giovedì 22 dicembre 2016

Postfazioni di Tommaso Romano a Maria Patrizia Allotta, "Il giglio e l'ortica"; Giusi Lombardo "Maredentro"; Maria Concetta Ucciardi, "Il crepuscolo dell'alba" (Ed. Thule)

Nei simboli possiamo leggere i semi della verità.
Nella poesia, quando è autentica fonte di svelamento e conoscenza di sé, l’intima essenza appare e si apre come sostanza e permanenza.
La poesia di Maria Patrizia Allotta si nutre di radici robuste e come canna al vento si mostra in tutta la difficile e, comunque, stupefacente avventura vitale, nutrendosi appunto di simboli, miti, valori che sono altrettante interrogazioni, riflessioni, approdi e ripartenze nel mare dei dubbi, di fragilità delle speranze delle promesse che si rivelano a volte fallaci, dei naufragi inavvertiti e delle scialuppe che sono ancore.
Nel contrasto dell’apparenza spesso aspra e pungente di una natura che si dipana nei fatti perigliosi, ecco il giglio, l’antico fiore della purezza, della bellezza semplice e intatta su cui poter contemplare la rinascita che non muore.
Sì, perché lo scacco può presupporre il nichilismo della resa, dell’abbandono al destino preordinato, mentre la bellezza riscatta e redime se solo non si concepisce come assoluto soggettivo, individualismo incatenante.
In questa metafora del campo di ortiche, spesso aspre e pungenti, e del giglio del vero bene e, quindi, dell’armonia da non obliare al vento delle contingenze, vi è tutto l’universo di una poesia alta e solenne, intima e dolente, forte e umile al contempo che in Maria Patrizia Allotta si acquarella di tinte ora decise, ora impalpabili, facendo stillare una grande sensibilità, un cammino verso la luce non sempre lineare eppure consapevole, alta nella prospettiva straordinariamente esemplare e personale negli esiti stilistici, specchio di una condizione e di un sentire in profondità che può coinvolgere, fino all’interiorizzazione.



Giusi Lombardo transita felicemente dalla ricerca etnoantropolo­gica alla poesia pura, che pare aveva rapsodicamente praticato come alimento vitale.
Il realismo della condizione esistenziale diventa così un canto do­lente e coinvolgente, capace di suscitare sensazioni e partecipa­zioni emotive, liberandosi da incrostanti strettoie per giungere ad una sincera manifestazione, ad uno scenario che ha fatto cadere maschere e infin­gimenti, duellando con la controversia e il dolore, la passione e la rabbia, il candore e la ricerca dell’armonia.
Una esistenza al vaglio, una confessione laica e al contempo sacrale, che si dispiega senza i veli della retorica e le cadute nell’ovvio, trovando l’anima profonda negli anfratti più occulti, in quei raggi di sole che mai più nessuno riuscirà ad estinguere, come scrive.
Il dono del vivere diventa così riscatto e al contempo attesa, a volte amaro e consapevole sorriso, per un Destino che appare ineluttabile nell’infinita notte di tenebre.
Eppure, ecco la poesia, che riscatta e riconquista l’umano, il soffio d’ali, il dono di esserci.
La condizione individuale si stempera nel tempo eterno e senza ingombranti calendari che, comunque, trasforma e fa evolvere verso nuove consapevolezze, nell’attimo che fuggendo, imprime.
È l’anelito della vita, che trova la fonte per non abdicare e scindersi, è l’alba che appare ancora lontano e che pure aspetta la poetessa e, in sostanza, la poesia.



Come un simbolico introibo è quest’opera prima di Maria Concetta Ucciardi che alla poesia si è votata da qualche tempo, con accenti di sincerità e di calda colloquialità.
L’universo degli affetti, delle gioie, degli incontri, delle ansie, dei dolori e delle speranzose attese, si dipana nell’architettura sensibile di un cuore pulsante di umanità.
Senza metafore ardite, con piena attitudine a cogliere il nocciolo delle cose, la Ucciardi sembra a prima vista appartenere ad una schiera di poetesse lontane dal tempo storico, sviluppando una ricerca memoriale e di nostalgiche riflessioni, segnate da un linguaggio che si nutre degli elementi del quotidiano.
Eppure, le tensioni e le domande non si risolvono nell’elegia e la Ucciardi ben conosce oltre il sogno, la ragione che spesso riporta ad una realtà fredda e crudele.
La com-passione assume i caratteri della consapevolezza, il dolore degli altri diventa il dolore universale, le ricorrenze e i luoghi, un ram­memorare.
La natura, la luce, i colori sono veicoli di una magia possibile, se solo li si scopre in essenza, e Pegaso è il simbolo che la Ucciardi ben concepisce, per un volo che s’innalza oltre.
Così la musica diviene un tramite necessario di trascendenza, per la poetessa, così come il canto il lume del buon sapere.
A questo lume la poesia della Ucciardi si vota e si possono cogliere, così nella consapevolezza, le possibilità che la risorgenza dell’arte può proporre agli spiriti bennati.

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