domenica 22 marzo 2015

Numero Zero (Umberto Eco) - Bompiani

di Carmelo Fucarino

Eco e l'Italia dei numeri zero

Lo zero la fa da protagonista in questi anni, nominalmente e metaforicamente. Si potrebbe dire minimalismo da solidificazione dell’acqua pura alla pressione di una atmosfera. Perché alla fine i decimali che si sentono snocciolare spasmodicamente e infinite volte durante la giornata sono quelli che hanno lo zero punto nelle statistiche di ogni tipo. Sì, punto, perché siamo divenuti di stretto linguaggio anglosassone e nelle sequenze decimali la virgola è diventata obsoleta, quasi segno di arretratezza culturale. Non stupisce che fanciulle colte e mature signore, ma anche tanto pseudo-culturame da quotidiano regionale si bei con il muso rotondo del “punto di domanda”, traduzione orecchiata e raffazzonata dell’americano question mark. Schifando con orrore il secolare nostro “punto interrogativo” (fr. point d’interrogation), registrato ancora nell’obsoleta Treccani di glorie fasciste. Certamente la moda infierisce con questi tempi magri negli indicatori economico-finanziari, l’onnipresente Borsa italiana, denominata di Milano, e l’immancabile Wall Street i cui indici oscillano su questi infinitesimi di zero. E per essere in linea con il progresso anche l’EXPO ha voluto marchiare di sublime un suo Padiglione Zero, proprio ad entrata, tanto per acclimatarsi, ospite l’Organizzazione delle Nazioni Unite che di questi tempi in quanto a zero la fa da padrona in un mondo di guerre globalizzate in cui non si sa più chi ammazza chi, tutti contro tutti per la goduria dei fabbricanti di armi. Nello stesso Zero si mostra la Best Practice Area, presenti ben 15 Best Sustainable Development Practices on Food Security, sigla all’americana BSDP, cosa da non crederci e da restare basiti. Perché in quanto a baraccone di corte dei miracoli e di record demenziali l’EXPO non ha nulla a che invidiare alle meraviglie in progress di Las Vegas. Sì, perché qui sono ben 145 nazioni coalizzate (94% popolazione mondiale) e in gara a chi la spara più grossa. Si è posto un limite all’altezza. Di questi tempi non sarebbe stato certo che la vincessero gli Americani. Ma in quanto a lusso, ad arruolamento di supergeni dell’architettura da shock anafilattico, la gara è stata forsennata con vittoria dei paesi emergenti, si fa per dire, se uno di essi è la Cina. Con questa esposizione lussuosa del food senza qualifiche si sarebbe potuto sfamare mezzo mondo di sciagurati. Ma così vanno le cose, perché i ricchi studiano le sfide del futuro, come affamare altri miliardi di uomini zero con l’alta complicità del FMI. Io ti presto il denaro e ti distruggo con gli interessi da usura che prelevo dalle materie prime che pago a cifre da liquidazione. È la pratica del terrorismo del crack e delle tasse sui cittadini affamati dell’Universo.
Anche nei logo di intrattenimenti di massa lo Zero è divenuto simbolo di catalogazione, addirittura di principio di un nuovissimo corso. Di ere preistoriche i tempi in cui Renato Fiacchini, volle divenire in arte il Renato Zero. Più di recente Santoro ha voluto ritornare con il suo talk show politico ad un AnnoZero. Così nel web l’evoluzione di qualcosa di digitale ha come codice 2.0.
Il bello di questo infuriare di Zero è che ha pure travalicato i sublimi confini della letteratura e c’è chi non si contenta di uno solo, ma spara a raffica come kalashnikov di moda Zero Zero Zero, «il grande ritorno di Roberto Saviano sette anni dopo Gomorra». Vuol convincerci con sicumera letteraria dal suo prezioso (milionario) sito che tutti siamo cocainomani “cocainati”. Ora passi per l’infermiera di suo nonno, per il suo portiere, per il suo sindaco e per la prof di suo figlio, ma non si permetta di concludere anche «Se non è tuo padre o tua madre, se non è tuo fratello, allora è tuo figlio. Se non è tuo figlio, è il tuo capoufficio». Pena l’accusa di falso e diffamazione. Peggio per lui che ha questa famiglia e questi circostanti.
Questo per giungere anche al nostro Eco internazionale che ha voluto riproporci l’elaborazione e lo scherzo crudele con la marca della strategia del fango e il giallo con omicidio di un Numero Zero.
Se ad un comune mortale è concesso parlare male di un dio delle classifiche e delle copie vendute… In questi giorni ferve la questione del valore letterario delle Cinquanta sfumature di grigio (Fifty Shades of Grey) di Erika Leonard, dettasi E.L. James (nome d’arte o nome de plume, di penna o di piuma? O nickname?), in concomitanza con l’uscita del film che di scandaloso ha solo la nullità. Perché in questi casi, nell’industria della cultura, come in quella della Nutella e dei vari aggeggi per donna, conta la quantità dei forzati degli acquisti.
Nel dubbio che Eco, senza ombra di metafora, volesse veramente far qualcosa da numero zero, senza decimali. A proposito: le operazioni con zero danno sempre zero. E i sottomultipli di zero? Certo, il superlativo UE, come i grandi idoli ha avuto sui media di questi giorni che si tuffano nella ghiotta occasione, segni straripanti, di grande amore, ma anche di grande astio. Non dico odio, perché questo può essere tributato solo all’odiatrice di professione Fallaci, pace all’anima sua.
Da parte mia vorrei esprimere qualche riflessioncella, sine ira et studio, per dirla con Tacito nell’incipit dei suoi Annales.
È passata una vita da quando nel lontanissimo 1980 entusiasmò la platea del nostro Ateneo a Lettere con la gustosa conversazione su Sesto Empirico o la preistoria della semeiotica. Mi stupì e affascinò il suo mescolare la difficoltà, talvolta l’astrusità da acido gastrico dei testi del filosofo scettico con lo humour, allora agli inizi e per me assai nuovo, del balbettante Woody Allen. Da poco era passato nelle sale cinematografiche il Manhattan del 1979 con le sue donne straordinarie, la Diane Keaton e la Meryl Streep. Fu quella la spinta per avvicinarmi alla sua ricerca e a questa disciplina con la nuova edizione modificata del suo libricino fresco di stampa, piccolo, ma denso di scienza, dal titolo categorico e fulminante, Segno.
La rivelazione mondiale delle sue qualità di romanziere con Il nome della rosa fu rassodata dal film che passò in tutti i cinema e viene ogni tanto riproposto spesso nei canali televisivi. La mia anteprima fu per caso l’edizione francese. Perciò quella parlata di Salvatore nel latino tedesco mi strabiliò e mi rimandò alla mia tesi di laurea e alla pronunzia latina e greca proposta da Erasmo e Reuchlin. Allora non lessi della polemica sul titolo e dello strafalcione definito refuso. Ma comunque mi apparve un Medioevo da film di costume, oleografico e nero. Non sapevo del suo Medioevo assemblato su quel fantasioso autunno categorizzato da Huizinga, né dello scambio tra Roma e Rosa dell’ora celebre De contemptu mundi di Bernardo di Cluny.
Sulle ali di questa immensa fortuna, scomparve l’Eco studioso esclusivo, d’altronde noto soltanto ai pochi per il suo esaustivo Trattato di semiotica generale del 1975, ai più per la provocazione dell’articolo del 1961 Fenomenologia di Mike Bongiorno (ora in Diario minimo). Eppure la sua saggistica potrebbe riempire una ben capiente libreria, con i suoi 86 titoli. Ignota forse anche ai bambini e alle loro mamme l’ampia letteratura per l’infanzia, fino a I promessi sposi per bambini. Fu il Medioevo, fino al picaro Baudolino dei tempi del Barbarossa. Meno coinvolsero gli altri esperimenti di giallistica, con il trapasso ai giorni d’oggi, tra esoterismo e magia con Il pendolo di Foucault del 1988 e con l’altra incursione di Il cimitero di Praga del 2010 nel mistero attraverso l’invenzione dei Protocolli di Sion.
Dunque il complottismo seriale che oggi giunge a quest’ultima balla ciclopica sulla sopravvivenza di Mussolini, vivo nell’America latina dei profughi nazisti. Vivo come il leggendario Federico II della fantasia dei ghibellini fanatici degli Hohenstaufen.
Perché di questo alla fine si tratta nella sua ultima fatica, si fa per dire, poca cosa rispetto alle ricerche erudite dei precedenti titoli. Una bella serie, raccolta da riviste e programmi televisivi seriali, con la pratica del taglia e incolla, della quale si poteva incaricare la segretaria.
Tutto questo fottio di dati e scandali e bugie giornalistiche e mediatiche per spiegare la spietata spudoratezza della stampa. Un bel pamphlet con poca spesa e tanto gaudio per il popolo lettore che ha diritto a rimemorare i fasti e i nefasti di Italia.
Comunque e sempre era dominata la ricostruzione storica, un certo tempo antico che dava spazio alla elaborazione, soprattutto fra noi comuni lettori, ignoranti di Medioevo, di monaci e cavalieri.
L’operazione odierna presentava i suoi grossi rischi, i pericoli insormontabili dell’inganno del presente, almeno per una certa generazione che era nata ed era stata traumatizzata dai fatti di mezzo secolo e più. Non c’era alcuno spazio alla fantasia. Basta sciorinare tutti i fatti della stampa quotidiana dal ’45 ad oggi, con qualche appunto e una visione di qualche notiziario televisivo per riempire 200 pagine di banalità, di annunzi di stampa e tv. Con l’alibi che voleva essere una satira alla stampa e alla tv, ai media corruttori e spargitori di fango. Ed è stata un’operazione facilissima fare satira della cattiva stampa compilando un elenco melenso e noioso della cattiva stampa. Sempre secondo la legge della narrativa che non si può narrare una storia felice, ma bisogna condirla con tragedie, assassini e cataclismi, oggi con gli tsunami, allora memorabili la serie Airport, Terremoti e Cicloni.
Su un impianto assai banale, ma oggi di moda, la forma diaristica e in prima persona, quasi una autobiografia, si sviluppa questa sequela di notizie, luoghi comuni delle chiacchiere delle news e dei talk show. Si vorrebbe rendere avvincente la sequenza di noiose banalità insufflando il solito pepe della narrativa moderna, l’omicidio da scoprire, la suspense del giallo. Altro giallo e di altro spessore erano le misteriose morti dei lettori della falsa poetica aristotelica nel solitario castello-convento. Qua uno squinternato giornalista assieme alla serie di sfigati e morti di fame pretende di avvincere con il suo segreto e le sue reticenze. Fino alla balla finale che si vuol spacciare per la grande epocale trovata.
Troppo comune e banale è la cronaca di questi eventi mediatici, troppo abusata. E c’è tutto e di tutto, come si suol dire mediaticamente, dal “detto ciò” al “premesso che”, nulla escluso. Per dare un’idea della noia dei falsi e dei complotti: l’immancabile revisionismo dell’Olocausto e il dubbio dell’allunaggio e la fusione fredda, per risalire indietro alla fola sulla morte di Napoleone, e poi il caso Mattei e papa Luciani, ma anche il Woytila e i lupi grigi. Poi la paranoia classificatoria da format di Quattroruote, una sequela di schede tecniche da meccanico pazzo, indeciso di automobili (da p. 43 a p.47), così asfissiante da sentire la necessità di saltare avanti. L’analisi semantica degli annunzi matrimoniali e delle loro interpretazioni, e la sventagliata di curiosità, l’insulsaggine del goliardismo dei giochi di parole, stile Bartezzaghi, la palinodia della smentita e tanti luoghi comuni, la trita demoplutogiudeocrazia e il muro sotto Firenze, l’inquinamento e i testicoli dei bambini, la serie degli ordini di Malta, oh, la bellezza nostalgica dei Navigli, “non siamo a Napoli”, e la cerbiata e i caprioletti del Cantico (cita il troppo umano Grossman?) e i casini e i froci, le tavole rotonde e i telefonini, l’ira giornalistica spalmata e attribuita pure al papa e il far tendenza, la lega degli onesti disonesti e l’autoprotezionismo mediatico. E la schedatura di tutti i casi di cronaca bianca e nera: il Trivulzio, Falcone e l’indignazione, i Salesiani e il Papa, Gladio, piazza Fontana e Gelli e De Lorenzo e i forestali. Non poteva mancare l’orrido da noir con il nomen della Chiesa di San Bernardino alle Ossa, solo ossa di lebbrosi e il ben chiuso putridarium, un luogo di relax per un palermitano che conduce gli amici in transito turistico ad una visitina degli impalati dei Cappuccini. Certamente oscena e stomachevole l’autopsia macabra del Duce, per chiudere con una diatriba su Liszt e Satie e Chopin.
Ma è pur sempre questa una sintesi lacunosa. La realtà quotidiana forse riuscirebbe più avvincente dell’insipido elenco di brutture mediatiche che Eco ha voluto propinarci con la scusa di un mancato ed interrotto dossieraggio. Perché alla fine ci bastano tante quotidiane brutture, senza che Eco perda tempo a volercene fare l’elenco. Come poteva immaginare le decapitazioni con scimitarra di uomini inginocchiati in tute rosse, il falò purificatorio di montagne di vivi. Sì, le guerre medioevali tra uomini in divisa, di fronte in mezzo ad un biondo campo di grano, vuoi mettere con un salutare bombardamento a tappeto su una città milionaria. Almeno abbiamo abolito i lanciafiamme, più pulite le morti con invisibili gas senza odore. È altra soddisfazione trucidare dall’alto migliaia di persone all’ingrosso, meglio se con gli asettici droni. La cavalleria era morta con la sgangherata risata irridente di Cervantes sullo stralunato don Chisciotte e il suo maldestro Sancio Panza, errante benefattore per la dolce Dulcinea.

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