di Franco Trifuoggi
Dell’autore di questa silloge (Segmenti memoriali, Thule, Palermo 2014) giova anzitutto ravvisare la non comune poliedricità. Stefano Lo Cicero, infatti, è insieme pittore, scultore, autore di canzoni, da lui stesso interpretate, oltre che poeta in lingua e in vernacolo, gratificato di numerosi premi in Concorsi nazionali, come ci informa Lilli Rizzo Del Bosco nelle accurate Note biobibliografiche inserite nel volume. Della sua genialità di pittore parlano al lettore le illustrazioni, presenti in prima e in ultima di copertina come nell’ambito del testo, che riproducono suggestive opere del Maestro.
La poetica di Lo Cicero è manifesta nelle liriche L’artista e L’alba, ove l’arte è riconosciuta “fantastica espressione dell’io”, per cui l’artista, “rapito a inseguire / esaltazioni istintuali”, ne avverte le pulsioni della mente e del cuore “protese alla luce / che inonda i suoi cieli / permeati d’incanto e d’infinito”, si muove “tra stupori di gioia e meraviglia / guidato da impulsi ispirati” e dà fama e vigore a ogni suo palpito ed emozione; donde egli diviene “il protagonista di sé / e del suo operato”, consapevole del potere dell’arte di nobilitare “il senso della vita / e delle cose”.
Una ricchezza spirituale, dunque, la cui intensità urge chiedendo di essere tradotta in liricità di versi quando non in fulgore di immagini pittoriche o vigore plastico di creazioni scultoree. E che alimenta, quindi, un discorso poetico sempre ispirato e fervido, che si fa non di rado incandescente e vulcanico, come opportunamente nota Giuseppe Cottone, uno dei suoi interpreti più acuti; mentre lo stile, nella sua tensione, è spesso “incisivo, tagliente, martellante più che metallo sotto i colpi del maglio”, per dirla con Enzo Siciliano, così come riesce a dar nuova vita e freschezza a stilemi vieti o triti: “onda dei desideri”, “spiagge assolate”, “mete agognate”. In realtà l’universo lirico di questo poeta “raffinato e sincero, rarefatto e concreto, reale e metafisico nel suo percorso di vita” – come lo definisce Salvatore Lo Bue nella sua dotta prefazione – si caratterizza già per l’incidenza di due specifici vettori lirici: la vertiginosa ansia cosmica e lo slancio del pensiero verso approdi metafisici: lo esalta la ricerca insonne di valori perenni, la sete di Assoluto che lo induce a guardare oltre la superficie delle parvenze sensibili, sotto il dominio di una fantasia accesa e talora iperbolizzante. La prima di queste due direzioni, segnata da note apocalittiche (L’ultimo grido; Quando i cieli…) culmina nella “tragica prospettiva della fine” di cui discorre Lucio Zinna a proposito della silloge Cuda di dragu, nell’angoscia della dissoluzione (“…l’uomo, ombra di sé, / nell’involuzione cosmica / di mondi sconvolti / avverte la dissoluzione / del proprio essere / occultato dalla stessa luce / che lo ha generato”) che mi fa pensare, pur nella difformità del dettato espressivo, alla “paura totale” racchiusa da Antonio Delfini nei versi delle Poesie della fine del mondo. La seconda indulge a un penchant ermetizzante in cui pare talora raggrumarsi la trasparenza di quella “straordinaria fluidità stilistica” lodata da Pietro Mazzamuto nella motivazione del Premio Marineo del 1999: è il caso di liriche come Accordi, Prospettive e La ragione: “Nell’ambiguità di strani sortilegi / incestuosa tra pallide lune / avviluppandosi in substrati sensoriali / si piega la ragione…”.
Accanto ad essi si adagiano i toni meno accesi dell’elegia delle memorie come della maliosa avventura dell’amore e della contemplazione della vita della natura. Ecco allora (Aspettare) l’attesa “che l’ora che viene / rivesta i colori di cose perdute”; e in Ricordi perduti il ridestarsi dei “sogni fanciulli”, delle “illusioni sopite”, suscitatrici di una “arsura antica” e di una “febbre nuova”, che si smorza nel consolante candore di una preghiera: “…Sorreggimi, o Signore / ispirami con la Tua parola, / fa che ritrovi la mia essenza / per vivere intensamente / la vita che mi offri”. E a Dio si volge il breve giro di un’invocazione ansiosa: “Fondermi nella Tua parola / e ritrovarmi genuflesso / ai piedi del Tuo altare / trafitto da un raggio di luce / e il cuore spento per sempre”; come la fervida richiesta di donare agli uomini pace e amore. La caduta delle illusioni ispira all’uomo l’ansia di “scoprire tra cieli luminosi / la strada dimenticata / che lo riporta a Dio”.
La vicenda dell’amore, poi, pervade vari lacerti lirici, ove esso appare foriero di tenerezza e di felicità (Questo mio momento), ebbrezza dei sensi (Il semaforo), abbandono estatico, commozione condivisa, soavità di baci in un incredibile ritorno, rivelazione di primavere immune da inganni, o si vela di pianto alla fine dell’idillio, o è trepidazione dell’animo immerso nella luce degli occhi di lei: versi liberi, di immediata e suasiva comunicatività, pieni di luce e di tenero incanto, ove palpita un animo rapito dal suo mistero, alonato dal respiro del mare o dal fulgore del sole, con approdi di morbidezza melodica: “Quanta felicità m’infondi / quando mi guardi / e mi sussurri amore: / dal mio cuore / languido di bene / palpitano effluvi / di tenerezza e ardore /… / Come è intenso / questo mio momento, / come è divino e grande / il rapimento / che a te mi unisce / e mi parla piano / per dirmi: sei tu l’amore, / tu sei l’arcano”. Mentre in Noi si celebra un’armonia quasi panica di lei con la vita della natura. E in essa – che sia pianto di stelle o volo di colombi o “abbraccio dorato” del sole o maree d’alghe recise e “scogli aguzzi” – il poeta trova (o cerca) l’affiatamento dello spirito alla bellezza o il riscontro di una speranza: “Trepidi di rugiada / fremono i clivi, /s’indorano/ le chiome vergini / dei pioppi. / All’alito di brezza / le foglie frusciano / i sospiri del giorno”; pur se “vedere il sole / nascere e morire” lo riconduce alla triste contezza del continuo consumarsi della vita. Nell’evocazione dell’amore come in questo abbandono alle parvenze naturali (temi non di rado fusi) la vocazione lirico-pittorica dell’autore compie, a mio avviso, le sue prove più alte e convincenti: “…La luce di un giorno d’agosto / si specchia suadente / nell’onda estasiata del cuore / a scoprire le gioie / sublimate d’azzurro / imperlate / d’anima e di sogno. / Abbandoni di salso sapore / solcano cieli / ubriachi di te, / di che ti libri / nel turbine avvolgente / di trepida luce / che t’accarezza e rapisce / portandoti a me”.
L’effervescenza della fantasia e la perizia espressiva si dispiegano nella frequenza di metafore, di sapienti accostamenti rematici, di effetti di straniamento: “sul pentagramma delle ricordanze”; “cadenzati stupori / di frenesie d’albe”; “miraggi damascati”; “le pallide dune / dei ricordi”; “nel pozzo della vita”; “abisso denso d’inganni”; “amorfi silenzi”: “caroselli d’inerzie, / d’illusioni ovattate”; “pianto di stelle / allucinate all’alba”. In essi si risolve efficacemente la tensione di una poesia articolata in una pluralità di registri e veramente “ricca di pathos, di sentimenti vibranti, di snodi esistenziali” – come la vede Tommaso Romano – e pienamente degna, nella sua originalità, della molteplicità di giudizi largamente positivi di illustri critici che completano la struttura del volume.
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