mercoledì 16 settembre 2015

Fabio Giallombardo, "La bicicletta volante" (Ed. Autodafè)

di Tommaso Romano

"La bicicletta volante" è opera prima di un docente di lettere al Liceo Classico di San Benedetto del Tronto, Fabio Giallombardo. L'Autore ha vissuto la sua giovinezza, formazione intellettuale e civile a Palermo - è nato nel 1973 a Padova - e della città nel libro, a piene mani, coglie le profonde contraddizioni, la violenza, il degrado, la mafia. Alla maniera di Seneca, il libro si snoda attraverso una lunga e circostanziata lettera che Gaspare Traina scrive al figlio Salvatore, dove si incontrano e si scontrano lacerti di umanità, di sconfitte e di speranze.
La finzione letteraria nasce dall'invio di un manoscritto spedito a un Procuratore, Ettore Toselli, da un tale Fava, dal cardiochirurgo Traina al figlio, pochi giorni dopo l'immatura morte, per un incidente in bicicletta dello stesso Salvatore. Gaspare Traina è figlio, a sua volta, di Achille uno stimato medico coinvolto in pesanti dichiarazioni di un pentito, accusato di essere "il medico della mafia" e poi assolto. Gaspare Traina scrive così il testo a Salvatore, una sorta di autobiografia, per raccontare la sua storia, gli incontri d'amore, la giovanile caparbietà verso un rinnovamento possibile di sé, con l'impegno per i più giovani all'interno di un quartiere popolare, il Capo, si racconta di una convivenza difficile con una giovane prostituta, che diventa la sua amante e il fratello più piccolo. Poi la partenza per Milano, lasciando così la giovane Rosalia.
Su tutto domina la mafia urbana descritta così dall’Autore: "organismo tentacolare capace di lavorare in sinergia con i servizi segreti e con le multinazionali del riciclaggio", nella  commistione ulteriore con la politica. L'Autore denuncia le ambiguità della cittadina borghesia, carica di compromessi e ipocrisie, di vizi che si manifestano tanto subdoli quanto violenti, specie sui bambini, feriti dalla pedofilia, con gli interessi illeciti dominanti. Senza moralismi e facili cadute nella drammaturgia la scrittura di Giallombardo, che ha parentele con il noir di Carofiglio, si intreccia e si distende con un lessico ricercato su più piani narrativi, "a scatole cinesi", dove però è possibile trovare il filo d'Arianna di una sorta di laico apologo, in cui i "vinti" hanno pure una parola. Senza per questo cadere nelle illusioni, anche se appare come probabile la rivincita della giustizia. Intanto, continuando a vivere nella normalità e nel servizio al prossimo, con uno scatto di civile volontà, per fare uscire, in tal modo, anche scrivendo un libro, dallo stato di anestesia in cui continua a trovarsi la Sicilia e raccontando-attraverso personaggi emblematici-volontari, sacerdoti, bambini-coraggio, maestri elementari, la voglia di uscire dal ghetto. L'Autore ci conduce con abilità nel labirinto delle storie che s'incrociano, con incursioni nella lingua madre efficaci (corredate alla fine da utile glossario), ricordando nella lettera, a ritroso, l'idea di testimoniare e combattere per un mondo migliore, per recuperare il filo di un rapporto interrotto e mai espressosi con la totalità dovuta, di Gaspare con il figlio morto.
 Una ricerca introspettiva, insomma, delicata, per riannodare i fili spezzati e i sentimenti e della storia.
Emergono che le figure dei magistrati uccisi dalla mafia, metafore di una realtà complessa e, appunto, labirintica. Comunque non scontata negli esiti finali dell'auspicata risorgenza, della vittoria sulla mafia.
Una frase del libro ci dà poi la chiave per comprendere, letterariamente ma non solo, la consapevolezza e la prospettiva di Giallombardo: "E tutti noi scriviamo solo per narcotizzare, a rendere così sopportabile, la coscienza della nostra infelicità".

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