venerdì 15 gennaio 2016

Giorgio Barberi Squarotti, "Le avventure dell'anima 1998-2013" (Ed. Thule)

di Rossella Cerniglia

L'ultimo libro di Giorgio Barberi Squarotti ha avuto una straordinaria esegesi nella prefazione accorta, puntuale, penetrante di Vanessa Ambrosecchio che ha saputo così bene coglierne l'essenza  al punto da far apparire scontato e superfluo ogni altro intervento interpretativo. 
Mi limiterò, pertanto, da semplice lettrice e ammiratrice dei suoi versi, a registrare qualche impressione, testimoniando così l'empito, sorto spontaneo in me, di fronte alla bellezza e all'alta cifra della sua poesia. 
   In essa, il mondo che ci è dato non è che un'avventura che si perpetua nella nostra anima, continuando l'opera divina della Creazione. Vita che da sé ricrea nuova vita, connotando tutte le peripezie e i trastulli dell'anima: scompiglio e gioco in cui le tessere mulinano nel vento per essere ricomposte in nuovo ordine, mutando la topografia dello spazio reale in spazio dell'anima, in geografie nuove in cui si collocano esseri e situazioni che attingono alla realtà e la superano con quell'ironia lieve che sottende la finzione, in un gioco che si apparenta al gioco dell'Eterno Creatore. In questa nuova vita, situazioni e paesaggi acquistano quella levità astratta che li eleva al rango di emblema e paradigma, e anche i personaggi e la fisionomia delle storie diventano, nell'ironia che le accompagna, in qualche modo allegorici, come se avessero a riferimento una significazione altra, rintracciabile tra le pieghe di uno scenario che allusivamente mostra e cela, e volutamente dice nascondendo: gioco che mirabilmente riproduce la presenzialità del reale e ne condensa la stessa gnoseologia. 
L'impressione è quella di addentrarci in un quadro o di procedere dentro a un palcoscenico che d'emblée si apra in una faglia della realtà, in un varco o nicchia riposta, permettendo al lettore di intrufolarsi nella realtà riplasmata per assistere, in presa diretta, alla finzione. Nel quadro -o palcoscenico- nel quale si è trasportati si disegnano i personaggi di un mondo immateriale, ma dal carattere spiccatamente iconico, che li fa rappresentativi di una realtà sempre ambigua ed inquietante.  Così, la ragazza nuda che ritorna in molti versi, rappresenta, nella sua icasticità ed emblematicità,   “la pienezza qui, in terra,/ della bellezza che è, in cielo, la Rosa/ che non muta.” e, in altro luogo di questo straordinario poema è detta “la più pura e intatta/magnificenza delle donne antiche/e future,” ed è visione paradisiaca, un annuncio che quasi schiude la visione dell'Oltre, e un innamoramento della vita, il filo che conduce e lega le molteplici trame dell'essere, visione-presenza che dà ristoro ad anima e senso: “Sulla spalla sentì, lieve, una mano:/ il soffio di una voce, una ragazza,/liscia la pelle nuda a ristorare/ il suo corpo brullo (...)“  Così è per la figura del vecchio, fragile e assorto, ai margini della stessa vita, agli antipodi dell'emblema di letizia e splendore che è la ragazza. L'uno contemplazione e ormai distacco dalla realtà, l'altra la vita stessa: gioiosità e pienezza dell'essere nel suo farsi. Così, è per altre figure, come quella del giovane che, talvolta, zoppica o mostra una ferita.
Messaggio tutto che, nella sua cifra più intima e alta, pare alludere e rimandare a un piano superiore di realtà come è, per esempio, negli ultimi versi di “Dicevano che era una strega”, dove “le stoviglie preziose, / le posate d'argento, il pane e il vino,”  disposte sulla tavola, fanno pensare ad una rievocazione del rito cristiano dell'eucaristia, e sul tovagliolo sta “il nome dell'ospite/ che (dicono) è sopra ogni altro nome.” Verso, ed enunciazione perifrastica, presenti anche  in “San Martino, estate”. Vi sono, poi, altri rimandi che testimoniano come l'assunto e la tessitura del libro trovino nei versi stessi una definizione e una misura programmatica: ad esempio, in “Autoritratto”: “non importa se sono solo immagini,/ se così io moltiplico il mio tempo/ e anche la vostra vita. (...)”; e nello stesso testo, alla fine: “troppa è la vita, e più ancora è l'arte/ che è di Dio nepote.”

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