lunedì 4 gennaio 2016

Giorgio Bàrberi Squarotti, "Le Avventure dell'anima" (Ed. Thule)

di Guglielmo Peralta

     
Le poesie che compongono questa silloge sono state scritte tra il 1998 e il 2013: in un arco di tempo di 15 anni, ma a distanza di 38 e di 53 anni dalla pubblicazione, nel 1960, del saggio "Astrazione e realtà". Ebbene, ritroviamo in questa raccolta quei poli opposti che costituiscono ancora oggi la visione del mondo di Giorgio Bàrberi Squarotti. Tuttavia, si tratta di un'opposizione solo apparente perché i poli suggeriscono la rotondità di una visione che non è solo concezione, interpretazione, astrazione, immagine del mondo ma anche un guardare, un "vedere accanto a sé e fuori di sé quello che è la verità sull'esistenza".[1] In sostanza, il pensiero non si priva della compagnia degli occhi, della loro oggettività, e la vista, a sua volta, si lascia "impressionare" dal pensiero assumendone l'impronta, il taglio, il tratto immaginifico, per cui la realtà appare trasfigurata. Ma ciò che unisce pensiero e sguardo è la letteratura, senza la quale "l'uomo sarebbe meno capace di 'vedere' e di capire sé stesso e il mondo".[2] E il mondo come astrazione e realtà è letteratura, e questa è vita che vuole comprendersi e comprendere; sempre pronta alla lotta, all'avventura, senza mai concedersi interamente al realismo o all'idealismo, all'attrazione o all'astrazione. Perché 'vivere' non è mangiare con gli occhi la realtà, la cui conoscenza non può prescindere dal sogno o immaginazione, e il sogno è questione d'anima, la quale pure deve "avventurarsi" arricchirsi dei nuovi accadimenti, di ciò che è a venire, senza chiudersi in sé o trincerarsi nel passato, ma stando invece al passo col presente e aperta al futuro. "Le avventure dell'anima" sono i percorsi  della vita reale, le sue peregrinazioni e i suoi incontri, il suo stare accanto alle cose, agli oggetti, agli eventi senza doverli assorbire, fagocitare e dissolvere dentro di sé, nella coscienza, anche perché, come ha argomentato Husserl nella sua opera "Idee per una fenomenologia pura", gli oggetti sono di diversa natura rispetto alla coscienza, alla quale, tuttavia, va riconosciuto il diritto di esistere come coscienza d'altro da sé, diritto che essa può esercitare con un atto d'«intenzionalità» che le consenta di prendere posto nel reale senza estromettere da questo la componente del sogno ma, anzi, convivendo con entrambe le realtà per una più completa e vera conoscenza.
      Leggere la realtà non è osservarla come in un fermo immagine, ma renderla dinamica attraverso le proprie esperienze vissute, investendola, arricchendola del tempo trascorso: dei ricordi, delle emozioni, dei sentimenti e delle "astrazioni" che essa stessa offre nel corso della vita. Significa ri-visitarla con la leggerezza che solo l'anima può darle adagiandovi o facendovi scorrere una serie d'immagini, di sogni anche grotteschi, straniati, fantastici, seducenti; mai però del tutto erotici, nonostante: "le due ragazze fradice di pioggia" che "si baciano e si spogliano"[3]; "la ragazza/ appoggiata alla statua dell'Inverno/ (...) bene aperta/ la camicia celeste"[4]; "e venne alacre un vento che la scosse/ tutta, i veli abbrunati le strappò/ di dosso, ed anche la fascia crudele/che le stringeva le mammelle"[5]; "Negli artigli/ delicati teneva la ragazza/ tutta nuda"[6]. In molti altri testi, specie in quelli datati 2013, ricorre l'immagine di fanciulle nude o discinte. Si tratta di "visioni" inserite in un universo poetico e perciò sublimate, trasfigurate, o ridimensionate, attenuate negli aspetti più voluttuosi da un gustoso umorismo e da un tocco leggero d'ironia. L'espressione "la ragazza nuda" è un motivo ricorrente nell'intera raccolta e può considerarsi un segno, un distintivo che può ricondurre al suo Autore (come avviene in presenza di un hápax legómenon che, al contrario, è forma linguistica che compare una sola volta nell'ambito di un testo e ne consente l'attribuzione della paternità). In Squarotti, quell'espressione, anche se non rara, è figura specifica, caratteristica del suo "vocabolario" onirico.
      La realtà, qui, sebbene colta nella sua quotidianità, cessa di essere i luoghi, le cose, i personaggi calati nel presente e nella loro corporeità perché su di essa si distende il velo dei ricordi e le immagini vi scorrono come in un film. E la realtà si fa pellicola attraverso il racconto poetico e tutto si trasfigura e rivive, malinconicamente, nei percorsi dell'anima. La "narrazione" è trasversale a tutta la silloge e procede per epifanie, le quali appartengono alla memoria, sono sue proiezioni, sue rappresentazioni non suscitate dalla memoria involontaria, dagli incontri occasionali con cui la realtà, a volte, ci sorprende, dal venirci incontro delle cose che, d'un tratto, a noi si manifestano rivelandoci nuovi aspetti della loro natura. E queste epifanie, a loro volta, epifanizzano la realtà presente, vi si mescolano e la alterano. Così, in un gioco di rispecchiamenti e sovrapposizioni, autori e personaggi della letteratura, amati da Squarotti, compaiono accanto a personaggi reali. In un testo, qui esemplare, Angelica rivive in Angelina, e Ariosto (non espressamente nominato nella poesia) dialoga col nostro Autore[7]. In un altro testo, personaggi della storia, della mitologia, della Bibbia e del tempo attuale sono compresenti, fanno parte di un medesimo copione su una nuova scena del mondo: "cambiano solo i nomi, non il tempo/ né il teatro e le parti dell'attore/ protagonista"[8]. Passato e presente, sembra dirci Squarotti, "convivono", coesistono in un tempo che è della memoria e della conoscenza ma, ancor prima, della storia universale o dell'anima del mondo, in cui Tutto si ripresenta e si rappresenta. Ed è l'eterno gioco delle parti nella commedia umana o della vita. In "Chi crede", ritorna Gesù, "nel bar di Monforte", nel personaggio "invecchiato, stanco", che, con malcelato fervore, annuncia l'arrivo dell' "amico pescatore in Tànaro", con chiaro riferimento a Pietro. E rivive la misericordiosa Veronica nella figura di Diana, che col suo gesto pietoso asciuga il volto madido di sudore e di lacrime del personaggio, alter ego di Cristo. Mettendo a confronto il passato col presente ci si accorge che i vari aspetti della vita, i suoi accadimenti si ripresentano in un fluire monotono e quasi ossessivo. E questo continuo ritorno, che induce a interrogarci sul senso del tempo, è un movimento necessario perché "continui il mondo". E ciò lascia "stupefatto il Creatore" che, perplesso e disorientato, non può che prendere atto della routine in cui il mondo si eterna: un'eternità, questa, che genera in Lui quel sentimento di stupore che è, al tempo stesso, timore e felicità[9]. Una necessità, a volte, è ritornare con la memoria al passato, alla spensierata fanciullezza per ritrovare il "gioco che solleva il peso/della vita": quella leggerezza che dà il senso e "la speranza/ dell'eterno fluire"; ma il dolce fiume dei ricordi, che scorre placidamente e in cui affluiscono suoni, rumori, musiche, colori e immagini, ritira le sue acque, e le apparizioni che, d'un tratto, si dissolvono "non sono altro/ che ombre della favola scritta dove/ non c'è più da troppo tempo nessuno". E con questo amaro e malinconico risveglio finisce l'incanto dei sensi e il ritorno alla realtà è un sollievo, "il bacio/ vero della rinata vita"[10].
    La memoria immaginaria lega insieme i testi di questa silloge, i quali seguono la caratteristica della poesia/racconto, tipica della poetica pavesiana. Squarotti, come Pavese, concepisce le immagini concretamente, congiunte con l'oggetto, perché solo così esse possono dare rilievo, spessore semantico e identità a fatti e personaggi e non apparire semplicemente come elementi di superficialità e di abbellimento del racconto o della rappresentazione. Ma qui, le immagini sono soprattutto i ricordi, senza i quali la raccolta sarebbe popolata solo da una folla anonima di personaggi e da un insieme di eventi, di cose, di stati d'animo privi di tensione, di pàthos e di quello stile che si raggiunge solo con la conquista dell'immagine poetica da parte della parola quando questa, piuttosto che descrivere un'oggettività mutevole o effimera, si elèva a rappresentare le verità dell'anima, alle quali Squarotti dà qui il nome di "avventure", ma che tanto somigliano alle rêveries, le quali non sono una fuga dalla realtà, ma servono al nostro Poeta per raccontarla, per meglio rappresentarla, per approfondire la conoscenza del proprio essere. A differenza di Proust, che riduce alla soggettività la realtà oggettiva, Squarotti non si lascia catturare dalla soggettività, e, pur non disdegnando l' "astrazione", non cessa di rivolgere lo sguardo alla realtà. Non sempre, però, si riesce a scrivere quello che si vede e si sente. La realtà, spesso, sfugge alle nostre percezioni e allora bisogna ricorrere all'immaginazione per invĕnīre, per trovare ciò che si cela oltre l'apparenza. Ma bisogna inventare "la Parola infinita" per conquistare l'altra immagine e farne il luogo prediletto della scrittura, "dove/ non esiste nessun dove, contro ogni/ ragione e senso"[11] e dove solo è possibile intra-vedere "la luce sfolgorante" della verità che resta, tuttavia, incomprensibile.  
      Come in Pavese, ritroviamo in questa poesia narrativa, accanto a uno stretto autobiografismo espresso dai verbi in prima persona, un più ampio raccontarsi attraverso storie narrate anche in seconda e terza persona e nelle quali si configura la più vasta "biografia" di un'anima. E non mancano testi nei quali sono intercalati versi dialogati, come in "Lavorare stanca". Qui, nelle sezioni: "La terra e la morte" e "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", c'è un uso insistito della seconda persona: un «tu» che caratterizza e accompagna i due gruppi di poesie che di queste sezioni fanno parte. Anche Squarotti si rivolge a un «tu», il quale, però, ha una connotazione personale che è assente nell'invocazione pavesiana, pure essendo, questa, riferibile alle due donne amate: Bianca Garufi e Constance Dowling raffigurate, l'una, nella prima sezione, con una simbologia di elementi che costituiscono la grande isotopia semantica[12] della terra e della morte, in cui ricorrono i semi: "terra, mare, sassi, campagna, frutto, cielo, luna, collina, canneti, vigna, piante, acqua, cantina, camera buia, roccia, erba, frutto di scoglio, morte, buio, silenzio, dolore, pietra, terra dura"; l'altra, nella seconda sezione, con una isotopia della vita e della morte, i cui semi, molti dei quali ricorrenti lungo la catena sintagmatica dei testi, sono: "alba, luce, occhi, fiato, vento, vita, risveglio, brezza, tepore, respiro, mattino, sangue, carne, capelli, sguardi, terra, piante, riso, acque, zolla, sole, virgulto, cielo, nube, silenzio, morte, sera, insonne, sorda, rimorso, vizio assurdo, vana parola, grido taciuto, nulla, viso morto, labbro chiuso, gorgo". Nella silloge di Bàrberi Squarotti, dietro quel «tu», spesso sottinteso, non sempre c'è un interlocutore, ma vi è una forma impersonale espressa con questo pronome. Un esempio lo troviamo in "Il mulino del Tanaro"[13]. Altre volte il «tu» è una forma di "rispecchiamento", una proiezione dell' io lirico del nostro Poeta o un alter ego con cui egli cerca di superare la sfera della soggettività. E in questa alterità la poetica dell'immaginazione o dell' "astrazione" trova il suo legame e la sua più concreta corrispondenza con la realtà.

[1] G. B. Squarotti, dall'intervista rilasciata a Paolo Di Paolo, in occasione della presentazione del suo saggio, Addio alla poesia del cuore, e pubblicata sul web a cura della Redazione Virtuale di Italia Libri Milano, 11 gennaio 2003
[2] Ibidem
[3] La fuga in Egitto, pag.11
[4] Davanti alla statua dell'Inverno, pag. 13
[5] La sopravvissuta, pag.17
[6] L'aquila, pag.21
[7] Angelina o Angelica, pag. 28        
[8] I nomi, pagg. 26, 27
[9] L'eternità del mondo, pag. 40, 41
[10] Come era il canale, pagg. 47, 48
[11] Da Gemma, pag. 61
[12] Il concetto di isotopia è di A. J. Greimas e s'intende la ricorrenza in un testo dato di semi, o categorie semiche, che gli assicurano omogeneità.
[13] Il mulino del Tanaro, pagg.67, 68

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