sabato 21 febbraio 2015

Ania Goledzinowska "SALVATA DALL'INFERNO" - Sugarco edizioni

di Alberto Maira
 
E’ una storia terribile ed insieme dolcissima, avvincente quanto impressionante,  eloquente e carica di speranza. Utilissima per quanti ogni giorno fremono per i propri figli, per il loro presente, per il loro futuro, per le loro sregolatezze, per le loro vite talvolta vuote e tristi. Ma è un libro da  porre nelle mani degli adolescenti, dei giovani tentati dalle notti spericolate e dalle giornate inutili, travolti da una pratica filosofia del nulla, figlia del tempo che sembra avere e dare tutto e che non offre niente di veramente appagante.
E’ la storia vera di una giovane polacca, Ania Goledzinowska, che dalla tristezza di un’infanzia vissuta in una patria grandiosa ed insieme sfortunata, passata attraverso una delle disgrazie più grandi che il mondo moderno abbia conosciuto, il comunismo, una ragazza che ha vissuto i giorni della speranza liberatrice dalla tirannia, ma che spesso e volentieri, anzichè tornare alla propria migliore identità storica, ha ceduto alla tentazione di inseguire il mondo dissoluto dei piaceri mondani, il peggio dell’occidente libero, i falsi miti di un materialismo pratico, privo di valori e di prospettive. Ma si tratta anche della vita di una ragazza che è passata dalle fasi della crisi della famiglia che sta vivendo quel mondo e il nostro mondo: una madre che non si interessa a lei, un padre alcolizzato e poi deceduto, gli amori della madre nello stesso letto in cui stava anche lei, della quale hanno anche abusato. L’arrivo di una sorellina, Natalka, con la quale non si capirà, già drogata da bambina, come lei del resto. Ania sogna un castello incantato, sogna un futuro nel mondo della moda e dell’arte, dei piaceri e del denaro, della spensieratezza e degli amori.  Quindi sogna l’occidente e l’Italia. E dopo un’ adolescenza dura e difficile fatta di abusi, la vita per strada, la droga, la violenza, Ania arriva in Italia con la promessa di fare la modella. Dopo un tempo da schiava dei padroni dei locali notturni, schiava in tutto e per tutto, riesce a farsi strada nel mondo della moda, ottiene soldi, benessere e bella vita. La giovane però non è felice, cade in depressione, fa uso di cocaina e  si  brucia il cervello e il fisico. Mentre appena arrivata in Italia trova infatti prima a Torino, poi a Milano e oltre, la dissoluzione più tragica, la perdita della libertà, la violenza sessuale, psicologica, morale e poi ancora l’alcool gli „amori” senza amore, ricatti e la vita dei night, raggiunge anche più tardi le vette del gossip, della ricchezza a buon mercato, le grosse macchine e le belle case, lo champagne e le cameriere, i viaggi ma al tempo stesso tanto, tanto vuoto e tante nuove lacrime. Diverse da quelle della sua Polonia comunista e post-comunista, ma non meno terribili. I suoi amori e  le sue compagnie, il suo mondo di amicizie non è roba da poco per chi sognava il successo. Fidanzata con Francesco Baccini,  top model coinvolta nelle feste ad Arcore, fidanzata con Paolo Enrico Beretta nipote di Berlusconi, e con Cristiano De André, esce la sera con Emanuele Filiberto di Savoia ed è tutta avvolta da un mondo patinato.
L'esperienza che vive Ania, protagonista del romanzo-verità „ Salvata dall’inferno”, volume edito in Italia da Sugarco e tradotto adesso in varie lingue, è l'avventura di chi venuta dalla Polonia in Italia per inseguire un sogno si ritrova a dover affrontare una serie di esperienze crude che sono tragicamente la storia di tutto un mondo, venuto dall’est europeo e non solo, che ha seguito le stesse illusioni e gli stessi fallimenti di Ania. Ma l’esperienza di Ania ad un certo punto si fa diversa e diviene esemplare per tutti noi. In uno dei momenti più oscuri, la fede l’aiuterà a uscire dal buio. Il Signore le indica la vera strada della vita e a differenza di chi si tappa le orecchie, Ania comincia ad ascoltare. Medjugorje fa la sua parte. Gli uomini – per esempio Paolo Brosio – pure. Ma il rendere disponibile il proprio cuore e la propria intelligenza è la chiave di volta. Vive per un periodo a Medjugorje, fonda l’associazione „Cuori puri”, che presto si diffonderà tra i giovani in Italia e oltre.- Di questa proposta di vita parlerà poi in un altro volume „Dalle tenebre alla luce”-. Un’associazione che nella preghiera e nella castità prematrimoniale avrà il nucleo centrale della proposta. Un’associazione che attraverso la testimonianza di Ania si porrà a difesa del vero amore e del matrimonio, della famiglia vera e della vita mai come oggi minacciata. Un’associazione che farà una proposta veramente trasgressiva per i nostri giorni: proporrà ai giovani di non concedersi, di essere controcorrente davvero. Poi Ania conoscerà un giovane pugliese,  Michele Doto,  che sposerà - lo scorso anno. Per il matrimonio la madre di lei farà il regalo -  a detta di Ania - più bello: per la prima volta nella sua vita si confesserà e farà la S.Comunione. Storie di peccato e di redenzione, di dolore e di gioia, narrate in uno stile talvolta crudo e schietto, spontaneo e avvincente. Si tratta di un libro - testimonianza che non dovrebbe mancare nelle case e nelle scuole, là dove ci si pone il problema della formazione e dei valori veri della vita, tra quanti sono pensosi per il futuro dei nostri giovani e dei non meno smarriti genitori. E’anche un invito ad un percorso di vita nuovo per i giovani, un percorso veramente „alternativo” rispetto ad un mondo ossessivamente vuoto che è quello propostoci da una „modernità” fallita, fallimentare e deludente.

"CANTO PER L’IMPERFETTO” DI RUGGERO LUIS ARMANDO RIO (pseudonimo di LUIGI IMPRESARIO) - ILAPALMA

di Elio Giunta

Bene, e Buona sera a tutti, cari amici ed un buona sera affettuoso e particolare a Luigi Impresario che mi ha coinvolto in questa familiare ma densa riunione di amici.
Qui, evidentemente, si celebra un compleanno, e tutti i compleanni, quando si celebrano veramente, comportano un certo consuntivo di quella che è stata la propria vita, la propria esperienza, e il consuntivo comporta anche il soffermarsi su alcuni episodi ed eventi eccezionali  e particolari che hanno contrassegnato la propria vita e la propria esperienza.
Luigi Impresario è fortunato perché proprio allo scadere del 60^ anno ha segnato secondo me l’evento più importante della sua vita, quello di dare alla luce un libro di poesie.
Non succede mai celebrare il proprio compleanno con un libro di poesie.
Ed è, naturalmente questo “Canto per l’imperfetto”, che caratterizza un certo tipo di poesia. Ora evidentemente, chi, specialmente gli amici ed anche i parenti, per quanto ho saputo, ricevono questo libro come una sorpresa, con una certa meraviglia.: ma come Luigi faceva il poeta, è poeta?.
Io che per la mia esperienza e per il mio mestiere sono addentro alle segrete cose della letteratura vi dico che sono rimasto meravigliato, perché questa esperienza di poeta che qui stasera contrassegniamo, certamente non è casuale, anzi, leggendo questo libro voi avrete la stessa impressione che ho avuto io quando l’ho letto per la prima volta.
Si tratta di mettere il punto su un lungo esercizio di poesia e cioè che il libro rivela già la maturità di un poeta e questo per me che tratto questa materia e che so quante cose si pubblicano inutili e direi anche quasi sforzate, è stata una meravigliosa sorpresa e perciò ho steso la mia prefazione nella quale ho detto quello che andava detto forse un po’ meglio di quanto non sto per dire qua.
Qual è la sostanza di questo libro che avete in mano ?.
E’ il passato che ritorna, che Luigi ha osservato e torna a osservare, avvertendo, come dice in un luogo tra i più belli del libro, avvertendo che gli attimi più veri della propria vita c’è un momento in cui tornano sereni come sono stati una volta, e tornano per commuoversi, come al suono di un’armonica,
Allora il passato, per Luigi, ha costituito la materia di questo Libro.
Che passato è?
E il passato delle sue esperienze di viaggiatore che ci riporta luoghi e ci riporta situazioni che ritornano nel libro e si fanno vivi attraverso questo gioco memoriale, ed io l’ho già notato e lo torno a sottolineare qui stasera, questo non perché questi luoghi vengano descritti o rappresentati, ma perché questi luoghi hanno fatto esercitare in Luigi una visione disincantata della vita e questa visione disincantata della vita ha fatto emergere una coscienza individuale che ha fatto la poesia.
Oggi giorno, cari amici, la poesia non è letta, la poesia è messa da parte.
Anche gli stessi editori, quando vedono arrivare un poeta, storcono il naso. La poesia non ha molto spazio in questa nostra società troppo materializzata, questa società dell’internet che è una gran bella cosa, ma che, secondo me, diffonde anche molta superficialità e scarsa riflessione interiore.
Quella riflessione interiore che serve alla poesia, infatti la poesia che oggi circola è una poesia fatta di sofisticazioni verbali per cui la gente si annoia e non legge niente.
Allora è una fortuna avere un libro, e questo di Luigi lo è, un libro in cui la poesia torna familiare, familiare nel senso che riporta quella meravigliosa cosa che è incantarsi davanti ad un tramonto, che è osservare lo scorrere del tempo nel mistero di un qualche paesaggio, una poesia che riporta l’amore che è bellezza ma anche disguido.
Ecco queste cose che fanno la vita dei sentimenti sono espresse da Luigi con una parola che è melodica ma nello stesso tempo familiare e che riconcilia l’amore verso la poesia.
Leggete questo libro e riscontrate queste mie parole oppure direte che ho detto delle sciocchezze.
E per concludere, questo è un libro che rivela un artista, nel senso che cos’ è l’arte, è fissare quell’elemento irregolare, quella eccezione, che diversifica  un attimo, che diversifica un gesto, che diversifica una macchia nell’uniformità del colore.
Ecco, l’arte è questo, la poesia è questo, ed io credo che la migliore maniera per capire ciò che dico sia guardare questo libro, prenderlo in mano a cominciare dalla copertina: “Canto per l‘imperfetto” dove il poeta canta per ciò che è trascurato, va dove gli altri non vanno, mette gli occhi dove tutto potrebbe essere trascurato.
E chi guarda questa copertina vede il mare, il mare nella solitudine, la solitudine e l’infinità del mare sono l’aspirazione dell’animo poetico.
C’è poi un tronco, così che l’autore, con la sua abile fotografia, ha riprodotto un tronco buttato li  a dirci che a volte c’è l’oggetto dove non dovrebbe stare ( perché di certo un albero non sta nel mare), ma l’irregolarità è bisogno di fuga, è bisogno di eccezionalità, è poesia ed arte.
Ed è questo il messaggio artistico che ci vuole consegnare Luigi con questo libro che io ho accolto con grande entusiasmo cercando con la mia prefazione, più che con le parole formali di questa sera, di fare innamorare anche gli altri, di fare innamorare anche voi.
L’occasione di questa sera mi fa dire a Luigi che questo deve costituire una base per proseguire e tu Luigi devi assolutamente proseguire.


26 NOVEMBRE 2011 PRESSO LA VILLA ALLIATA CARDILLO DI PALERMO – PIANA DEI COLLI

martedì 17 febbraio 2015

Presentazione del romanzo: “Il Volo dell’Allodola” di Giancarlo Licata (Edizioni Thule)


Scritto durante gli anni della sua malattia, combattuta per anni con grande dignità e da vero guerriero, Il Volo dell’Allodola di Giancarlo Licata edito da Thule, sarà presentato in anteprima nazionale Venerdì 20 febbraio alle ore 17,00 durante un evento fortemente voluto dai familiari e dagli amici del giornalista scomparso a 60 anni.
L’iniziativa non vuole essere una commemorazione ma una carrellata di ricordi della carriera di Giancarlo Licata, attraverso le testimonianze di chi ha lavorato con lui e di chi ne ha apprezzato le sue doti di grande comunicatore. Diversi i momenti che caratterizzeranno l’evento, condotto dal giornalista Rai Roberto Gueli, con la presentazione del romanzo inedito: “Il volo dell’allodola” che narra la storia una famiglia siciliana che trascorre gran parte della vita in un quartiere estremo, dove la criminalità detta le regole. Interverranno l’editore Tommaso Romano e l’antropologo Nino Buttitta. Parte del ricavato sarà devoluto, dalla famiglia, alla Fondazione Umberto Veronesi a sostegno del progetto Gold for kids. Sarà presente il sindaco di Palermo, al quale Licata dedicò il libro: “Una rondine fa primavera, trent’anni di storie in bianco e nero di una città che torna a scommettere per la quarta volta su Leoluca Orlando”. Il direttore della sede del Centro Sperimentale di Cinematografia, Ivan Scinardo ricorderà Licata attraverso le immagini del documentario “1367 La tela strappata”, montato proprio alla scuola di cinema e fortemente promosso anche dal fondatore di LiveSicilia e della casa editrice Novantacento, Francesco Foresta, recentemente scomparso. Presentato fuori concorso alla 64° edizione del Prix Italia di Torino e proiettato in molte piazze e scuole, il documentario racconta, attraverso gli spezzoni dei telegiornali, le ore che intercorrono tra la morte di Giovanni Falcone e quella di Paolo Borsellino. Numerosi i giornalisti che hanno aderito a questa iniziativa, il direttore di Rai Sicilia, Salvatore Cusimano e i colleghi di Rai Med, il primo canale pubblico occidentale diretto da Giancaro Licata trasmesso anche in lingua araba, dal quale è nata la coproduzione italo-francese “Mediterraneo” in onda la domenica su Rai 3, i cui lanci dei servizi giornalistici a cura di Lucilla Alcamisi, sono stati registrati per due anni proprio ai Cantieri Culturali di Palermo e in particolare al Centro Sperimentale di Cinematografia. L’attore palermitano Filippo Luna  ricorderà  Giancarlo Licata per essere stato finalista, nel 2009, della 50esima edizione  del Premio Riccione per il Teatro, con la pièce: Il bambino del sentiero, andata in scena a Palermo in prima nazionale il 4 ottobre 2010. Gli intermezzi musicali saranno del maestro chitarrista Francesco Maria Martorana. Sullo schermo della sala bianca scorreranno le foto dei momenti più significativi della vita personale e professionale di Giancarlo Licata, insignito nel 2012 del titolo di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. L’ingresso è gratuito fino ad esaurimento posti.

Gino Pantaleone "Il gigante controvento" (SCE)

di Mario Grasso
 

Una curiosa riflessione, la mia, nell’accingermi a una scheda di lettura del libro di Gino Pantaleone (Il gigante controvento – una vita contro la mafia – con prefazione di Lino Buscemi, postfazione di Tommaso Romano e un contributo di Carlo Marchese), che non mi sembra del tutto peregrina dal momento che pone a carico della grafica di copertina del denso studio dell’autore, i segni definitori-definitivi della ricerca, e il suo obbiettivo. Anzitutto il titolo e il sottotitolo come traccia e specificazione: “Il gigante controvento”, quindi le tre sintesi di Tommaso Romano, Carlo Marchese e Lino Buscemi, come viatico per un’opera insolita nell’universo della pubblicistica tra realtà storica, costume e contingenze. Tommaso Romano dice: “(…) Gino ha certamente ripercorso in interiore homine il suo personale e fecondo viaggio di liberante verità che si è fatta imperiosa, civilissima necessità”. Nel climax dei tre significanti finali cogliamo quanto ci verrà puntualmente confermato dalla lettura dell’intero denso volume (pagg.336 - € 18,00 Spazio Cultura Edizioni, Palermo). Inoltre il quadro di copertina di Pippo Madé, che ne didascalizza agilmente la drammatica e sconvolgente metafora, in calce alla quarta di copertina in bandella del libro. Una grafica che esalta la genialità di Francesco Villa che la ha concepita e realizzata. In altre parole un volume che informa e conquista il lettore fin dall’involucro destinato alla vetrina del libraio.
E va bene. Ma come spiegare l’esito della ricerca di Gino Pantaleone? Le recensioni librarie tendono quasi sempre a cogliere o le parti che siano gratificanti per la fatica dell’autore, o quelle che ne illuminano carenze, o momenti non congeniali al gusto del recensore. Consuetudini che per questo saggio di Gino Pantaleone non esistono e non possono essere invocate, per il semplicissimo fatto che l’autore in trama tutto con il filo dei fatti certi e documentati. Se ci fosse consentito ricorrere a una locuzione definitoria diremmo che i fatti ripescati per questo libro sono, possono e debbono essere definiti di “chiara fama”. Ma a patto di aggiungere alla locuzione, che adoperiamo per evidenziare una credibilità acclamata e condivisa, un imprescindibile aggettivo qualificativo: nascosta. Un moto spontaneo di cattiveria interiore in chi scrive questa nota farebbe aggiungere che quando ci si riferisce a qualcosa di nascostosi tira in ballo, volenti o nolenti, qualche complicità. Perché chi nasconde ha comunque, sempre un peculiare interesse a nascondere. Ed ecco la chiara frase che abbiamo evidenziato dalla sostanziosa postfazione di Tommaso Romano “imperiosa, civilissima necessità”. In un Paese civile non può essere consentita che una verità rimanga celata perché qualcuno abbia interesse a farla ignorare ad “altri”
      E siamo nel cuore del saggio di Gino Pantaleone, un’opera che rende giustizia a un gigante della operatività culturale e del coraggio civile e politico, in tempi di privazione di questi beni, imprescindibili per una sana civiltà. Aggiungerei, alle puntuali valutazioni di Romano, Marchese e Buscemi, una deduzione a mo’ di sillogismo: potremo misurare il grado di civiltà raggiunto dal costume politico del nostro Paese dall’interesse concreto che sarà operativamente dimostrato dai responsabili nei confronti di questo studio scientifico di Gino Pantaleone. L’esito di una ricerca che, per la sua funzione di informazione e formazione civile, dovrà essere adottata in tutte le scuole dell’obbligo. Tale realizzazione segnerebbe l’intenzione del “Potere” rivolto finalmente a scalzare dalle fondamenta il continuum della mafia. Perché fino a quando il caso unico di Michele Pantaleone, perversamente destinato a rimanere ignorato dalla ufficialità di Stato, non sarà portato a conoscenza di tutti e prescelto a modello di informazione sulla realtà della mafia e delle sue componenti vitali, non si potrà affermare che la lotta alla cancrena criminale di questo fenomeno, ormai secolare, abbia avuta inizio. Non si può educare contro la mafia senza conoscere la verità su come, il suo sopravvivere a tutte le lotte contro, sia stato agevolato da connivenze politiche e persino di Stato.
Gino Pantaleone ha condensato nel suo benemerito lavoro sul tema mafia un vero e proprio universo pertinente. Non ci sono divagazioni nel documento costituito da “Il gigante controvento”, ci sono “fatti”, c’è quello che i latini definivano “Onus probandi incumbiti ei qui dicit”. Gino Pantaleone “dice e prova” nello stesso tempo; non solo: riesce persino a trattenere, con esemplare stile di saggista rigoroso che evita il parenetico, la propria indignazione al momento di didascalizzare episodi tratti dalle cronache e da tantissimi altri documenti ufficiali. Basterà ponderare con razionale analisi quanto c’è di amaro e deludente nel paragrafo “Una condanna politica postuma” (cfr. pag. 304).  In altre parole, il libro, pagina dopo pagina ripercorre il “Caso Pantaleone” come fosse un filmato le cui immagini sono altrettanti fatti di cui vengono presentati al lettore protagonisti, risvolti celati, cause, effetti, e lo sforzo costante del Gigante controvento nel suo illuminare con la torcia del proprio coraggio l’intera scena. Michele Pantaleone infatti nelle sue inchieste non si limitava a descrivere fatti e protagonisti collegati agli eventi criminali della mafia, ma si spingeva oltre, fino a farne nomi e cognomi, fino a riportare i recapiti telefonici per certi specifici casi nei quali il coinvolgimento di importanti istituzioni politiche, finanziarie o di altro genere, responsabilizzavano la sua coscienza a fronte del pubblico destinato a prendere atto delle denuncie.
Ma torniamo al metodo e alla struttura del lavoro svolto da Gino in “Il gigante controvento”. Gino ha concepito un ordito che possiamo intendere identificandolo ( a mio sentire) in una locuzione tematica. Tutto su Michele Pantaleone e su tale denominatore ha collocato la trama costituita da quanto possa essere il più esaustivo resoconto, servendosi di dati inoppugnabili come i  documenti pubblici e di archivii. A cominciare dagli antenati di Michele e, via-via, a risalire fino al protagonista Gigante. Una integrazione doverosa, si può e deve dire, e non a caso:  al lettore non sfuggirà l’impronta di coerenza allo “stile” di una stirpe, mano a mano che prende conoscenza delle scelte dell’intellettuale che destinava la propria vita alla lotta contro la mafia. Seguono, capitolo dopo capitolo, illuminanti sinossi delle inchieste giornalistiche e dei poderosi saggi di Michele, pubblicati da Einaudi, Cappelli e altri grandi e piccoli  editori. (a conclusione anche l’elenco completo degli scritti di Michele Pantaleone)
Come contrappunto integrativo i percorsi politici di Michele deputato, politico, impegnato in prima fila con la linea Socialista,  accanto ai suoi rappresentanti primari del tempo. Preziosi documenti le foto che ritraggono Michele con Pietro Nenni e altre personalità di prim’ordine di quegli anni. Il climax dei repachages delle testimonianze viene, inoltre. arricchito da fotocopie di documenti, manifesti, autografi, immagini, con un rigore di scelta  adeguata alla essenzialità più consone alla destinazione del libro. Insomma, non si può che dare atto a Gino Pantaleone di avere collazionato un esemplare mosaico, nel quale qualsiasi lettore, quale che sia la sua estrazione culturale,  potrà leggere con profitto tre quarti di secolo di storia di una parte della Sicilia e (per riflesso) dell’Italia intera, attraverso la biografia ragionata e (insistiamo) documentata di un cittadino che si è destinato al ruolo di personaggio scomodo della realtà civile e politica del Paese. Michele Pantaleone rivive tra le dense e coinvolgenti pagine di questo volume, con tutto il carisma della sua personalità di politico e di sociologo, di siciliano dalle istanze culturali cosmopolite, di scrittore al servizio della verità, della liberazione della propria regione dalla cancrena mafiosa.
Resta adesso a carico della responsabilità morale civile e politica di chi ha a cuore le sorti del domani, accogliere questa occasione editoriale per destinarla alle istituzioni culturali del Paese preposte alla educazione delle nuove generazioni, dalle elementari alle Medie alle Superiori, dove la lotta alla mafia non sia una astratta e convenzionale informazione di passaggio ma una documentata informazione costante e continua. Forse più che periodici rinnovi di Commissioni antimafia sarebbe da meditare sulla maggiore raccolta di frutti da una formazione civile delle nuove generazioni, alle quali far conoscere la storia di chi ha lottato la mafia fino al punto di restarne vittima. Questo libro di Gino Pantaleone contiene tutti i requisiti per far capire che non ci sarà nulla da capire fino a quando la lotta alla mafia sarà condotta da chi è compromesso con la mafia.

Giovanna Fileccia "Sillabe nel vento" (Simposium)

di Maria Elena Mignosi Picone
 
Giovanna Fileccia: una poetessa siciliana, di Palermo, ma che risiede con marito e figli a Terrasini, ridente paese sulla costa siciliana, con alle spalle il monte e che si protende verso il mare.
Ho avuto occasione di conoscerla ad una Premiazione di poesie a  Mondello e da un incontro fortuito si è sviluppata una bella amicizia della quale mi reputo onorata.
Giovanna Fileccia è una poetessa che rispecchia l’anima siciliana nella sua migliore forma. Sensibile e profonda, unisce a queste doti anche un tratto amabile pregno di semplicità e naturalezza.
Sono stata ad una sua mostra di “poesia sculturata”, una originale, anzi direi di più,
una personale, esposizione di “installazioni” come lei chiama le sue composizioni di materia in cui incorpora le sue poesie. Unisce così mirabilmente l’elemento spirituale, la poesia, con quello materiale (cartone sabbia swaroski…). E questa mi pare una bellissima idea, che  rispecchia  l’unità psicofisica dell’essere umano costituito inscindibilmente di anima e di corpo.
E questa è l’arte di Giovanna Fileccia.
Ma rivolgiamo adesso in particolare l’attenzione sul suo primo libro di versi, “Sillabe nel vento”. Nella poesia appunto che porta questo titolo ella afferma: “Vorrei scrivere una poesia senza parole/ le cui sillabe si disperdano nel vento/…Vorrei scrivere una poesia senza parole/…dove al posto di parole ci siano silenzi/ dove al posto di silenzi ci siano emozioni/ dove le emozioni possano sfociare in sagge riflessioni/…Vorrei scrivere una poesia senza parole/…perché ognuno possa prendere ciò che gli serve/ per far luce nel caos della sua mente.”
“Sillabe nel vento”, dunque, un titolo  a prima vista quasi sibillino. Cosa vuole significare? Il significato rivela la personalità della poetessa: l’esigenza di uscire da sé e aprirsi alla comunicazione verso gli altri.
Questa apertura agli altri la possiamo notare pure  in un’altra poesia che dal titolo sembrerebbe però tutto il contrario, cioè l’imposizione di sé; il titolo “Essenzialmente io”. “Lasciami dire solo per una volta…io…io che egoisticamente..” E continua. Sembrerebbe tutto l’opposto. Però vediamo come si sviluppa e come conclude, con un risvolto a sorpresa: “…io…che voglio dire “io” solo perché amo l’essere “noi”. Ecco compare l’altro.  E’ un io il suo che poi si fonde nel noi.
E questa fusione diventa unità, un’unità così stretta che non si capisce più dove finisce l’io e comincia il noi. “..dove inizio io e finisci tu? dove inizi tu e finisco io?” E la fusione si fa anche bisogno dell’altro in un tenero affidamento: “prendimi per mano e conducimi dove non so andare…amore mio”. E altrove: “Noi…nucleo di nuclei uniti…compressi/ pronti a navigare/ in sì/ armoniche sensazioni”.
Nel noi la poetessa raggiunge la pienezza. Pienezza che ella esprime anche attraverso una figura geometrica, la sfera, che ricorre insistentemente nei suoi versi o nelle sue composizioni materiali, e che evidentemente ella predilige: “misteriosa sfera luminescente” dove luce è gioia, felicità. “Ciò che vibra sul tuo viso/ non è l’ombra di un sorriso/ ma felicità pura e cristallina”.
La sfera, che è dunque armonia, (come serena è la sua vita), le richiama anche la goccia. “Gocce di rugiada sul manto della vita/ splendono/ abbagliano/ indicano la via della luce”.
E alla sfera, alla goccia di rugiada infine la poetessa accosta l’idea del per sempre: “esiste il per sempre in quell’unica goccia di rugiada”.
Ecco allora che sfera, goccia, armonia; pienezza, appagamento, eternità; sono tutti elementi  che ci riportano ad un altro aspetto della poesia di Giovanna Fileccia, l’equilibrio.
Anche nelle sue installazioni pende sempre un filo cui è sospeso  qualcosa, un sassolino, un cristallo, che danno l’idea appunto dell’equilibrio che stabiliscono con  tutto il  resto.
Equilibrio che è conquista, superamento dei condizionamenti che la vita inevitabilmente presenta; condizionamenti di vario  tipo: interiori, familiari, sociali.
che costituiscono come la “Zavorra”, da cui bisogna liberarsi, affinchè possa venire a galla la vera essenza della persona, il  vero io. Nella poesia “Introspezione” troviamo “Mi riavvolgo a spirale/ girando su me stessa per lineare il mio equilibrio/ per cogliere la mia essenza”.
Come possiamo notare la poesia di Giovanna Fileccia è una poesia abbastanza complessa pur nella sua semplicità, dove i versi si ammantano di filosofia, psicologia, anche geometria; non è una poesia solamente intimistica, sfogo di sentimenti, ma una poesia di un certo spessore che rivela una forte tempra di poetessa.
Una poesia anche responsabile. Che tiene presente il pubblico cui si rivolge e nello stesso tempo, anche se per esempio parla del male, apre sempre però il cuore alla speranza. Significativo al proposito è un titolo “Tramuntu spiranzusu”, di una poesia in dialetto; un accostamento di termini contraddittori, tramonto  che esprime negatività, qualcosa che finisce , e poi la speranza che è tutto il contrario. O nella poesia “Natale” : “Dove  sei andato spirito del Natale?... L’evento che rappresenta la povertà e l’offerta/ è divenuto per incanto festa di sfarzo e di abbondanza/…” Però non finisce qui in una sterile lamentela. C’è Gesù che apre il cuore alla conversione. “E tu…bimbo in fasce vienici in aiuto/ riaccendi dopo il buio di una notte senza fine/ la vera essenza dell’Avvento…”.
Giovanna Fileccia quando scrive poesie non si sente nell’isolamento ma di fronte a un pubblico, a una platea.”Voi, intima platea di visi sconosciuti/ lettori consapevoli di sillabe assemblate”. E a questa consapevolezza di rivolgersi a un pubblico, si intreccia un altro aspetto della sua poesia, la universalità. “Grazie, intima platea di voci modulate/…sbirciate tra i cassetti che contengono poesie/ poesie che all’origine erano pensieri/ pensieri che sbocciano per essere parole/ parole libere…personali/ obbligate a divenire intimamente plateali.” E qui in una strofe soltanto c’è compendiata tutta una concezione sull’origine della poesia.  E la poesia è universale, tutti ci si possono riconoscere. Come pure nei pochi versi che formano la poesia “Tulipano”(Storia di un’idea). “Alta e fiera nasce dal nulla/ guizzo di un istante che arguisce la mente/ lampo insistente che …come fosse niente/ realizza e crea un’idea splendente.” C’è in sintesi tutta una poetica.
Tante cose ancora si potrebbero dire sulla poesia di Giovanna Fileccia, ma allora più che una recensione si potrebbe fare un saggio, perché altri temi ancora ella introduce e sviluppa, (la labilità della vita, i danni della lingua…) e tanti aspetti ancora sarebbero da esaminare (la sicilianità, l’umorismo…).
Ma mi vorrei soffermare ancora sullo stile della sua espressione poetica.  E’ uno stile
che esprime un grande pregio che è dello scrivere: la sintesi. E oltre a questo, si tratta di un  linguaggio nitido, trasparente; è la trasparenza dell’idea che espone.   Elegante nella sua semplicità. E rispecchia la naturalezza del suo porgersi. Nel vernacolo, pur mantenendo le stesse prerogative, il linguaggio si fa più colorito  e pittoresco mantenendo sempre una squisita eleganza.

domenica 15 febbraio 2015

Una società senza padri

di Domenico Bonvegna
 
Da qualche settimana il Santo Padre Francesco sta dedicando le sue catechesi ai problemi familiari e in particolare al ruolo della figura paterna, attualmente in crisi nel modello familiare contemporaneo. Quello che allarma, oltre ad una inquietante “società senza padri”, è una società che ormai quasi ignora il padre, che non ne avverte nostalgia e disprezza anche la virilità.
 Il Papa ha evidenziato il danno notevole provocato dall’assenza del padre di famiglia per i figli, anche quando è fisicamente presente ma assente di fatto. Per Papa Francesco questa mancanza colpisce soprattutto il mondo occidentale: “la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa”. Il Papa ricorda che c’è stato un periodo storico in cui questa assenza è stata vista come "liberazione", e qui il pensiero va alla sciagurata rivoluzione sessantottina. E’ noto che “dai tempi del ’68 e dintorni che il padre sembra non avere più diritto di cittadinanza. La lotta contro il principio di autorità, cardine della protesta sessantottina, unitamente alla premiata ditta Freud&Co e al femminismo, hanno investito in pieno il ruolo del padre, che dell’autorità è sempre stato uno dei simboli forti” (Luca Del Pozzo, L’esperienza personale di un Papa, 31.1.15, LaCrocequotidiano).
 Tuttavia, la crisi della figura paterna, “ha preceduto di parecchio quella economica ma che, a differenza di questa, stenta purtroppo ad essere riconosciuta nella propria portata e nelle proprie implicazioni”(Giuliano Gusso, Francesco ci fa riflettere: cosa resta del padre?, 31.1.15, LaCrocequotidiano)
 Peraltro le statistiche sono assi chiare, pare che oltre un milione di bambini inglesi cresce senza avere a fianco la figura paterna, mentre nella sola città di Berlino su 430 mila nuclei familiari, ben 134 mila sono composti da ragazze madri sole con il loro bambino. In Italia, la situazione è peggiore, l’80% dei nuclei monoparentali è costituito da donne, in pratica a più di due milioni di figli non è assicurato il riferimento paterno (Istat, 30.7.2014).
 Ma che cosa c’è dietro a una società sempre più orfana del padre? Gusso scorge tre livelli di rimozione culturale: religiosa, educativa e infine quella antropologica. Del resto l’eclissi della figura paterna, interessa in primo luogo il mondo occidentale dove per secoli il Cristianesimo è stato protagonista. Per quanto riguarda l’aspetto educativo, numerosi studi scientifici di specialisti effettuati in tutti i continenti hanno dimostrato che la “concreta presenza paterna si traduca, per i figli, in benefici per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo, l’equilibrio psicologico e la riduzione di condotte devianti”. Pertanto non deve meravigliare il legame che esiste tra l’assenza della figura paterna e i suicidi giovanili, gli abbandoni scolastici, le gravidanze fra le giovanissime e l’abuso di sostanze stupefacenti. Ma per Gusso è più micidiale la rimozione antropologica.
 Ritornando agli aspetti educativi in questi giorni mi è capitato di leggere, anche se datato, l’ottimo volumetto dello psicanalista Claudio Risè, “Il mestiere di Padre”, Edizioni San Paolo(2004). Il testo è un serrato e concreto dialogo fra l’autore e i padri e i figli che gli hanno scritto per raccontargli le loro storie e per capire meglio i problemi. E’ un libro che dovrebbe essere letto anche oggi, infatti è stato ripubblicato l’anno scorso, indispensabile in una società che, invece di sostenere e aiutare i padri, tende ad emarginarli e a confonderli.
 Già nella prefazione Risè cerca di provocare il lettore: “un fantasma si aggira nei testi pedagogici, e psicologici, degli ultimi cinquant’anni: quello del padre”. Il libro è stato scritto e Risè lo scrive esplicitamente, proprio per indicare come si esercita il mestiere del padre. E’ una ricerca concreta, personale, da parte di tanti padri e figli, affrontando i problemi di tutti i giorni, interrogandosi sul loro significato. In pratica Risè con questo ma anche con il precedente volume, “Il padre, l’assente inaccettabile”, sempre pubblicato da San Paolo, vuole dare “un preciso e valido aiuto al grande popolo di persone responsabili, uomini e donne, oggi impegnato a trasformare quel fantasma ambiguo di padre, che ha preso forma nell’ultima parte del ‘900 in Occidente, in una realtà di carne e di sangue, di pensiero e d’azione”. Il testo di Risè è ricco di spunti, ne scelgo qualcuno quello dell’accoglienza dei figli che chiedono di essere educati, non solo quando sono piccoli con i loro perché. Perché la vita? Da dove vengo? Come vivere e perché? Per una lunga fase dell’infanzia e poi(se la curiosità non viene spenta o repressa troppo in fretta) per tutta l’adolescente, e ancora nella prima giovinezza, l’individuo è assillato da quesiti metafisici. Risè in questo caso si scaglia contro il “pensiero debole”, che sostanzialmente è “il pensiero  senza risposte, e interesse, ai grandi quesisti, sottraendosi alle domande dei piccoli, e non offrendo loro nessuna risposta con cui possano confrontarsi, è profondamente antieducativo. Perché li lascia soli, e inquieti, di fronte alle uniche domande in grado di strutturare poi l’intera personalità e di far crescere quel gusto di vivere, e passione per la vita, che costituiscono l’indispensabile carburante per la vita”.
 Il silenzio dei padri, dei maestri, deludono questi piccoli ma anche gli adolescenti. Hanno bisogno di sentire parlare del “bene” e del “male”. I giovani hanno bisogno di “indicazioni, di criteri, di orientamenti morali, a cui opporsi o da accettare. Mentre l’astensione da parte degli adulti nel pronunciarsi sul piano morale provoca nei giovani depressione e disorientamento”. Come quei giovani liceali di Catania del Liceo “Spedalieri” che nel febbraio 2007 dopo le violenze del fine partita che causarono la tragica morte del povero ispettore Filippo Raciti si interrogano sull'assenza di valori nella quale si sentono di vivere, sulla totale mancanza di punti di riferimento che li porta a sentirsi "soffocati dal nulla”. Gli studenti catanesi chiedevano aiuto ai loro professori: "Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e di verità". Ancora più sorprendente e sconcertante è la risposta che i docenti danno agli studenti, in pratica, i professori e le professoresse sostengono che la scuola, loro stessi, non debbono dare risposte, anzi non ci devono neanche provare. La scuola, secondo loro, dovrebbe infatti limitarsi a "stimolare domande" e per quanto riguarda il "senso della vita" che gli studenti dichiaravano nella lettera di aver perso o di non aver mai trovato, i professori rispondono: che ciascuno cerchi da solo le "risposte adeguate al proprio percorso". Qualche giornalista ha definito questa risposta come nichilismo pedagogico. In pratica i professori del Liceo catanese in quell’occasione, invece di approfittare della richiesta di aiuto dei loro studenti, che si interrogavano e si ponevano domande sul vero senso della vita, non fanno altro che defilarsi e non proporre nulla che possa aiutarli seriamente. Anzi li invitano semplicemente a smetterla: "Proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica" .
 Il documento dei docenti di Catania è il solito schema che è presente nella stragrande maggioranza degli insegnanti italiani, è l' ideologia del dialogo e dell'ascolto , del rispetto dell'altro e delle differenze . E' la scuola dei progetti multiculturali, del rispetto dell'altro e del rifiuto della prevaricazione. Tutte buone intenzioni. Ma come si fa a dialogare e incontrarsi con l'altro, se non si parte, con tutto lo spirito critico che si vuole, dai propri valori e dalla propria cultura.

giovedì 12 febbraio 2015

Prefazione del libro "...libera e una!" di Corrado Camizzi

Pubblichiamo la prefazione in anteprima del prof. Giulio Vignoli al volume di prossima pubblicazione di Corrado Camizzi dal titolo "...libera e una!"


di Giulio Vignoli

Un'idea non aveva mai abbandonato la mente di Corrado Camizzi, in tutti gli anni di insegnamento: rifare, ampliandolo, il suo Risorgimento e Tradizione, del 1977, un condensato di concetti, di una trentina di pagine appena. Quel tema, dei rapporti tra il Risorgimento italiano e la Tradizione nazionale, meritava d'esser ripreso con ben maggiore distensione. E poiché ogni riflessione sul passato dev'essere utile a capire le radici del presente, questa appariva di stringente attualità, per non lasciare nulla di intentato mentre l'Italia era in balia di forze dissacranti e disgreganti. Così la sua missione di Insegnante, che Camizzi ha sempre avvertito ed interpretato con impegno sostenuto da autentica passione, non è cessata con la pensione, ma ha trovato finalmente lo spazio per la realizzazione del progetto a lungo coltivato.
Con intento didascalico, quindi, ma senza mai rinunciare alla scientificità, nasce questo lavoro, che si sottrae, nell'originalità del suo punto di vista, all'inserimento in una categoria netta e ristretta. Ciò che si avverte, scorrendo le sue righe, è un'appassionata esigenza di trasmettere il senso profondo dell'evento che fece l'Italia, innanzitutto e finalmente, LIBERA e, poi anche, UNA. Si avverte l'intento del buon docente di rispondere alle più recondite domande inevase, ma anche di dire quello che, pur nella fioritura di tanti scritti pubblicati in occasione del recente 150° dell'Unità, non è stato detto, o se lo è stato, non è stato adeguatamente approfondito e recepito. E queste pagine giungono davvero, a vario titolo, riparatrici delle insufficienze, incongruenze e leggerezze di tanti testi sull'argomento.
Se era difficile, ieri, tenere la storia risorgimentale separata dall'apologetica, oggi è ancor più arduo tenerla separata dalla denigrazione: non c'è testo recente sull'argomento che non riporti solenni dichiarazioni d'intenti antiretorici, anticelebrativi e smitizzanti e finisca per cadere nell'agiografia a rovescio. È tutto un ricercare gli errori, i guasti, le ingiustizie compiute e passate sotto silenzio. Ma se è vero che il movimento nazionale non avvenne senza sbagli (però raggiunse i grandi obiettivi!) e si attuò in modo fortunoso (ma di “fortuna” basata sul valore!), è ancor più vero che la parola PATRIA non dovrebbe considerarsi un tabù (com'è ora) e non si deve pretendere che smettano di essere eroi coloro che eroi furono, specialmente quelli che non poterono raccontare il loro eroismo. Il libro di Camizzi è quindi più che opportuno, è un sasso nello stagno putrido di questa Italia sordida e vile, che pare non avere più una meta, una motivazione per esistere.
. Senza nulla togliere alla funzione anche positiva della corrente revisionistica, la preoccupazione sta, ancora una volta, nell'educazione storica di un popolo, quello italiano, che non ha davvero bisogno di dimenticare i suoi valori e di perdere la propria vocazione originaria. Ed ecco, la posizione di Camizzi è qui di grande equilibrio: non nasconde gli errori ed esamina i problemi, ma non dimentica chi ha dato la vita per un'Italia grande, libera e una. I nomi amati emergono nel fluire del discorso, chi in una pagina, chi nell'altra, e vi brillano come stelle di un firmamento. La dedica è per loro.
Si è già compreso che la visuale dell'Autore non si situa sul piano materiale delle vicende politiche e belliche, da cui non può riuscire a cogliere il senso profondo dei cambiamenti storici, dalle loro radici allo sviluppo e agli effetti finali. Non è la cronaca, pur importante, degli accadimenti nella loro maggiore o minore eroicità, tragicità o giustizia, a interessarlo direttamente, ma la vicenda risorgimentale, nella sua globalità e in tutta la sua epocale portata nelle vicissitudini secolari della terra italica: egli ne intende svelare il cuore antico e pulsante assieme ai vari aspetti dell'anima. Ne vuole afferrare la convergenza, che in quel momento si verificò, tra le contingenze e la dimensione superiore della Storia, quella insondabile alla visione umana perfino dei protagonisti, affinché si riconosca la necessità dell'evento.
Per fare ciò, giustamente, Camizzi inizia rintracciando, attraverso i secoli, l'innegabile presenza dell'idea di una “Nazione italiana”, intesa in senso etnico-culturale, nella coscienza dei più colti, a partire già dai primi secoli dopo il Mille. I grandi nomi di Dante, Petrarca e Boccaccio ne rappresentano i primi, pienamente consapevoli, antesignani, sul piano letterario e culturale. Sul piano della proposta politica, peraltro, qualche vaga idea di realizzazione emerge di tanto in tanto, con Machiavelli o Girolamo Muzio nel Cinquecento; con Traiano Boccalini, in funzione antispagnola, nel Seicento, con Carlo Emanuele I; con l'Abate Vincenzo Gravina, fondatore dell'Arcadia, alle soglie del Settecento. Tasselli grandi e piccoli che entrano, attraverso i secoli, a far parte del grande mosaico che vedrà la luce nella seconda metà dell'Ottocento.
Dai primi del Settecento a tutta la prima metà del Novecento, si assiste allo sviluppo dell'interpretazione tutta italiana del Principio di Nazionalità. La sua peculiarità fu quella d'esser fondato su di una concezione non naturalistico-biologica (sulla “razza”, per intenderci), né ideologica (sul “contratto sociale”), ma essenzialmente spirituale e storico- giuridica: era l'interpretazione contenuta in nuce nelle consuetudini, nei modelli, nelle norme di vita costituiti e consolidati nei secoli, prima dalla civiltà romana e dal suo Diritto, poi dal Cattolicesimo, trasmessi nel tempo e sempre vitali, anche sotto le ceneri. In una parola, nella Tradizione della terra italiana.
Quei duecentocinquant'anni videro l'uscita dalla decadenza e il risveglio in tutti i settori della vita civile: fu, appunto, l'Età del Risorgimento, “fase di rifioritura spirituale, religiosa, morale, culturale, letteraria, filosofica, scientifica, artistica, economica e, anche se con incertezze e passi falsi, civile e militare”. A questo concetto viene dedicato un capitolo, a mostrare che  l'evento politico-militare maturò in tempi  lunghi e attraverso travagliate strade di pensiero e d'azione, non raramente destinate, almeno in apparenza, all'insuccesso. Fu tutt'altro che l'alzata d'ingegno della classe dirigente piemontese che avrebbe pensato bene di conquistarsi la penisola. Uno degli esempi più interessanti, che vengono addotti, è l'opera del Conte Galeani Napione, che, in tempi non sospetti, ossia prima della Rivoluzione francese, formulò in tutta la sua compiutezza un progetto di Confederazione delle potenze d'Italia, che i sovrani cui era destinato, purtroppo, non considerarono.
Tenendo sempre presente, come tiene presente l'Autore, che la storia del movimento nazionale fu complessa e tormentata, tutt'altro che lineare, segnata dalla coesistenza di forze discordanti, viene rimarcato e analizzato il profondo contrasto tra aspirazioni rivoluzionarie e fedeltà alla Tradizione, cattolica e romanistica, tra Giacobini e Sanfedisti. Una costante attenzione ai piccoli e agli sconfitti che pure hanno fatto la storia - ch'è un altro dei tanti meriti di questo lavoro - permette a Camizzi, senza negare i loro evidenti limiti, di riconoscere l'importanza dell'apporto delle insorgenze sanfediste, punite invece con la damnatio memoriae dalla storiografia della cultura egemone, ma non da tutta.
Tra concorrenza di energie e conflitti, non solo ideali, fu comunque in quel lungo periodo di tempo che l'antica nazione culturale maturò lentamente la propria trasformazione in nazione politica, per giungere a strutturarsi in Stato indipendente, unitario e costituzionale, con una metamorfosi costruttiva, profondamente radicata nel vissuto storico e civile.
Ed è, per l'Autore, convinzione profonda quella di optare per la posizione dell'Omodeo nella vecchia polemica col Gramsci, per il quale, com'è noto, si potrebbe riconoscere solo un'Età della Rivoluzione francese, di cui il Risorgimento fu fenomeno marginale. Se tante ed innegabili furono le influenze dell'illuminismo e del 1789 sull'Italia
dell'Ottocento, la forte esigenza e l'aspirazione profonda alla libertà, all'indipendenza e ad un assetto unitario erano autoctone della nazione italiana; le correnti che avevano assunto il modello francese ne colsero semplicemente l'esempio e sfruttarono l'occasione per la realizzazione dell'unificazione della penisola, prevalendo sulle altre. Ma il Risorgimento sarebbe avvenuto, magari in tempi successivi, anche se la Rivoluzione francese non fosse stata.
La consapevolezza del problema nazionale si forma e sviluppa, a livello certamente elitario ma con obiettivi molto chiari: anzitutto l'indipendenza dallo Straniero, come bene di primaria importanza, quello della libertà. Per esprimere quanto e di che qualità fosse il peso della dominazione austriaca bastano all'Autore poche righe, citate dal diario di George Sand (una straniera!) dove si narra un episodio quanto mai significativo occorsole a Venezia. Sarebbe quasi esilarante, se non esprimesse l'amarezza di un intero popolo, calpesto e deriso. Non meno rilevanti, le altre mete di organizzazione unitaria e assetto costituzionale dell'auspicato nuovo sistema politico, venivano coltivate anch'esse nei voti delle coscienze più vive.
La dimensione geografica, poi, della nascente entità politica doveva coincidere con i confini “fisici” della regione italiana o con quelli – assai più vasti – della koinè mercantile e sociologico-culturale che le Repubbliche marinare avevano realizzata nei secoli in tutto il Mediterraneo? Ipotesi affascinante, quest'ultima, ma che le vicende e le scarse energie in gioco non permetteranno nemmeno di prendere in considerazione e costringeranno ad escludere per evidenti motivi, ancor prima di formularne il sogno. Con dolore, però, di tante comunità italiane che resteranno escluse. La più ragionevole restrizione ai “confini naturali”, dal Brennero all'arcipelago maltese, dal Varo al Quarnaro, si rivelò già un' aspirazione ambiziosa, come dimostrarono le difficoltà incontrate nella sua realizzazione, solo parzialmente compiuta. Anche questo fu pagato a caro, carissimo, prezzo, con le sofferenze delle terre che rimasero tagliate fuori, e con la partecipazione dell'Italia alla Grande Guerra, perché fu l'Irredentismo a costituirne la spinta determinante.
Tra le grandi questioni del Risorgimento ve n'è una che può sembrare meno significativa, in apparenza: la questione della capitale. Quasi tutti gli Uomini che fecero l'Italia avevano in gola il grido “Roma o morte!”: erano convinti che Roma fosse la sola possibile capitale. Ma era davvero opportuno cercare di ridurre Roma, la città portatrice dell'idea universale, prima dei Cesari e poi dei Papi, caput mundi, alla ben più modesta dimensione nazionale dello Stato italiano appena sorto? L'operazione avrebbe avuto successo? Non sarebbe stata più utile una scelta meno clamorosa, come Firenze, che era pur sempre la culla della nostra lingua, lasciando la città di Roma al Papa? Cosa, tra l'altro, che avrebbe risolto in anticipo sui tempi il problema che arrivò a soluzione solo nel 1929?
Problema dei problemi è la questione meridionale, la più strumentalizzata da Nord e da Sud, dove i fallimenti pesano ancor oggi: la giusta aspirazione ad unire anche le Due Sicilie allo Stato nascente, una volta attuata, non avrebbe coerentemente dovuto indurre i governi della Destra e della Sinistra ad una politica più mediterranea rispetto a quella eurocontinentale che fu invece perseguita?
Nel concorso di energie che realizzò il processo risorgimentale, il popolo, rassegnato, umiliato e abituato a passare da una dominazione all'altra, fu il grande assente. Rimase il problema grave della mancata fusione degli Italiani tra loro. Il fatto che l'Unità sia stata attuata da una minoranza ristretta di coscienze vigili, ma diffuse su tutto il territorio nazionale, non avrebbe forse richiesto maggiore attenzione alla saldatura dell'Italia popolare con  quella elitaria?  Ma la  scuola era in  condizioni disastrose: qui l'indagine, anche per interesse professionale dell'Autore, si fa ancor più attenta e scrupolosa, entrando nel merito di quanto si cercò di fare nel Ministero della Pubblica Istruzione. Si dovette comunque attendere la terribile prova del 1915-'18 perché tutti si sentissero affratellati in un destino comune. Ugualmente, si dovette aspettare l'operazione diplomatico-politica della Conciliazione, per eliminare una delle cause principali che avevano alienato il popolo dal movimento risorgimentale.
Come si accennava, superati i centocinquant'anni di vita dello Stato unitario, non si è ancora realizzata una storiografia veramente condivisa sul Risorgimento e anche le speranze riposte nelle recenti celebrazioni sono in buona parte andate deluse. Soprattutto sul piano della cultura popolare (non certo su quello scientifico...ma una distinzione netta non è possibile né bene farla) si è passati dalla più ingenua esaltazione alla denigrazione più disinibita, con eccessi e visioni di parte. Nell'ultimo capitolo, La Narrazione, il più originale e qualificante, l'Autore, districandosi nella giungla della ricchissima produzione, ci conduce in un percorso affascinante tra le diverse tendenze storiografiche esistenti in materia, passando attraverso le opinioni di tanti nomi, più o meno illustri ma comunque significativi, con una pluralità di scelte che non ne esclude pregiudizialmente alcuno, e, soprattutto, senza venature di polemica. L'esito è eccellente: una sintesi, difficile quanto illuminante, che riesce a dare un panorama chiaro anche per i … non troppo addetti ai lavori. Tra sostenitori e detrattori, questo libro arriva, infine, a tentare una sua propria proposta di possibile storiografia, capace di sfuggire contemporaneamente a Scilla e a Cariddi, ossia condivisibile, nella quale tutti gli Italiani possano riconoscersi: è quella di impronta neonazionale, formulata nelle ultime pagine, che … vanno solo lette!.
Il meno che si possa dire di questa fatica è che, indubbiamente, costituisce un contributo coinvolgente, serio e documentato, nient'affatto banale né fuorviato da luoghi comuni, e offerto con uno stile che non fa pesare la mole di riscontri bibliografici che presenta: un libro appassionante e chiarificatore, che trasmette in ogni riga innanzitutto Amor di Patria. Sentimento così fuori moda nell'Italia d'oggi, ma cosi necessario perché uno Stato, o meglio una Nazione, intesa come unione di intenti e di valori, viva. Forse non tutto è perduto se vi sono ancora studiosi come Corrado Camizzi, che pubblicano libri come questo. L'Italia Millenaria uscirà dal declino, dalla crisi nata con la guerra perduta, con l'andata al potere di forze antirisorgimentali o estranee all'epopea del Risorgimento, con la caduta della Monarchia, da esse provocata, e la creazione di una Repubblica pavida e apatride. Almeno questo è l'auspicio di chi qui si sottoscrive.

mercoledì 11 febbraio 2015

La pittura di Elide Triolo

di Elena Gollini


È un surrealismo visivo quello proposto dalla pittrice Elide Triolo, che possiede un forte valore semantico e comunicativo. Ella proietta sulla tela una realtà figurata da analizzare e scandagliare attentamente, per carpire gli importanti meccanismi simbolici e metaforici sottesi, che la compongono. Nel mondo fantasioso e onirico da lei proposto gli elementi convergono in una comunione d’intenti evocativi e sfociano in rappresentazioni di grande ricercatezza e spiccata dinamica creativa. Si delinea una struttura compositiva in sinergica commistione d’insieme, all’insegna del bello e dell’armonia, nel ritmo della compostezza e dell’equilibrio. Le visioni immaginarie riecheggiano scenari ricchi di componimenti fantastici, connessi alla matrice fiabesca del sogno. Lo sguardo del fruitore viene catturato da atmosfere seduttive, che invitano a riflettere sul senso del vivere e dell’esistere, dell’essere e dell’apparire, improntate in chiave misticheggiante con un linguaggio codificato e cifrato, tutto da scoprire e interpretare. La Triolo si può annoverare come figurativa moderna, che incarna un percorso di ricerca di innovativa rivisitazione degli archetipi tradizionali.
Dalle trasfigurazioni del reale, esaltate dalle sfumature cromatiche generate dai riverberi della luce, si stagliano figure dai contorni evanescenti e sfumati, come apparizioni enigmatiche, che assumono le sembianze di misteriose presenze figurali introdotte nel ciclo della narrazione per evidenziarne particolari contenuti sostanziali e intrinsechi. Tali raffigurazioni poggiano su un impianto scenografico, che accosta i colori densi e intensi calibrandoli al meglio, per renderli “messaggeri” degli stati d’animo, che sorreggono e accompagnano l’idea e l’atto del dipingere. La costruzione contiene un delicato e soave “intimismo” ed sfocia in un’elaborazione ragionata e ponderata, in cui ogni singolo “ingranaggio” trova la sua specifica collocazione e si inserisce nel contesto strutturale per motivi precisi, di perfetto equilibrio ottico e tonale. La Triolo convoglia e veicola lo spettatore dentro una realtà personale, che sottolinea gli aspetti esistenziali avvolti da liriche atmosfere e si snoda attraverso un intreccio cromatico, che denota una personalità stilistica orientata verso la più pura e autentica espressività.
Nelle sequenze del dipinto emergono figure e soggetti protagonisti di frammenti di vita, che coinvolgono in un’indagine intima e recuperano ricordi ancestrali, pulsioni energetiche e credenze arcaiche, introducendo in un viaggio iniziatico, verso le origini più remote della civiltà, che si è tramandata nel nostro sentire quotidiano, nelle emozioni e nei moti dell’anima. All’interno del complesso e articolato rapporto tra pittura e pensiero, la pittura diventa il mezzo che permette di portare alla luce un pensiero, grazie all’uso di elementi presi dal mondo visibile. La Triolo riesce a far coincidere pensiero e immagine, senza che l’uno prevalga sull’altra e viceversa. Questa identificazione prevede uno schema progettuale della forma come fenomeno dinamico, che si fonda su una variabile fluidità metamorfica, che continua la sua evoluzione nella mente dell’osservatore, acquisendo nuove parvenze e producendo imprevedibili e sorprendenti echi interiori.
 

lunedì 9 febbraio 2015

Santo Lombino "Il grano, l’ulivo, l’ogliastro. Santa Maria dell’Ogliastro-Bolognetta, 1570-1960" (ISSPE)

Si presenta domenica 22 febbraio 2015 alle ore 16.30 a Bolognetta, presso il Centro intergenerazionale di via Vittorio Emanuele n. 108,  il volume “Il grano, l’ulivo e l’ogliastro. Bolognetta-Santa Maria dell’Ogliastro, 1570-1960” di Santo Lombino, editore Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici - Palermo.
Interverranno Antonino Tutone sindaco di Bolognetta, Rita Cedrini, Maria Grazia Guttilla, Ferdinando Maurici, Tommaso Romano. Coordina i lavori Umberto Balistreri. Sarà presente l’autore.
La manifestazione nell’ambito della rassegna “Autunno/inverno, sfilano libri” organizzato dalla Biblioteca civica “Tommaso Bordonaro” e dal Comune di Bolognetta.



 
di Virginia Bonura
 
“Il grano, l’ulivo, l’ogliastro. Santa Maria dell’Ogliastro-Bolognetta, 1570-1960” di Santo Lombino, è il secondo volume della collana “Biblioteca della Rassegna siciliana di storia e cultura”, I.S.S.P.E editore, Palermo 2015.
La storiografia degli ultimi decenni ha fornito esaurienti risposte agli interrogativi che ci pone l’osservazione della realtà urbanistica e demografica della Sicilia dei nostri tempi. Gran parte degli aspetti che la connotano hanno le loro radici nei fenomeni epocali della rifeudalizzazione e nella colonizzazione interna dell’isola, sviluppatisi tra il sec. XV e il XIX. In tale torno di tempo furono infatti fondate centinaia di “città nuove” per programmatica volontà dell’aristocrazia siciliana, tutt’altro che immobilista, decisa ad affrontare, a partire dai propri interessi politici ed economici, le sfide poste dall’economia locale ed europea alle soglie dell’età moderna.
All’interno di questa radicale modifica del volto dell’entroterra isolano si situa la fondazione, nell’hinterland palermitano,  del comune feudale di Santa Maria dell’Ogliastro (poi simpliciter Ogliastro), dal 1883 ribattezzato Bolognetta, che oggi conta più di quattromila anime. Il suo territorio, che apparteneva nel Cinquecento alla baronia di Cefalà  appannaggio della potentissima famiglia Bologna, fu scelto dal mercante Marco Mancino per l’edificazione, a partire dall’anno 1600, di un nuovo centro abitato. Attratti dalle facilitazioni economiche e fiscali e dalle concessioni di varia natura bandite dagli uomini del fondatore, molti lavoratori si stabilirono nel nuovo comune, sorto attorno ad un fondaco, crocevia di importanti vie di comunicazione.
Proprio queste consentirono col tempo ai suoi “habitaturi e terrazzani” di dedicarsi, oltre che alla coltivazione estensiva di cereali e intensiva di vigneti oliveti e sommaccheti, all’accoglienza di passeggeri, pellegrini e gruppi di soldati in transito per le strade che univano Palermo a Corleone, Catania, Agrigento. Fra le risorse del territorio, le vallate del fiume Milicia e dell’Eleuterio-Risalaimi e le cave di pietrisco e di marmo “rosso antico di Ogliastro” che servì ad ornare scale pareti e balaustre di chiese e palazzi della capitale dell’isola. A beneficiare della laboriosità degli abitanti, i marchesi Mancino, potenti gestori del Monte di Pietà di Palermo, impegnati nella seconda metà del Settecento in opere pubbliche, restauri  e concessioni enfiteutiche che consentirono in mezzo secolo il triplicarsi della popolazione del paese.
L’Ottocento fu il secolo dei Sedara e dei mastro-don Gesualdo, che acquisirono le terre perdute dalla famiglia nobile e parteciparono alle lotte per entrare nelle “liste degli elegibili” nella prima metà, per accedere al controllo delle cariche pubbliche locali nella seconda metà del secolo. Le rivolte per l’unificazione nazionale, quella del “sette e mezzo” (1866) e numerosi delitti segnarono una “democratizzazione della violenza” che tra i suoi mille rivoli condusse anche alla nascita del fenomeno mafioso, contrastato dalle retate del prefetto Mori. L’alba del XX secolo vedrà l’esplosione di un forte esodo migratorio transoceanico destinato prevalentemente al sud e al nord America, dove si è formata un’ampia colonia bolognettese, ancor oggi molto vivace.
Il volume ripercorre, anche con un articolato apparato di grafici, tabelle, immagini fotografiche, quattro secoli di vicende, personaggi e fenomeni con costanti rimandi tra la realtà locale e quella globale. L’autore fa ricco e puntuale ricorso agli studi esistenti, alle fonti archivistiche per la maggior parte inedite, reperite nei fondi dell’Archivio di Stato e dell’Archivio diocesano di Palermo, dell’Archivio storico comunale e di quello parrocchiale di Bolognetta, oltre che, per l’età contemporanea, alle fonti scritte e orali dei testimoni, le cui memorie hanno anche fornito elementi del patrimonio etno-antropologico locale. Frequente la comparazione documentata non solo con opere complessive sulla società siciliana (per esempio, le ricerche di Brancato, Di Stefano, Di Blasi, Renda, Falzone, Franchetti, Longhitano, Ligresti, Hamel, Titone, Crisantino...), ma soprattutto con  i “case studies” focalizzati su altri centri abitati siciliani (come Giarrizzo su Biancavilla, Benigno su Paceco, Cancila su Castelbuono, Garufi e Santino su Roccapalumba, Gattuso su Mezzojuso, Graziano su Ciminna, De Gregorio su Cammarata, Di Francesco su Sutera, Guccione su Alia, Marrone su Bivona, Calderone e Fiume su Marineo, Oddo su Villafrati, Romano su Misilmeri, ecc.) nonché opere della nostra tradizione letteraria. Ad esempio, vengono segnalate molte analogie con fatti e misfatti di Racalmuto, raccontati da Leonardo Sciascia nelle sue “Parrocchie di Regalpetra”.
Vengono inoltre esaminate con cura le diverse ipotesi storiografiche sulle tappe più rilevanti della storia del paese, come la scelta del sito della fondazione, la decisione del cambiamento di nome, la forte presenza delle donne nella vita economica, le cause dello sviluppo demografico nel ‘700 e del fenomeno migratorio del primo ‘900.
Le caratteristiche sopra illustrate, accompagnate dalla piacevole verve narrativa messa in campo dall’autore, fanno de “Il grano, l’ulivo e l’ogliastro” un’opera approfondita e completa e, se per la storia si potesse dire, un lavoro “definitivo” sulla vicenda del comune siciliano.

domenica 8 febbraio 2015

Antonino Causi "Melodie dell'anima" (Edizioni Drepanum)

di Maria Elena Mignosi Picone

Con questo libro dal titolo “Melodie dell’anima”, Antonino Causi è alla seconda pubblicazione di sillogi di poesie dopo “Versi in libertà”.
Melodie dell’anima non sono da intendere come canti scaturiti dal proprio intimo e inneggianti all’amore, alle passioni, alla natura, alla fede e alla speranza, né queste parti in cui il poeta suddivide le sue poesie, sono staccate l’una dall’altra, come rime sparse, ma c’è fra tutte una profonda unità.
Con questa premessa voglio esprimere la convinzione che in “Melodie dell’anima” di Antonino Causi, c’è molto di più.
Il significato del libro è molto profondo e inoltre  tutte le melodie sono così connesse tra loro che da tutte insieme può scaturire un unico messaggio, cioè tutte si possono tradurre in un’unica considerazione sulla condizione umana, specialmente attuale.
Allora procediamo con ordine nel dimostrare questa asserzione.
Io ho da poco recensito un libro di poesie di Anna Naro, dal titolo simile “Melodie del cuore” ed erano canti sgorgati dal sentimento e inneggianti all’amore , agli affetti familiari. Ma in questo caso non è così.
Innanzi tutto Antonino Causi non le intitola “Melodie del cuore” ma “Melodie dell’anima”. Ora tra cuore e anima c’è differenza. L’anima può contenere il cuore ma è di più. Oltre l’anima sensitiva c’è l’anima spirituale, e il nucleo dello spirito è la coscienza, là dove si avverte la voce di Dio.
Ma cosa può suscitare la voce di Dio? La bellezza e la bontà che ci circondano, ci avvolgono e ci edificano a tal punto da generare nell’anima le melodie.
La bellezza la troviamo nella natura, la bontà negli esseri umani, soprattutto nel sentimento dell’amore, oppure nelle passioni che ci inebriano.
Ecco che così canta il nostro poeta: “Si nasconde tra le nuvole/ il mio umore e si colora di tutti/ i miei sentimenti”; l’amica selva “Ristora il mio corpo stanco”; “Foglie secche …seguono/ sinuose sinergie/ di nuove mete ascetiche”, e osserva: “La natura è un respiro/ che rinsalda l’animo e la mente”.
E riguardo all’amore: “Questo è l’amore/ un’autentica magia/ carica di frenesia”; “…ringraziando te donna/ celeste visione/ terrena, preziosa e/ amabile fonte di vita”.e ancora “Frammenti di luce/ sorvegliano l’intima oscurità del mio cuore/ rischiarando ed esaltando la peculiarità dei miei sentimenti”: Ma per gustare la bellezza e la bontà occorre un clima adeguato. Non certo il frastuono ma il silenzio: “Basta voci/ basta rumori/ solo tu nobile silenzio”;
e il momento del silenzio sovrano è la notte: “E’ il momento migliore! Il confronto con la coscienza prende corpo”; e nella notte domina la luna: “la luna saccheggia e modella/ la nostra anima/ affidandola ad un silenzio/ appagante e rinvigorito”. E nel silenzio, favorito dalla notte e dalla luna si genera la contemplazione; e dalla contemplazione l’estasi e l’ascesi: “Nel mio silenzio e il tuo respiro/ viaggiano suoni gaudenti/ docili e sottili”; “A tratti si rincorrono/ e in un surreale turbinio/ si congedano dal tempo”; “Tutto tace! E’ l’estasi, è la stagione dell’amore”.
Anche le passioni che prorompono nella sua anima, per la difesa della giustizia (Antonino Causi è poliziotto), lo conducono alla verità nella quale consiste la giustizia: “Io non ci sto/ a subire indifferente/ la prepotenza e l’alterigia/…io non ci sto/ a subire i ricatti/ e i soprusi idi avvoltoi”.
E allora, nella contemplazione della natura, nell’estasi dell’amore, nella passione della verità, cosa si cela se non Dio che è appunto verità, bontà e bellezza? Ecco allora le melodie della fede. E dalla fede si leva la preghiera.
Questa “è sostanza di fede e spirito/ nell’aridità di un corpo impoverito”; “essa ci libera ci fa sentire pacati/ e rinfrancati”. E verso il Signore prorompe dall’anima del poeta: “Oh Signore, sei tu la mia luce, la mia vista,/ il mio osservare, il mio guardare all’orizzonte”.
E nel guardare all’orizzonte c’è insita la speranza. Ecco allora le melodie della speranza.
E’ questo il cammino dell’anima di Antonino Causi ma può essere il cammino di ognuno.
Ed è questo dunque il messaggio che egli ci offre , e cioè che nel silenzio, di fronte alla natura, all’amore, sorge la contemplazione, che nutre ed eleva l’anima facendole scoprire Dio. La scoperta di Dio conduce alla fede e questa alla speranza.
A sua volta il gustare Dio che si rivela Amore, genera amore e con questo anche il senso della fraternità e della unità: “Vorrei cantare una canzone/ che possa unire/ tutti i popoli della terra”; “Unendoci in un’unica voce/ intonata e e melodiosa/ che possa far germogliare/ i semi di un’arida terra/ e dare piante/ dai frutti dolcissimi/ edulcorando le amarezze e le malinconie della nostra realtà”.
E così Antonino Causi con questo suo messaggio addita un cammino per la possibile rigenerazione della nostra società attuale.
Qui sta il nucleo di tutta l’opera.
Questo messaggio trova conferma nelle sue parole che egli pone in esergo al libro. “Oggi l’uomo dovrebbe ascoltare le melodie della propria anima e non farsi deviare dall’effimero e dal vuoto che quest’epoca gli propina”.
Passando ora alle osservazioni di carattere estetico, diremo che il suo linguaggio è chiaro, spedito, è il linguaggio esistenziale cadenzato dalla musicalità della poesia che a volte presenta la rima altre volte sono versi liberi: “Ancora vivo è il ricordo/ che si colora/ di gemme dorate evanescenti”; “Vorrei che in un’oasi di serenità/ le mie paure ed ansie/ possano trovare/ il fiume della tranquillità”. E’ un linguaggio non aulico ma semplice, della semplicità della vera cultura.
Concludendo direi che l’impressione ricevuta dalla lettura delle varie melodie è quella di trovarsi di fronte ad un mosaico dorato e di vari colori con un tenue chiaroscuro: “Si nasconde tra le nuvole/ il mio umore/ e si colora di tutti / i miei sentimenti. Saranno/ vivaci e pallidi”; “Due corpi/ due anime/ erranti percorriamo tra bianco e nero/ delizie e amarezze/ felicità e mestizia”. Un mosaico, delicato e forte nello stesso tempo, così come appare il carattere del poeta, ricco di tenerezza, generosità, gratitudine, e nello stesso tempo, forte, coraggioso, determinato. Un mosaico sfavillante perché su tutto predomina la luce: “Catturerò tutta la luce”; “Frammenti di luce”; “Io come cacciatore/ rapisco tutte le stelle”; “ Oh Signore sei la luce dei miei occhi”; “In un libro bianco e vuoto/ vorrei disegnare la tua casa/ oh dolce bimbo guardando la tua foto!/ una casa piena di calore/ luce e soprattutto d’amore”.

Francesco Ferrante "Nto jardinu di l'amuri" (Edizioni Drepanum)

di Rita Elia


Francesco Ferrante si presenta ancora una volta al pubblico dei suoi estimatori con una nuova raccolta poetica dal titolo Nto jardinu di l’amuri  questa volta prettamente in dialetto siciliano.
Conoscevamo già la delicata sensibilità ed umanità del nostro Autore attraverso le sue raccolte poetiche con le quali ha conseguito lusinghieri successi a livello regionale e nazionale.
Ed ecco che Francesco non delude la fiducia e l’aspettativa di quanti gli vogliono bene e si mostra in quest’ulteriore silloge, nella lingua che per osmosi gli è stata trasmessa, più sottilmente preparato ad ascoltare le voci della vita, fatta di sentimenti e di spettacoli della natura,  più incisivo e diretto nella parola poetica che unita all’uso del dialetto acquisisce spontaneità e immediatezza.
La sua è poesia vissuta come missione “Mi cunzignò un sacco, Diu, chinu di simenza,di simenza di puisia.e iu mi fici viddanu nto jardinu di l’amuri”.
C’è sempre un cancello che da l’accesso ad un giardino, un elemento che viene collocato per consentire un passaggio d’ingresso ad una proprietà  ma Nto jardinu di l’amuri di Francesco Ferrante si lascia libertà di accedere ed inoltrarsi nei viali dei suoi sentimenti. E’un jardinu senza patruna dove chiunque può attingere, raccogliere, inebriarsi.
Ogni pagina è un luogo “unni li palori addiventanu paladini e cunzulatrici”, un giardino  che coltiva  e cura amorosamente senza stancarsi e con la speranza di “cunsulare chiantu e malinconia.”
Ma ha avuto un maestro di vita, un maestro presente nella sua poetica, la cui nostalgia è infinita, il padre: “Tu zappavi nto ‘n jornu dudici uri e nta li caddi di li manu mi ‘nzignavi a leggiri l’amuri.”
Ed ha imparato a leggere l’amore nella sua esperienza in un campo di lavoro nel villaggio di Migoli in Tanzania, organizzato dall’Associazione culturale Hakuna Matata, esperienza illuminante e formativa che gli ha dato visione di una società volta all’indifferenza verso il dolore altrui e Francesco ne vive lo smarrimento: “Lu munnu è surgiva di piccatu e iu sugnu ugghia persa nto pagghiaru di la vita.”
Prende coscienza della distanza abissale tra l’opulenza dei paesi ricchi e la miseria nera dei paesi cosi detti del terzo mondo ed aggiunge : “ Lu terzu munnu nun esisti picchì lu munnu è sulu unu…”
E siddu talìu nta li chiaghi di lu munnu nto villaggiu ‘i pagghia e fangu di li visciri africani, vidu ‘u me cori ancora dda, assammaratu di sangu e amuri chi chianci pi la sorti di tutti l’omini.
E Ferrante insiste sui mali efferati del mondo, su una società votata alla violenza , sull’ignavia degli uomini e  in Aspittannu  Colapisci cerca di scuotere quell’atavico lassismo del popolo siciliano, “ e i siciliani stannu fermi rummuliannu nta ‘n agnuni sapennu ca c’è sempri quarcunu mossu p’amuri o cumpassioni ca si carica lu pisu di ‘na culonna mezza rutta ca nta sta terra dispirata si nni trovanu a ogni antu.”
“ Li puisìi sunnu carizzi di matri chi cunzolanu lu chiantu…” ma sanno anche essere  
“ scupittati ca fannu arrìsatatri lu sonnu di chiddi ca nun vidunu… nun sentinu…nun parranu ”.
“ Iu caminu talìannu ‘u suli e nun m’affruntu ‘i nenti, tu t’agnunìii ȏ scuru e ti quartìi ‘ i tutti”
afferma Ferrante in  Discursu a un mafiusu, puntando il dito verso la prepotenza, il malaffare e la ferocia ed invitando alla conversione. 
Oltre alla Fede in Dio, oltre alla  Fede in un risorgimento morale, l’Autore trova sollievo liberatorio nella bellezza della natura e in una Nuttata d’aùstu ,”  iu sentu  lu me’ sangu vugghiri di gioia…lu munnu pari anticchia cchiù sinceru “.                                    Poeti non ci si improvvisa; o lo si è o non lo si è. Francesco Ferrante lo è.
La sua è poesia di consistenza, poesia sofferta, vissuta,”  dispiratu amuri c’addogghia l’arma du pueta.”
Queste poesie vanno lette con la medesima attenzione con la quale ci stupisce un giardino nella dolcezza della primavera, coi suoi profumi e coi suoi colori, nella solarità estiva, coi suoi frutti dolci e maturi, nella stagione autunnale, con la sua  fresca brezza e il fogliame ramato e  nell’asprezza cupa dell’ inverno.
Tutto nello scenario irripetibile della nostra terra, con il suono della nostra lingua, sintesi delle voci del Mediterraneo che racchiude la millenaria cultura del popolo siciliano con cui Francesco Ferrante ne canta il dolore, la gioia, la disperazione, la speranza e la fede.

venerdì 6 febbraio 2015

Vittorio Amedeo di Savoia Re di Sicilia – Tommaso Romano

di Manuela Coniglio
 

Un libro tanto elegante nella forma quanto controcorrente nel contenuto, uno splendido involucro nel quale è racchiuso il riscatto di un frammento storico della Sicilia e di chi, nello stesso momento, la governava. Un pregiato volume che custodisce al suo interno la memoria di sette anni di storia, brevi ma intensi, spesso ignorati dalla storiografia ufficiale. “Vittorio Amedeo di Savoia Re di Sicilia” ha il merito di riportare alla luce un periodo storico a lungo- e a torto- relegato nell’indifferenza e nel disinteresse degli storici. Una “parentesi effimera”  che adesso, corredata da un robusto e variegato corpus di fonti, assurge a dignità storica. Molteplici narrazioni, dirette e indirette, dello stesso momento storico e dello stesso personaggio che convergono nel riscatto della figura di Vittorio Amedeo di Savoia restituendogli onore e rispettabilità e riconsegnando una verità storica al lettore. Sfogliando queste pagine appare evidente l’impegno dell’Autore nell’appassionata ricerca al servizio del revisionismo storico. La vicenda siciliana di Vittorio Amedeo di Savoia, infatti, ha tradizionalmente sofferto di pregiudizi sollevati dalla propaganda vaticana e spagnola antisabauda e riproposti dagli storici rei di “puntuale e parassitaria pigrizia”  nella verifica delle fonti. Al contrario, Tommaso Romano mette in atto una rivalutazione della storia, finalmente affrancata da giudizi arbitrari e parziali funzionali alla distorsione della narrazione storica. La necessità della revisione è la ragione profonda che conduce alla realizzazione di questo volume che ha il vanto di essere il primo mai scritto sulla vicenda del breve regno siciliano di Vittorio Amedeo. In esso, grazie all’apporto di molteplici fonti, viene dipinto il ritratto del sovrano sabaudo, i suoi sforzi di creare un legame forte e diretto con i nuovi sudditi, i grandi progetti commerciali e amministrativi da attuare in Sicilia, il suo piano di riforme. Il tutto nel rispetto dell’Isola e dei suoi abitanti e senza alcuna intenzione di piemontizzare né l’una né gli altri. Inoltre, grazie alle fonti reperite da Romano negli Archivi di Stato di Palermo e Torino, emerge l’attenzione continua del re nei confronti della Sicilia; attenzione che rimane una costante nonostante l’allontanamento fisico del sovrano, vissuto come meramente territoriale da Amedeo ma avvertito come distacco psicologico dai siciliani.
Prendendo le distanze dal conformismo storico ufficiale, Tommaso Romano riscrive una pagina della storia della Sicilia. È un’esposizione di fatti, testimoniati da fonti ufficiali e non, nella quale il nostro Autore non teme una presa di posizione: ammirazione nei confronti della legittima monarchia savoiarda in Sicilia, realmente interessata all’Isola, alle sue sorti e all’attuazione di misure per migliorarne le condizioni economiche, sociali, di sicurezza. Romano non si lascia condizionare dai preconcetti e dalle “leggende nere” che, nel corso dei secoli, si sono consolidate attorno alla figura di Vittorio Amedeo. Al contrario, si immerge nell’epoca e nel contesto e, grazie all’appendice artistica e documentaria, consente tale immersione anche al lettore. Il merito di questo volume è di fornire alla collettività un frammento, fin qui mancante, di quel vasto e complesso mosaico costituito dalla Storia di Sicilia. Lascia che siano le fonti a parlare a colui che si abbandona alla lettura di questo spaccato di storia siciliana: per scelta metodologica ma anche estetica, molti dei documenti scelti, tra cui lettere autografe di Vittorio Amedeo e del suo Viceré Maffei, si presentano al lettore in riproduzione anastatica; le pagine tratte dal volume “Cose che furono…” della nobildonna Felicita Alliata costituiscono una sorta di meta-narrazione storica (quando, addirittura, non “meta-meta-narrazione storica”) con commenti a margine dell’autrice che, ricostruendo grazie ad un antico opuscolo la storia della sua famiglia, ricostruì anche gli anni del regno di Vittorio Amedeo in Sicilia; ed ancora immagini di stampe, incisioni, architetture, testimonianze iconografiche che descrivono il periodo storico e aiutano ad immergersi nel contesto esaminato. Lo sforzo documentarista di Romano include anche un saggio di Alberico Lo Faso di Serradifalco ricco di dettagli sui personaggi e sull’etichetta, sulle date e sulle attività del re durante la breve permanenza in Sicilia descrivendo e ricostruendo, per esempio, l’intero percorso di Amedeo durante la cerimonia ufficiale del suo ingresso a Palermo, i vari riti di appropriazione della città, l’accoglienza festosa a lui riservata dal popolo e le rivalità tra gli aristocratici che si contendevano i ruoli più prestigiosi.
Grazie ad aneddoti tratti dalla microstoria, all’apporto di informazioni provenienti dalla numismatica, alla corrispondenza epistolare del sovrano, ai dispacci corredati dai moduli di accompagnamento, alle biografie dei personaggi che gravitavano attorno alla figura di Vittorio Amedeo, grazie ad atti e documenti rinvenuti presso l’Archivio di Corte di Torino, grazie a bassorilievi presenti nei monumenti palermitani, grazie alle stampe e alle incisioni di Ciché riportate sul nostro volume, grazie a tutto ciò è stato possibile smentire i falsi stereotipi che sono stati intessuti ai danni della memoria di Vittorio Amedeo, re di Sicilia. Da ciò emerge, invero, la figura di un sovrano sinceramente interessato alla Sicilia: egli, precedentemente al suo arrivo, commissionò relazioni sullo stato dell’Isola; indisse due Censimenti “delle anime”; convocò in tre sessioni i tre Bracci del Parlamento; si avvalse del sostegno e della collaborazione di intellettuali, burocrati e artisti siciliani; tentò, aprendo le porte della sua dimora ai nobili e con la sua presenza nella quotidianità della città, di creare un dialogo diretto con i nuovi sudditi; propose un massiccio programma di riforme economiche, commerciali, infrastrutturali, per la pubblica sicurezza, amministrative e fiscali per risanare il Bilancio del Regno, per porre fine ai privilegi dell’aristocrazia e per limitare il potere baronale; si adoperò per il progresso delle scienze e delle arti. Tale “ricostruzione economica e morale del Regno” , ovviamente, creò malcontento e antagonismi tra sovrano e nobiltà: le grandi riforme furono accolte con reticenza dai grandi feudatari e dai Gesuiti che non avrebbero più potuto godere dei privilegi ecclesiastici. Ecco come si irrobustì la cerchia, ristretta ma potente, degli oppositori di Vittorio Amedeo. A ciò va aggiunta la propaganda antisabauda condotta dal Vaticano, derivante dal conflitto politico-ecclesiastico sorto intorno alla questione dell’istituto dell’Apostolica Legazia, e dagli ulteriori nemici esterni quali gli atri regni italiani, le repubbliche di Genova e Lucca, l’Austria. Il periodo in esame, quindi, risulta inquinato da fonti e documenti orientati a screditare la figura di Vittorio Amedeo.
Esattamente nel rifuggire da interpretazioni ideologiche e stereotipate di questo breve ma intenso momento storico sta il merito dell’operazione di severa e rigida ricerca d’archivio e di puntuale raccolta di dati e notazioni svolta dal nostro Autore.
Romano individua proprio nel buon governo di Amedeo le cause del perire del suo Regno. Il tentativo di privare la nobiltà del proprio potere destò sentimenti di insofferenza negli aristocratici. Ma c’è dell’altro. Le “colpe” di Vittorio Amedeo furono anche quelle di aver preteso – e di averlo preteso troppo in fretta - che i siciliani rinunciassero allo stato di torpore che li contraddistingueva: a lungo andare, i sudditi reagirono negativamente ai sacrifici richiesti dal loro re per uscire dallo stato di arretratezza in cui si trovava l’Isola. Il popolo, che come mette bene in luce Romano aveva partecipato con manifestazioni di giubilo all’arrivo e all’incoronazione del sovrano di casa Savoia, nel tempo si rivelò restìo ad accogliere il progetto riformatore di Amedeo.
Anche se potrebbe sembrare un’ovvietà, questo testo mette in risalto anche il ruolo giocato dalla Sicilia nelle dinamiche geopolitiche dell’epoca: contesa da spagnoli, austriaci e savoiardi ed in grado di ristabilire equilibri tra le grandi potenze. Inoltre, Amedeo, col suo breve Regno in Sicilia, creò un ponte di dialogo e collaborazione tra Nord e Sud e l’Autore sembra quasi volerci lasciar intuire che, se questo avesse avuto una più longeva estensione temporale, probabilmente oggi le relazioni sociali ed economiche tra i due estremi dell’Italia avrebbero delle connotazioni diverse.
Tommaso Romano e il suo “Vittorio Amedeo di Savoia Re di Sicilia” gettano nuova luce su ciò che, a torto, da sempre gli storici hanno dato per scontato e fanno riflettere sull’importanza del revisionismo storico, oltre a restituire dignità e verità storica ad un “episodio sfuggito alla storiografia”  ufficiale.

mercoledì 4 febbraio 2015

LA VIA DELLA BELLEZZA E L’IDENTITA’ CRISTIANA SALVERANNO IL MONDO

di Domenico Bonvegna 
 
La via della bellezza ci salverà dal nichilismo dei nostri tempi? Ne è convinto monsignor Fisichella e lo scrive nel suo “La Nuova Evangelizzazione. Una sfida per uscire dall’indifferenza”, Mondadori (2011). E’ un fatto che il Cristianesimo ha fondato l’Europa, tuttavia per monsignor Fisichella, questo non significa che i cristiani devono pretendere diritti di primogenitura per le diverse conquiste compiute nel corso di questi secoli che segnano la storia del nostro Occidente. Ma subito ribadisce che il cristianesimo è utile al progresso della società, naturalmente rispettando la laicità dello Stato, di cui tutti siamo gelosi, che poi non è altro che l’applicazione evangelica del “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
 Dunque, la laicità non deve escludere il cristianesimo, non si può accettare un’Europa indipendente dal cristianesimo o addirittura contro di esso. Del resto si domanda polemicamente Fisichella, senza il cristianesimo, e ormai sono diversi anni che i Paesi europei vivono come se Dio non esistesse, “La società è migliorata? I giovani hanno trovato maggiore impegno e responsabilità nella società? Il lavoro è diventato una forma di realizzazione? La famiglia si è rafforzata nell’impianto sociale? La scuola è palestra di vita? L’ammalato è una persona da rispettare e non un peso per il bilancio? La vita nel suo insieme è salvaguardata? E la sua dignità è garantita a tutti?”. Certamente no. Abbiamo bisogno di riscoprire le nostre radici, la nostra appartenenza, la nostra identità, altrimenti, “saremo destinati a veder prevalere i singoli egoismi di turno e la reazione sarà quella di rinchiudersi in nuovi confini, magari non territoriali, ma certamente frustranti e fallimentari”. Pertanto per Fisichella, “solo una forte identità condivisa potrà debellare forme di fondamentalismo e di estremismo che ripetutamente si affacciano nei nostri territori”. Una cosa è certa, “se l’Occidente si vergogna di ciò che è stato, delle radici che lo sostengono e dell’identità cristiana che ancora lo plasma, allora non avrà futuro”. Fisichella inoltre, invita, la politica a fare un salto di qualità per ritrovare un sistema valoriale, a mettere al centro dell’impegno politico e culturale, la famiglia e la vita umana, se non lo si vuole fare per convinzione, lo faccia almeno per calcolo economico. Purtroppo è un invito poco ascoltato dai vari politicanti sia nazionali che europei. Del resto la china dell’invecchiamento dell’Occidente ormai è un dato inquietante, altro che allarmi per il riscaldamento globale.
 Nel testo, monsignor Fisichella aggiunge un tema che potrebbe aiutarci a scoprire le nostre radici e soprattutto a valorizzarle. E’ la “via pulchritudinis”, (la via della bellezza), non dobbiamo sorprenderci se al tema della nuova evangelizzazione, la Chiesa trova posto per la riflessione sulla bellezza. E’ nella stessa missione di annunciare il Vangelo, del resto gli antichi filosofi insegnano che è degno di essere amato solo ciò che è bello. “Le nostre città - scrive Fisichella - esibiscono la ricchezza del genio architettonico che nel corso dei secoli ha realizzato opere uniche”. E’ una forte responsabilità custodire e trasmettere questo immenso patrimonio artistico e culturale alle generazioni future. Purtroppo però, nello stesso tempo, tutti vediamo come il senso della bellezza è venuto meno,” in molti casi si è voluto imporre un modello di bellezza in netta discontinuità con la tradizione”, senza la vera bellezza, il nostro mondo corre il rischio di cadere preda della disperazione. “Dove viene meno la bellezza, là viene a mancare l’amore e con esso il senso della vita e la capacità di generare”. Attenzione però per noi la bellezza non si esaurisce nella corporeità, così si scivola nell’effimero e si perde il senso della verità e della bontà. Purtroppo per monsignor Fisichella talvolta neanche la religione custodisce e ama la bellezza. Invece i credenti dovrebbero essere annunciatori della bellezza, e farne strumento del loro annuncio al mondo di oggi.
 Peraltro il cristianesimo da sempre nel corso dei secoli ha sempre privilegiato “esprimere e rappresentare visivamente la verità della fede e la bontà della nostra testimonianza”. Infatti, “in qualsiasi cultura è stato annunciato il Vangelo di Gesù Cristo, là si è data voce alla bellezza per rendere evidente il messaggio delle Sacre Scritture e mostrare il riflesso del mistero celebrato nella liturgia”.
 Il cristianesimo a differenza di altre religioni, ha rappresentato sempre la bellezza di Dio, poiché suo Figlio ha assunto la natura umana. “(…)l’iconoclastia non è un’opzione cristiana”, scriveva qualche anno fa, papa Ratzinger.
 Per questo il cristianesimo ha sempre dialogato con l’arte, “non potrebbe permettersi di interrompere una relazione tanto feconda perché si priverebbe di una via privilegiata per presentare il contenuto fondante della fede”. Fede e arte sono due endiadi invidiabili, del resto, se si tolgono i capolavori d’arte sacra dai musei, o le opere di letteratura cristiana dalle biblioteche, avremmo un vuoto enorme. Insomma, scrive Fisichella, “le nostre cattedrali, le chiese e una gran parte della produzione artistica di quasi due millenni sono la sintesi e la testimonianza più efficaci della fecondità del rapporto tra fede e bellezza nel compito di trasmettere la parola di Dio”.
 Parlando di bellezza dell’arte, un posto riservato viene assegnato alla cattedrale, essa spesso è l’espressione culminante dell’arte cristiana. “In una cattedrale niente viene dimenticato: dalle fondamenta al deambulatorio, dalla facciata all’abside, dalle vetrate alle campane…tutto viene raccolto nell’unità del progetto teologico per indicare il luogo dove la grazia si rende visibile nella vita sacramentale e la stessa grazia illumina e sostiene l’insegnamento del successore degli apostoli”. La cattedrale stessa come costruzione, “è oggetto del suo insegnamento, perché fin dalle sue pietre dichiara la funzione che è chiamata a svolgere: essa è la cattedra da dove il Pastore raccoglie il suo gregge per celebrare la santa eucarestia,(…)” .
 Monsignor Fisichella è convinto che all’interno della Nuova Evangelizzazione ci dev’essere la capacità “di dare voce alle nostre opere d’arte perché sono nate con lo scopo di far conoscere la bella notizia portata da Gesù Cristo. Abbiamo tesori d’arte che costituiscono un autentico catechismo per i nostri tempi. Penso - continua Fisichella – a quanta forza evangelizzatrice si potrà permettere se riusciamo a dare una chiara spiegazione aderente alla fede delle nostre cattedrali, delle nostre chiese e santuari”.
 E’ indicativo che il professore Fisichella conclude il suo testo facendo riferimento alla più grande sintesi architettonica delle Sacre Scritture, la ”Sagrada Familia”  di Antoni Gaudì  il più grande monumento, peraltro ancora in costruzione, della fede cristiana che i credenti abbiano potuto costruire. Il grande edifico si trova a Barcellona ed è stato consacrato da Benedetto XVI, il 7 novembre 2010. Secondo Fisichella la Sagrada Familia può essere assunta come l’icona della nuova evangelizzazione. Ripercorrere la storia delle varie fasi della costruzione della monumentale opera sacra non è ozioso, ma utile e soprattutto edificante per tutti. “La Sagrada Familia avrebbe dovuto essere il luogo dove la preghiera diventava il primo pensiero per quanti vi entravano, e la scoperta del trascendente avrebbe dovuto accompagnare il cammino di quanti alzavano lo sguardo al suo interno”. Le straordinarie facciate, le sue torri, le guglie, tutta la chiesa, secondo l’architetto catalano doveva rappresentare un vero “catechismo di pietra, dalla creazione fino al giudizio finale, in pratica, il cammino verso il compimento della vita eterna”. Non possiamo dilungarci ma sarà utile in qualche altra occasione riflettere su questa splendida opera architettonica.