più ampie ed esplicative di natura antropologica e d’impostazione più moderna
Il Riera approda ad una analisi dei tratti culturali dei personaggi prescelti attraverso una originale intervista a Calogero Messina, nella quale usando il rigore metodologico che lo caratterizza, riesce ad individuare le coordinate del pensiero di De Gregorio nonché dello stesso Calogero Messina.
Dopo le sue difficili ricerche coronate da certi successi su pittori della famiglia di Giuseppe Di Giovanni, nonché sulla poesia del primo novecento e su alcuni fatti particolari come “L’Istituto Torremuzza” a Palermo, appare qui un approccio nuovo e indagatore volto ai soggetti di cui si occupa con tanto impegno e convinzione che sono proprio Calogero Messina e il can. Domenico De Gregorio. Egli usa funzionalmente l’opera dello stesso Messina intitolata Il mio dialogo con il Can. De Gregorio per individuare, prima di tutto, in quella forma dialogica, un unico obiettivo che traspare  chiaramente dalle parole che i due si scambiano, ove sembra echeggiare il monito dantesco “fatti non foste a viver come bruti…” e si può ravvisare la costante esigenza dell’uomo che come tale, essere pensante, realizza esperienze, crea idee e progetta, supera ansie e scrive e progetta.
Sin dalla copertina emergono i paradigmi che l’autore adotta per la sua indagine che si allarga a vista d’occhio sull’orizzonte di una umanità che si nutre di storia e di poesia quanto di scienza e di radici socio-culturali. Attraverso l’intervista a Calogero Messina e il dialogo di quest’ultimo con il canonico De Gregorio egli coglie non la diversità di opinioni ma una sostanziale vicinanza d’intenzioni rivolte al miglioramento del PROGETTO-UOMO. Così da una ricerca di verità che radica nella scienza le ragioni della stessa  esistenza, si passa ad una ricerca che partendo da una componente di ascolto attento si colloca in una attualità non cruda e non cruenta tutta tesa  ad una elevata e solidale spiritualità.
L’idea che l’uomo debba costantemente migliorarsi non è per la verità nuova ai pedagogisti e ai sociologi, senza contare l’esercito di antropologi che, con parole diverse, hanno sottolineato l’esigenza umana di mettere insieme pensieri ed esperienze che riguardano l’uomo e da cui è derivata nel tempo l’evoluzione e, a volte la corruzione, della stessa cultura umana.
Vittorio Riera partendo da quello che il Messina ha scritto nell’introduzione del Dizionario storico dei comuni della Sicilia e nel Discorso sulla storia, afferma che il Messina è riuscito bene a mantenere l’unità e l’unitarietà dell’opera; egli è severo con chi scrive storpiature della storia, ma nulla in Messina è – secondo Riera – fuori posto o superfluo, anche quando si parla di sillogi poetiche. Tutt’al più cambia lo stile o la scrittura che si manifesta in forma di domanda filosofica o di conoscenza scientifica determinata, ma il tutto serve a definire in modo originale i rapporti tra concetti come quello tra storia e poesia; originale è, secondo Riera, l’idea che il Messina esprime del romanzo istorico ove si raggruppano documenti ma anche esperienze visive e ricordi propri o di altri. Fuori dal cliché letterario consueto, appare infine al Riera il richiamo del Messina alla casa come santuario degli affetti e dei ricordi, messaggio certamente controcorrente. Il Riera non disdegna o evita di scendere nell’esame dei due documenti citati in premessa e cioè l’introduzione al Dizionario citato. e il dialogo tra Messina e De Gregorio per individuare ciò che può interessare gli scrittori oggi e che può essere raccolto e attualizzato dalla lettura dell’opera del Messina. È per quanto detto che l’opera di Vittorio Riera si raccomanda da sé.


martedì 7 febbraio 2017

A Napoli presentazione del volume "Elogio della Distinzione" di Tommaso Romano

ELOGIO DELLA DISTINZIONE
di Tommaso Romano
(ed. Fondazione Thule Cultura)


ne discutono con l'Autore
Prof. Mario Anzisi
Avv. Alessandro Sacchi


NAPOLI - Sabato 11 Febbraio, ore 17.00 - GALLERIA D'ARTE PRAC, via Nuova Pizzofalcone, 2


l'Unione Monarchica Italiana invita alla presentazione del libro