domenica 4 gennaio 2015

Dipingere l’anima abisso interiore fra mito e simbolo di Elide Triolo

di Antonio Martorana

Quando un individuo, mosso dall’insopprimibile bisogno di recuperare l’identità celata nelle profondità del proprio intus, si avventura in quello che Novalis chiama “il cammino misterioso che va verso l’interno”, intuisce sicuramente quanto pericoloso debba essere il varcare la soglia che separa il conscio dall’inconscio. Sa che oltre quel limite lo attende un mondo inesplorato, reso da Goethe nella Pandora  con una terrificante metafora: << l’oscuro regno della possibilità mescolatrice di forme>> . E’ facile comprendere come l’espressione “mescolatrice di forme” si associa al caos originario, dove l’informe e l’indistinto avvolgono il tutto nelle tenebre della notte.
Grande è dunque il rischio di rimanere risucchiati in questo vortice, ma se l’individuo di cui parliamo ha fiducia nelle proprie risorse, fatte di tenacia, determinazione e purezza di sentimenti, potrà passare indenne attraverso la selva di enigmi nascosti dietro mille sagome seducenti. Ciò ricorda quanto accadde ad Ulisse, che fattosi legare all’albero della nave, passò indenne nel tratto di mare sotto l’isola del “prato fiorito”, dove gli giunse il “suono di miele” del canto delle Sirene.
Chi resiste al fall-out radioattivo degli incantamenti ultrasensoriali delle sirene partorite dal caos, le vedrà dissolvere in una nebula di spettri prismatici. Allora i suoi occhi potranno provarsi, al di là della cortina di tenebre, sulla sfolgorante Montagna Incantata della Verità e della Bellezza.
Tale è stato l’esito gratificante del “cammino misterioso” verso l’interno effettuato da Elide Triolo, un cammino che ha lasciato un segno indelebile nella sua vicenda esistenziale. Ed essa ha voluto raccontarci questa sua esperienza nel libro, per molti versi avvincente, Dipingere l’anima- abisso interiore fra mito e simbolo, (Palermo, Fondazione Thule Cultura, 2013). 
Implicitamente il libro nasce dal rifiuto di dare ascolto soltanto ai messaggi trasmessi, da quello che William Blake definisce “l’occhio corporeo e vegetativo”, per prestare maggiore attenzione ai messaggi filtrati dall’ ”occhio dello spirito” (stavolta la definizione è di Caspar David Friedrich). 
L’intento dell’Autrice è dunque quello della sua anima, superando i limiti delle concezioni empiriche e meccaniche di natura sorda agli echi provenienti dalle zone più recondite dell’ intus.
Il messaggio che ci vuole trasmettere è che solo scavando nel profondo dell’animo possiamo trovare un senso alla nostra vita. 
Sotto questo profilo quel messaggio mi ricorda quello contenuto in due opere famose : Radici di Alex Haley ed Edipo re di Sofocle. Così Haley manifesta il bisogno di partire alla ricerca delle proprie radici: << Devo scoprire chi sono. Avevo bisogno di dare un senso alla mia vita>> - sono parole che sembrano ricalcare quelle pronunciate da Edipo circa 23 secoli prima: << Devo scoprire chi sono e da dove vengo>>.
Trovo assai interessanti in proposito le considerazioni fatte sulle due esperienza parallele dallo psicanalista americano Rollo May nel suo libro Il richiamo del mito: << Consapevolmente o inconsapevolmente Haley prende alla lettera il consiglio di Nietzsche: “L’uomo privato del mito (…) deve scavare come un pazzo per cercare le proprie radici, sia pure tra le più remote antichità” (…).
Tanto per Haley puanto per Edipo conoscere il proprio passato significa trovare un’identità nel presente, e anche nel futuro>> (R. May, Il richiamo del mito, Milano, Rizzoli, 1991, p. 42).
Correlando la ricerca delle radici con quella del mito personale, May focalizza il problema da un punto di vista strettamente professionale: << Potremmo definire la psicanalisi con ricerca del proprio mito. Quanto bene viene a colui che mito riesce a trovare e integrare nella propria esistenza! Questo mito del nostro passato, questa nostra radice, è un punto di riferimento al quale possiamo guardare con fiducia. A differenza dell’ “Olandese Volante”, la mitica nave che non poteva mai rifugiarsi in un porto, noi abbiamo trovato un luogo dove ancorarci. E questo ci garantisce che un porto ci sarà per noi anche in futuro>> (pp. 43-44).
Quel luogo sicuro dove gettar l’ancora ed assaporare un meritato riposo, Elide Triolo lo trova, al termine del suo viaggio, nella mitica Thule, fuor di metafora nelle certezze dell’illimitatezza del destino ultraterreno dell’uomo, sulle quali ha avuto modo di meditare leggendo gli scritti di Tommaso Romano.
Posto che, come avverte Gianfranco Romagnoli nella sua Presentazione <<il dato di partenza da assumere come guida alla lettura e alla comprensione di questo libro è la cognizione di artista, e più specificatamente di pittrice, che connota indelebilmente la personalità dell’Autrice>>, va ricordato che la sua originale produzione figurativa si colloca in quell’immenso bacino di creatività visionaria che ebbe la sua prima espressione nelle Carceri di Piranesi, si ascrive insomma alla lunga parabola dell’iconografia dell’immaginario che annovera tra i suoi esponenti creatori del calibro di Fussli, Blake, Friedrich, Goya per arrivare ad Ensor, Rousseau, Kubin, De Chirico, Ernest, sino al Surrealismo ed ai suoi epigoni. E tale ascrivibilità  si spiega perché Elide Triolo, con le sue specifiche connotazioni morfologiche, condivide con i pittori dell’immaginario una tensione emotiva alimentata da quello che Giuliano Briganti definisce <<un opera che nasce da un luogo estremamente interiore e sorgivo della coscienza>>. Tale tensione, aggiunge il Briganti, << si abbandona in misura sempre maggiore alle suggestioni del sogno o al processo autonomo delle immaginazioni attive, della reverie, sottomettendosi all’  apporto dell’inconscio e sostituendo un tipo di rappresentazione “visionaria” all’illusionismo del verosimile e le immagini interne, nate nella mente, alle suggestioni del naturale, le ragioni della fantasia a quella della mimesi>> (G. Briganti, I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, Milano, Electa, 1996, p.13).
Ma va anche detto che Elide avrà trovato nella stessa realtà figurativa siciliana numerosi operatori del fantastico, da Antonio e Tano Brancato sino a Nicolò D’Alessandro. La sua formazione ed i suoi interessi culturali ci inducono a supporre che non sarà rimasta indifferente dinanzi al significato occultistico (alchimistico e astrologico) espresso dalla plurimillenaria identità culturale della Sicilia attraverso un “monstrum” (la triquetra) ed il pagano Saturno, il “genio” rappresentativo dell’identità culturale di Palermo. Si consideri in proposito quanto scrive Nicolò D’Alessandro: << Palermo e la Sicilia sono stati un crogiuolo  dell’esoterismo che ha avuto simbolizzazioni anche in arte. D’altra parte la Gorgone, la Triquetra e Saturno non sono soltanto siciliani ma si trovano anche in altre aree dell’Occidente, dell’Oriente e dell’America Latina: sono, cioè, cosmopolitici oltre che siculi. In ogni caso il filone fantastico e quello occultistico sono fra i fondamentali della “sostanza” culturale tanto dell’isola quanto del mondo: fondamenti della loro “realtà” profonda che - specie in Sicilia, negli ultimi due secoli sempre più - è stata emarginata e rimossa come mostruosamente “altra”, ma che, pur trasformandosi, ha mantenuto vivo, il suo senso complessivo>> (N. D’Alessandro, La situazione dell’arte in Sicilia (1940-1988), Palermo, Centro Studi Il Confronto, 1991, p. 247).
L’impostazione iconografica delle tele di Elide Triolo non indulge a particolari descrittivi, ma si sofferma, spesso con potenza rappresentativa, sul momento culminante del racconto, reso in una sospensione spazio-temporale che accentua la dimensione surreale. 
Il sapiente uso simbolico dei colori va dal monocromatismo severo dell’incisione Sei in ogni cosa (del 2003) ad una espressività segnica estremamente accesa, come il rosso sanguigno che avvolge le figure in Anime in pena (del 2002), Caronte del 2004), Getsemani (del 2008). La notevole presenza del colore rosso nella pittura di Elide Triolo mi sembra strettamente correlata all’esaltazione dell’anima. Dico questo riferendomi a quanto scrisse nel 1998, nel suo ultimo libro, Jean Guitton: << Il colore giallo è quello della luce. Ma quando voglio esaltare l’anima, metto il rosso e per lo spirito adopero il rosso più fiammeggiante. Attribuisco a ciascun colore un valore simbolico>> (J. Guitton, L’infinito in fondo al cuore. Dialoghi su Dio e sulla fede, Milano, Mondadori, 1998, p. 210).
una forte forte carica drammatica caratterizza queste tele, che, nella loro incandescente cromai, tracciano un ideale percorso dall’umano al divino, un cammino scandito dalla differenziazione volumetrica degli elementi compositivi e da un accennato antropomorfizzarsi delle forme.
Le icone mentali che l’artista trasferisce sulla tela rispondono al bisogno di rendere visibile l’invisibile e di umanizzare il trascendente.
Poiché il vero oggetto della pittura di Elide Triolo è l’anima, la ricca trama polimaterica si fa memoria sensoriale, vibrante racconto interiore, icona cromatica scaturita dalla percezione ora ovattata, ora sofferente, del proprio vissuto, che compendia la dimensione psichica del suo essere, indissolubilmente fusa con l’essere spirituale

Nessun commento:

Posta un commento