domenica 18 gennaio 2015

Ricamare il tempo (Thule) di Adalpina Fabra Bignardelli

 di Annamaria Amitrano
 
Una location splendida per una serata da ricordare per vari motivi: per l’atmosfera che la musica fin qui ascoltata ha contribuito a creare; ma, principalmente, perché festeggiamo lo splendido compleanno di questa nostra comune amica, che ha voluto segnare questa importante tappa del suo cammino, con un’opera che è un po’ la sintesi della sua esperienza di vita e di ricerca. Conosco Adalpina Fabra Bignardelli da tempo, e so come per Lei sia stato importante abbinare alla sua “normale” vita familiare e di lavoro, il piacere della ricerca, principalmente su questo argomento che le sta così tanto a cuore.
Quindi una serata speciale per un libro particolare che, alla mia competenza antropologica,
-da etnostorico e storico delle Tradizioni popolari- non esito a definire completo; in grado di segnare una tappa sullo sviluppo degli studi in questo settore, ma anche, in senso lato, sul valore culturale del fare tradizionale; valore di cui, nel contesto della società dei consumi nella quale viviamo, si è disperso il contenuto. Gli oggetti odierni che inondano la nostra vita sono, difatti, principalmente dati economici: più oggetti si producono e si consumano, maggiormente “tira” l’economia; e noi pensiamo di “”star bene”, di essere felici!
Ebbene l’assunto da cui muove questo volume è esattamente opposto: gli oggetti sono “culturali” perché dietro hanno le mani che pensano; la cultura materiale non si trama sul consumo infinito delle cose “usa e getta”; bensì nasce dalla mediazione di valore esistente tra la Natura e il potere di trasformazione che l’Uomo possiede e che gli permette di produrre oggetti, non soltanto funzionali, ma anche di pregio.
L’universo dei manufatti, richiamato in questo testo, è un universo di eccellenze artigianali. L’Autrice sembra volerci ricordare che il vero potere non sta nel consumo di massa, bensì nella capacità di apprezzare storicità, qualità e specificità dei prodotti.
L’excursus storico parte da lontano; e attraverso lo “spulcio” capillare di fonti d’archivio, e di libri/documento, con pazienza certosina, la Bignardelli organizza e struttura un sapere che, se fa del ricamo il suo fulcro, teorizza tecniche e procedure di lavoro, con uno sguardo alla ricaduta sociale e culturale che questa Arte mette in campo. In primis si parla delle diverse fibre naturali, poi della loro trasformazione in tessuto, quindi del censo dei tessitori e dei ricamatori, infine dei prodotti, tutti di eccellenza, perché trasformati, con intelligenza creativa, da manufatti in preziosi artefatti, con il doppio obiettivo dell’uso (abiti, soprabiti, mantelli, biancheria, passamaneria, tappeti etc.) e dell’ornamento (coloritura, disegno, tramatura etc. ). In questo senso, il riferimento esemplare è al “tesoro” di Palazzo dei Normanni con il Mantello di Ruggero II, la Tunica bianca (alba) e la Cuffia di Costanza di Altavilla.
E mentre l’Autrice segue (ed esegue) la descrizione dell’oggetto, in contemporanea il volume contestualizza il ceto artigiano; fa menzione della economia di produzione e segnala l’importanza del mercato nella Sicilia del 1200-1300; sicché spiega in “maniera abbastanza originale” la presenza della forte influenza araba nei laboratori di Corte, ove spesso erano obbligati a lavorare gli schiavi; come spiega l’opportunità di far fronte alle richieste sempre più pressanti di “vestimenta” e manufatti, con la nascita dei laboratori “liberi”, vale a dire autonomi (attivi in specie nel quartiere Kalsa), in cui gli “artigiani villani” lavoravano a supporto degli opifici di Corte, così, dando corso alle commesse dei ceti nobili e curiali che vedevano l’abito come “etichetta” verso l’esterno, segno di potere e di ricchezza.
Nel libro si fa riferimento anche alle leggi suntuarie che in tempi successivi tenteranno di riequilibrare il lusso sfrenato delle Corti, tanto più che strideva con l’essenzialità dell’uso popolare, in grado di distanziare, proprio in base al “linguaggio” dei colori e degli ornamenti, l’abito quotidiano da quello festivo.
Lo sguardo perspicace, rivolto alla dimensione popolare, permette all’Autrice di dar vita anche ad una visione sociologica del ceto dei ricamatori: prima nella esclusività della loro maestranza maschile e, solo dal ‘500 in poi, aperta alle donne ricamatrici. E pure la Tradizione ci segnala l’arte del ricamo come prettamente femminile. Addirittura quasi un obbligo per le fanciulle da marito, - lo sottolineano ampiamente i due grandi studiosi di Storia delle Tradizioni popolari G. Pitrè e S. Salomone Marino - perché la giovane, per poter maritare, doveva preparare il corredo: manufatti, abiti, biancheria, da impreziosire con il lavoro dell’ago, perché rappresentava la sua dote, la sua ricchezza. Sicché più ricco e prezioso era il corredo, più ricco ed altolocato era il matrimonio.
Il vero è – ci dice la Bignarelli – che l’arte del ricamo e il il lavoro di ricamatrice permettono alla donna una rivendicazione di genere che, se nasce nel ‘500, successivamente si attesta come movente di riequilibrio sociale volto a dare un “mestiere” alle giovani ragazze. In tal senso, l’Autrice sottolinea l’importanza svolta dalle “Scuole”, che venivano supportate sia dalla Nobiltà che dal Clero, i quali vedevano nella formazione delle giovani ricamatrici una modalità per sottrarle all’indigenza, vuoi ai fini della obbligatorietà della dote, vuoi per dar loro una fonte di sostentamento.
L’analisi delle Maestranze: dei ricamatori e delle ricamatrici, che si protrae dal ‘500 all’’800, permette all’Autrice di fornire tante altre informazioni su come queste strutture si siano sviluppate nella loro funzione socio-economica: tant’è la sottolineatura di come alla Maestranza dei Ricamatori, che si riuniva nella Chiesa di Sant’Anna, a sottolineare il loro censo sia stato dato “l’onore delle armi”, e così, fino alla sua estinzione, dovuta al fatto che quello del ricamatore era diventato un lavoro “tipicamente” femminile.
Un volume, dunque, che nella sua complessità e nell’articolata trama delle sue fonti ci informa su ben 500 anni di un’Arte che in Sicilia ha prodotto cose straordinarie; e un volume “unico” per messe di informazioni e architettura sistematica dell’informazione stessa; si parla di: tessuti, punti, ricami, manufatti, capi di biancheria, vestiti, paliotti di altari, arredi e corredi e quanto altro di prezioso possiede la Sicilia nel settore manifatturiero; il tutto schedato e commentato e con l’indicazione del luogo: Chiesa o Museo o Palazzo dove i reperti sono reperibili.
In pratica, una summa di cui mi piace sottolineare l’importanza, perché opera difficile da superare, essendo costata alla sua Autrice – come Ella stessa dice – una lunga e sfiancante ricerca tra carte polverose, a volte, indecifrabili. “Fatica” però compensata dalla perseveranza e dalla passione, sentimenti che dovrebbero essere sempre patrimonio dei ricercatori, e, sulla cui esaltazione, in Adalpina Fabra Bignardelli, mi piace concludere.

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