venerdì 3 aprile 2015

Carmelo Fucarino. Se nulla cambiò. I Garibaldini a Prizzi. Franco Cesati editore. Firenze 2015

di Elio Giunta
 
LA SPEDIZIONE DEI MILLE. IL FALSO E IL VERO DALL’INTERNO DELL’ISOLA 
 
Periodicamente si rinnova la memoria della risorgimentale unità d’Italia col Presidente della Repubblica di turno che va a porre fiori sull’altare della patria, e periodicamente escono nuovi studi su quella vicenda e quindi sulla celebre spedizione garibaldina che di essa fu fattore essenziale. L’ultimo è il libro di Carmelo Fucarino col titolo Se nulla cambiò e che si prefigge, anche e soprattutto, di porre in rilievo quanto accaduto per la circostanza a Prizzi, un paese all’interno della Sicilia, che alla spedizione fornì figure interessanti nonché motivi di particolare significato per interpretarne gli episodi, oltre e meglio delle note relazioni dei patrioti infatuati. Ma, puntando sulla memorie riguardanti Prizzi, l’opera finisce per avere il non usuale pregio di farci seguire le operazioni dei garibaldini nel loro immettersi all’interno delle terre isolane, fornendoci cioè la storia della penetrazione graduale e completa in esse, per tramite la distribuzione in tre tronchi dell’esercito garibaldino, coi tre principali protagonisti al comando, oltre il Garibaldi di Calatafimi: Bixio, Turr e Medici. Sicché l’orizzonte dello studioso si amplia fino a divenire una più completa e plausibile storia di quella che fu una conquista, sotto l’insegna di un patriottismo ambiguo e di parata. E in tal senso va apprezzato il puntuale recupero delle notizie anche circa le altre figure non marginali nell’impresa, cioè gli illustri ufficiali di cui la manualistica usuale finora poco aveva fatto sapere: Cosenz, ad esempio, Eber, Adamoli, Aglietta, il Bassini, i quali hanno anche lasciato preziose memorie.
E’ chiaro che chi si dedica alla revisione dei fatti della storia del Risorgimento lo fa per l’una o l’altra motivazione: o per approfondire l’analisi di tali fatti, confrontandosi polemicamente con quanto di superficiale o di errato è stato finora detto e scritto, o per ampliare l’orizzonte dei ricordi dando luce, o più luce, a personaggi e luoghi che da quei fatti traggono ancora vivezza. Fucarino ha ottemperato all’uno e all’altro obiettivo ma, da umanista di lungo corso qual è, il suo lavoro si è giovato di accurata ricerca e di alquanto ampia documentazione, sia diaristica che di archivio, e tenendo presente la mole dei precedenti studi, fino ai recenti, polemici, di Aprile e di Tommaso Romano.
Ora dalle pagine di Fucarino, allorché si rifanno pure a quelle memoriali di Cesare Abba ma di più a quelle meno untuose di Giulio Adamoli, di Giacomo Oddo o dello stesso Garibaldi, sono  venuti fuori come dei monumenti, ben eretti e circoscritti sulla carta, di quei personaggi che hanno costituito il meglio dei fatti d’arme della spedizione in oggetto, i su citati e, nella seconda parte del libro, di quanti, nati appunto a Prizzi, confermano che in verità furono anche molti gl’indigeni volenterosi che accrebbero l’ossatura della truppa garibaldina calata dal nord. C’è poi, dato critico non indifferente, lo studio di quella che fu la posizione degli isolani difronte a quell’evento, forse già in qualche modo presagito da fermenti non maturi, vedi la rivolta della Gancia, ma non certo nell’entroterra agricolo, dove il vento rivoluzionario era giunto troppo vago o inteso semmai come rovescio dell’atavica condizione: ricchi o galantuomini sopra e contadini e braccianti, cioè i poveri, sotto, oppressi. Per cui verrà facile dedurre che, con quelle idee con cui, vagheggiatori di un patriottismo romantico e sostanzialmente libresco, inneggiavano a un nuovo re, solo diverso dal Borbone, i nordici non potevano capire i siciliani e da questi non potevano essere capiti se non come portatori di nuova tragica illusione.
 Dunque anche per Fucarino questa sarà l’interpretazione che resta da dare alla spedizione dei Mille e alla conseguente unità d’Italia. Ma i suoi apporti sul piano dell’analisi storica presentano un’inquadratura diversamente esaustiva e non trascurano illuminanti dettagli. Egli intanto ben documenta come non giova più parlare di “spedizione” dei mille, perché invece le spedizioni furono più d’una, del resto non sarebbe logico continuare a pensare che mille uomini abbiano abbattuto un regno su due piedi, come si andava sbandierando, anche sul vociare enfatico del noto romanziere Dumas: nel 1911 se ne fece addirittura un elenco, contandone ben diciotto, comprendendovi pure quella di una legione britannica. E le popolazioni siciliane per lo più applaudivano, interpretando con festa la novità ma forse non andando per il sottile sul senso. Infatti, se ai sopraggiunti liberatori i siciliani mostravano condizioni di vita assai miserevoli come di “sopravvissuti al medioevo per aspettare loro”, secondo quanto scrive Abba, fa riscontro lo stupore di un Adamoli che invece annota il trasecolare che si ebbe, e siamo nell’entroterra montuoso, “nel trovare in un paese alto, lusso di arredi e squisitezza di conforti nelle ricche abitazioni, in cui fummo colmati di cortesie. Il comandante fu ospitato in forma addirittura principesca. A tutti i soldati indistintamente s’imbandì un lauto banchetto”. Per cui, quali erano dunque le esatte condizioni economiche dell’isola in quel fatidico avvento della dittatura di Garibaldi? Fucarino sottende la risposta: chi stava in alto curava di riciclarsi per continuare a stare in alto, in barba a quelli che avevano capito male l’idea di libertà recata dai garibaldini. Perciò questo suo libro muove da un primo capitolo di dotta e sottilmente ironica elaborazione della celebre battuta del gattopardesco Tancredi: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”; e, tra i capitoli successivi, si snodano pagine essenziali in cui l’ironia cederà al sarcasmo drammatico, quelle cioè in cui torneranno in luce i fatti di Bronte e non solo. Perché quelli di Bronte sono abbastanza noti per meriti letterari e cinematografici, ma ce ne furono altri che il libro intende appunto appresentare, a conferma di ciò che comportò effettivamente la conquista garibaldina delle terre siciliane: la dimensione di finzione libertaria che venne ad assumere, specie nel mondo provinciale, contadino, dove il malcontento si disse che armava pochi facinorosi per condurre a crudeli repressioni come operazioni di ordine pubblico. Ed era invece quello linfa di quegli umori antirisorgimentali che resteranno sottilmente irreprimibili in una Sicilia che allora si volle libera in un certo modo e che continuerà a sentire di non poterlo forse essere mai.

2 commenti:

  1. EVVIVA GARIBALDI

    Evviva Garibaldi il grande seduttore
    del mezzogiorno un dì liberatore

    con suoi soldati male equipaggiati
    che Rubattino a Quarto ha foraggiati

    Non penso fosse sponsor naturale
    forse qualcuno s'é informato male.

    Infatti, anche Vittorio Emanuele
    già sapeva del furto delle vele,

    visto che Farini già era informato
    che Rubattino voleva esser pagato!

    Insomma il via da Quarto genovese
    era come il segreto del marchese

    che aveva scritto anche sulla scala
    che i Mille andavano a Marsala.

    In gran silenzio insomma son partiti
    mentre gli inglesi stampavano gli inviti:

    "A giorni spettacolo dei pupi
    prendere posto in spiaggia sui dirupi".

    "Per vedere arrivare gli invasori
    con Garibaldi e i suoi liberatori".

    Arrivati laggiù, è facile intuire,
    che i Borboni dovessero fuggire.

    Invero come accade molte volte
    è uno scherzo far riuscire le rivolte.

    Difatti se i comandanti son pagati
    e facile poi dire: "son scappati!".

    A parte qualche finta scaramuccia
    a Palermo si trovò soltanto "ciuccia" (*)

    per la felicità dei giovani invasori,
    accolti dalla mafia e dai signori

    al suono della banda e dei tromboni
    agitando le drappelle ed i blasoni.

    Così poi si concluse l'invasione
    finita in sesso e grande libagione.

    Ma appena Garibaldi salpò via
    riprese la manfrina e cosi sia.

    L'arruolamento divenne obbligatorio
    e il contadino messo in purgatorio

    con quasi trenta tasse da pagare,
    le industrie della seta da smontare

    e coi soldati fedeli a "Franceschielle"
    da farsi massacrare a Fenestrelle.

    Davvero un bell'inzio siciliano
    e a tanti scassò non solo l'ano.

    Della strage del Bronte sorvoliamo
    ma a investigare bene vi invitiamo

    come sarebbe da guardare a fondo
    la lotta dei braccianti al latifondo.

    La verità la sa il liberatore:
    ma fu un eroe oppure un predatore?

    Salvatore Armando Santoro
    (Boccheggiano 18.1.2011 - 21.25)


    (*) Ciuccia - chiedete agli Abruzzesi cosa sia. Benigni la chimerebbe la "susina", ma penso che l'abbiate capito tutti.

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  2. Ho sempre sostenuto che era impossibile per una masnada di avventurieri, male armati, poco preparati alla guerra, senza disciplina e privi di vero spirito nazionale sconfiggere un esercito, ben armato, abituato alla disciplina, organizzato e preparato alla guerra e con comandanti competenti e professionalmente preparati. E sappiamo tutti l'interesse che gli inglesi avevano sul controllo della Sicilia per poter meglio controllare le proprie colonie in Africa. E sappiamo anche che due grossi cantieri, i Florio a Marsala ed i Grimaldi a Napoli, costruivano navi da guerra, da trasporto e da crociera per mezzo mondo e che metterci le mani sopra o ridimensionarne il potere poteva essere un affare anche per la cantieristica inglese. Il resto lo lascio perdere perché il discorso è molto lungo. Ma che i Savoia fossero dei poveracci è ben risaputo. E Farini, amministratore dei Savoia, lo sapeva. Mettere le mani sulla Cassa dei Borboni rappresentava una risorsa che non poteva essere lasciata perdere ed andava depredata. E Garibaldi arrivato a Napoli dove si recò prima che Cavour lo facesse di nuovo azzoppare? A fare una visita al Banco di Napoli, l'unica Banca che al tempo svolgeva davvero il compito che ogni banca dovrebbe svolgere ovvero quello di finanziamento delle piccole e medie imprese. Si, il Banco di Napoli era un'altra ghiottoneria sulle quali metterci le mani. Vista da questa angolazione la preoccupazione di Cavour di bloccare Garibaldi era quanto mai urgente. Ma trovò sul suo cammino un Certo Liborio Romano, ex ministro degli interni dei Borboni, che convinto che Garibaldi avrebbe avuto la meglio nello scontro con Cavour non indugiò ad allearsi con la Camorra per dimostrare a Garibaldi che lui aveva il controllo della città ed era il garante non solo dell'ordine pubblico ma anche del nuovo potere che si stava costruendo. Nel contempo, però, giocava di rimessa anche con Cavour che, più furbo di Liborio, alla fine saldò il conto non solo a Garibaldi ma anche a lui emarginandolo nella gestione del potere. Non aggiungo altro per evitare illazioni, ma anche i ciechi si sarebbero accorti che la storia in fondo era quella che sinteticamente ho raccontato.

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