Pubblichiamo la prefazione in anteprima del prof. Giulio Vignoli al volume di prossima pubblicazione di Corrado Camizzi dal titolo "...libera e una!"
di Giulio Vignoli
Un'idea non aveva mai abbandonato la mente di Corrado Camizzi, in tutti gli anni di insegnamento: rifare, ampliandolo, il suo Risorgimento e Tradizione, del 1977, un condensato di concetti, di una trentina di pagine appena. Quel tema, dei rapporti tra il Risorgimento italiano e la Tradizione nazionale, meritava d'esser ripreso con ben maggiore distensione. E poiché ogni riflessione sul passato dev'essere utile a capire le radici del presente, questa appariva di stringente attualità, per non lasciare nulla di intentato mentre l'Italia era in balia di forze dissacranti e disgreganti. Così la sua missione di Insegnante, che Camizzi ha sempre avvertito ed interpretato con impegno sostenuto da autentica passione, non è cessata con la pensione, ma ha trovato finalmente lo spazio per la realizzazione del progetto a lungo coltivato.
Con intento didascalico, quindi, ma senza mai rinunciare alla scientificità, nasce questo lavoro, che si sottrae, nell'originalità del suo punto di vista, all'inserimento in una categoria netta e ristretta. Ciò che si avverte, scorrendo le sue righe, è un'appassionata esigenza di trasmettere il senso profondo dell'evento che fece l'Italia, innanzitutto e finalmente, LIBERA e, poi anche, UNA. Si avverte l'intento del buon docente di rispondere alle più recondite domande inevase, ma anche di dire quello che, pur nella fioritura di tanti scritti pubblicati in occasione del recente 150° dell'Unità, non è stato detto, o se lo è stato, non è stato adeguatamente approfondito e recepito. E queste pagine giungono davvero, a vario titolo, riparatrici delle insufficienze, incongruenze e leggerezze di tanti testi sull'argomento.
Se era difficile, ieri, tenere la storia risorgimentale separata dall'apologetica, oggi è ancor più arduo tenerla separata dalla denigrazione: non c'è testo recente sull'argomento che non riporti solenni dichiarazioni d'intenti antiretorici, anticelebrativi e smitizzanti e finisca per cadere nell'agiografia a rovescio. È tutto un ricercare gli errori, i guasti, le ingiustizie compiute e passate sotto silenzio. Ma se è vero che il movimento nazionale non avvenne senza sbagli (però raggiunse i grandi obiettivi!) e si attuò in modo fortunoso (ma di “fortuna” basata sul valore!), è ancor più vero che la parola PATRIA non dovrebbe considerarsi un tabù (com'è ora) e non si deve pretendere che smettano di essere eroi coloro che eroi furono, specialmente quelli che non poterono raccontare il loro eroismo. Il libro di Camizzi è quindi più che opportuno, è un sasso nello stagno putrido di questa Italia sordida e vile, che pare non avere più una meta, una motivazione per esistere.
. Senza nulla togliere alla funzione anche positiva della corrente revisionistica, la preoccupazione sta, ancora una volta, nell'educazione storica di un popolo, quello italiano, che non ha davvero bisogno di dimenticare i suoi valori e di perdere la propria vocazione originaria. Ed ecco, la posizione di Camizzi è qui di grande equilibrio: non nasconde gli errori ed esamina i problemi, ma non dimentica chi ha dato la vita per un'Italia grande, libera e una. I nomi amati emergono nel fluire del discorso, chi in una pagina, chi nell'altra, e vi brillano come stelle di un firmamento. La dedica è per loro.
Si è già compreso che la visuale dell'Autore non si situa sul piano materiale delle vicende politiche e belliche, da cui non può riuscire a cogliere il senso profondo dei cambiamenti storici, dalle loro radici allo sviluppo e agli effetti finali. Non è la cronaca, pur importante, degli accadimenti nella loro maggiore o minore eroicità, tragicità o giustizia, a interessarlo direttamente, ma la vicenda risorgimentale, nella sua globalità e in tutta la sua epocale portata nelle vicissitudini secolari della terra italica: egli ne intende svelare il cuore antico e pulsante assieme ai vari aspetti dell'anima. Ne vuole afferrare la convergenza, che in quel momento si verificò, tra le contingenze e la dimensione superiore della Storia, quella insondabile alla visione umana perfino dei protagonisti, affinché si riconosca la necessità dell'evento.
Per fare ciò, giustamente, Camizzi inizia rintracciando, attraverso i secoli, l'innegabile presenza dell'idea di una “Nazione italiana”, intesa in senso etnico-culturale, nella coscienza dei più colti, a partire già dai primi secoli dopo il Mille. I grandi nomi di Dante, Petrarca e Boccaccio ne rappresentano i primi, pienamente consapevoli, antesignani, sul piano letterario e culturale. Sul piano della proposta politica, peraltro, qualche vaga idea di realizzazione emerge di tanto in tanto, con Machiavelli o Girolamo Muzio nel Cinquecento; con Traiano Boccalini, in funzione antispagnola, nel Seicento, con Carlo Emanuele I; con l'Abate Vincenzo Gravina, fondatore dell'Arcadia, alle soglie del Settecento. Tasselli grandi e piccoli che entrano, attraverso i secoli, a far parte del grande mosaico che vedrà la luce nella seconda metà dell'Ottocento.
Dai primi del Settecento a tutta la prima metà del Novecento, si assiste allo sviluppo dell'interpretazione tutta italiana del Principio di Nazionalità. La sua peculiarità fu quella d'esser fondato su di una concezione non naturalistico-biologica (sulla “razza”, per intenderci), né ideologica (sul “contratto sociale”), ma essenzialmente spirituale e storico- giuridica: era l'interpretazione contenuta in nuce nelle consuetudini, nei modelli, nelle norme di vita costituiti e consolidati nei secoli, prima dalla civiltà romana e dal suo Diritto, poi dal Cattolicesimo, trasmessi nel tempo e sempre vitali, anche sotto le ceneri. In una parola, nella Tradizione della terra italiana.
Quei duecentocinquant'anni videro l'uscita dalla decadenza e il risveglio in tutti i settori della vita civile: fu, appunto, l'Età del Risorgimento, “fase di rifioritura spirituale, religiosa, morale, culturale, letteraria, filosofica, scientifica, artistica, economica e, anche se con incertezze e passi falsi, civile e militare”. A questo concetto viene dedicato un capitolo, a mostrare che l'evento politico-militare maturò in tempi lunghi e attraverso travagliate strade di pensiero e d'azione, non raramente destinate, almeno in apparenza, all'insuccesso. Fu tutt'altro che l'alzata d'ingegno della classe dirigente piemontese che avrebbe pensato bene di conquistarsi la penisola. Uno degli esempi più interessanti, che vengono addotti, è l'opera del Conte Galeani Napione, che, in tempi non sospetti, ossia prima della Rivoluzione francese, formulò in tutta la sua compiutezza un progetto di Confederazione delle potenze d'Italia, che i sovrani cui era destinato, purtroppo, non considerarono.
Tenendo sempre presente, come tiene presente l'Autore, che la storia del movimento nazionale fu complessa e tormentata, tutt'altro che lineare, segnata dalla coesistenza di forze discordanti, viene rimarcato e analizzato il profondo contrasto tra aspirazioni rivoluzionarie e fedeltà alla Tradizione, cattolica e romanistica, tra Giacobini e Sanfedisti. Una costante attenzione ai piccoli e agli sconfitti che pure hanno fatto la storia - ch'è un altro dei tanti meriti di questo lavoro - permette a Camizzi, senza negare i loro evidenti limiti, di riconoscere l'importanza dell'apporto delle insorgenze sanfediste, punite invece con la damnatio memoriae dalla storiografia della cultura egemone, ma non da tutta.
Tra concorrenza di energie e conflitti, non solo ideali, fu comunque in quel lungo periodo di tempo che l'antica nazione culturale maturò lentamente la propria trasformazione in nazione politica, per giungere a strutturarsi in Stato indipendente, unitario e costituzionale, con una metamorfosi costruttiva, profondamente radicata nel vissuto storico e civile.
Ed è, per l'Autore, convinzione profonda quella di optare per la posizione dell'Omodeo nella vecchia polemica col Gramsci, per il quale, com'è noto, si potrebbe riconoscere solo un'Età della Rivoluzione francese, di cui il Risorgimento fu fenomeno marginale. Se tante ed innegabili furono le influenze dell'illuminismo e del 1789 sull'Italia
dell'Ottocento, la forte esigenza e l'aspirazione profonda alla libertà, all'indipendenza e ad un assetto unitario erano autoctone della nazione italiana; le correnti che avevano assunto il modello francese ne colsero semplicemente l'esempio e sfruttarono l'occasione per la realizzazione dell'unificazione della penisola, prevalendo sulle altre. Ma il Risorgimento sarebbe avvenuto, magari in tempi successivi, anche se la Rivoluzione francese non fosse stata.
La consapevolezza del problema nazionale si forma e sviluppa, a livello certamente elitario ma con obiettivi molto chiari: anzitutto l'indipendenza dallo Straniero, come bene di primaria importanza, quello della libertà. Per esprimere quanto e di che qualità fosse il peso della dominazione austriaca bastano all'Autore poche righe, citate dal diario di George Sand (una straniera!) dove si narra un episodio quanto mai significativo occorsole a Venezia. Sarebbe quasi esilarante, se non esprimesse l'amarezza di un intero popolo, calpesto e deriso. Non meno rilevanti, le altre mete di organizzazione unitaria e assetto costituzionale dell'auspicato nuovo sistema politico, venivano coltivate anch'esse nei voti delle coscienze più vive.
La dimensione geografica, poi, della nascente entità politica doveva coincidere con i confini “fisici” della regione italiana o con quelli – assai più vasti – della koinè mercantile e sociologico-culturale che le Repubbliche marinare avevano realizzata nei secoli in tutto il Mediterraneo? Ipotesi affascinante, quest'ultima, ma che le vicende e le scarse energie in gioco non permetteranno nemmeno di prendere in considerazione e costringeranno ad escludere per evidenti motivi, ancor prima di formularne il sogno. Con dolore, però, di tante comunità italiane che resteranno escluse. La più ragionevole restrizione ai “confini naturali”, dal Brennero all'arcipelago maltese, dal Varo al Quarnaro, si rivelò già un' aspirazione ambiziosa, come dimostrarono le difficoltà incontrate nella sua realizzazione, solo parzialmente compiuta. Anche questo fu pagato a caro, carissimo, prezzo, con le sofferenze delle terre che rimasero tagliate fuori, e con la partecipazione dell'Italia alla Grande Guerra, perché fu l'Irredentismo a costituirne la spinta determinante.
Tra le grandi questioni del Risorgimento ve n'è una che può sembrare meno significativa, in apparenza: la questione della capitale. Quasi tutti gli Uomini che fecero l'Italia avevano in gola il grido “Roma o morte!”: erano convinti che Roma fosse la sola possibile capitale. Ma era davvero opportuno cercare di ridurre Roma, la città portatrice dell'idea universale, prima dei Cesari e poi dei Papi, caput mundi, alla ben più modesta dimensione nazionale dello Stato italiano appena sorto? L'operazione avrebbe avuto successo? Non sarebbe stata più utile una scelta meno clamorosa, come Firenze, che era pur sempre la culla della nostra lingua, lasciando la città di Roma al Papa? Cosa, tra l'altro, che avrebbe risolto in anticipo sui tempi il problema che arrivò a soluzione solo nel 1929?
Problema dei problemi è la questione meridionale, la più strumentalizzata da Nord e da Sud, dove i fallimenti pesano ancor oggi: la giusta aspirazione ad unire anche le Due Sicilie allo Stato nascente, una volta attuata, non avrebbe coerentemente dovuto indurre i governi della Destra e della Sinistra ad una politica più mediterranea rispetto a quella eurocontinentale che fu invece perseguita?
Nel concorso di energie che realizzò il processo risorgimentale, il popolo, rassegnato, umiliato e abituato a passare da una dominazione all'altra, fu il grande assente. Rimase il problema grave della mancata fusione degli Italiani tra loro. Il fatto che l'Unità sia stata attuata da una minoranza ristretta di coscienze vigili, ma diffuse su tutto il territorio nazionale, non avrebbe forse richiesto maggiore attenzione alla saldatura dell'Italia popolare con quella elitaria? Ma la scuola era in condizioni disastrose: qui l'indagine, anche per interesse professionale dell'Autore, si fa ancor più attenta e scrupolosa, entrando nel merito di quanto si cercò di fare nel Ministero della Pubblica Istruzione. Si dovette comunque attendere la terribile prova del 1915-'18 perché tutti si sentissero affratellati in un destino comune. Ugualmente, si dovette aspettare l'operazione diplomatico-politica della Conciliazione, per eliminare una delle cause principali che avevano alienato il popolo dal movimento risorgimentale.
Come si accennava, superati i centocinquant'anni di vita dello Stato unitario, non si è ancora realizzata una storiografia veramente condivisa sul Risorgimento e anche le speranze riposte nelle recenti celebrazioni sono in buona parte andate deluse. Soprattutto sul piano della cultura popolare (non certo su quello scientifico...ma una distinzione netta non è possibile né bene farla) si è passati dalla più ingenua esaltazione alla denigrazione più disinibita, con eccessi e visioni di parte. Nell'ultimo capitolo, La Narrazione, il più originale e qualificante, l'Autore, districandosi nella giungla della ricchissima produzione, ci conduce in un percorso affascinante tra le diverse tendenze storiografiche esistenti in materia, passando attraverso le opinioni di tanti nomi, più o meno illustri ma comunque significativi, con una pluralità di scelte che non ne esclude pregiudizialmente alcuno, e, soprattutto, senza venature di polemica. L'esito è eccellente: una sintesi, difficile quanto illuminante, che riesce a dare un panorama chiaro anche per i … non troppo addetti ai lavori. Tra sostenitori e detrattori, questo libro arriva, infine, a tentare una sua propria proposta di possibile storiografia, capace di sfuggire contemporaneamente a Scilla e a Cariddi, ossia condivisibile, nella quale tutti gli Italiani possano riconoscersi: è quella di impronta neonazionale, formulata nelle ultime pagine, che … vanno solo lette!.
Il meno che si possa dire di questa fatica è che, indubbiamente, costituisce un contributo coinvolgente, serio e documentato, nient'affatto banale né fuorviato da luoghi comuni, e offerto con uno stile che non fa pesare la mole di riscontri bibliografici che presenta: un libro appassionante e chiarificatore, che trasmette in ogni riga innanzitutto Amor di Patria. Sentimento così fuori moda nell'Italia d'oggi, ma cosi necessario perché uno Stato, o meglio una Nazione, intesa come unione di intenti e di valori, viva. Forse non tutto è perduto se vi sono ancora studiosi come Corrado Camizzi, che pubblicano libri come questo. L'Italia Millenaria uscirà dal declino, dalla crisi nata con la guerra perduta, con l'andata al potere di forze antirisorgimentali o estranee all'epopea del Risorgimento, con la caduta della Monarchia, da esse provocata, e la creazione di una Repubblica pavida e apatride. Almeno questo è l'auspicio di chi qui si sottoscrive.
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