di Matteo Veronesi
Si dovrà, un giorno, pienamente riconoscere (come del resto è in parte già stato fatto) l'importanza storica dell'Antigruppo Siciliano, di cui Ignazio Apolloni fu uno dei principali esponenti, e certo (grazie anche al sodalizio intellettuale con Vira Fabra, vera coscienza teorica del movimento, e pensatrice, in sé, di spessore assoluto) quello più culturalmente consapevole, e attento alle interazioni e alle contaminazioni fra linguaggi diversi.
Chi riapra, oggi, i corposi volumi delle antologie dell'Antigruppo si troverà di fronte alle testimonianze (programmaticamente eterogenee, fra movenze tardo-ermetiche, istanze neo-realistiche, influssi della beat generation d'oltre oceano e, più raramente, sperimentalismo formale riconducibile alla lezione delle avanguardie storiche) di un movimento autenticamente d'avanguardia, autenticamente mosso da una volontà di rinnovamento e di rottura degli schemi, e che, proprio per questo, tendeva ad abbattere, secondo una logica dell'inclusione e della fusione corale, le rigide barriere tra correnti, indirizzi, scale di valori (anche a costo di correre, consapevolmente e provocatoriamente, il rischio, segnalato da Giuseppe Zagarrio, di scivolare nell'anarchismo culturale, di legittimare un sottobosco di spontanea ed irriflessa creatività popolare).
Fin dalle pagine iniziali dell'antologia Antigruppo 73 venivano elogiate, per opera di Santo Calì, «le astromalie / d'Ignazio Apolloni distillate alla fiamma / del verbo equivoco/inequivoco»: il Verbo era rivelazione e insieme stridio fonosimbolico, discorso e insieme azzardo dell'annientamento del senso: «Christus-Shyryn-Ipotesi a dare un senso al nonsenso / dell'esistere a giustificare la nostra / alcaica “stasis” [inerzia=rivoluzione] / questo affaticarci infruttuoso al riparo / del fragile scudo della parola ambigua» (stasis è, in greco, conflitto e insieme presa di posizione, dunque immobilità e sfumatura, punto fermo e scontro, fissità del segno e dialettica diveniente del discorso).
In quel volume, versi dello stesso Apolloni raffiguravano la medesima ambivalenza, la medesima compenetrazione o circolarità degli opposti, Essere e Nulla, Tutto e Niente: «NEL TEMPO / ogni storia ha la sua morte, la sua vita, il suo inizio / l'inizio del tempo / la vita / la morte / la». Quel Tempo assoluto e insieme relativo è quello della poesia che fonde parola ed immagine, che sopprime il prima e il poi, che fonde e confonde e fa implodere le dimensioni dell'esperienza e del vissuto.
E si nota, analogamente, scorrendo le pagine di quelle antologie, un duplice senso, da un lato di stasi, dall'altro di moto e di rinnovamento, da un lato di angoscioso ripetersi, dall'altro di volontà di frattura e palingenesi. Il paesaggio siciliano, così arido, aspro, ostile, quasi allegoria dell'immutabilità e dell'inamovibilità di un destino («Bruceremo / così sognando il fuoco alla vittoria / dentro la grande notte, anche se insonni / vigileranno gli astri la memoria / della vicenda alterna che s'eterna / sopra l'antico rito del dolore», scrive Zagarrio in versi di tono montaliano), sembra contrastare, e nello stesso tempo rendere, per opposizione, più vivi, quei moti di colore, d'insofferenza e di rivolta che trovavano espressione nelle variopinte e dinamiche provocazioni creative dell'Antigruppo.
Gli astri, che ad Apolloni ispirano le sue analogiche ed immaginose astromalie, in Zagarrio vigilano, invece, nel loro assiduo, dantesco o leopardiano, ripetersi di «eterni giri», i cerchi e le fasi di un'immutabile e fatale vicenda storica e cosmica, la «vicenda alterna che s'eterna». Su tutto, l'immaginario mallarmeano degli astri, quasi, come costellazione luminosa di significati, come configurazione di segni luminescenti e balenanti, che l'occhio dell'interprete cerca, forse invano, d'inseguire e tracciare. Il poeta è preso, per citare il Valéry discepolo di Mallarmé, «dans le texte même de l’univers silencieux», ed innalza «une page à la puissance du ciel étoilé», diviso come l'uomo di Pascal fra il Tutto e il Nulla, sospeso e come lacerato «tra due infiniti».
In questa duplicità, del resto, incardinata saldamente nello specifico della realtà siciliana, si riflette la stessa ambivalenza ontologica di ogni arte d'avanguardia: da un lato, in quanto avanguardia, volta alla consumazione del passato, quasi al rogo purificatore, allo strappo, alla lacerazione; dall'altro, in quanto arte, in quanto segno tratto ritmo forma inscritti in qualche modo in una umana o fenomenica natura, l'avanguardia stessa è inevitabilmente legata ad un orizzonte di eventi e di significati che la trascende, ad una misura tendente ad una qualche possibilità di permanenza e di reiterazione.
Tutti questi chiaroscuri e queste tensioni riaffiorano nelle “singlossie senza immagini” di Apolloni prosatore. Singlossie senza immagini perché, se da un lato nel romanziere manca l'aspetto verbo-visivo in senso proprio, ossia la materiale compresenza e l'interazione della parola e dell'immagine sulla pagina, dall'altro la parola racchiude in sé una ricchissima potenzialità di evocazione visiva, di associazione analogica, che si spinge fino ad un vero e proprio pensiero per immagini, ad una sorta di postmoderna rivisitazione della tradizione manieristica e barocca degli “emblemi” e delle “imprese”.
Nei Racconti cinematici e cinematografici, l'autore chiarisce, e insieme problematizza, quasi a voler depistare, com'è sua consuetudine, il lettore ed il critico, fin dalle pagine introduttive, la propria concezione dell'accadere storico e insieme della narrazione. Nell'epoca della fluidità, della mutevolezza, della «modernità liquida», della «fine delle grandi narrazioni», come sono state definite, sembra che ogni codice, ogni canone o criterio per l'ordinamento e l'interpretazione degli eventi siano venuti a mancare.
Ecco allora che la forma forse più consona diviene quella del racconto frammentario, paradossale, surreale, che gioca con la fragile e rarefatta coerenza interna del meccanismo narrativo per far sfumare gli eventi narrati o sognati in un limbo versicolore e duttile, diviso fra la realtà e l'illusione.
Emblematica la figura del protagonista di Alpenschaft, che in un contesto mitteleuroopeo, vagamente manniano, diviene, paradossalmente (con una originale variazione su un tema antico, che risale almeno a Plauto, quello del doppio), un sosia di se stesso, fino a confondere in sé, e nello sguardo dell'altro, e dunque di noi lettori, identità e alterità, e a proiettare come un'ombra questa duplicità inquietante e perturbante anche su ciò che entra in contatto con lui, che si avvicina alla sua ambivalente ed indefinibile sfera ontologica e conoscitiva, sugli oggetti uni o multipli della sua conoscenza e del suo amore: quasi un Monsieur Teste di Valéry in cui però il cristallo della visione razionale e della lucida riflessione si sia increspato e sdoppiato fino a divenire un prisma indecifrabile.
Dalla letteratura d'avanguardia, e forse anche dalla psicanalisi, deriva il gusto paradossale delle associazioni di parole veicolate da affinità di significato, e che, in virtù del pensiero per immagini, si traducono in accostamenti repentini ed imprevedibili di situazioni, luoghi, figure, movimenti, con sequenze e catene associative che paiono, a volte, come nella stagione dell'Antigruppo, evocare, e insieme esorcizzare attraverso l'ironia, un ultimo, definitivo nonsenso di ogni cosa, un Tutto-Nulla originario ed ultimativo, datore e negatore di significato.
«Alla fine la facemmo franca: e infatti finimmo in una zona franca. Da lì passammo in Francia. (...) Il resto fu cosa da nulla». «Finisce che il finito finisce e ora si tratta di forare l'infinito», anche a costo dell'annientamento, come nel caso di un personaggio che (come in Poe, o come in alcuni Poemetti di Pascoli) si avvia, in cerca d'assoluto, verso l'estrema rarefazione del mondo iperboreo.
Il narratore-personaggio, anzi l'autore-personaggio stesso, parlando di sé o del suo doppio, in terza persona, si immerge e si addentra «in un fiume di parole popolato da pesci guizzanti»: qualcosa di simile, forse, al riverrun e al meandertale, al fiumetrascorrente e al primordiale-racconto-labirinto, del Joyce di Finnegans Wake, anche se in modo più sorvegliato, senza che il senso primario sia mai totalmente annientato, né le strutture narrative completamente sovvertite.
I Racconti patafisici e pantagruelici confermano quanto il racconto sia, come genere, particolarmente consono alla vena surreale e spiazzante dell'autore. Fin dal titolo, essi rinviano da un lato alla bizzarria, alla trasgressione, alla provocazione concettuale (rappresentate emblematicamente da Ubu Roi di Jarry, crocevia di décadence ed avanguardia), dall'altro all'abbondanza, all'esuberanza, al tumulto e al turgore (ma sempre, ad un dato momento, sorvegliati e frenati dalla consapevolezza critica) dei temi e delle voci.
Il fiume del tempo di classica memoria è divenuto ormai una «piscina per i tuffi nel passato», in cui (quasi come nella rappresentazione albertiana ed ariostesca del mondo della luna, in cui finiscono, e vanno forse perse una seconda volta, e per sempre, per poter essere recuperate solo con la fantasia e l'illusione, tutte le cose perse sulla terra) i ricordi i volti gli eventi hanno forma di bolle evanescenti, gonfie di «fiato caldo» o di «parole senza senso», nullificazioni l'uno e le altre, rispettivamente, dell'essenza vitale e dell'espressione del significato. Inutile, in quell'ammasso, «decifrare i conati di pensiero». Meglio cercare di scinderne e disvilupparne, a fatica, qualche singolo frammento, qualche particolare prospettiva.
La stessa nobile concezione agostiniana e poi bergsoniana del tempo interiore, del tempo distentio animae, che scorre e fluisce e viene percepito e conosciuto in interiore homine, finisce per perdersi in una mise en abŷme degna di Borges. «Se si nega il tempo (e valenza di verità alla Storia) si può collocare in un qualsiasi momento una storia tutta inventata». «Non si potrà colmare il vuoto del passato se non affidandosi alla fantasia».
Ed è stata proprio la fantasia, colmando il vuoto del tempo, a collocare nel tempo l'incontro immaginario che ha offerto l'occasione per questa straniata riflessione sul tempo. Il tempo cresce e si svolge su se stesso, di se stesso si nutre, se stesso chiarifica ed offusca.
I Caldei, nei loro sconfinati deserti (ed emerge, qui, la fascinazione dell'autore per le civiltà antiche, rievocate in modo libero ed immaginoso), contemplarono i cieli, e diedero un nome e un ordine agli astri. Fu proprio quel vuoto a permettere loro di costruire immensi templi di pensiero. In ogni caso, non avrebbero impiegato «i tempi morti a tentare di vincere la morte». L'otium dei classici è ormai il moderno «tempo morto»; ed è vano impiegarlo per costruire una presunta eternità di pietra. Meglio perdersi nel cosmo, affidarsi a quella contemplazione del Tutto la quale coincide con un abbandono al Nulla; meglio afferrare l'istante eterno che è manifestazione mobile, epifania transeunte, immobile e pura, dell'eterno.
Per inciso, un altro scrittore legato all'avanguardia meridionale, (se questa etichetta ha un qualche significato: ad un'avanguardia che sa fondere la solarità e l'accesa intensità sensoriale del Mediterraneo, il «vento del Sud forte di zagare», come diceva Quasimodo, con il raccoglimento e il travaglio del lavorio stilistico), Antonio Spagnuolo, ha saputo, con La mia amica Morel e altri racconti, trasfondere nella forma della narrazione breve una stessa vena, uno stesso sguardo – più melanconici, però, che estrosi, più sofferti che ironici – surreali, stranianti, e insieme lirici, fra distorsione temporale, contaminazione abissale di cronotopi, intreccio e confusione delle coordinate, da un lato; e, dall'altro, persistente ricerca di un'armonia e di una bellezza perenni, classiche, in cui placare ad un tempo il senso estetico e l'estasi carnale. «Chi scrive etrusco stabilisce la sua dimora in transistenza e indugia per osservatori al rituale malcelato libito esclusivo ... un vera storia di diritto e fondazione, innanzi tutto procedere fra la conversazione del significabile e il parricidio incommensurabile». E, alla violenza sacrificale del mito fondatore, del racconto originario, del Verbo rivelato, si giustappone la paziente, interiore, lirica creazione, attraverso il filtro memoriale, del mito individuale, del vissuto soggettivo: «Tavolta il nostro pensiero, le coincidenze disseminate nella vita quotidiana, le incredibili distorsioni del tempo sprofondano in noi stessi e sono sufficienti a costruire una favola»).
Prendono forma ed espressione, sulla pagina di Apolloni, un cronòtopo, uno spazio-tempo, affini a quelli della fisica quantistica e delle cosmologie ed epistemologie relativistiche. Proprio i rapporti fra quella visione del cosmo, e dello stesso operare scientifico, e alcune forme particolarmente stranianti, disorientanti, ed apparentemente aleatorie, dell'arte e della poesia contemporanee erano stati evidenziati da Vira Fabra nelle sue densissime pagine teoriche, spesso veri e propri poèmes critiques nel senso di Mallarmé, di una genialità assoluta, di un repentino e densissimo valore rivelativo. «Il vagare della forma nello spazio che ha assimilato la turbolenza dell'avanguardia, per trasporne i sintomi più eccitanti nel magma temporale di sedimentate formazioni geologiche esplosive», per citare proprio le parole di Vira Fabra, rappresenta la più alta e completa fusione di concezione e percezione del tempo da un lato, lavorio formale e rappresentazione dall'altro.
I romanzi, in particolare Gilberte e Lady Macbeth, rappresentano un ampliamento, una dilatazione e uno sviluppo, per successive aggiunte, per sovrapposti intarsi, per catene d'immagini che rampollano dalle immagini, parole che germinano dalle parole in riflessi e giochi d'eco, periodi che s'intrecciano ai periodi alimentandosi gli uni degli altri e chiarendosi o complicandosi, e coimpicandosi, gli uni gli altri, della cosmogonia, o cosmoagonia, della visione del mondo, o della provvisoria dissoluzione di ogni visione del mondo, di cui i racconti costituivano il preannuncio e lo specimen.
Come un'Erodiade di Mallarmé o una Giovane Parca di Valéry (ma certo meno algide, più briose ed ironiche, di quelle, eppure ugualmente intellettuali, ugualmente complesse ed inafferrabili), le due figure femminili sono, in definitiva, direbbe Borges lettore di Dante, «trame di parole», quasi impalpabili eppure vivissime, irreali eppure capaci di suscitare nel lettore un amore e un desiderio indefinibili: figure di donne che l'immaginazione e la penna dello scrittore paiono rincorrere ed inseguire nel momento stesso in cui le tratteggiano, e che egli sembra aver già trovato dentro di sé – come desideri idee concezioni fantasmi – pur essendone, nel contempo, perennemente in cerca; disincarnate incarnazioni di un'idea di poesia, di una visione, o di un'impossibilità di univoca visione, del mondo, di un paradigma conoscitivo (che può essere quello della cibernetica come della teoria dell'informazione – in particolare per la nozione di entropia, di informazione quale funzione, diretta o inversa, del disordine – o delle cosmologie relativistiche). Quasi come l'Orlando di Virginia Woolf, che insegue se stesso, o se stessa, attraverso le epoche, rincorre il proprio fantasma rovesciato, la traccia impossibile ed inafferrabile della propria incarnazione.
Con un artificio metanarrativo di sapore sterniano, giocando con l'atto stesso del costruire la trama e con l'intersezione, la sovrapposizione e l'interazione di tempo della storia e tempo del racconto, l'autore sembra condurre il meccanismo della narrazione allo stallo, alla reductio ad absurdum, così come al teatro non può che conseguire «l'implosione verso il silenzio», e l'immagine cinematografica tende a dissolversi nell'«opacità della memoria» e nell'«asfissia». Ma ecco che, proprio quando sembra essere destinata alla nullificazione, alla stasi, all'ammutolimento, la narrazione riparte, rinasce inesauribilmente da se stessa di se stessa sempre andando in cerca, e i personaggi i fatti i volti gli eventi i paesaggi le parole si affollano, come ha dichiarato lo stesso autore, a «popolare il vuoto» (cfr. S. LANUZZA, Dall'isola universale. Scrittura e voce di Ignazio Apolloni, Arianna, Geraci Siculo 2012, p. 84: ma il libro è utile, in generale, per un quadro d'insieme dell'autore, fra scrittura e arti figurative, fra estetica e società). La narrazione, del resto, nasce ed esiste per cercare di esorcizzare la morte, per rimuovere lo spettro del silenzio, per accendere ed animare la notte del ricordo, che resterebbe altrimenti spopolata e spenta. Anche di fronte all'abisso, allo smarrimento, all'orrore e all'errore, all'apparente non senso, lo scrittore non può che continuare ad agitare le armi innocenti dell'ironia, dell'intelligenza, della parola. Il romanzo Gilberte, forse l'opera dell'autore più equilibrata, meditata e sostanziale, è certo una grande costruzione letteraria, un vasto ingranaggio d'affabulazione. Eppure, essa evoca da lontano, con una sorta di malinconia pudica, di lieve e atroce distacco, la tragedia delle persecuzioni antiebraiche, che di per sé vanificherebbe, o parrebbe vanificare – pur nella prismatica evanescenza di ogni accadere storico, o forse proprio in virtù di essa – qualsiasi discorso narrativo, qualsiasi tentativo di riordinare o di elucidare gli eventi attraverso la scrittura. L'ambiguità, la polisemia, la polifonia – tutti elementi che di per sé si traducono in un effetto straniante e spiazzante – divengono invece, qui, in pari tempo, programmaticamente, segni e manifestazioni non dell'ingannevolezza o della mistificazione, ma della perenne vitalità, della continua creazione, del romantico genio, insiti nel linguaggio. Gilberte è, al suo nascere davanti all'immaginazione, alla vis imaginativa, dell'autore, secondo una simbologia ebraica che rimonta alla mistica de Liber Zohar, luce e miele, radiosità e dolcezza, ineffabile dissolversi di parvenze e ricomporsi di forme e di contorni. La costruzione di un personaggio, la rievocazione e l'intreccio delle sue memorie, sono un lungo viaggio, che presuppone, prima di partire, un «lasciare sedimentare la memoria», il recupero di una «purezza fantasmatica». Ma l'«olocausto delle memorie» potrebbe infine essere inutile; lo sbocco ultimo potrebbe essere il riconoscimento, anch'esso ebraico, della vanitas vanitatum, dell'«assoluta vanità della ricerca». Lo sguardo del narratore, proprio per questo, «indaga la superficie delle cose come se al fondo non ci fosse nulla». Questa profondeur de la surface, questo come se, questo quasi-nulla, questa «arte del nonostante» diceva Lukács, sono tutto ciò che la letteratura può opporre al nulla della storia e all'abisso dell'insensatezza. Pur “patafisico” e “pantagruelico”, pur ironico, antiretorico e straniante, Apolloni finisce dunque per affrontare, senza risposte univoche e definitive, senza «la formula che mondi possa aprirci» – lui «prigioniero delle parole», e per ciò stesso pronto ad immergersi nel «tempo senza tempo» della narrazione, nella mobile immobilità, nella fluente imago aeternitatis, del discorso – , il senso ultimo dell'esistenza, della storia e, di riflesso, della letteratura.
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