di Gianandrea de Antonellis
«O cavallina, cavallina storna / che portavi colui che non ritorna!» Questi versi di Giovanni Pascoli, un tempo patrimonio mnemonico di tutti gli allievi delle scuole elementari, si riferiscono al delitto, rimasto impunito, del padre del poeta, Ruggero, amministratore di una tenuta romagnola dei principi Torlonia, che nella sera del 10 agosto 1867 venne assassinato mentre tornava a casa sul proprio calesse. La tragica vicenda di Ruggero e della sua famiglia influì pesantemente sulla psicologia del futuro poeta e nelle menti dei bambini che imparavano i suoi struggenti versi rimaneva stampato il ricordo del nitrito della cavalla, lanciato dalla fedele giumenta quando la madre del giovane Giovanni (non aveva ancora dodici anni al momento del delitto) le sussurrò nell’orecchio il nome dell’assassino («Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: / disse un nome… Sonò alto un nitrito». Ricordato costantemente a scuola, il caso fu invece archiviato in tribunale, in quanto il criminale fu protetto dalla rete omertosa che – in Romagna come in Sicilia – fece scendere l’oblio sull’omicidio.
Ora Rosita Boschetti, direttrice del Museo Casa Pascoli di San Mauro, avvalendosi di inedito materiale archivistico, ha ripercorso le vicende del tempo, spostando l’attenzione dal punto di vista della criminalità comune (vendette di contrabbandieri? offese personali? minacce di licenziamenti in seguito a ruberie scoperte dall’amministratore?) a quello di un delitto attentamente premeditato, su un agghiacciante sfondo politico. La Romagna infatti era (e lo sarebbe ancora stata a lungo) terra di torbidi politici (non a caso da queste parti è ambientato Una tempesta di E. A. Butti, del 1903, unico dramma campestre di un autore settentrionale, che culmina con l’omicidio politico di un proprietario da parte di un agitatore comunista).
Basti pensare che «all’indomani del delitto, i giornali riferirono la notizia laconicamente e senza rilievo poiché né la personalità della vittima, né l’ambiente in cui era stato perpetrato il delitto, e neppure le circostanze, abbastanza consuete, presentavano elementi sensazionali» (p. 69, corsivo nostro). Una consuetudine al delitto che insanguinava una regione, la Romagna, dove esistevano gruppi di mazziniani, eredi delle vendite carbonare, i cui adepti erano vincolati da stretti patti di omertà e di obbligo al delitto.
«Gli anni immediatamente successivi all’annessione al Regno saranno caratterizzati da continui disordini, rivolte, da innumerevoli grassazioni e delitti che resteranno in gran parte impuniti. Nel delicatissimo periodo successivo all’unificazione, l’autorità politica e quella di polizia non saranno in grado di controllare questi fenomeni, per la presenza capillare, specie in Romagna, di vere e proprie sette repubblicane che si ribellavano al nuovo governo di impronta monarchica» (p. 40). A ciò si aggiunse il rincaro del grano, causato della politica di liberalizzazione dei Savoia.
Ruggero Pascoli, checché ne pensassero i giornali, era un uomo in vista, tutt’altro che ignoto, essendo sindaco del suo paese e consigliere comunale in carica al momento dell’omicidio. Esso rimasto senza colpevoli perché, fin da subito, una rete omertosa evitò qualsiasi testimonianza: la prima deposizione scritta che indicava i colpevoli sparì nottetempo dal tavolo del giudice istruttore, subito rimpiazzato da un collega che ricominciò da capo le indagini, scontrandosi con un muro di silenzio,
Giovanni Pascoli, il poeta, si lamentò per l’intera esistenza che il processo fosse stato bloccato dalla ricerca immediata di un possibile mandante, facendo brancolare nel buio le forze dell’ordine, anziché cercare prima gli esecutori, che la gente del luogo aveva individuato, e da questi risalire a chi li aveva inviati.
Ad oltre centocinquant’anni dal caso la Boschetti è pressoché sicura: si trattò di tal Pietro Cacciaguerra, colui che prese il posto di Ruggero Pascoli quale amministratore dei Torlonia, famiglia francese trapiantata nel Settecento a Roma e divenuta in breve ricchissima e potentissima anche per la bonifica della piana del Fucino (si veda il romanzo Fontamara di Ignazio Silone, che dipinge i recenti principi come particolarmente attenti al denaro, da commercianti e banchieri da poco nobilitati quali erano). Questi si fece aiutare da un certo Achille Petri, che vivendo alla Torre, dove abitavano i Pascoli, ebbe agio di chiedere a Ruggero di farsi venire a prendere alla stazione di Cesena, quel lontano 10 agosto, ma non si fece trovare all’appuntamento. Ecco perché Pascoli padre tornò – da solo – alla masseria, esponendosi al fuoco omicida.
Lo studio della vicenda porta alla luce una serie di collusioni che giustificano l’omertà: dal faccendiere Cacciaguerra al suo primo datore di lavoro, il marchese Guiccioli, già Ministro della Repubblica Romana ed eletto, grazie a brogli del suo dipendente, proprio nello stesso 1867 al Parlamento (dove però si schierò con la vincente Destra storica), che vedeva di buon grado un suo uomo entrare nell’amministrazione Torlonia, per mettersi in affari con il Principe.
Solo con aderenze sociali e politiche di questo tipo e con un settarismo mazziniano che ha i tratti della mafia («sette pseudo politiche, in realtà di grassatori e assassini, della Romagna», p. 53) si possono giustificare continua omertà, carte sottratte ai giudici, indagini sviate o addirittura testimoni chiave uccisi fin dentro il carcere il giorno prima di essere ascoltati in tribunale… Non a caso Giovanni Pascoli disse che si poteva parlare “non di semplice trascuratezza, bensì di vera e propria connivenza” della polizia.
Quindi, se il maggior colpevole risulta Pietro Cacciaguerra, «l’unico a possedere tutti gli strumenti indispensabili al piano delittuoso: la ricchezza, le conoscenze politiche, l’assidua frequentazione dell’ambiente repubblicano, l’ambizione economica, la tenacia e determinazione» (p. 103), l’intero ambiente che gli gira intorno (repubblicani, mazziniani, criminalità comune travestita da politica, deputati, possidenti) viene realisticamente dipinto con tinte fosche dallo studio della Boschetti. Questa era la nuova Italia sabauda, l’Italia liberale, l’Italietta che si apprestava ad attendere la sconfitta di Sedan per aggredire Roma e farne la sua capitale.
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