venerdì 26 gennaio 2018

Prefazione al volume di Tommaso Romano, "Profili da Medaglia" (Ed. Thule)

NELLE ACQUE DELLA MEMORIA

di Gennaro Malgieri

Nuotando nelle rigeneranti acque della Memoria, Tommaso Romano ha incontrato se stesso sfiorando o conversando con le nobili anime a cui si è accostato nel corso della sua vita intensa e feconda. E tra i flutti non ha mancato di decifrare, a posteriori, il senso di quegli incontri che hanno segnato il suo percorso esistenziale e spirituale. Ne è venuto fuori non un volume di ricordi punteggiati da aneddoti più o meno interessanti – e sarebbe forse bastato – bensì la sintesi di un’iniziazione ragionata, meditata, interiorizzata che ha avuto a protagonisti i personaggi biografati, le loro opere e molte letture che di lato hanno “invaso” la formazione intellettuale dell’autore.
Sicché noi oggi leggiamo in questi ritratti (che sono qualcosa di più, a mio avviso, forse brevi saggi o brandelli di riflessioni veicolati da spiriti non comuni quando non eccezionali) la visione di un’epoca tramandataci da uomini che, trapassati da tempo, hanno indicato un cammino che non s’è interrotto con la loro dipartita. Al contrario, quel cammino che non sempre, quando erano in vita, siamo stati in grado di decifrare adeguatamente, adesso, al culmine di una disperante crisi spirituale, morale, religiosa e civile che avvolge come non mai l’Occidente, ci appare lineare e luminoso per chi voglia davvero, al di là di ogni abusata retorica, non soltanto tenersi in piedi tra cumuli di macerie, ma mostri anche l’intenzione di rimuoverle.
Romano, con squisita sensibilità e rara capacità di sintesi, mette insieme in queste pagine ispirate e corroboranti per chi le legge, personaggi – o sarebbe meglio definirli più propriamente “anime” – con cui ha intessuto colloqui più o meno intensi a margine di un’attività editoriale improntata alla riscoperta della vitalità della Tradizione come fondamento di una Weltanschauung propria anche dell’inconsapevole “anarca” (nel senso jüngeriano) che voglia “attraversare il bosco” per sottrarsi all’inquinamento della modernità.
Ma sarebbe banale definire semplicemente “editoriale” (per quanto nobile) il prevalente intento di Romano perseguito fin da giovanissimo e protrattosi, senza soluzione di continuità, fino a lambire l’età matura, quella nella quale i consuntivi prevalgono sui progetti che, a dire la verità, ancora animano i pensieri e riempiono le giornate dell’“inventore” di Thule, riferimento per la mia generazione (e non soltanto) dalla quale si sono dipanati nell’arco di quasi mezzo secolo indirizzi culturali sostanziati da iniziative che hanno del miracoloso, considerando la scarsità dei mezzi che tuttavia non ha mai impedito al promotore di esercitare un’influenza decisiva sullo schieramento oppostosi al pensiero unico, al relativismo culturale, al determinismo materialistico.
E sono questi i temi, declinati ovviamente, com’è naturale che sia, in maniera diversa, che hanno legato Romano ai personaggi ricordati e messi in fila in questo libro.
Ogni capitolo un ritratto; ogni ritratto una fonte di ispirazione e di interpretazione della critica della modernità; ogni suggestione appesa al ricordo, un po’ di rinfrescante vento che ritorna rendendo il deserto che abitiamo meno arido, o almeno così ci appare.
La denuncia della “desertificazione” delle idee e della lotta che per esse nel passato neppure tanto lontano è stata combattuta, infatti, sembra emergere come l’intento precipuo che questa silloge intende evidenziare, al di là del pur lodevole omaggio ai personaggi ritratti.
Se si pone mente, infatti, al ruolo svolto da pensatori, ideologi, scrittori, poeti, politici che non hanno esitato a vivere il Novecento controcorrente, mettendosi consapevolmente contro il sentire comune ed incuranti dell’impopolarità decretata dalle polizie del pensiero universale, si resta allibiti nel constatare come il “fronte” controrivoluzionario (così l’avremmo definito tempo fa) si sia dissolto in Italia non meno che in tutto l’Occidente, salvo la presenza di oasi minoritarie tuttavia slegate e distanti, incapaci di nutrire un progetto unitario di rinascita spirituale. Il nichilismo ha colpito anche laddove non immaginavamo: al tempo in cui i compagni di viaggio di Romano, temprati da cimenti intimi e collettivi, in un secolo nel quale gli incendi diventavano rivoluzioni e le rivoluzioni mutavano – nel bene e nel male – i destini dei popoli, la decadenza si faceva sentire più forte sino agli odierni esiti.
E da questo nichilismo si esce soltanto riprendendo i sentieri interrotti indicatici da uomini i cui scritti, unitamente alle loro storie, risultano indispensabili per scacciare il demone della solitudine che ci possiede, lenito dagli inutili gadget della modernità che hanno sostituito il pensiero con l’idiozia di massa, il comunitarismo con la virtualità dei sentimenti, le conquiste dell’anima con sesso e denaro.
Ci danniamo l’anima – ma non sempre siamo capaci di ammetterlo – impegnandoci nella costruzione di paradisi artificiali nei quali l’assenza del sacro, la chiusura alla metafisica ed alla contemplazione come azione alimentano il vuoto fino a dilatarlo a dismisura. E questa condizione rimanda alle premonitrici indicazioni di tanti dei personaggi tratteggiati da Romano: Eliade e Jünger, de Tejada e Panunzio, Evola e Del Noce, Gianfranceschi e Cattabiani, Allegra e Fergola che hanno esercitato un magistero che resterà indelebile per chi vorrà sottrarsi alla dissoluzione di ciò che è stato creato per restare, per non essere devastato dall’ingordigia umana, sfregiato dalle pulsioni elementari incontrollate che la “società affluente” nullifica proprio cancellando la memoria, riconnettendosi ad un’idea di storia che si è imposta più di due secoli fa con la più mostruosa delle rivoluzioni, la più sanguinaria, la madre di tutti i postriboli dell’ideologia materialistica che con scientifica criminalità ha relegato in un immenso “cattiverio” la dignità di larga parte del mondo.
E’ dal 1789 che l’umanità ha perduto la sua fisionomia. E da allora non mancano coloro che in ogni tempo, e con alterne fortune, si battono per la restaurazione dell’ordine e del diritto naturale. Gli epigoni sono qui.
Almeno quelli che Romano ha avuto la fortuna di incontrare condividendo con loro pensieri lunghi abbastanza da tramandarceli perché possano vivere e svilupparsi tra le nostre mani e tramandarli alle generazioni future. Il fine è quello di suscitare una reazione, simile a quella adombrata tanti anni fa nelle pagine di un libro di Jacques Ploncard d’Assac nel quale ne tesseva l’apologia. E’ di questa reazione che abbiamo bisogno. E non è un caso se anche vecchi manipolatori del pensiero e propagandisti del crimine comunista si stanno riconvertendo forse sulla base di spunti tratti dalle opere di molti degli uomini che appaiono in questi esercizi di ammirazione che Romano ci propone.
Ritrovo qui, oltre ai personaggi citati, tanti amici e maestri, da Almirante a Rauti, da Vettori a Oxilia, da Tangheroni a Staglieno, da Accame a D’Asaro, da Vitale a Boschiero che hanno accompagnato, insieme con molti altri, la mia vita. Perciò sento questo libro un po’ mio e credo che alla stessa maniera lo avverta la generazione alla quale appartengo. Sono grato anche per questo a Romano che in maniera sobria ed elegante, con lo stile che gli è proprio, insomma, ha fornito non un elenco agli immemori, ma ha regalato una carezza affettuosa ed intelligente a quanti molto hanno dato e poco vengono ricordati, mentre dai loro libri, discorsi, pensieri e frammenti di vita potrebbero attingere giovani disorientati che non sanno più da che parte volgere lo sguardo.
Se questo libro è l’ideario di una generazione, ancor di più è l’autobiografia intellettuale (ed intima) di un generoso interprete della Tradizione. Tommaso Romano non deve dimostrare più niente.

Basterebbe di lui dire che, da quando indossava i pantaloni corti, ha avuto la fortuna – per ragioni familiari, incontri giusti e proficui, sensibilità personale – di incamminarsi sulla lunga strada che lo ha portato a riconoscere la verità nella milizia scomoda volta ad affermare costantemente le ragioni della “buona battaglia”. E ad essa ha dedicato tutta la sua esistenza come scrittore, editore, animatore culturale, attivo protagonista della vita pubblica civile e politica. Non si è fatto mancare niente, insomma, Romano. Neppure questa refrigerante nuotata nella Memoria per trarre da essa nuove energie in vista di altre e più ardue, affascinanti avventure. Nel nome della Tradizione, naturalmente.

mercoledì 17 gennaio 2018

Il trionfo della fede contro i fanatici della secolarizzazione

di Domenico Bonvegna

Tutto il secolo scorso e parte dell'inizio del duemila è stato contrassegnato dall'idea che il mondo si sta sistematicamente allontanando da Dio. E' la tesi della secolarizzazione, diffusa dai vari laicisti, pasdaran del pensiero unico che attraverso i mass media di ogni genere hanno fatto credere che l'uomo moderno ha messo in soffitta ogni religione. C'è un libro, uno studio, di un sociologo americano che sfata il mito della secolarizzazione del pianeta, si tratta di Rodney Stark, “Il trionfo della fede. Perché il mondo non è mai stato così religioso”, pubblicato da Lindau (2017). L'importante pubblicazione è stata recentemente presentata da Matteo Matzuzzi, su Il  Foglio del 7 gennaio scorso e ripresa da padre Livio Fanzaga a Radio Maria.
Nei 10 capitoli del libro, Stark fa un ritratto globale della fede, ripercorrendo ogni angolo del globo, soffermandosi non solo sulle religioni più diffuse (dal cristianesimo all'islam, dal buddismo all'induismo, dall'ebraismo allo shintoismo), ma anche sulle tradizioni o credenze soprannaturali presenti in aree più circoscritte. Il testo riunisce un'impressionante quantità di statistiche elaborate da fonti autorevoli. Alla fine il sociologo delle religioni vuole affermare una sola cosa: “ il mondo non è mai stato così religioso”.
Stark smantella uno dei luoghi comuni della modernità più duri a morire: l'idea che le nostre società siano sempre più secolarizzate.“Non ha avuto paura di esagerare  - scrive Matzuzzi - mandando in stampa un libro che ha per titolo Il trionfo della fede”. (Matteo Matzuzzi, Dio non è morto, 7.1.18, Il Foglio)
Le conclusioni del professore americano sono sorprendenti, provocatorie, radicali e difficilmente schivabili, soprattutto per i lettori occidentali e laici. Praticamente l'81% della popolazione mondiale dichiara di appartenere a una religione organizzata; il 50% dichiara di partecipare ogni settimana ai riti della propria confessione. In America Latina, le Chiese protestanti pentecostali hanno convertito decine di milioni di persone e i cattolici che vanno a messa hanno raggiunto numeri senza precedenti. Poi, “ci sono più cristiani praticanti nell'Africa sub-sahariana che in qualsiasi altra parte della terra e ben presto la Cina potrebbe diventare il Paese con il maggior numero di cristiani”. Peraltro ogni spazio lasciato dalle confessioni organizzate, istituzionali, viene preso da innumerevoli credenze nel soprannaturale. In Russia, ci sono più guaritori che medici; il 38% dei francesi crede nell'astrologia.
Eppure nonostante tutto questo i media cercano di riportare “prove” del rapido declino della religione in America e nel resto del mondo. Lo spiega bene nell’Introduzione che nella traduzione italiana ha per titolo “Contro i fanatici della secolarizzazione”: “Si tenga presente soltanto un unico fatto: la stragrande maggioranza degli americani che dichiarano di non avere alcuna appartenenza religiosa pregano e credono negli angeli! Si tratta di una dimostrazione di non religiosità?”. I numeri, in modo inequivocabile confermano che da tempo, nel mondo, è in atto un massiccio risveglio religioso. Non solo cristiano, sia chiaro. Ma islam e induismo non crescono con la stessa rapidità del cristianesimo, nonostante quel che si potrebbe immaginare limitandosi a una superficiale osservazione di quanto quotidianamente accade nel mondo”. Stark nel libro riporta solide prove accuratamente documentate, anche se non si aspetta nessuna approvazione da parte degli intellettuali occidentali,“che sbandierano l'inevitabilità di un trionfo a livello mondiale della secolarizzazione, ovvero la scomparsa della fede nel soprannaturale, sostituita da credenze interamente materiali o laiche. Per loro, la secolarizzazione è un'incrollabile questione di fede”.
Questi intellettuali basano le loro convinzioni sulla“non frequentazione delle chiese nell'Europa moderna”. Infatti la maggior parte dei sociologi della religione inserisce l'Islanda tra i Paesi più secolarizzati.“Così facendo, però, devono ignorare il fatto che il 34% degli islandesi crede nella reincarnazione e un altro 16% non  ne è sicuro[...]”. Inoltre, pare che recentemente numerosi neopagani islandesi“si è dichiarato favorevole alla costruzione di un tempio dedicato al culto delle antiche divinità nordiche”. Tuttavia, soltanto il 3,5% degli islandesi si dichiara ateo. “Eppure, - scrive Stark - visto che i suoi abitanti non vanno in chiesa, l'Islanda deve essere considerato un Paese secolarizzato”.
Comunque sia qualcuno potrebbe obiettare che quello dell'Islanda è pura superstizione, non meritevole del termine religione,“dal momento che soltanto le fedi organizzate con elaborate teologie possono essere definite religioni”. Ma anche in Cina, c'è la stessa situazione circa il 77% della popolazione dichiara di non professare alcuna religione,“eppure quasi tutti questi cinesi 'non religiosi' si recano spesso nei templi tradizionali, dove offrono preghiere e doni a varie divinità perché vengano esaudite particolari richieste”.
E' evidente che Stark considera come eventi religiosi anche le religioni non istituzionalizzate e le forme di soprannaturalismo, che non dispongono di congregazioni organizzate e di solito non hanno un credo, e sono presenti in molti Paesi, in particolare nell'Asia.“Sebbene i dettagli siano spesso diversi da area ad area, la storia rimane grosso modo la stessa: templi, moschee, pagode, cappelle e chiese sono piene, e persino persone che non le frequentano si dichiarano religiose”.
Dunque, “qualunque cosa si possa dire di queste persone, non possono essere definite non-credenti, e i fanatici della secolarizzazione non possono neppure consolarsi con il notevole vigore delle religioni non istituzionalizzate in Asia o del soprannaturalismo non istituzionalizzato in Europa”.
Peraltro questi fanatici sono zittiti, dal più grande esperimento, il più grande test mai realizzato,“della loro tesi secondo cui modernità e scienza rendono non plausibile la religione”. E Stark riporta l'esempio dell'Unione Sovietica, dove per generazioni, “ha chiuso le chiese, perseguitato i credenti e reso obbligatorio che tutti gli studenti di ogni ordine e grado frequentassero ogni anno corsi di 'ateismo scientifico'[...]”. Peraltro, “il governo sovietico,“pensò bene di accelerare l'inevitabile processo di secolarizzazione, in cui la religione sarebbe scomparsa dalla faccia della terra – un processo che, in una forma forse più moderata, è un articolo di fede per molti dogmatici studiosi di sociologia”.
Attenzione, scrive Stark,“questo sforzo sovietico costituì un notevole esperimento naturale. Quale fu il risultato? Un rilevamento a livello nazionale condotto nel 1990, quando l'Unione Sovietica stava per crollare, rivelò che sessant'anni di indottrinamento intensivo avevano fatto sì che il 6,6% di russi si dichiarasse ateo, una percentuale soltanto leggermente superiore a quella relativa degli Stati Uniti.
Tra i numerosi sociologi fanatici della secolarizzazione, soltanto uno si è ricreduto, ritrattando quello che aveva scritto, è Peter Berger. Stark, usa le sue parole:“penso che quanto è stato scritto, da me stesso e dalla maggior parte degli altri sociologi della religione, negli anni '60 a proposito della secolarizzazione sia sbagliato[...]La gran parte del mondo di oggi non è secolarizzato. E' molto religioso”.
Certamente Stark osserva che questo risveglio religioso ha anche effetti negativi, “l'entusiasmo religioso troppo spesso generi odio e terrorismo religioso. In effetti, sommandosi alla globalizzazione, l'intensificarsi a livello mondiale della religiosità sta causando quello che Samuel Huntington definisce 'scontro di civiltà'.
Nel 1° capitolo, partendo dalla tabella 1.1 si mostra il numero di aderenti alle principali religioni: i cristiani sono 2,2 miliardi (33%), superano notevolmente i musulmani, che ammontano a 1,5 miliardi (22%), gli indù sono il terzo gruppo religioso, con un miliardo di fedeli (16%), seguiti dai buddisti con 500 milioni (8%). Gli ebrei sono 13 milioni (meno dello 0,2%). I secolarizzati ammontano a 1,3 miliardi (19%).
Naturalmente molti che si dichiarano religiosi sono non praticanti. Ci sono cristiani europei che non hanno mai messo piede in una chiesa e molti altri che ci sono stati soltanto una volta. Altri si dichiarano musulmani, ma non sono mai andati in una moschea. Tuttavia, “il fatto di non essere praticanti non necessariamente deve equivalere a non religiosità”.
C'è un dato significativo, viene smentito lo stereotipo dei musulmani come ferventi praticanti, il loro numero si riduce quasi quanto quello dei cristiani, se i dati si limitano alla frequenza settimanale. Altro stereotipo smentito è quello che “negli ultimi anni del XX secolo molti esperti avevano predetto che presto i musulmani avrebbero superato i cristiani come gruppo religioso numericamente più consistente. Le proiezioni erano basate sul fatto che i musulmani avevano un tasso di fertilità molto più elevato e non si prevedevano cambiamenti. Invece - scrive Stark - il tasso di fertilità iniziò a diminuire. Oggi è al di sotto del livello di sostituzione in Iran, Siria e Giordania; e si prevede che, nei prossimi anni, in generale il tasso di fertilità della popolazione islamica mondiale scenderà a al livello di sostituzione o persino al di sotto”.
Un altro aspetto che riguarda il pianeta Islam è che la religione islamica,“genera una crescita molto ridotta mediante conversioni, mentre il cristianesimo gode di una consistente tasso di conversioni soprattutto in Paesi situati in quello che il mio collega Philip Jenkins descrive come il 'Sud globale', ovvero Asia, Africa sub-sahariana e America Latina”. Tra l'altro scrive Stark, “in queste conversioni non sono conteggiati i milioni di convertiti che si registrano in Cina. Pertanto, i trend di crescita attuali fanno prevedere un mondo sempre più cristiano”.
Stark smonta diversi stereotipi, tipo quello che molti sociologi hanno fatto credere che l'ateismo stia dilagando in tutti i Paesi “moderni”. Anni fa il sociologo Phil Zuckerman, vinse un premio con un libro Society without God, in cui spiega che i svedesi e danesi sono felici “anche se non venerano nessun dio”. Il sociologo aveva basato il suo libro su interviste di appena 150 danesi e svedesi. Avrebbe dovuto consultare i dati dei World Values Surveys (WVS), fondati su un campione vasto e correttamente selezionato, “se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che nella danimarca 'senza Dio' soltanto il 5% dichiara di essere ateo e che nella Svezia 'senza Dio' soltanto il 16,8% fa lo stesso”.
Stark può affermare che nella maggior parte del mondo, “gli atei ammontano a una minuscola percentuale della popolazione. Soltanto in undici Paesi raggiungono il 10% della popolazione, e in nessun paese superano il 30%. Gli atei poi sono estremamente rari nei paesi islamici, nell'Africa sub-saharina e nell'America Latina. Persino negli Stati uniti, che hanno trasformato in bestseller libri di 'nuovi atei' come Richard Dawkins, Sam Harris, Daniel Dennet e Cristopher Hitchens, solo il 4,4% della popolazione si dichiara atea”.
La più ragionevole delle conclusioni è che la maggioranza della popolazione mondiale crede in Dio.
Sono interessanti le riflessioni sulle condizioni religiose del continente europeo, si presume che esso rappresenti un gigantesco declino rispetto a epoche più antiche e che rappresenta il rifiuto delle credenze religiose. Per il sociologo americano, questo è falso. Lo dimostra nel 2° capitolo, descrivendo l'anomalia Europa.
L’esempio, che Rodney Stark porta da anni, è quello del medioevo, considerato – “giustamente” “l’età della fede”. Indagini accurate però hanno rivelato che in quei secoli “quasi nessun europeo andava in chiesa, e i teologi cristiani medievali condannavano la religiosità popolare come pura e semplice superstizione e magia, o persino stregoneria. Eppure, nessuno oserebbe ipotizzare che l’Europa medievale fosse fortemente secolarizzata”. Già Walzer, nel 1965, aveva scritto che la società medievale era composta in gran parte da non praticanti e i resoconti giunti fino a noi lo testimoniano. Ci sono diversi fatti curiosi riportati nel libro riguardo i tempi medievali.
Ritornando al presente“in Europa le chiese saranno pure vuote, ma il soprannaturalismo non convenzionale è in pieno boom. Questo è vero soprattutto nell'Europa dell'est, ma ciò non toglie che indovini, astrologi e venditori di amuleti possono guadagnarsi da vivere più che bene anche nell'Europa occidentale”. E poi si potrebbero citare il numero dei pellegrini (66 milioni) che si recano annualmente nei 6.130 santuari presenti nell'Europa occidentale.
Stark fa riferimento al caso Svezia, in testa a tutte le classifiche dei paesi secolarizzati. Nonostante tutto, la grande maggioranza della popolazione si dice cristiana, seppure “a modo mio”. Il settanta per cento ammette di porsi il problema del significato e dello scopo della vita. Il settantotto per cento vuole una funzione religiosa al momento della morte. Il sessantadue, in occasione del matrimonio. Fede un po’ naïf o tiepida? Può darsi, ma l’elemento religioso c’è, di certo più evidente nei paesi a tradizione cattolica rispetto a quelli protestanti. “Il motivo principale – scrive Stark – è che il clero cattolico accetta e predica ancora il messaggio cristiano di base, mentre un gran numero di ecclesiastici protestanti si considera troppo ‘illuminato’ per farlo”.
Altri aspetti da considerare sono quelli del clero “illuminato”, in particolare quello protestante, che paradossalmente non crede più in Dio. Stark porta qualche esempio. C'è poi la questione del pluralismo e delle Chiese forti. La competizione favorisce le religioni identitarie.
Per quanto riguarda l'America Latina, qui il paradosso è eclatante: “L’America latina – scrive Stark – non è mai stata così cattolica e questo perché oggi ci sono così tanti protestanti”. In sostanza, qui la chiesa cattolica ha toccato nuove vette di impegno da parte dei suoi membri grazie “all’adozione di strumenti tipici dei suoi competitori protestanti pentecostali. La scienza si limita a studiare il mondo naturale, ma nulla può dire sull'esistenza o la natura di una realtà non empirica La cattolica America latina del mito sta diventando una terra di cristiani carismatici”. E’ l’attrazione che fa crescere la chiesa, non il proselitismo o il compromesso politico.
Il testo tratta poi della religiosità nell'Africa sub-sahariana, di quella degli Usa, il caso Giappone e Cina, e tanto altro, non posso che rinvirvi alla lettura dell'interessante e documentato testo del professore americano.

“Contrariamente alle costanti profezie secondo cui la religione è condannata a scomparire, che sia in atto un risveglio religioso a livello mondiale è dimostrato da molte prove”. Mai si era verificato nella Storia che “quattro persone su cinque avevano dichiarato di professare una delle grandi religioni mondiali”


martedì 2 gennaio 2018

L’infame Sant’Oscar di Oxford, poeta e martire

di Luca Fumagalli

La vita di Oscar Wilde, una tragicommedia in quarantasei atti – tanti gli anni che visse lo scrittore irlandese –, se non fu un’opera d’arte, fu almeno un ottimo esempio di quel dramma intimo che caratterizza l’essere umano, in costante palleggio tra gli estremi opposti della carne e dello spirito, della virtù e del peccato, della santità e dell’abiezione. Esattamente come i suoi arguti giochi di parole, anche la parabola esistenziale di Wilde fu un ossimoro irrisolvibile, una lotta di contrasti che, hegelianamente parlando, non riuscì mai a trovare una sintesi efficace. Al povero Oscar mancò la profondità cristiana di un Chesterton – sommo maestro nell’arte del paradosso, capace di svelare verità abbaglianti nascoste sotto la fanghiglia di un caos apparente – o, più semplicemente, la volontà di assecondare fino in fondo quella “tentazione cattolica” che fu compagna quotidiana della sua maturità. Volle provare i piaceri della vita, scordandosi però di una buona metà di essa: solo dopo la dura esperienza del carcere capì sulla sua pelle che, oltre all’esaltazione, esisteva anche l’espiazione.
Fu proprio Wilde, in un lontano venerdì del marzo 1897, a scrivere da Parigi al fidato Robbie Ross: «ora vivrò come l’infame Sant’Oscar di Oxford, poeta e martire». Lui stesso era intimamente consapevole di una scissione che lo attraversava, di un frantumazione che era quella delle voci messe in scena nei suoi dialoghi o nelle sue commedie. Merlin Holland, nipote di Wilde, ha scritto pagine illuminanti sull’impossibilità, per i biografi, di afferrare l’anima del nonno fino a quando non verrà accettata l’idea di Oscar Wilde come di un caleidoscopio multicolore di apparenti contraddizioni, che necessitano non di soluzioni ma di apprezzamento. È evidente che la questione di fondo verte su uno “sdoppiamento” che è ultimamente impossibile da decifrare, pena la pubblicazione «di una detestabile edizione economica di un grande uomo».
In questo senso, per esempio, si sono mossi in anni recenti diversi studiosi cattolici come, tra i tanti, Joseph Pearce, Paolo Gulisano e padre Leonardo Sapienza che, nei rispettivi lavori, hanno tentato, peraltro con ottimi risultati, di far riaffiorare la storia spirituale di Wilde, presente tanto nella sua biografia quanto nella sua opera. Rileggerne i capolavori, a partire dall’immortale Il ritratto di Dorian Gray fino ad arrivare ai testi per il teatro e alle fiabe, è fare una meritoria opera di revisionismo storiografico, che stacca dal frigorifero delle superficialità mass-mediatica – pieno solamente di marci luoghi comuni – le calamite delle varie riduzioni a icona subite da Wilde, per ridare corpo e anima a un genio che, troppo spesso, si è preferito fare a brani per renderlo digeribile ai moderni cannibali del pensiero unico. L’esteta, il giovane massone e l’anticonformista omosessuale, quantunque siano aspetti pruriginosi ed essenziali di quell’oggetto delicato che è lo scrittore irlandese, non bastano comunque a definirlo.
Silvia Mondardini, insegnante e ricercatrice universitaria, con il saggio L’infame Sant’Oscar di Oxford, poeta e martire (Liguori, 2008) offre, nella varietà di una prosa accattivante, un ritratto convincente di Wilde. Bandite le note a piè di pagina per un approccio più diretto – ma non per questo meno documentato – il libro, che attinge a piene mani dalle lettere del dandy par excellence, si pone come una sorta d’introduzione all’avventura umana wildeiana, rinunciando preventivamente a etichette di comodo o facili semplificazioni. Forse costituisce, più che le corpose biografie di Philippe Jullian e Richard Ellmann, un valido primo approccio al Gerione col garofano verde, fornendo al lettore uno sguardo che spazia a 360° e che invita a ulteriori approfondimenti.
«Potrà mai apparire davanti a noi il vero Oscar Wilde?» chiedeva Merlin Holland. Dato che Wilde era il viveur per cui arte e vita erano inscindibili, era il conversatore che non dialogava con l’altro da sé, la risposta non può che essere negativa; anche perché, come già ricordato, col passare degli anni il suo nome è diventato troppo spesso vessillo di questo o quel partito.
Tuttavia L’infame Sant’Oscar di Oxford, poeta e martire è da annoverare tra quegli studi che stanno tentativamente aprendo la strada a una possibile soluzione dell’affascinante “enigma Oscar Wilde”. Per questo, e per molto altro ancora, il testo della Mondardini merita quindi di essere letto e meditato.
da: www.radiospada.org