domenica 30 aprile 2017

Giuseppe Pappalardo, "Contraventu" (Ed. Arianna)

di Maria Patrizia Allotta

  
Tra la palude e lo stagno, tra il deserto e il vuoto, tra le macerie e le rovine, ecco stagliarsi l’autorevole opera di Giuseppe Pappalardo.
    Uno scrigno pregiato il suo Contraventu. Canzuni, sunetti e strammotti siciliani che, fortunatamente, si distingue dagli infingimenti artistici artefatti e si allontana da quelle manipolate mode letterarie che sempre più calpestano la dignità del patrimonio umanistico. 
    Così, con estrema semplicità e con altrettanta sensibilità - mentre la tradizione erudita sembra ormai annullarsi e l’inutile specialismo avanza inesorabilmente - il nostro Autore, senza l’albagia dell’ambizione, piuttosto, nel rigore della glottologia e nell’impiego attento delle fonti, quasi titanicamente lotta - come pochi sanno fare oggi - per la salvaguardia della tradizione autoctona e per la tutela della cultura, quella vera, però.   
    E da intellettuale che vive autenticamente il sapere e produce incondizionatamente la conoscenza riesce, attraverso il suo versus, a donare quelle percezioni e quei sentimenti, quelle emozioni e quei tormenti, quelle gioie e quei dolori che, pur nascendo da soggettive condizioni vitali, abbracciano l’oggettivo esistenziale attraverso un dialogo musicale delicatissimo che avviene con se stesso, con gli altri e con il Cosmo tutto.
   Un’architettura importante, dunque, dove recuperiamo saga ed epopea, simboli e immagini, spirito e natura, ma soprattutto dove l’io si unisce con l’altro, l’intimismo s’intreccia con il sociale, il contingente si abbraccia all’Universale, proprio attraverso quella parola dialettale che meglio di qualunque altra parola sa rappresentare i pungoli ispirativi, la tensione creativa, le vocazioni personali, l’intimità dell’anima.
   E quella di Giuseppe Pappalardo è parola dialettale cristallina, nitida, chiara, vera - certamente non studiata a tavolino, non ingozzata da scienza dialettologica fine a se stessa, né tormentata da assilli grammatologici invadenti - paragonabile ad un gioiello da incastonare tra le opere che duellano contraventu per contrastare il tramonto del mondo siciliano.   
   In effetti, più che un “pirriaturi ca tàgghia e ntàgghia li massi cchiù duri”, o un “tissituri ca ntrizza e tessi ccu lana e fila d’oru”, oppure un “cavaleri ca cummatti ntra vìzzii e farsità suttâ bannera di la libertà”, Giuseppe Pappalardo è un “pueta” convinto che “chistu è lu tempu di cantari n coru ca un si campa d’òdiu ma d’amuri. É tempu bonu ppi turnari arreri. È tempu ca Ddiu duna ppi capiri,(…). È tempu di canzuni e di puisia”.
   Infatti, considerato il tempo infame, la corruzione degli uomini, la violenza fine a se stessa,   l’indifferenza davanti alla solitudine, al dolore e alla morte, Giuseppe Pappalardo - ora con tono sommesso e curvato davanti all’angoscia, ora con tono vigoroso e ritto dinnanzi all’affanno  -  sembra invocare un mondo migliore, possibilmente senza “na varca di culuri” destinata inesorabilmente “nfunnu ô mari” dove “c’è sulu scuru e friddu”, dove “Nun c’è un tabbutu a spadda di l’amici”, dove  nun c’è un parrinu ca binidici”; senza “misteri scilirati”, “nutrichi tutti ossa e panza”, “mischini scàvusi e sfardati”, “figghi c’annu fami”; insomma, senza “cori tinti”.
   Un mondo diverso, privo, finalmente di “genti (..) ca campa ittata ô ventu, a la vintura, ca dormi nta na casa senza mura”, “genti ca rriipitìa pp ‘un pizzuddu di pani, genti senza dumani”; ma soprattutto privo di “òmini pupi, c’abbàllanu a cumannu, ccu m-pedi, senza sonu, supra un filu di corda, mpisi a-ll’artaru di li so’ disìi e di lu ddiu dinaru”, privo di “òmini lupi, ca di la fami ‘i l’àvutri si ìnchinu la panza nzinu a quannu nun ncòntranu la santa fàuci e l’ùrtima vilanza”.     
   E con parole sorrette certamente da una profonda fede cristiana, in chiave di Strammotti, Pappalardo immagina - facendo magistralmente immaginare - un esserci insieme, magari senza La superbia, La tinturìa, La mmìdia, La rràggia, La lussuria, La gula, La lagnusìa, La farsitùtini, in un cosmo auspicabile dove sia possibile - così come già ama fare il nostro nelle sue Canzuni e nei suoi Sunetti - colloquiare con gli amori prediletti (Quannu è notti, Iu sugnu, A me frati, Pinzannu a me matri) o con quella natura che tra “lu vucilìzziu ncuttu di l’ariddi, un abbàiu di cani, lu rispiru dô ventu, lu silènziu dô tempu” ancora “duna corda a lu rralòggiu di li (…) pinzeri, aspittannu”, in quella dimensione totalizzante dettata dalle rimembranze radicate (Torna Natali, Lu me paiseddu, E io Luntanu) che molto confortano. 
   Certamente, in quel flusso di coscienza estremamente significativo che rileva a tratti ora fiducia, speranza e miraggio, ora dubbio, angoscia e patimento; il quell’attesa di nuovi pensieri che s’intessono preziosamente con il sogno e la realtà, con la letizia e lo spasimo, con la vita e la morte, troviamo, spesso, un uomo narrante “stancu di sta vita mùscia, di parrari di ventu ca non ciùscia, di càlia e di simenza, di dinari can un àiu e nun pozzu vadagnari (…), stancu d’annati nùtili e siccagni, di nèsciri dô focu li castagni, di sbàttiri la testa contrè mura, di sòffriri pilànnumi a vintura”.
   Un uomo narrante, si diceva, che non canta “cchiù dd’amuri spinziratu, spògghiu di sdegnu e rriccu di ducizza, di quannu stu cori turmintatu nun lacrimava sangu a stizza a stizza”, adesso, intona versi per quell’ “amuri lisu, dispiratu, palumma bianca c’abbulò luntanu, cavaddu pazzu ca fuìu scantatu, acqua ‘i surgiva spersa ntra li manu”; un uomo “ittatu e quattru venti”, senza “rimèggiu e mancu paci”, a cui “li làscrimi (…) scìnninu nzuppilu”, che invoca “la morti” e “idda rrispunni: nun ti dugnu asilu”.
    “Dinanzi a mia si grapi nu sbalancu, su’ rrussi l’occhi mei, rrussi di chiantu, ma si chiancennu n terra m’allavancu, na carità: scurdàtivi stu cantu”, riferisce e chiede il Poeta.
  Chi adesso scrive è certa, però, che per il Poeta - al di là dello sconforto che pure si manifesta nel quotidiano essere e oltre l’afflizione legittima che parimenti prende nell’umanissimo andare - non è ancora tempo né di sbalancu, né di allavancu, neppure di scurdari un cantu.
  E’ tempo, piuttosto, di celebrare quella poesia contraventu, invocata da un anima insolita che intravede nell’atto dello scrivere e nel valore fondante della parola, la possibile salvezza, l’epifania dell’essenza, la parusia dell’essere. Nonostante.    

sabato 29 aprile 2017

Un “Codice Cavallersco” per gli uomini di oggi

di Domenico Bonvegna

Il libro di Roberto Marchesini,Codice cavalleresco per l'uomo del terzo millennio”, SugarcoEdizioni (2017)  Si presenta come una mappa per l'uomo contemporaneo per riscoprire se stesso e la grandezza del suo essere maschile. Convinto che la natura dell'essere umano resta immutata e immutabile attraverso i tempi. Per lo psicoterapeuta non è anacronistico ricorrere alla figura del cavaliere con le sue virtù per l'uomo di oggi che si manifesta smarrito e sballottato“tra modelli effeminati o machisti, non certo virili”
L'autore ci regala una sintesi di cosa è stato veramente il cavaliere nella Storia. Essere nobili non significa“vivere di rendita” sulle spalle degli altri, senza lavorare.“[...]la nobiltà di spada, oltre a essersi guadagnata titolo e terre con il rischio della vita, in combattimento, usufruiva di quel mantenimento perché le toccava sacrificarsi in caso di pericolo”. Praticamente, “i contadini mantenevano si i nobili, ma per avere in cambio protezione e la salvezza della vita; i nobili erano sì mantenuti, ma perché era loro compito rischiare la vita per difendere chi si era a loro affidato”. Pertanto“la nobiltà - continua Marchesini - era un gravoso dovere, non un piacevole beneficio”. Cosa diversa invece era la nobiltà di toga. Questa, “dimostrando la sua volgarità, aspirava soltanto agli aspetti piacevoli della nobiltà, ignorando completamente la pericolosa contropartita”.
Del resto per Marchesini appartenere all'élite della società implica dei doveri nei confronti della società stessa. L'animo volgare non prende nemmeno in considerazione che la vita sia compito, dovere, sacrificio. Anzi guarda con sospetto ognuna di queste tre parole. Eppure sono state queste parole “il fondamento educativo che ha costruito l'Occidente così come lo conosciamo”.
Tuttavia una vita senza un fine, senza uno scopo, senza un significato è una vita grigia, vuota, impossibile da vivere. Secondo lo psichiatra Viktor Frankl, il principio che guida “l'esistenza delle persone non è il principio del piacere (come sosteneva Freud), e nemmeno la volontà di potenza (come affermava Adler), bensì la volontà di significato, la ricerca di uno scopo, di un senso nella propria vita”. Così sempre facendo riferimento a Frankl, l'uomo volgare occidentale di oggi,“immerso in un 'vuoto esistenziale', cerca di soffocare la propria angoscia nella ricerca del piacere”. La stella polare dell'uomo volgare, un po' selvaggio, sembra essere un'esistenza immersa nella nebbia del piacere. L'unico scopo dell'uomo contemporaneo è di cercare ogni tipo di piacere. Divertirsi, che significa allontanarsi dallo scopo della vita, dal dovere, dal sacrificio. Allontanarsi dalla propria vocazione di uomo, dal proprio destino.
L'uomo d'oggi fa di tutto per raggiungere la liberazione sessuale, ma alla fine arriva alla schiavitù sessuale. Del resto“chi vive in modo edonistico  -scrive Marchesini – non vive realmente come vuole (anche se magari non se ne rende conto); si accontenta di una vita anestetizzata”. Allora dobbiamo accontentarci di una dose quotidiana di anestetico, oppure possiamo avere di più? Per Marchesini possiamo tendere a una vita migliore, ci propone una vita dove possiamo“realizzarci pienamente, mettere a frutto i nostri talenti senza seppellirli,essere orgogliosi di noi, invece di passare la vita a vergognarci”. Questa vita è possibile.“Ma abbiamo bisogno - come ha scritto Goethe – di un ordine, di una legge”. Ecco il “Codice cavalleresco”. Certo, il bambino viziato, il selvaggio con smartphone, l'edonista si metterà a ridire della proposta. Non importa, noi vogliamo vivere secondo un ordine e una legge, innanzitutto vogliamo vivere una vita con coraggio, con onore, con sincerità, con lealtà, con la cortesia, con franchezza, da veri sportivi. Sono questi i valori che contano, anche se ormai vengono pronunciati soltanto“nelle vecchie pellicole in bianco e nero della commedia all'italiana”. Ma sono gli unici, necessari se vogliamo vivere una vita di vera felicità.
Le riflessioni proposte da Marchesini sui valori fondamentali che delineano il cavaliere sono tutte interessanti. Meriterebbero uno spazio adeguato in questo mio intervento. Propongo qualche riflessione sul “coraggio”. Marchesini parte da uno dei libri fondamentali della Chiesa, “L'Imitazione di Cristo” , infatti Gesù Cristo  è il “paradigma e l'esemplare[...] degli uomini-maschi”, la perfetta realizzazione di ogni uomo. Cristo si è sacrificato per gli altri, “non è solo una verità di fede, ma anche una verità di ragione: la felicità dell'uomo consiste nel donare se stesso[...]”. E la conclusione alla quale sono giunti anche filosofi non cristiani come Aristotele, Seneca, Kierkegard.
In pratica l'uomo paradossalmente trova la propria felicità, cercando la felicità altrui e sacrificando se stesso. Si pensi alla numerosa schiera di santi nella Chiesa, penso a madre Teresa di Calcutta. Marchesini cerca di convincerci che gli uomini nonostante tutto portano il peso di tutte le guerre, sono loro a combattere. “Io combatto perchè voi non dobbiate combattere”, esclama il protagonista del film Ironclad.
La Chiesa ha sempre tenuto in considerazione, la virtù della fortezza, cioè della forza soprattutto la forza d'animo. Il coraggio per Marchesini non consiste ricercare la ferita o la morte per se stessa, significa essere disponibili nella lotta contro il male, sempre però con prudenza, altra virtù cardinale. Attenzione, essere prudenti però non significa non esporsi, non prendere posizione, mantenersi nella mediocrità senza assumere posizioni nette. “Il prudente – per Marchesini - non è il mediocre, ma il saggio, che quando capisce dove sta il bene ci si butta senza dubbi né ripensamenti; il coraggioso non è il timoroso ma, al contrario, risoluto: nel bene”.
Marchesini discetta sul significato dell'essere maschi, uomini, facendo riferimento agli antichi latini, “uomo diventa ciò che sei”, cioè forte, coraggioso, virtuoso. Del resto è quello che desiderano gli uomini “in crisi”, stanchi di una vita insoddisfacente, demotivati, senza uno scopo. Mentre la donna non ha il problema di sentirsi debole, per loro è la bellezza quello che conta.
Il nemico del coraggio è il timore,“esso toglie all'uomo la speranza di vincere, quindi l'uomo timoroso è disperato. L'uomo timoroso rinuncia a combattere ancora prima di aver incontrato il male, e fugge”. La nostra società, che è diventata sempre più “materna, iperprotettiva, ci spinge, ci induce ad essere timorosi, non coraggiosi”. Non per nulla, la nostra società ormai è “senza padre”. L'iperprotezione della mamma è castrante. “La maternità è oggigiorno addirittura elevata a sistema di governo. Lo Stato è una madre avvolgente, protettiva, rassicurante che, per il nostro bene, ci proibisce di fumare, di bere, di correre in auto, di difenderci, di pensare[...]”. E' il super-Stato dell'Unione Europea a dircelo. Praticamente “il politicamente corretto non è altro che il femminile assurto a norma sociale”. Infatti bisogna evitare i conflitti a ogni costo; non offendere, non urtare la sensibilità altrui. Certo a volte è bene farlo, però bisogna anche dire le cose, la realtà si impone, talvolta anche duramente. E allora affinchè il politicamente corretto non diventi dispotismo o dittatura, il femminile va bilanciato col maschile.
Oggi elogiare la forza è come bestemmiare. Per Marchesini, “la nostra società incoraggia la debolezza [...]la morbidezza”. Ci dicono che la forza è violenza, “scordando tuttavia che la forza è l'unico rimedio alla violenza, che senza i forti saremmo in preda ai violenti”.
Comunque sia la nostra civiltà è stata fattada uomini coraggiosi, non da vili”. Oggi invece nella nostra società siamo circondati da gente che temono di affrontare anche un minimo esame universitario, di prendere posizione pubblicamente, o di esporsi. “Che garanzie ci sono per riuscire?”, è la domanda frequente. Siamo circondati da gente che sembra di fare grandi gesti, ma soltanto quando hanno la garanzia che non ci sono conseguenze.
Rispondere delle proprie azioni  e pagarne le conseguenze, significa essere responsabili.“Il tipo umano che la nostra società sta allevando non vuole pagare le conseguenze delle sue azioni, vuole essere irresponsabile. I bambini sono irresponsabili, ed anche i folli”. Dunque “siamo una società di bambini o di folli?”.
Mi ricordo di un grave atto di cronaca di alcuni anni fa in Sicilia, tre giovani avevano violentato e uccisa una ragazza, uno di questi dopo essere stato interrogato dagli inquirenti, esclamava con distacco, ”adesso posso ritornare a casa?”.
Siamo stati educati fin dalla nascita, all'irresponsabilità, alla viltà, a rinunciare a lottare per il bene se le conseguenze non ci piacciono. Sostanzialmente siamo schiavi del timore, che non è una cosa cattiva. Il timore secondo Marchesini è “come un semaforo giallo: ci dice di stare attenti. Non è un semaforo rosso, che ci dice di non andare”. Se andare o meno lo decide la ragione, non il timore.
Concludendo occorre sottolineare che l'uomo coraggioso non è quello che non ha paura, è quello che nonostante la paura, fa quello che deve fare, cioè le cose giuste. E' l'uomo che utilizza le passioni, ma non si fa guidare da esse, anzi li domina. Li guida e li indirizza verso il bene. Ecco che a fianco del coraggio e della prudenza, troviamo la temperanza. Esattamente il contrario di quanto insegna la società odierna: “Soddisfa le tue passioni”; “Segui le tue passioni”, sono questi gli slogan della pubblicità di oggi. L'uomo contemporaneo è guidato ed è in balia delle passioni. L'uomo coraggioso no, è un uomo libero. Legata al coraggio c'è poi la giustizia. “Non si può essere giusti se non si è coraggiosi”

sabato 22 aprile 2017

Emilio Paolo Taormina, "La cengia del corvo" (Ed. del Foglio Clandestino)

di Guglielmo Peralta

         
La prima cosa che mi ha colpito di questo libro di poesie di Emilio Paolo Taormina quando l'ho ricevuto è stato il titolo. Mi sono chiesto che cosa avesse a che fare un corvo con la poesia di Emilio. Chi conosce "Il corvo" di Edgar Allan Poe e la scrittura e la biografia di questo Autore può facilmente fare un accostamento tra costui e il volatile cogliendo nella simbologia dell'uccello gli aspetti tragici e inquietanti della personalità del poeta statunitense. Non è invece facile trovare un legame tra il corvo e le poesie di questa raccolta né, tantomeno, con il nostro Poeta. Mentre Poe, per il suo aspetto un po' cupo, misterioso, tenebroso può, effettivamente, ricordarci il corvo, che nella sua poesia è associato al male e alla morte, Emilio Paolo Taormina può tutt'al più ricordarci la figura di un moschettiere, forse quella di Athos, il più misterioso (è, questa, l'impressione che io, tuttora, conservo di Emilio da quando lo conobbi durante la presentazione di un suo libro, tanti anni or sono!). Ma lasciamo, per il momento, il corvo che, tra l'altro, è solo nominato nel titolo, dove il soggetto è la cengia, sulla quale esso non c'è, non compare, mentre è presente solo in un testo della silloge. Lasciamo in sospeso questo dilemma, che cercheremo di risolvere nel corso della trattazione.
           Una cosa è certa riguardo a questa silloge poetica. In essa non c'è ombra di mistero e, di conseguenza, non ci sono tinte fosche, cupe; anzi, il linguaggio, pur nella sua simbologia, ha la trasparenza della leggerezza, di ciò che è tenue, raffinato, delicato. Perché tale è la materia che ispira i versi, nei quali, a sua volta, essa trova respiro; che non lascia pesare quella malinconia, di cui essa è portatrice e di cui è velato l'intero tessuto poetico. Oggetto del versificare è la vita vissuta. Ed è, questa, un'altra certezza che ci è data dallo stesso poeta in un'intervista rilasciata per la rivista online "l'EstroVerso" il 17 Dicembre 2016. Egli dichiara: «La mia scrittura nasce dalla vita vissuta, non sono capace di scrivere nulla che non è entrato nel mio sangue». E ancora: «Non ho la formula esatta della poesia. (...)  La sento nascere dentro di me come una musica: misteriosa, dolorosa che mi libera e mi fa sentire realizzato ed essenziale. La scrittura per me è il perno su cui gira la mia vita». Che la poesia sia musica in parole, in versi, un vero poeta lo sente e, dunque, lo sa. Se poi il poeta, prima di rivelarsi tale a sé stesso, è un appassionato della musica e ne fa un'attività commerciale aprendo una boutique di dischi, allora quel sentire la poesia come musica trova proprio nella passione musicale il suo coronamento. È questo il caso di Emilio Paolo Taormina, la cui vita è segnata fin dall'età di tredici anni dall'amore per la musica e a sedici anni, con la composizione del primo testo poetico, lo sposalizio tra la musica e la poesia ha il suo naturale compimento. Nell'intervista, inoltre, egli dice: «Sono gli episodi che hanno scritto la mia vita». Tra i fatti, tra gli accadimenti della vita, gli eventi della musica e della poesia rientrano in modo preminente tracciando molto presto il suo cammino esistenziale. E qui "episodi" è sinonimo, appunto, di eventi. Infatti, episodio[1], come suggerisce il suo etimo, sta a indicare qualcosa che sopravviene, che interviene, che si annuncia. Come nell'antica tragedia greca le scene dialogate seguivano all'ingresso del coro, così la vita di Emilio si svolge, si fa "rappresentazione" a partire dall'annuncio di quei grandi eventi creativi. La scrittura, col suo palinsesto musicale, diventa la porta magica attraverso la quale Emilio realizza la propria vita. Egli si consacra alla poesia, che lo «fa sentire realizzato ed essenziale». E la poesia è il luogo privilegiato in cui egli ama ricordare e raccontare gli "episodi" della sua vita; e qui sembra convenire con Márquez che «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla"[2]. Tuttavia, non ci sono qui solo i ricordi a raccontare la vita trascorsa, ma c'è altra vita, altra "materia" di cui pure consiste questa silloge. Non di sola memoria "vive" il poeta. Accanto agli "episodi" che la memoria e il cuore selezionano perché appartengono a una vita "felice", accanto a questa vita vissuta e vivificata, resa più reale, più vera dalla scrittura, dal "racconto" che egli ne fa, c'è (e qui parafrasiamo Márquez, volgendo in positivo il titolo del suo romanzo, Cronaca di una morte annunciata) il racconto di una vita "annunciata", che sempre si annuncia nel suo farsi poesia. È la vita interiore, dello spirito, del sogno, dell'immaginazione creatrice: quella che si crea da sé e che Taormina (come, del resto, i veri poeti) vive senza soluzione di continuità, in quanto vita sempre presente e avvertita, la quale, perciò, dura di più e va oltre la vita vissuta, e che non ha bisogno del ricordo per essere raccontata. È il mondo di Emilio, che si manifesta e prende quota quando la vita si "svuota" della vita, della pesantezza dell'esistenza per consegnarsi alla leggerezza dell'essere che, contrariamente a quanto afferma Kundera, in Taormina è sostenibile perché lieve lo rende la poesia, la quale è essa stessa leggerezza, ed è l'essere, la sua voce: canto d'amore per una vita vera, autentica, il quale evidenzia quanto il mondo sia alienato e distante dall'essere, dalla bellezza e ne auspica la trasformazione. La poesia, compresa nella sua natura ontologica, fa del nostro poeta il "Corvo" che, in segreto silenzio, ripete a sé stesso quel «mai più» che nei versi di questa raccolta non resta inascoltato. Il male, il dolore, la morte non hanno nella poesia né l'antidoto né il placebo, ma la cartina di tornasole che li mette in risalto facendone i temi fondamentali del discorso poetico. La poesia, unico conforto e rifugio sicuro del nostro poeta, è la montagna da scalare, ma la sua vetta è irraggiungibile. Tuttavia, essa resta il punto privilegiato di osservazione; è la "cengia", la sporgenza dalla quale guardare il mondo, non con distacco o con la "divina indifferenza" montaliana, ma per meglio com-prenderlo e sperare che il canto alimenti il desiderio della salvezza e, nel segreto del cuore, ogni uomo possa pronunciare quel «mai più» come promessa contro i mali che dilaniano il mondo. A differenza del «nevermore» di Poe, che dice l'impossibile ritorno alla vita di Lenore, il «mai più» di Emilio è la denuncia del mondo. Ed è la possibilità della rinascita dell'uomo affidata alla poesia. Inoltre, quel «mai più» è anche la fine del tempo "felice", che ritorna solo nei testi e nella memoria. E questo impossibile ritorno provoca dolore, nostalgia, malinconia, solitudine. Sulla "cengia" della poesia, Emilio-Il Corvo, ancora lui, replica quel «mai più» senza mai pronunciarlo. E sente che gli è «solo compagno» il «corvo» che gracchia «dalla cengia» a «natale»: giorno che fu di festa e ora «non più».
          Dunque, la vita: quella vissuta felicemente - quella della «memoria /(...) che vuole fermare / il vento / sulle mura / dove c'era il sole»; che fa tenere «i ricordi / in tasca / come monete / fuori corso», con le quali  si vorrebbe «comprare / un poco del tempo / perduto» - e la vita interiore, del sogno senza tempo, la quale vive il tempo della poesia, che la scandisce e ne assicura la durata; che trattiene dentro di sé «come sulla rena / bagnata / (...) le orme / dei giorni»; che «solleva / gli uomini / un palmo dalla terra», sono i grandi temi che figurano in entrambe le sezioni della raccolta e costituiscono i due campi semantici, nei quali s'inseriscono gli elementi inerenti alle rispettive forme di vita: da un lato, i ricordi con le percezioni sensoriali, i volti, gli affetti, i luoghi, i giochi, gli amori, gli innamoramenti; dall'altro, il sogno poetico con le visioni, i sentimenti, il pensiero, le fantasie, le emozioni, il sentimento della bellezza. La forma in cui il tutto si distende è il frammento, che è la parte "esecutiva", oltre che costitutiva, dei testi, i quali sono paragonabili a spartiti musicali. La parola, qui, è musica pensata come forma, e ogni frammento è suono che si aggiunge ad altro suono e non spezza l'unità di senso ma, come in un mosaico, è parte determinante e significante della composizione. Non ci sono titoli nei testi, né punteggiatura né maiuscole e tenendo il libro tra le mani e sfogliandolo con il pollice velocemente si ha l'impressione di vedere scorrere un'unica lunga poesia intervallata dagli spazi bianchi, messi lì con la funzione di darle pausa e respiro, ma anche di preparare, di annunciare un nuovo evento. Ed è sempre la poesia che si annuncia, che accade, che ricorda la vita e la racconta; che, soprattutto, detta sé stessa scrivendo la vita interiore di Emilio. È una poesia d'immagini, le quali non sono solo quelle generate dalle figure di significato, ma anche quelle che si formano, in maniera più diretta, nella mente del poeta, quelle pensate con le parole che le sognano. Sono queste immagini, soprattutto, a creare il linguaggio figurato, di cui è ricca la raccolta; ne troviamo più di una in molti testi, in armonica compresenza. Diversamente dal Frammentismo di matrice irrazionale e decadente, che al disordine, al marasma della vita faceva corrispondere nella costruzione dell'opera letteraria un mosaico di frammenti, di episodi slegati fra di loro, qui tutto è col-legato nella forma espressiva del frammento, nello stile che aderisce agli "episodi" e ai "sogni" narrati con semplicità, concisione e immediatezza e che insieme costituiscono un unicum, al quale sono riconducibili anche le due sezioni della raccolta. E quest'unicum, che qui non ammette soluzione di continuità, è la corrispondenza, pur nella differenza, tra vita, musica e poesia; tra la vita che si vive e quella come la si vive per accettarla, per darle un posto e una speranza nei sogni. La poetica del frammento di Taormina riconduce a questa unità, a questa corrispondenza, che è il senso da dare al mondo.
         Ricordi, folgorazioni, illuminazioni descrittive, bozzetti, intuizioni, percezioni sensoriali, visioni si alternano a momenti speculativi costituendo un lirismo, un flusso di coscienza lirica[3] che dà forma, anima e corpo a tutta la raccolta. La quale è questa coscienza che si versa senza soluzione di continuità e che invade gli spazi bianchi, sì che ogni testo tracima nell'altro e non si sa, a volte, dove inizi e dove finisca una poesia; dal principio alla fine c'è questo flusso, questo "panlirismo", che è l'unicum della coscienza che compone il tutto[4]. Pacatamente, il Nostro Poeta affida a questa varietà espressiva ed espressionistica la funzione di colmare il vuoto di una realtà sfuggente e incomprensibile per accedere al senso, che egli sembra indicare proprio in quell'abbandonarsi al flusso delle impressioni, che hanno la sorgente nella poesia. La quale è sempre da cercare, inventare, da prendere al volo, perché «è come gli uccelli / tra i rami / li vedi / solo quando / spiccano il volo». E quando il cammino sembra tracciato e seguiamo il volo degli uccelli, ecco che arriva la «pioggia» a cancellare il «sentiero». Viene meno la visibilità perché la poesia s'invola «come gli uccelli» fino a scomparire del tutto per ricrescere come «l'erba» e ripresentarsi in altre visioni, in altre versioni. «sul nostro sentiero / l’erba / è cresciuta / tante volte / pioggia dopo pioggia / è stato /cancellato». Perché ciò che si manifesta è anche ciò che si sottrae alla nostra comprensione, sì che la visione non è mai chiara, unica, esaustiva. Il flusso della coscienza non interrompe i «sentieri» che il pensiero traccia con i suoi percorsi. Essi, qui, non seguono orientamenti diversi, non avanzano, ciascuno separato dall'altro, come gli Holzwege[5] heideggeriani, ma s'incontrano tutti nel medesimo "bosco", in questa raccolta dove, come abbiamo appena detto sopra, i testi vanno tutti nella medesima direzione e confluiscono in un unico testo, che però non è la meta agognata, la quale resta irraggiungibile e lascia l'opera incompleta, aperta, in-finita. La poesia fa di ogni poeta un errante e anche se qui, in questo sentiero, non c'è interruzione, l'erranza resta irriducibile. La Poesia, al di là della sua presenza sulla pagina, al di là del dettato in versi, è l'ineffabile creatura increata che nell'ultimo testo della raccolta il Nostro chiama "elis", nome di origine ebraica, che significa: "la promessa di Dio" (El, infatti, indica l'essere divino). Ed è anche un nome olandese, che potrebbe riferirsi alla ragazza olandese incontrata nella valle dei templi ad Agrigento, alla quale Emilio accenna nell'intervista. Se così fosse, l'associazione tra la Poesia e questa donna, forse da lui amata, sarebbe un connubio perfetto. Di questa Poesia/Donna, egli dice:
 «ti ho creata / con la creta / della mia anima / ti ho chiamata / elis / (...) tu non esisti / sei nelle piume / del pavone / che sfidano / il sole / nel pigolio / del nido / che attende / la madre / libera / come la brezza / che gioca / con l'erba / l'acqua che scorre / sei  la creatura / nata dal mio sangue / e mi sussurra le parole / che scrivo». E in un altro testo: « (...) prendi forma / e ti disfai / sei creatura di sabbia / e roccia / sei la musica / che mi tiene sveglio / e cerca il suo corpo / nella parola».               Questa creatura che "ditta dentro", che traccia percorsi di pensieri restando incorporea e "non detta", celata nel suo bosco segreto, è, dunque, la Poesia, la Giumenta d'oro che titola e occupa, interamente, la seconda sezione della silloge. Essa è l'idolo adorato, venerato, che, essendo in virtù del nome elis "promessa divina", trascende la natura simbolica, ovvero, la sola funzione di raffigurazione e, dunque, non è una forma di idolatria. L'oro della "Giumenta", di cui pure riluce la prima sezione, è la "parola" segreta «che le comprende / tutte» e che il Poeta vorrebbe «partorire» come dio partorì il Creato. È in prossimità di questa parola creatrice e impronunciabile che le parole di Taormina acquistano leggerezza e splendore. In esse aleggia lo spirito della natura, la quale è presente in quasi tutti i testi. Fuse con gli elementi e con le varie forme naturali, le parole diventano creature tra le creature. Questo panismo delle parole, trasversale in tutta l'opera, nella seconda sezione trova potenza espressiva, essenzialità e purezza lirica maggiori in quanto si accompagna col sentimento dell'amore, il quale diventa un pensiero dominante, che, insieme con il ricordo del tempo "felice", scava nel cuore del poeta un solco più profondo di malinconia. Animali, piante, fiori, alberi, cielo, luna, sole, stelle, aria, vento, terra, acqua, fuoco partecipano ai sentimenti del poeta, che li personifica dando loro un'anima, oppure li associa a parti del corpo della donna amata o assegna loro capacità consolatoria. Riportiamo degli esempi.

"vorrei volare / sulle spalle / del vento"; "il sole d'oro / aspetta di giocare / per i viali / delle viole / con i bambini"; "petalo/ dopo petalo / la margherita  / rimase spoglia / ma non rispose"; "cosa / mi hanno detto / il miagolio / dei gatti /sulle tegole / le stelle / e le basole / che al mattino mi / accompagnavano al liceo / in qualche modo / qualcosa / hanno scritto / dentro di me"; "nella notte / di quiete / e di vento / gli ulivi / dormono / ad occhi aperti / come soldati / in trincea"; "il tuo corpo / ha il colore / del grano / le tue mani / odorano / d'uva e di pane"; "un corimbo / di elicriso / screziava d'oro / i tuoi occhi"; "i tuoi capelli / odoravano / dell'acqua lenta / dei canali"; "la solitudine / è una roccia / aguzza / taglia le mani / gli usignoli / e gli ultimi fiori di luna / provano / a consolarmi".
   
         Dell'oro della "Giumenta" rifulgono i versi, dove il Poeta canta l'amore per le donne amate nella sua gioventù. L'amore, anche se spesso è accompagnato dal dolore, dalla nostalgia, dal sentimento della morte, è un ricordo sempre vivo. Esso conserva, infatti, il forte legame con la vita ed è la prova della stessa esistenza. "Amo, dunque sono" sembra dire Emilio nei seguenti versi:
«chi ci prese / dal tutto / e ci pose / l'uno / accanto all'altra / come due / conchiglie / lasciate dalle onde / sulla spiaggia / noi che / non siamo / neanche un attimo / nell'universo / siamo / in questo momento».
         Il momento è l'evento dell'amore in cui lo stesso essere si "eventua"[6], accade, separandosi «dal tutto» indistinto dell'origine. Questo sentimento così fortemente avvertito, vissuto ontologicamente, pesa nel tempo della senilità, in cui il Poeta, in assenza dell'amore, lo rivive nel ricordo del passato, che ripete il verso gracchiante del corvo: quel «mai più» su cui la  Giumenta/Poesia stende una patina d'oro trasformandolo in canto, come in questa poesia:
«vorrei volare / sulle spalle / del vento / come gli uccelli / migratori / tagliare come bisturi / il corpo / della tristezza / riprendere la vita / capire che l'amore / non è sempre verde / come l'edera / non voglio / che il sole / non trovi più / il sorriso / sul mio viso».
          Il desiderio di "uccidere" la tristezza e di tornare a sorridere vivendo il tempo presente è il modo per esorcizzare il passato. Ed è la risposta che mette a tacere il corvo, il quale può abbandonare la cengia lasciando che sia la Poesia a prendervi posto.



[1] dal gr. epeisódion, der. di eísodos, 'ingresso del coro nella tragedia greca', col pref. epi
[2] In Vivere per raccontarla, di G. G. Márquez
[3] es. "l'alba/è un bambino/con gli occhi/stupiti/un frullo d'ali/sveglia/il sonno/degli ulivi/un ragno/si smarrisce/nel labirinto/della sua tela/oh se gli orologi/ fossero di neve/e si sciogliessero/nel sole/del mattino" (pag. 24)

[4] In virtù del panlirismo è possibile leggere le poesie dalla prima all'ultima come un unico testo non conchiuso, perché oltre l'ultimo testo continua a fluire l'inarrestabile coscienza. La raccolta, pertanto, resta 'aperta'.

[5] Sono i sentieri nel bosco, che s'interrompono impedendo di proseguire verso la meta determinata.  Fuor di metafora, stanno a significare il cammino dell'uomo, del pensiero, che non può che procedere se non come "irriducibile erranza". Ciò perché non esiste un'unica via, un'unica indagine diretta alla conoscenza, alla verità dell'essere, ma tanti percorsi di pensiero ugualmente utili, necessari, anche se la verità resta segreta, sepolta nel bosco.
[6] da "eventuarsi": neologismo dell'autore della presente  relazione

venerdì 21 aprile 2017

Con la sacra liturgia non si scherza

di Domenico Bonvegna 

Il cristiano, il cattolico, ha bisogno sempre di alimentare la propria fede, rivedendo e studiando i fondamenti del proprio credere. Tra i temi più importanti c'è quello della liturgia. L'anno scorso il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti, in un convegno proprio sulla Sacra Liturgia, ha letto un discorso che ogni battezzato dovrebbe conoscere e approfondire. Ma soprattutto ogni sacerdote dovrebbe studiare e presentare nelle catechesi parrocchiali. Io l'ho letto e studiato sulla rivista Cristianità (Verso un'autentica attuazione di 'Sacrosanctum Concilium' “; ottobre-dicembre 2016; n.382)
Per monsignor Sarah è importante comprendere la natura della liturgia cattolica, per distinguerla dalle altre religioni e soprattutto per comprendere e attuare la Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II. Cerco di presentare e condividere con il lettore alcuni passaggi fondamentali che il prefetto ha voluto sottolineare nel suo discorso. Intanto la liturgia cattolica “è una realtà sacra, non è una assemblea umana ordinaria”.
Il prefetto ci tiene a precisare che,“Dio, non l'uomo, è al centro della liturgia cattolica. Noi veniamo per adorarlo. Nella liturgia non si tratta di voi o di me. Non è il luogo dove celebriamo la nostra identità e le nostre realizzazioni o dove esaltiamo e promuoviamo la nostra cultura e i valori delle nostre comunità religiose locali”.
La liturgia riguarda e appartiene a Dio. Questo è fondamentale capirlo per il cardinale prefetto per il Culto divino.“E' essenziale che noi comprendiamo questa specificità del culto cattolico, dal momento che negli ultimi decenni abbiamo visto numerose celebrazioni liturgiche che nel corso delle quali le persone e le realizzazioni umane sono state troppo preminenti, quasi escludendo Dio”. Probabilmente il cardinale è preoccupato di certi abusi, che in troppe messe e chiese vengono realizzati. Infatti afferma:“attualmente esistono molte alterazioni della liturgia in numerosi luoghi della Chiesa”.
A suo tempo anche il cardinale Ratzinger, prima di diventare papa, aveva indicato che la dimenticanza di Dio“è il pericolo più incalzante del nostro tempo”.
Monsignor Sarah è convinto che San Giovanni XXIII e poi i Padri conciliari che seguivano l'insegnamento magisteriale dei Papi del XX secolo, quando si riunirono a Roma nel 1962 per il Concilio, non intendevano“creare una liturgia antropocentrica”. Piuttosto tutti, cercarono delle strade per attingere alla“prima e indispensabile fonte”, acquisendo “il genuino spirito cristiano”.
A questo punto il discorso di monsignor Sarah si dirige nell'esaminare nel dettaglio quali erano le intenzioni dei Padri del Concilio Vaticano II. Si trattava di fare una riforma della liturgia, che peraltro la riflessione era già iniziata da qualche decennio e ora con il Concilio si voleva continuare a lavorare studiare la questione. Erano quattro i criteri per intraprendere una seria riforma liturgica. Il 1° criterio consiste nel “far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli”. E' la preoccupazione costante di ogni tempo dei pastori della Chiesa. Il 2° criterio è stato quello di adattare meglio“alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti”. Ma questo precisa il cardinale è stato fatto dai Padri conciliari non per il“semplice desiderio di cambiamento”.
Il 3° criterio è anche quello di “[...]favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti credenti in Cristo”, che non significa però che i padri avessero desiderato di strumentalizzare la sacra liturgia per promuovere l'ecumenismo. Tuttavia i padri conciliari auspicavano una partecipazione più fruttuosa alla liturgia che“potesse facilitare un rinnovamento dell'attività missionaria della Chiesa”. E siamo al 4° criterio.
Monsignor Sarah si sofferma sull'opportunità e sull'uso delle lingue volgari nella liturgia, soprattutto per le letture della Sacra Scrittura, per la prima parte della Messa, chiamata, “liturgia della parola”. La lingua vernacolare ha avuto certamente un effetto positivo,“i padri cercavano proprio questo, e non di autorizzare una protestantizzazione della sacra liturgia o farne l'oggetto di una cattiva inculturazione”. Peraltro il prefetto, che proviene dall'Africa, dalla Guinea, mette in guardia da possibili liturgie nazionaliste che vanno a stravolgere la vera liturgia della Chiesa. Monsignor Sarah procede a una doverosa chiarificazione su che cosa si intende per inculturazione.“Non è una ricerca o una rivendicazione per legittimare un'africanizzazione o una latino-americanizzazione o un'asiaticizzazione del cristianesimo al posto della sua occidentalizzazione”. Sua eminenza, insiste,“l'inculturazione non è la canonizzazione di una cultura locale, né una instaurazione di questa cultura, con il rischio di assolutizzarla”.Certamente il Signore quando entra in una vita provoca “destabilizzazione, trasformazione, dona un orientamento nuovo, nuovi riferimenti morali ed etici”.
Ci sarà vera inculturazione della fede, quando questa produce la santità.“Essa permette di verificare il grado di santità e il livello di penetrazione del Vangelo e della fede in Gesù Cristo all'interno di una comunità cristiana”. Dunque,“l'inculturazione non è folklore religioso”. Sarah fa riferimento a San Giovanni Paolo II che affermava che una fede che non diventa cultura è una fede che muore. Pertanto l'inculturazione deve essere guidata sempre dalla“compatibilità col Vangelo e la comunione con la chiesa universale”. Tuttavia il cardinale, ribadisce che i Padri conciliari“non avevano intenzione di fare la rivoluzione, ma di promuovere un'evoluzione, una riforma moderata”. I padri del Concilio auspicavano una “consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche” del popolo cristiano,  ma questo poteva avvenire soltanto con una adeguata formazione liturgica, che dovrà prima coinvolgere il clero. Non ci potrà essere partecipazione attiva, se prima, gli stessi pastori d'anime non diventeranno loro stessi maestri.
Il cardinale precisa che i padri conciliari nell'articolo 21, parlano esplicitamente di “restaurazione della liturgia”, e non di una “rivoluzione!”. Pertanto auspica dopo l'esperienza di cinquant'anni, un maggior studio, uno sguardo nuovo, per comprendere meglio le riforme, i riti, le regole liturgiche, per cercare di riconsiderarne alcune.
Infatti leggendo oggi il Sacrosanctum Concilium il cardinale non è soddisfatto della sua attuazione e si domanda:“Dove sono finiti i fedeli di cui parlavano i Padri conciliari? Molti fedeli del passato ieri sono oggi 'infedeli'. Non vanno più del tutto a Messa”. Riprendendo le parole di San Giovanni Paolo II, oggi ci si è dimenticati di Dio e nello stesso tempo anche dell'uomo.“La cultura europea dà l'impressione di una 'apostasia silenziosa' da parte dell'uomo sazio che vive come se Dio non esistesse”.
Il cardinale prima di apportare i miglioramenti alla Liturgia ritiene opportuno analizzare che cosa è successo in questi decenni dopo la pubblicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia.“Mentre il lavoro ufficiale di riforma seguiva il suo corso, apparvero delle cattive e significative interpretazioni della liturgia che misero radici in diversi luoghi del mondo. Tali abusi – afferma monsignor Sarah – riguardanti la sacra liturgia aumentarono a causa di un'errata comprensione del Concilio. Ciò diede luogo a delle celebrazioni liturgiche soggettive, le quali erano maggiormente incentrate sulle aspirazioni delle singole comunità, piuttosto che sul culto sacrificale dovuto a Dio onnipotente”. Monsignor Arinze, li definì: le “Messe-fai-da-te”.
A questo proposito San Giovanni Paolo II aveva espresso il suo disappunto e la sua tristezza, nell'enciclica “Ecclesia de Eucharistia”. Dopo aver sottolineato i grandi vantaggi portati dalla riforma liturgica, il papa accennava alle ombre.“Vi sono luoghi dove si registra un pressoché completo abbandono del culto di adorazione eucaristica. Si aggiungono[...] abusi che contribuiscono ad oscurare la retta fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento”. Il Mistero eucaristico viene ridotto e spogliato del suo valore sacrificale. Quindi il santo padre auspicava che la lettera enciclica potesse contribuire a dissipare “le ombre di dottrine e pratiche non accettabili”.

Per il momento mi fermo alla prossima completiamo l'interessante documento.

giovedì 13 aprile 2017

Salvatore Lo Bue, "Un amore bellissimo" (Ed. Franco Angeli)

di Antonino Sole

Una breve premessa: come critico letterario e non studioso di estetica, se avessi voluto affrontare l’argomento svolto in questo volume da Salvatore Lo Bue, l’avrei fatto con gli strumenti del mio mestiere, altri da quelli di indole filosofica – a non dire delle doti dialettiche e del fine gusto del bello - su cui si fonda l’esegesi dell’amico e collega Lo Bue. Pertanto mi si scusi se quanto qui sto per esporre sarà inadeguato rispetto alle sollecitazioni ricevute da questo volume.
L’ampio saggio dello studioso coglie uno dei gangli vitali del sentire leopardiano, anzi, non è esagerato dire, il più vitale: l’amore. Il sottotitolo ( Leopardi e la felicità ) chiarisce esattamente il titolo ( Un amore bellissimo ): i due termini, infatti, sono in Leopardi strettamente connessi: se la felicità è per Leopardi ciò a cui l’uomo veramente aspira, l’amore è il sentimento per eccellenza attraverso cui gli è concesso di cogliere la felicità. Un punto credo sia importante  chiarire: Lo Bue non intitola il saggio, ad esempio, “ Gli amori di Leopardi “, ma  Un amore bellissimo . Benché nello svolgimento del suo tema egli accenni a vari momenti di Leopardi innamorato e alle diverse creature femminili che suscitarono in lui il sentimento dell’amore, ciò che davvero conta per lo studioso è la natura di questo sentimento, quanti e quali altri sentimenti la sua presenza suscita nel suo cuore; sentimenti molteplici, indefiniti, contraddittori ( o in apparenza contraddittori, ad esempio quello della morte che talora si accompagna a quello amoroso ), tutti però indici di vita, di vitalità, di cui il culmine, difficile ma non impossibile da attingere, è per Leopardi la felicità che dona l’amore. Da quanto ho adesso osservato dipende il fatto che le poesie d’amore analizzate dallo studioso non si dispongono in ordine cronologico ( tranne la prima e l’ultima ), ma formano una sorta di discorso continuo il cui filo è suggerito dalla complessità di un sentimento, l’amore, di cui le singole tessere formano l’unità del mosaico. Non stupisce, perciò, per fare qualche esempio, che Amore e morte sia analizzata prima di A Silvia, o che Alla sua donna sia preposto Il Risorgimento. Ma, che cosa nasce da Amore, denotato spesso come Iddio da Lo Bue? Da un lato, quando è vissuto, intensamente, al presente, felicità; dall’altro, quando esso è un ricordo, una rimembranza, quando l’oggetto dell’amore, un tempo idoleggiato, non c’è più, accoramento e insieme intenerimento, da cui alta si leva la poesia.
Io credo che le pagine dedicate al problema della genesi della vera poesia siano tra le più dense del saggio; ma, devo ammettere che questo tema, il quale viene svolto con ampi riferimenti a poeti e poetiche dell’Ottocento e del Novecento europeo, è quello sul quale, per scarsa competenza, ho assai poco da osservare, se non che esso, mi pare, si lega a quello sulla essenza della vera poesia, la quale esiste nell’animo del poeta ancora prima di prendere forma sulla pagina e che, dirà più avanti Lo Bue ( ma è parte dello stesso discorso ) più della filosofia è enigmatica, refrattaria a farsi rinchiudere in uno schema, come la vita; sicché poesia e vita hanno una stessa radice. Ora tutto questo ( da me riassunto alla meglio ) è ben detto e ben argomentato; tuttavia un punto mi lascia dubbioso, ossia la lettura in chiave romantica del rapporto Leopardi/ Platone sulla “ teoria dell’amore “. Così si esprime a questo proposito lo studioso proprio all’inizio del suo libro :  “ La teoria dell’amore di Leopardi si pone come la più profonda e radicale rilettura romantica della teoria platonica dell’amore “. Il dubbio nasce in me dal fatto che Leopardi non si definì mai romantico e fra i critici non tutti , com’è noto, lo ascrivono alla schiera dei romantici. A ciò si aggiunga che Platone non fu, in quanto filosofo, particolarmente congeniale a Leopardi, il quale, sotto questo aspetto, lo cita con pieno assenso ma di passaggio ( Zib.3444 ) solo a proposito di un passo del Convito in cui, per bocca di Aristofane, il filosofo dell’Accademia parla del “ desiderio perpetuo “ acceso dall’amore nell’amante; desiderio che potrebbe soddisfarsi solo se amante e amata diventassero “ una cosa sola”. Ma, se non sbaglio, questo pensiero di Platone coglie un aspetto particolare dell’Amore, non la sua natura di essere intermedio tra i due mondi che, come tale, crea bellezza. Lo Bue, naturalmente, non fa di Leopardi un platonico tout court : egli distingue la visione materialistica della vita di Leopardi,  da quella dualistico-spiritualistica di Platone, ma, in fin dei conti, per ciò che riguarda l’amore le due concezioni, a suo parere, non si differenziano molto, se la forza creatrice del dèmone Amore, per il filosofo greco, genera la bellezza sia del corpo, sia dell’anima, così come in Leopardi bellezza è quella partorita da un Amore che ha radice altresì nell’anima, ma legata, non separata dal corpo. Il segno di questa interpretazione della poesia leopardiana ( e non solo di quella d’amore ) si coglie in tutto il volume dall’accento posto da Lo Bue sulla triade Amore/Bellezza/Poesia e sull’eternità degli ultimi due termini ( Bellezza/Poesia ). Ma, si sia o no d’accordo su questa chiave di lettura, è altro, ossia l’individuazione di qualcosa di più intimo e forte nell’animus leopardiano, il nucleo più fecondo e persuasivo dell’interpretazione di Lo Bue. Prendendo le mosse dal sentimento d’amore del poeta, ma non limitandosi ad esso – come vedremo – lo studioso mette in piena luce l’aspetto attivo, anelante alla vita e alle forti emozioni del mondo interiore del poeta di Recanati, senza porre in ombra ( tutt’altro ) il lato negativo, tendente al tedio, alla solitudine, all’abbandono, all’absence ( dirà in una lettera al Viesseux ), che trova il suo definitivo fondamento speculativo nella concezione della natura matrigna, che tutte le creature destina al dolore e al nulla. E’ da questo sfondo negativo, già intuito prima dell’Islandese – si pensi all’ Ultimo canto di Saffo, su cui si sofferma Lo Bue – che più netto si staglia l’anelito alla vita vera, ai palpiti del cuore, alla felicità. Ciò viene messo in luce dalla lettura sensibilissima del ciclo di canti per Aspasia,  dove il poeta afferma con convinzione che l’amore, quando è forte passione, può se non proprio vincere, almeno porre in oblio il “ vero “  ( cioè la negatività del vivere ), e che la felicità è possibile su questa terra. Ho detto che l’analisi che Lo Bue fa di questi canti ne pone in piena luce la grande forza emotiva e poetica, ma mi preme di aggiungere che la sua anima ‘ romantica ‘ rende piena ragione alla poesia del più patetico fra i canti del ciclo di Aspasia, Consalvo, un canto spesso svalutato dalla critica. Non meno fine e attenta nel rilevarne la ricca trama sentimentale è l’analisi di due dei canti più perfetti di Leopardi, A Silvia e Le ricordanze, dove il rinato cuore del poeta, cantato con incredula meraviglia ne Il risorgimento, è il fertile terreno da cui sorgono le memorie, care e acerbe a un tempo, della prima giovinezza e dei primi amori del poeta per due fanciulle, Silvia e Nerina; creature fiduciose nell’avvenire, presto smentito dalla sorte funesta, verso le quali si fa sublime il canto di intenerimento pietoso del poeta. Ma la tenerezza e la pietà riguardano lo stesso poeta, che ricorda il sé stesso di allora e lo raffronta a quello attuale, disilluso, sì, ma che si commuove a pensare, anzi a rivivere nel ricordo, quella stagione della vita in cui per poco idoleggiò l’amore, per poco nutrì questo dolce sogno. Ho cercato in queste poche righe di dare appena un sentore della ben altra analisi che di questi due capolavori della poesia leopardiana fa Lo Bue, il quale, tuttavia, tra i due giudica più compiuto A Silvia, per felicità di invenzione oltre che per delicatezza e complessità di moti sentimentali.
Come ho accennato all’inizio il saggio di Lo Bue ha il suo centro nel sentimento d’amore di Leopardi, espresso in vari modi, ma nella sua essenza uno; ossia forza che suscita nell’animo un tumulto di passioni che vivifica e persuade chi ama che la vita è degna di essere vissuta. Ma il discorso di Lo Bue ha una portata più ampia: un paragrafo, infatti, viene dedicato a L’infinito e l’ultimo capitolo alla Ginestra. Più ampia non significa però che i due canti ora citati siano staccati dal tema principale, bensì che il sentimento dell’amore di Leopardi si esplica anche in poesie come L’Infinito, che in apparenza sembra non avere a che fare con l’amore. Quanto poi alla Ginestra, il nesso con il tema dell’amore è ancora più stringente. Perché l’Infinito in un discorso sull’amore? Intanto, nota Lo Bue, perché esso è il risultato perfetto di quella conoscenza dei moti interiori traslati in poesia sperimentata nelle Memorie del primo amore e poi nella lirica Il primo amore, e poi, se colgo bene il suo pensiero, la consapevolezza del bello poetico attinto in questo breve ma amplissimo canto è il segno della profondità e delicatezza del proprio animo, quale egli esperì ( e continuerà a esperire ) da innamorato. Aggiungerei, da parte mia, che c’è un verso nei Nuovi credenti in cui accusando di opportunismo politico alcuni letterati napoletani, dice che il “ cor “ di costoro, “ Né il bel sognò giammai, né l’infinito “: infinito e bello sono quasi sinonimi, ma quanto leopardiano anche quel “ sognò “ !
Più lunga, ma chiara è la via che da Leopardi poeta d’amore conduce alla Ginestra. Due sono i sentieri che convergono in questa via: l’uno è la riflessione di Leopardi sul sentimento della compassione, l’unico, in certe circostanze, puramente altruistico. L’altro sentiero muove dalla memorabile pagina del Dialogo di Plotino e di Porfirio, in cui il maestro prega l’allievo, tentato dall’idea del suicidio, di deporre questo proposito contrario all’affetto che ci deve legare alle persone care, cui quest’atto estremo procurerebbe dolore ( e qui, mi pare, Plotino/Leopardi ritorna sul tema  della compassione ). Ma il maestro non si limita a deprecare quest’atto in quanto sommamente egoistico; egli indica all’allievo come curare questa inclinazione barbara e illiberale: la cura consiste nel farsi coraggio insieme, nel confortarsi insieme dei molti mali che la vita riserba a tutti, nel “ tenersi compagnia l’un l’altro “; espressione che richiama “ l’amante compagnia “ della Ginestra. Come si vede l’amore non è caduto per sempre dopo la dolorosa esperienza di Aspasia, di cui è straziante documento A se stesso: esso ha assunto un’altra forma, più ampia, in certo modo più pura, quella della solidarietà tra gli amici, ( tra tutti gli uomini nella Ginestra ) che nella sua essenza è amore; parola che ricorre più volte nell’ultimo dei canti leopardiani. E’ in forza di questo nobile sentimento che Leopardi continua a dire sì alla vita, pur senza rinnegare il suo “vero”, ossia il male insito nell’esistenza.
Al di là del messaggio sociale dirompente, con assoluta persuasione rivolto all’intera umanità, ossia l’unione di tutti gli uomini contro il comune nemico, la natura matrigna, ciò che più conta, credo, nell’economia del discorso di Lo Bue è l’accento posto sulla vitalità dell’animo leopardiano, fondata sul sentimento dell’amore, scoperto la prima volta nel ’17 e che, covando sotto la cenere dei momenti più abbandonati e freddi dell’ animo suo, rinasce costantemente e perdura fino alla fine della sua vita. La Ginestra è indubbiamente il più complesso dei canti e, al suo solito, lo studioso ne fa sentire la grandiosità, che ha il suo nucleo generativo nella lotta impari tra lo “ sterminator Vesevo“, oggettivazione visibile della forza distruttiva della natura, e la fragilità dell’uomo e delle sue opere ( sono evocate Pompei ed Ercolano distrutte dall’eruzione del 79 d. C. ). Su questo sfondo fosco e arido, il solo fiore che umanizza il deserto è la ginestra, che tenacemente e pericolosamente vive abbarbicata sull’ “ arida schiena “ dell’ “altero monte “. Il fiore della ginestra, il cui profumo “ i deserti consola “, è simbolo della Poesia, “ voce del sommo Iddio che è Amore “ e, al tempo stesso, dell’ atteggiamento dell’uomo dignitoso, conscio del suo doloroso destino, ma senza “ venire a patti”  con esso ( come Leopardi aveva detto nel Dialogo di Tristano e di un amico ). Con queste notazioni ( da me schematizzate ) si chiude circolarmente il discorso dello studioso, il quale giustamente, come già accennato, vede nel sentimento d’amore, e nella poesia da esso generata, il nucleo più vivo dell’animo leopardiano. Sentimento d’amore e della poesia scaturita dall’attrito di esso con l’ “acerbo vero “, che rende il poeta conscio della propria nobiltà; quella nobiltà in nome della quale egli, come la ginestra, affronterà la morte con coraggio.
Mi avvio alla conclusione. Credo sia importante notare che nel suo discorso su Leopardi poeta d’amore, in senso stretto e in quello più ampio ( Plotino e Porfirio e La ginestra ), Lo Bue ha ridotto al minimo i riferimenti alla biografia del poeta; ciò che conta per lui è la  storia  dell’anima leopardiana. Di questa “ storia di un’anima “ ( per dirlo col titolo di un romanzo autobiografico ideato dal giovane Leopardi )  Amore, con la maiuscola, è l’agente principale e ininterrotto dall’adolescenza alla fine della sua vita. Un’altra cosa voglio dire: l’impalcatura generale e l’analisi dei canti di cui abbiamo fatto parola sono frutto di riflessione personale, starei per dire, di un corpo a corpo con i testi del poeta recanatese: poche le citazioni di altri studiosi; ma copiosi i rimandi allo Zibaldone, meno all’epistolario ( e se ne intende il motivo, per ciò che abbiamo osservato sulla quasi nulla attenzione alla biografia ) congrui alla linea della sua indagine quelli alle Operette morali: importante, su quest’ultima opera, la citazione della parte conclusiva della Storia del genere umano, in cui Leopardi parla di Amore figlio di Venere celeste.
Altro ci sarebbe da illustrare del libro di Lo Bue, soprattutto sulle numerose pagine che vanno sotto il titolo, “ Lo sguardo Di Orfeo “, ma lì, essendo il tema squisitamente estetico, mi muoverei con una certa difficoltà, per ciò me ne astengo. A parer mio – e chiudo – il libro di Lo Bue, oltre che indagine approfondita sul sentimento d’amore in Leopardi e sulla poesia nata e nutrita  da questo sentimento, risulta, a parer mio, una interpretazione complessiva della sua vita interiore e della sua poesia. Ciò gli accade meglio, o mi sbaglio, quando egli dimentica il suo schema interpretativo platonico-romantico ( che pure affiora qua e là ), e, guidato dalla sua sapiente e sensibile lettura dei testi, attinge le più profonde radici di Leopardi, uomo e poeta sommo. A parer mio, il libro di Lo Bue apporta nuova luce all’intelligenza della poesia leopardiana, tanto chiara in apparenza, quanto complessa, enigmatica, come la vita, nelle sue intime sorgenti. 

mercoledì 12 aprile 2017

La Scomparsa di Barberi Squarotti

di Elio Giunta
da sinistra: G. B. Caputo, Giorgio Barberi Squarotti, e T. Romano

Domenica 10 u.s. moriva a Torino Giorgio Barberi Squarotti. La notizia, nonostante lo sapessimo da tempo di salute malferma, ci è giunta come imprevedibile, inattesa, e come tale ci ha dato smarrimento. Questo perché non solo non pensavamo a sue possibili condizioni estreme, ma perché eravamo talmente avvezzi e costantemente legati alla sua corrispondenza affettuosa, talmente consapevoli della sua intaccabile lucidità mentale, che non pensavamo che un giorno potessimo venirne privati.
Personalità di alto spessore tra quelle che hanno fatto la cultura del Novecento, che ne hanno definito i caratteri della letteratura, la sua militanza come critico costituiva punto di riferimento specie per l’interpretazione degli autori detti contemporanei (Poesia e narrativa del secondo novecento); ma era anche presenza singolare nella varietà delle proposte di poesia del secolo, giacché soleva registrare in versi, con assiduità, i movimenti, gl’incontri, le esperienze visive e immaginifiche, donde i numerosi titoli delle raccolte pubblicate dagli anni 60 ad oggi e che restano come originale documento de La scena del mondo.
L’aspetto severo della sua figura mal celava la massima generosità con cui si accostava ad ogni manifestazione di buona volontà letteraria: infatti ascoltava tutti, a tutti soleva dare riscontro, per tutti aveva un giudizio. Con Palermo poi nutriva un rapporto privilegiato, iniziato oltre un quarantennio fa e coltivato con sempre maggiore familiarità, sia per le diverse frequenze amicali con chi a Palermo pratica letteratura, sia per le occasioni che Palermo gli offriva per conferenze o incontri.  E proprio a Palermo egli pubblicava recentemente, presso le edizioni Thule, quella raccolta di versi Le avventure dell’animo, con cui si vivificava e riassumeva, come per un’ultima volta, il suo fervore creativo.  Tra noi, dunque, a Palermo, resteranno indimenticabili le sue molte parole esortative: La letteratura può giovare a conservare la religione del passato e la speranza per il futuro. L’amicizia nella letteratura è garanzia di verità e di passione della vita; in essa s’insegue il meglio della storia del mondo. E tante altre parole continueranno a fluire, nel ricordo di un grande amico che se n’è andato e col quale e del quale continueremo a parlare a lungo.

domenica 9 aprile 2017

Carlo Puca, "Il Sud deve morire" (Ed. Marsilio)

di Domenico Bonvegna

Da tempo giornalisti, scrittori, pensatori, si esercitano a scrivere e a descrivere il nostro Meridione. Io stesso più volte mi sono occupato della questione. E' vero il sud nonostante tutto è sempre una questione. Per alcuni non lo è stato sempre, e forse  hanno ragione, penso ai nostalgici dei borboni. Comunque sia la realtà è che il nostro Paese Italia da troppo tempo viaggia a due velocità. A ricordarcelo ci pensa Carlo Puca, napoletano, giornalista d'assalto del settimanale “Panorama”. A settembre dell'anno scorso ha scritto un libro, che più provocatorio non si può: “Il Sud deve morire”. Sottotitolo:“Esecutori, mandanti e complici di un delitto (quasi) perfetto”. Pubblicato da Marsilio di Venezia.
Puca fa un viaggio-inchiesta nel Meridione, affrontando gli argomenti più delicati, dagli orrori della pubblica amministrazione a quella privata.“Lo chiamano mezzogiorno, ma il buio è sempre quello di mezzanotte”. L'oscurità viene cancellata soltanto quando sulla sua agonia si accendono improvvisamente le luci della cronaca: una strage, una retata, un rapporto Svimez. Infatti, scrive Puca,“la rianimazione dura il tempo di quegli attimi fuggenti. Subito dopo, la sagoma del Mezzogiorno torna a ciondolare sul patibolo dell'indifferenza, secondo la potestà dei soliti mandanti, esecutori e complici”. Attenzione, per Puca, si tratta di un'associazione a delinquere, assai abile nel governo del cappio,“una lunga corda annodata intorno a parole inutili, opere dannose e omissioni pianificate”.
Per la verità un libro simile a questo di Puca, l'avevo recensito e presentato, in più puntate, qualche anno fa. L'ha scritto Marina Valensise, “Il sole sorge a sud”, pubblicato sempre da Marsilio. Un ottimo lavoro quello della giornalista di Polistena che non affrontava solo le questioni politiche e sociali del Meridione, ma raccontava anche la ricca storia del nostro il Meridione.
Il viaggio di Puca parte da Lampedusa, l'isola, dove tutti i disperati del mondo, cercano di raggiungere. Nel libro il giornalista sceglie alcuni territori e fatti che maggiormente hanno avuto eco sui media. Percorre questi territori con tanto sentimento, che ben presto si trasforma in tanto risentimento. Del resto,“chi accresce il sapere aumenta il dolore”. Alla fine quasi sempre oltre alla sofferenza spunta anche la rabbia.
A Lampedusa è difficile nascere, ma anche morire. Carlo Puca, racconta ironicamente episodi che sfociano nel grottesco, come quello che si può leggere nei manifesti mortuari:“i funerali verranno celebrati con l'arrivo della nave”. Capita dover attendere giorni per ottenere una degna sepoltura. Su questo pezzo d'Italia esistono molte leggende.“C'è una parte di opinione pubblica nazionale convinta che grazie ai migranti la Lampedusa-capitale si sia arricchita. Ma degli svariati milioni di euro spesi (impossibile quantificarli), poco o nulla è toccato ai residenti”. Infatti, qui il tasso di disoccupazione, continua a galleggiare intorno al 22%. Tuttavia, sembra che la gente ce l'ha più con lo Stato che con i profughi.
Il testo salta subito in Campania a Castel Volturno, la città che nessuno vuol vedere. Il giornalista napoletano rileva che tanti dei morti nel Mediterraneo, “partivano con la parola 'Castel Volturno' scritta a pennarello sulla mano”. Secondo Puca, “la loro terra l'avrebbero cercata proprio in questa casertana lingua di mare e di dune. La giudicavano un'enclave nera nel cuore dell'Europa, non senza ragione: questa è davvero l'Africa dell'Occidente.
Aiutandosi con le informazioni di Maria Assunta Piantadosi, storica locale, il giornalista di Panorama, può scrivere che i migranti qui cominciarono ad arrivare già dalla metà degli anni ottanta. Nel 2015, l'anagrafe municipale ha censito 25.412 residente, dei quali 3.941 stranieri. Soltanto che il Comune quantifica la produzione di rifiuti urbani per almeno sessantamila abitanti. “Calcolando per un gran difetto, significa che sul territorio abitano almeno ventimila clandestini”. Altra notizia molto grottesca: “soltanto per i funerali degli irregolari il Comune spende trentamila euro all'anno. Parla il sindaco Pd eletto nel 2014. “Ogni volta che un extracomunitario muore senza documenti, i responsabili dell'obitorio di Caserta ci spediscono la fattura per la permanenza: per loro è scontato che abitasse qui”. Anche perchè sembra che nessuno reclami i loro corpi.
La questione di Castel Volturno è conosciuta negli alti palazzi, nello stradone della statale Domiziana, si spaccia e si prostituisce a vista, ma nessuno vuole intervenire o vedere. Eppure anche qui il territorio potrebbe avere tanta storia di prima classe da far conoscere, artisti, letterati e poeti. I romani hanno battezzato felix, “terra fertile e fortunata”, il territorio intorno a Castel Volturno. Dal giorno del terremoto del 23 novembre1980, però è diventata infelix. Perchè il governo prima inviò qui gli sfollati e poi successivamente furono occupate da balordi e così i napoletani borghesi abbandonarono le case, fuggendo tutti. Puca descrive dettagliatamente la situazione drammatica del territorio diventato facile preda di clandestini. Non è un caso che quei pochi espulsi dall'Italia, perchè inneggianti all'Isis e al califfo Abu Bakr al-Baghdadi, sono tutti transitati da qui.
Carlo Puca, non fa sconti a nessuno, fa i nomi e cognomi di tutti quelli che hanno e continuano a sfruttare il territorio, dei vari pescecani, della criminalità grossa a quella piccola.
Subito dopo si ferma su una località calabrese. Si tratta di Papasidero, una piccola località vicino al Pollino, di cui in tanti ignorano l'esistenza. Sembra un toponimo di un territorio sudamericano. Si tratta di un sito archeologico, risalente all'età della pietra, dove scavando hanno trovato utensili, frammenti alimentari e un numero incredibile di sepolture: in tutta Europa sono appena cinquanta le tombe paleolitiche ritrovate e nove appartengono a Papasidero. L'ultima è datata 2010, di un giovane vissuto circa 19.000 anni fa. Ma secondo Puca ancora nella grotta di Romito scavando si può trovare molto altro. “Peccato che Papasidero sia un luogo semiclandestino. Eppure la pratica di un po' di sano marketing turistico rappresenterebbe un'operazione relativamente semplice: la grotta del Romito è il più importante sito preistorico italiano e tra i maggiori d'Europa. Invece niente, rimane un luogo sconosciuto, agli italiani in generale (che ne ignorano persino l'esistenza) e ai calabresi in particolare, nonostante a Scalea e sulla riviera dei Cedri campino di turismo”.
Papasidero, si trova nel pieno del parco nazionale del Pollino, costituisce l'oasi naturale più grande d'Italia e addirittura l'Unesco, lo ha fatto diventare patrimonio dell'umanità. Ma non basta, dovrebbe diventare anche patrimonio economico dei lucani e dei calabresi. Puca polemizza con gli amministratori calabresi che nonostante tutto non riescono ad apprezzare abbastanza il sito, che deve essere curato una volta l'anno da un pool di professori dell'università di Firenze.
Con il caso delle cinque ragazze, sartine di Barletta, il libro di Puca entra nel vivo delle denunce, del lavoro nero, dei vari caporali e delle “soldatesse” per pochi spiccioli di euro. Il 3 ottobre 2011, il giorno dell'evento più sconvolgente e malinconico della storia meridionale recente. Il giorno della “strage delle sartine” di Barletta, con il crollo del palazzo di via Roma. Il giornalista descrive l'episodio, che l'ha coinvolto emotivamente, come lui stesso scrive nel libro. “Forse perchè meglio coniuga la peste della rassegnazione meridionale con la superficiale indifferenza del resto d'Italia”.
Dopo il rituale cordoglio delle autorità alle famiglie delle vittime, con le frasi fatte: “Ora legalità e sicurezza”. “Basta lavoro nero”, “Non vi dimenticheremo”. Passato un anno già si faceva fatica a ricordare.
Eppure in quei territori nulla è cambiato:”Ora come allora”, scrive Puca, “replica eterno e quotidiano il film dell'ingaggio dei lavoranti in nero”. Ora come allora, il padrone è solitamente benestante, conosce le leggi, compreso il Jobs Act, e sa come aggirarle. “Per esempio, è comune che i muratori a servizio vengano quasi sempre registrati soltanto in caso di incidenti sul cantiere, cioè dopo che sono morti o feriti gravi. O che i vantaggiosi sussidi statali per i braccianti agricoli vadano a contadini fittizi, parenti o prestanomi fa lo stesso, con le mani curate e i volti riposati, mentre nelle campagne vanno persone a volte inabili a lavori così pesanti”.
Ma forse, fa più impressione il lavoro grigio, è il 40% e riguarda quelli che vengono assunti soltanto per il tempo utile a ottenere l'indennità di disoccupazione, dopodiché il lavoratore resta in azienda per lavorare in nero.
Per il momento mi fermo c'è già tanta carne al fuoco, alla prossima.