di Guglielmo Peralta
Cosa diversa del linguaggio orale è la
scrittura, la quale può prendersi qualche "licenza poetica" e così
inventarsi dei neologismi "giocando" con le parole, suddividendole in
parti, in misure (aggiunzioni, sottrazioni, sinalefe, sineresi) o praticandovi
degli innesti per ottenere nuovi "frutti", per imprimere ai vocaboli significati
inediti. Senz'alfabeto, di Anna Maria
Guidi, è, innanzitutto, questa libertà della scrittura, che qui assume il
carattere della necessità. Neologismi e metalogismi creano l'originalità delle
relazioni tra i vari elementi del testo permettendo di oltrepassare le restrizioni
linguistiche. Le figure retoriche del suono (allitterazione, assonanza,
consonanza, paranomasia) abbondano costituendo un corpus "sin-fonico" che conferisce al testo e all'intera
silloge un particolare e gradevole andamento ritmico, quella vivacità, quell'
"andante con brio", tipico di una composizione musicale, che
sopperisce all'assenza, spesso, di quella "musica" interna, di intima
appartenenza e convenienza alla
creazione poetica, che si dà per mistero e per miracolo prima delle parole che
essa stessa sceglie, compone e dispone. Qui, al contrario, a suonare, in maniera
diretta, sono le parole, che si caricano di più sensi creando particolari paesaggi
e atmosfere, ("il giallore smunto dell'autunno"; "il mare/rame
d'un golgota di vigne/crocifisse alla vendemmia"; "scervella il
sole/nell'agostano avvampo/febbra salini afrori/spolpa sfranti sapori/fuoca
erbali umidori"...) o assumono un tono granguignolesco aderendo agli
aspetti violenti della vita umana e della natura, all'"esistere
mortale", al "marasmo carnale dell'esistere", al "cruore",
alla lotta per la sopravvivenza, e cogliendo, fotografando, bloccando, nei loro
momenti più crudi e cruenti, alcune specie animali e una umanità, di cui la
Guidi si fa specchio rappresentandone l'anima dolente e la carne mortale, la
quale, in sé unendo eros e thanatos: le pulsioni di vita e di morte, cerca invano di dissimulare la propria caducità sotto la
maschera carnascialesca di un'esistenza solo apparentemente felice:
"nugola
un carniere di storni/ piume di sangue alla postrema siepe (...) s'appunta al
vetro/ la coccinella novembrina/e nell'impari efforzo/vermigliando precipiti
discrepa/le ali della vita"; "fuco la vita/feconda e regge/la morte
ape regina"; "lombrica il beccaccino/l'umorale turgore/della sapida
preda disterrata (...) uccella l'astuto astore/ la sua funèbre ronda/
frecciando la pernice/in un rostro di sangue"; "ferita a
morte/s'appiomba l'atra fuliga/alle farnetiche fauci/della canina foia/guizza /
(..) l'aspidica erezione/ammorsando il vindice veleno/la gola armata del
cacciator proteso:/ingravidato a morte"; "rutilo poltriglio
d'agonia/si spasma il rospo/sul ruvido grigiume dell'asfalto:/dopo la
curva/beffardi freni istride/il motore assassino"; "cedua rampica il
monte/la solenne baldanza della quercia/così l'obliquo struscio/della carne
mortale:/materia in maschera/a corto passo a spasso/sull'inteschiato corso/del
serotino carnevale"; "rosicando misuro le falcate del tempo/che sulle
punte capillare pulsa/il c(r)uore arterioso dell'esistere"; "e qual
farnetico segugio senza fiuto/arrancando e annaspando rincorro/il sogno del per
ché e per chi corro/seppur di certo so che non distorno/le saturnine
voglie/pertuse nelle matrigne doglie/di nostra mortal sorte: cùpida iena che
partorisce e cresce/ed al macello pasce ogni carcassa/ben frolla divorata/e
indigesta ri-gettata/nell'orbitante vuota ove smalto collassa/il marasmo
carnale dell'esistere"
In questo marasma, anche il sesso diventa una lotta, un "corpo a
corpo" che sfinisce gli amanti vinti dal piacere erotico che la volontà di
vivere, cieca, irrazionale e, tuttavia, necessaria per la nostra stessa
esistenza, richiede, secondo la lezione di Schopenhauer. Vivere è così un
"rito" che accomuna "l'umanide ciurma" agli animali ed è un
"miraggio", un'illusione di eternità che perpetua il dolore
attraverso l'eros privando l'uomo della libertà (pp. 25, 26). Se in questo
marasma, se in questo male di vivere c'è un palese richiamo a Leopardi e al "giardino
della souffrance", tuttavia, la presenza di Artaud è qui "dichiarata"
attraverso i versi di questo autore, tratti dalle Poesie della crudeltà, che Anna Maria Guidi riporta nella
sua silloge e che sembrano messi lì a segnare delle sezioni, a fare da
introduzione, o meglio, da segnavia ai testi, quasi a indicarne, ad anticiparne
il percorso, a tracciare i passaggi decisivi del
cammino poetico-linguistico-sperimentale della nostra poetessa. Qui, le
parole si fanno corpo e scena della realtà, rappresentata con grande impatto
emotivo nei suoi aspetti oscuri e conflittuali, espressa a forti tinte, come
nel "teatro della crudeltà" artaudiano, con una partitura linguistica
non convenzionale che, se da un lato, tende a provocare la reazione del lettore
abituato al linguaggio ufficiale, in cui viene mantenuta la distanza tra segno
e realtà, tra parola e pensiero, tra scrittura e vita, anche quando la parola
si volge alla poesia e cerca di agguantarla, dall'altro lato, si propone come
una lingua nuova, in grado di pro-gettarsi, di andare oltre la semplice
funzione comunicativa, oltre l'uso tradizionale del linguaggio per colmare
quella distanza e dare all'essere, muto e senza dimora, la sua casa ideale nel linguaggio della poesia,
dove lo pensa e lo vuole Heidegger, e verso cui la scrittura della Guidi aspira
ad avvicinarsi mettendosi "in gioco", quasi a costituire un sistema
di segni, un nuovo "codice" linguistico sopra l'us(ur)ata lingua, raschiata
e destinata a scomparire nel palinsesto. L'intenzione della Guidi, allora,
non è tanto di creare un nuovo stile e una
nuova forma, quanto di investire la scrittura della funzione liberatrice del
linguaggio, che è quella di svincolarlo dalla tradizione e, dunque, dal già
detto, dalle forme del parlato e letterarie, di "azzerarlo" portando
la scrittura oltre di esso, a quel «grado zero», teorizzato da R. Barthes, a
partire dal quale essa può ricominciare a "parlare" in una dimensione
più autentica e vera.
La genesi della parola nuova (o della nuova scrittura) non è facile, perché
la scrittura non può ricominciare se non a partire dal "ver(b)o" che
la costituisce. Il nuovo corso è un calvario, una passione, un andare
"acrobatico" della mente tra "giunchi di parole", a ridosso
del silenzio che non riesce a parlare, a ri-trovare il "ver(s)o", il
"ver(b)o"; a ridare senso e significato al linguaggio, in cui la
verità si dà solo nascondendosi e che solo il sogno intra-vede nell'assenza delle
parole, al di là di ogni alfabeto. Tra "ustioni" e "algori",
tra "preci" e "croci": tra tensioni ardenti e algidi esiti
espressivi, tra sacri tremori e patimenti tarda a fiorire la primavera della nuova scrittura. E quel
sogno, allora, è un "bi-sogno" necessario che richiede un lungo
cammino - "(t)orme di passi" - attraverso "valanghe" di
inutili, vuote parole, in cui quella verità è violata, frammentata, dispersa,
per sempre dissipata, ma della quale, tuttavia, è possibile intravedere le orme
- quasi un principio, un riflesso della sua luce ("il primo vèr del
ver(b)o") - che la "neve"
del silenzio è capace di rilasciare, di riverberare se sappiamo ascoltarlo. Ed
ecco!... In virtù del sogno le orme di luce si tramutano in parole:
"particole d'aurora" dentro cui "lievita" la celeste
ambrosia della poesia: cibo e bevanda di cui si nutre la nostra Ricercatrice,
senza mai saziarsene. Perché queste "particole", che rifulgono della
sacra luce del "ver(b)o", sono come le ostie, che Anna Maria riceve
in comunione. Per cui sempre si rinnova il "bi-sogno" di questo
"pane" celeste necessario all'esistenza. (pp. 15, 77, 81). L' im-pasto linguistico è, dunque, questo
atto di comunione mediante cui le parole diventano il nostro corpo e il nostro
sangue, ed è noi stessi che offriamo nella comuni(cazi)one che annuncia e ripete il sacrificio del Cristo. Senz'alfabeto
diventa così, ossimoricamente, un laboratorio di parole, dove la parola è
"un frullo di poesia" che s'invola come un passero per ritornare al
nido e risplendere della luce della verità. (p. 75) E in questa luce, dove le
parole ricevono il nuovo battesimo, la nostra poetessa, con atto quasi
sacrificale, assume su di sé "la vertigine" del vuoto assoluto del
linguaggio che, senza limite, volge al crepuscolo e sbiadisce dissolvendosi
nell'albeggiare del verso/verità, che, nel silenzio, "il sogno dice" nell'azzeramento
della scrittura, che può così ricominciare
a parlare. (pag. 81)
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