venerdì 1 maggio 2015

Le lettere e la letteratura

di Carmelo Fucarino
 
La presentazione dell’epistolario di Federico De Roberto (Si dubita sempre delle cose più belle. Parole d’amore e di letteratura, a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, Saggi Bompiani, Milano 2014, pp. 2132), promossa a Palazzo Branciforte dalla Fondazione Thule Cultura e dall’Associazione Letteratura e dintorni e svoltasi il 27 aprile 2015, è stata certamente un evento di rilievo nel panorama culturale palermitano e perciò seguito da una scelta e colta presenza. Dopo la celebre stroncatura di Croce (uno dei suoi tanti madornali abbagli estetici di giurisperito con supponenze di critico letterario - Poesia e non poesia del 1923 -, come l’altro del 1903 su Pascoli, “un piccolo grande poeta”) la resurrezione, decretata e legittimata da Sciascia di I Viceré, come «il più grande romanzo che conti la letteratura italiana, dopo I promessi sposi» (per la redattrice troppo poco, p.10, «Ma perché ‘dopo’, meglio ‘insieme a’»), era stata già elaborata apertamente e consapevolmente nella cultura italiana dopo l’esplosione del caso Gattopardo e le infinite rivisitazioni di argomenti consimili (ci fu anche una meteora e conseguente bolla speculativa sul caso Giuseppe Maggiore, si disse giurista e filosofo prima crociano e poi gentiliano, firmatario del Manifesto della razza, autore di un più degno Trattato di diritto penale e del misero Sette e mezzo del 1952, prontamente pubblicato da Flaccovio; chi visse la girandola di quegli scoop editoriali si ricorda bene del cancan giornalistico e delle farneticazioni del culturame).
C’è da tempi remotissimi nella “comunicazione epistolare” una sua riutilizzazione a livello letterario che è stato ormai definito e codificato nei suoi processi evolutivi in epoca moderna dalla raccolta per antonomasia, le galeotte ed assassine Ultime lettere di Jacopo Ortis, fino alla verghiana Storia di una capinera, svenevole e larmoyant, cara a Dall’Ongaro e alla Caterina Percoto. Non vogliamo fare qui una storia dell’epistolografia (il termine greco ne definisce il significato semantico), ma riprenderne le tracce per nostra promemoria. Tralasciamo il modello espressamente retorico che serviva a comunicare, in forma artatamente colloquiale, una teoria filosofica o politica, inventore Aristotele (cf. le sue lettere di teoria politica ad Alessandro e quelle a lui di Filippo). Di esse fu raffinato maestro Epicuro (si vendeva per tutti indistintamente nelle edicole l’edizioncina della Lettera a Meneceo o Sulla felicità), fino a quelle dottrinarie di S. Paolo, ascese agli altari. Esse trovarono a Roma la profondità morale negli insegnamenti di Seneca delle Epistulae ad Lucilium. Già allora non mancarono quelle di mera esercitazione retorica o di semplice divagazione a cominciare da quelle dotte invenzioni di Alcifrone, misterioso autore di un’epoca imprecisata tra il I e il V secolo con i suoi parassiti e cortigiane, appassionati scrittori di epistole. Fu già allora quello che fu definito “lo spazio del piacere”, a cominciare dall’epistola di Frine a Prassitele fino alla serie di quelle di Bacchilide e Taide e di Glicera e Menandro. L’epistola fu pertanto letteratura, ma più spesso tramite pedagogico o utilmente didascalico, spesso fu manifesto di propaganda politica come lo furono pure quelle di Cicerone. Non mi si dica che la sua fu la corrispondenza effettiva dell’uomo quotidiano, tanto da supporre che fu raccolta a fine denigratorio (da Ottaviano, secondo Carcopino). Se così fosse, sarebbero rimaste fuori quelle altamente culturali, diciamo quelle Ad Atticum. Intanto la scrittura e la lettera non erano di uso comune, le sue, ben ordinate per destinatario furono raccolte secondo precisi criteri (dal servus Tirone?), furono un’operazione espressamente letteraria, di astuta elaborazione artistica con il suo stile variegato fino ad un supposto sermo quotidianus. Lo stesso progetto seguirono quelle di Plinio il Giovane e le meno note di Marco Aurelio. La linea culturale delle raccolte non ebbe fratture in tutta la tradizione medioevale, ed esse da Dante, ma forse più da Petrarca con le sue Familiari e Senili chiariscono cosa volesse ottenere Cicerone. Finalità non diverse dovettero avere gli epistolari di Machiavelli a Guicciardini e Vettori fino a quelle di Voltaire e Leopardi. Con buona pace dei grandi corrispondenti letterati.
Ma ci fu dai tempi delle tavolette degli Assiri anche la comune lettera con finalità più limitate ed esclusive di comunicazione e di informazione. Ed è quella che oggi, analizzata, studiata e ordinata è offerta alla lettura pubblica, proposta in un’edizione critica.
Occorre precisare a scanso di equivoci che anche in questo caso qualunque autore stili una lettera, e per qualunque fine, cercherà sempre e comunque di offrire la migliore immagine di se stesso. Ciò vale anche per le lettere cosiddette commerciali la cui stesura si insegna negli specifici istituti tecnici nelle sue componenti normative, a cominciare dagli attributi personali del ricevente. Un tempo, specie nell’aristocrazia palermitana, che aveva soldi da spendere per carta e archivi, si usava fare la “brutta copia”. Queste “brutte”, pervenuteci, documentano l’intera corrispondenza, e sono oggi frammenti di costume e di storia. Si riporta nella Vita di Tommaso Di Maria, marchese di Monterosato (rivista della Società italiana di malacologia, online): «Un tempo la corrispondenza era un'attività piacevole e anche impegnativa. La posta era sempre attesa con impazienza; salute, tempo e ricorrenze erano gli argomenti di apertura delle lettere cui seguivano i resoconti della vita cittadina con abbondanza di quelli che oggi chiameremmo gossip. Nella mia famiglia, e forse non solo nella mia, le lettere venivano accuratamente conservate: numerate e archiviate: il mio prozio Casimiro teneva addirittura dei libroni ad hoc chiamati copialettere. Grazie anche a quella corrispondenza ho potuto conoscere meglio nonni e bisnonni». Certamente la comune corrispondenza esprime il grado di cultura e di conoscenza linguistica dell’autore (la redattrice ha annotato le numerose “sviste” ortografiche e grammaticali, diciamo “refusi”, soprattutto della Signora, dovute alla fretta e all’impronta della scrittura circospetta), ma è pur sempre e comunque una costruzione fittizia e mistificante. Si pensi che Erasmo da Rotterdam dovette l’invito alla Universitas studiorum Lovanienses per una semplice epistola in perfetto e dotto latino. Era biglietto di visita e presentazione.
A noi è stato offerto nella serata un carteggio amoroso. Maggiormente queste lettere sono soggette ad una mistificazione, perché sono, oltre che il tentativo azzardato di descrivere sentimenti complessi, anche quello di servirsi di tutte le capacità di affabulazione, di convinzione, per non dire di adescamento. Come l’ostensione della coda del pavone gli amanti si adornano di tutti gli artifici per incantare, adescare l’amato/a. Divagando, mi chiedo quali sortilegi inventano gli innamorati odierni, se solo ancora la letterina elettronica con simboli “altri” o i semplici cuoricini, ben misera cosa. Ma forse i metodi del letto sono più spicci, senza preamboli e adescamenti adottati da certi uccelli variopinti. Non avremo forze mai più carteggi simili. Ma forse neppure i giochi di prestigio delle edizioni critiche. Una professione che si potrà esercitare per secoli solo sui classici cartacei a cominciare dagli incunaboli.
L’incontro di presentazione di questo straordinario volume ha seguito le sue regole. Nell’introduzione Gaetano De Bernardis, che è stato anche moderatore, ha esposto le linee portanti di questo originale carteggio e ne ha individuato le novità e le realizzazioni rispetto alla tradizione epistolare, seguendo la linea adottata della redattrice in prefazione e documentando alcuni passaggi del testo. Il progetto redazionale ed editoriale è stato analizzato ed approfondito da Tommaso Romano che ha tratteggiato la qualità e l’utilità delle informazioni che ci offre un testo così ampio e complesso, sia sul piano concreto della storia di fatti e costumi dell’epoca, contatti umani alti (Verga Capuana) e redazionali (Albertini), progetti letterari andati in porto (il giallo Spasimo a puntate) e altri abortiti (le velleità teatrali di Il rosario, in una scena occupata dal Giacosa di moda), speranze e delusioni bassamente economiche di familismo impiegatizio, sia anche su quello propriamente letterario. Ha dato infine una valutazione estetica del testo, rilevando le capacità espressive di Ernesta Valle che in qualche punto ha ritenuto addirittura superiori all’enfasi e alla retorica del narratore catanese.
Poi è venuto il pezzo forte, per la carica dirompente di emotività che contenevano i testi, sapientemente scelti a questo fine, ritengo dalla prof.ssa Sarah Muscarà, come si evince dal piano espositivo della prefazione e dal suo appassionato intervento finale, in cui ha esposto l’occasione della edizione, l’iter redazionale, le linee guida del suo lavoro di attenta critica testuale. Sono epistole che maggiormente incidono sul pathos stringente e sulla carnale brutalità dei sentimenti. Entrambi gli attori che si sono alternati ad interpretare i due personaggi hanno dato voce ed espressività a quegli sconvolgimenti interiori, a quell’amore travolgente, di una prorompente sensualità, talvolta assai spinta per essere spiattellata ed essere drammatizzata ad uso di spettatori conniventi, nel senso letterale delle parole, di persone che assistevano esternamente a quel turbinio, a quel sisma di anima e di corpo, a quello tsunami (è terribilmente di moda, per non dirlo) dei sensi, che stringeva e sconvolgeva le interiora. La carnalità per la quale la semplice foto non bastava a colmare quella sete di appagamento sensuale.
E mi è parso di subire una violenza in tale drammatizzazione, troppo immersi gli attori nel magma dei sensi, caldo nella sua voce maschia Vincenzo Pirrotta che ricordo sublime nell’Otello assieme a Luigi Lo Cascio, ed Anna Bonaiuto, splendida in tante interpretazioni, eccezionale in questa immedesimazione in una pretesa donna Renata-Nuccia. Anche se, perdonatemi, di un documento così segreto e inconfessato a chicchessia, un colloquio segreto tra due anime perdute e poi consapevoli della pazzia, cinque anni di furore (“la vita nuova”), fino all’angosciante desolazione imbarazzata della fine (il grido «sono terribilmente stanca di tutto e di tutti», il tragico non sapere più cosa dire, «hai ragione, quando mi dici di non sapere come e di che scrivermi, anch’io non lo so», quel passaggio dal “tu” ad “ella”), si potrebbe sopportare la semplice lettura, nel silenzio interiore, semplicemente mentale della propria stanza, alla luce di una abat-jour, come dovette essere l’atto della scrittura e della lettura della comunicazione, non gridata, non sussurrata, non fonicamente realizzata, senza suono e voce.
Non me ne vogliate a male per quello che aggiungerò in cauda e ne chiedo perdono.
Ho provato una profonda lacerante sensazione di dolore nel trovarmi ascoltatore inconsapevole della recita della disperazione e dell’angoscia dei due amanti infelici che sentono svanire i loro fremiti. E perciò mi sono vergognato di questa profanazione, di questo errore di voyer, di questo occhio fisso nel buco della serratura. Ho percepito dolorosamente quell’atto di furto, di essere entrato nel segreto del loro cuore, di avere stuprato la loro vita. Per di più al di là della loro stessa superfetazione dei sentimenti dell’altro. L’uno scrisse all’altra e ognuno diede alle parole decodificate in simboli grafici dell’altro una gradualità e intensità di voce e sentimenti che la somma bravura dei due artisti hanno reso per come l’hanno personalmente interpretata. Ed era questa la voce, la tragicità delle voci, se proprio voci non ci furono, ma solo parole scritte e sentite diversamente dai lettori amanti? Le necessità della conoscenza dei “grandi” può giungere a lacerare impudicamente la loro più segreta intimità. Lo dico da uomo del quotidiano e da possibile autore. È opinione di una certa critica che Ranieri fece un cattivo servizio a Leopardi che resta oltre la miseria quotidiana sempre il poeta di A Silvia e di L’infinito, anche al di là del “culinario” (alla Brecht) polpettone cinematografico. A pensare che entrambi gli amanti ricorsero a cautele massime e stratagemmi perché nessuno sapesse delle loro segrete travolgenti inconfessabili pulsioni, quelle perversioni della sensualità che ne sono venute fuori dalla pubblica confessione, oscene e pazze come è ogni amore, più pazzo perché segreto e fuori dalle leggi morali, tra un trentaseienne, succubo della madre divoratrice, e una trentunenne, infatuata della scrittore, l’uomo che sapeva inventare delle storie, quelle puntate che uscivano sul quotidiano più “in” della Milano elegante ed aristocratica, quel giornale di tutti i tempi e di tutti i sistemi politici (ha saputo sempre “adeguarsi” al vento di Roma), quel quotidiano del geniale Albertini. Le puntate di Spasimo e il fascino dello scrittore per una donna che aveva, ritengo, molti cicisbei nel suo salotto libertino.
Certo ci sarebbe da chiedersi perché il diretto interessato non avesse dato alle fiamme quelle prove scottanti. Ma c’è sempre una certa ritrosia a distruggere gli strumenti della felicità, molti pacchi di lettere ingiallite, legate con il nastrino, sono sopravvissute in cassapanche di soffitte. Cimeli o pezzi di vita. La sfortuna dello scrittore fu quella di finire tra le carte “tutte” in fascio in un fondo di biblioteca. La sorte di ogni scrittore. Ma chi può avere il diritto di svelare quel segreto, di profanare quelle carte? Se anche il codice penale protegge la privatezza dei sentimenti, il segreto della corrispondenza, punendo la violazione del segreto epistolare (art. 616 C.P.) anche fra coniugi. E quale è il limite tra essa e l’alibi dell’opera di ingegno?
Quel che è certo, ho provato una sensazione di disagio, di inadeguatezza davanti a questa teatralità. Valeva la pena questa sacrilega profanazione per sapere che era convinto di essere un autore fallito, per conoscere che e quando aveva scritto, quello che faceva ogni giorno reso in una relazione meticolosa e maniacale?
E ho provato anche pietà per questa profanazione.
Poco mi hanno sollevato le spiegazioni della redattrice sulla volontà dell’erede riguardo alla pubblicazione, se poi ci ha spiegato l’astuzia dell’adultero che per evitare che il di lei marito scoprisse il carteggio aveva inventato lo stratagemma, il procedimento di andirivieni, il diario ambulante, in cui il testo con pagine bianche passava da lui a lei per ritornare senza soste pericolose a lui. Come se la donna Marianna, ultima propaggine dei Viceré, sposa di un garibaldino, il fratello Diego con la moglie Lisa e la sua figlioletta Nennella, fossero soggetti innocui, da non tener conto delle loro reazioni.
Del “corpo contundente” gradevoli i caratteri, preziosa la carta, elegante e accurata la redazione, assolutamente opinabile la fantasiosa scrittura del titolo. Ma bisogna leggerlo, sì, forse in silenzio, nel massimo segreto, ma bisogna leggerlo per conoscere De Roberto, anche nelle sue idiosincrasie, nel suo “male oscuro”, e la Milano che fu di tanti (tutti?) i nostri uomini di cultura, che diedero un nome alla letteratura italiana.

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