giovedì 30 giugno 2016

Sandra Guddo, "Le Geôlier" (Ed. Vertigo)

di Marco Colonna

Non si può non restare colpiti dal titolo e dalla copertina del nuovo romanzo di Sandra Guddo “ Le Geôlier “ che sembra spaziare dalla raffinata poesia di Jacques Prévert al polpo pescato nella ridente cittadina di  Mazara del Vallo. Un’ efficace combinazione che sa mettere insieme elementi completamente diversi quali sono un testo poetico ed un simpatico mollusco ma entrambi hanno lo stesso denominatore: la bellezza !
La bellezza è infatti la caratteristica costante che fa di questo libro un vero piccolo capolavoro di narrativa come nella migliore tradizione che da Giovanni Verga arriva fino a noi grazie a Sandra Guddo che con occhio penetrante sa guardare dentro la nostra attuale società per coglierne vizi e virtù; vizi soprattutto di cui non è esente il protagonista del romanzo: Cesare Molinari che, come il protagonista della poesia omonima, non riesce a controllare le sue più profonde pulsioni sessuali ed emozionali ed annaspa  nel tentativo di ricostruire il proprio mondo interiore i cui tasselli sono stati stravolti da fatti e persone che hanno incrinato irrimediabilmente le sue certezze esistenziali !
La narrazione procede a sbalzi tra presente, passato e futuro. Questa tecnica narrativa non è stata utilizzata da Sandra Guddo a caso ma per costringere il protagonista della vicenda a guardare dentro se stesso per focalizzare gli errori compiuti nel passato, rielaborarli, perdonare e perdonarsi ed infine per potere progettare il futuro e guardare avanti con occhi diversi, rinnovati dall’amore vero e profondo che finalmente prova per una donna. Cesare, grazie anche all’incontro con frate Carmelo si sente come miracolato, salvato dall’amore divino del Padre che lo accoglie come il figliol prodigo nella famosa parabola del Vangelo. La svolta tra il Cesare peccatore ed il Cesare alle prese con l’etica della responsabilità e con il problema del libero arbitrio avviene in modo chiaro, tra il quinto ed il sesto capitolo, dove egli stesso come il Jules del film Pulp Fiction si sente miracolato “ Così mi ritrovo a riflettere su alcune scene del film pulp Fiction ma non quelle visualizzate su Yuotube migliaia di volte (… ) relative alla scena del ballo tra Uma Thurman e John Travolta che si esibiscono in uno strepitoso twist o quella in cui lui tenta di strapparla alla morte per overdose iniettandole, dritta al cuore, una fiala di adrenalina, con l’apposita siringa che le resta piantata nel cuore come una vittoriosa bandierina segnapunti (… ) No! quella che si presenta ai miei occhi è la scena in cui i due compagni di ogni genere di scelleratezze Vincent e Jules ( … ) rimangono inspiegabilmente illesi  “ durante una sparatoria . A questo punto Jules sentendosi come miracolato decide di cambiare e di continuare la sua nuova vita “ nel posto dove Dio vorrà mettermi. “ Anche Cesare, miracolato dall’amore, avvierà un procedimento di pacificazione con se stesso e con il mondo.
 Un libro che propone diverse chiavi di lettura che appassiona non soltanto per la fitta trama piena di colpi di scena che lasciano il lettore con il fiato sospeso e per lo scorrere incalzante della vicenda ma anche per le tante riflessioni che ci propone sulla nostra società travagliata da mali antichi come la smania di ricchezza e di potere ma anche da problemi più recenti come l’uso di droghe che annullano la volontà di chi ne fa uso, il divario economico e sociale sempre più grave che distingue le regioni settentrionali dal meridione d’Italia e tutte le spinte eversive che recentemente hanno minacciato l’unità del nostro paese . 
“ Le Geôlier “ è un messaggio per la valorizzazione della spiritualità che è insita  dentro ciascuno di noi e che dobbiamo continuare ad ascoltare per non diventare simili alle bestie, è un libro dove emerge il desiderio della genitorialità  che Cesare avverte con il passare degli anni scoprendo infine di essere padre a seguito però di un atto sessuale consumato tragicamente su una giovane donna.
 Sandra Guddo dimostra di credere fermamente che la letteratura abbia il compito di portare un po’ di luce nelle tenebre e lo fa con un romanzo attraverso il percorso esistenziale di Cesare, del suo protagonista, che è un percorso contro le tenebre, lo spaesamento, lo smarrimento, l’annullamento, il nichilismo il cui egli, nel suo iter di disconoscimento e ostracismo verso se stesso, tendeva prima della sua redenzione.
Bisogna tornare a credere nella parola  e nel suo potere di lanciare messaggi all’individuo contemporaneo confuso da espressioni spesso negative o, nel migliore dei casi, contraddittorie ” un altro me stesso che ora riscopre ed usa parole, parole di antica saggezza, cariche di significato, inequivocabili, non logorate dall’abuso o dalla voglia di essere a tutti i costi originali, parole esagerate, utilizzate soltanto per sorprendere o peggio per nascondere il vuoto di contenuti, di chi usa una sintassi che trascura il verbo per l’iperbole, di chi si consegna al linguaggio fittizio abusando di metafore che amplificano a dismisura ogni significato fino a renderlo paradossalmente inconsistente e incomprensibile “ ( pag. 80 )
 Le Geôlier, esercita una forte capacità di attrazione  perché esce fuori dalle strettoie della vicenda personale del suo protagonista, del contingente ma è un’occasione imperdibile per riflettere sulla attuale condizione dell’uomo contemporaneo, travolto da problemi economici e di sopravvivenza in un mondo dove i valori sono stati oscurati da falsi idoli e dove spesso il suo agire è condizionato dall’uso di droghe e stupefacenti. Inoltre il romanzo può essere anche un’occasione per riflettere sulle condizioni attuali dell’Italia e sul problema di un’economia spersonalizzata dominata da quel fenomeno economico , finanziario e sociale noto come globalizzazione di cui nel romanzo si parla anche con termini molto appropriati “ La produzione juste in time ci metterà al riparo dagli sprechi dovuti a una richiesta inferiore alla nostra disponibilità ma ci espone al rischio di non provvedere nei tempi richiesti alle ordinazioni ( … ) tra mercato domestico ed export “ (pag 18 )
Cesare è la voce narrante che in tempo presente racconta le vicende mentre si stanno svolgendo e ciò favorisce il coinvolgimento del lettore Il linguaggio sobrio, scattante e graffiante che caratterizza lo stile narrativo di Sandra Guddo risulta efficacemente  coinvolgente  ma mai sconvolgente  anche di fronte a vicende, in qualche punto davvero drammatiche come lo stupro ai danni della giovanissima Camilla, essendo mantenuto una certa leggerezza narrativa grazie anche a personaggi come il simpatico Gennaro, il maggiordomo tutto fare di Cesare, che con il suo innato buonumore riesce  a stemperare le tensioni narrative e a divertire il lettore con le sue battute sagaci “C’è una femmena speciale anche per te “ e con le canzoni napoletane che parlano di caffè , la bevanda in cui i napoletani da sempre sono dei veri maestri “ ah che bellu cafè sulu a Napule o sannu fa “  oppure “ il caffè si prende con le tre C : comm’ cazzo coce “
Una miriade di personaggi : da Nicoletta e Sergio, collaboratori di Cesare, noto imprenditore veneto,  agli antagonisti come Ennio e Silvia, alla vittima per antonomasia: Camilla,  fino alla rivelazione finale che ci farà conoscere la giovane Aurora, concepita durante un rapporto sessuale violento e non consenziente. Determinanti sono i personaggi di Ginevra, la peccatrice sempre pronta al perdono anche se fatica a perdonare se stessa per gli errori gravissimi compiuti quando ero poco meno di una ragazzina sola e spaurita dalla morte della madre, stroncata da un tumore. Frate Carmelo occupa un posto di rilievo nella storia che si innalza, grazie alle sue parole, a rappresentare valori eterni ed universali, consegnando al romanzo, attraverso le sue parole,  un altissimo sentimento di religiosità, di fede e di speranza anche a chi crede di non averne più alcun diritto.
Ogni forma autentica d’arte , come dice Karol Wojtyla rappresenta una < via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale , essa costituisce un approccio molto lucido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta. >.
Il finale riesce a rendere ragione di tutti gli aspetti affrontati precedentemente, soprattutto quelli di natura morale che sembrano essere una delle colonne sulle quali l’opera si basa.
A questo punto trovare il genere letterario a cui apparterebbe questo romanzo, ci appare un’ impresa che non riusciamo a compiere. 

Anna Lupo, "Tasselli di vita" (Ed. Thule)

di Giovanni Taibi

La seconda raccolta letteraria di Anna Lupo, poetessa di Partinico, “ Tasselli di vita “ ( I Quadrati di Munari 5 Edizione Thule euro 15,00, anno  2014)  si caratterizza per un dettato poetico nitido e lineare pur nella consapevolezza di un poetare che spiega le ali alla ricerca eterna e mai raggiunta del mistero della vita e della pienezza dei sentimenti . Le liriche di Anna Lupo sono assetate di luce,  vogliono mantenere l'incanto dell'amore sempre lucido, sempre presente. Il passato non è qualcosa di perduto, di finito ma un eterno ritorno in cui perdersi contemplando la natura che diventa epifania di un mistero che avvolge ogni attimo della sua esistenza,  che diventa un continuo ricercare le radici della vita.
  C'è qualcosa delle pascoliane Myricae nel suo consapevole disincanto con cui ogni cosa diventa rimando poetico di una parte della sua vita affettiva. Oggetti e fenomeni semplici e naturali che richiamano alla poetessa l'universo di sentimenti che aspettano un'occasione per liberarsi nel suo canto semplice ma mai banale . Sono i ricordi del cuore in cui “Rivive tutte le gioie , /le speranze, gli affanni/  i timori , del passato,/un tempo ormai andato .” (Cfr pagina 15 “I ricordi del cuore”.)
“Sono le tante primavere   a germinare promesse di vita.”( Cfr pagina 16 “Mai invano.” ) È “ l'acqua che si muoveva appena  / contro il muraglione della villa .” (cfr pag  21 “L’Orizzonte”.)  Sono ancora le sinestetiche immagini che “riscoprono   il sapore del l'infanzia/ odore di emozioni vissute .    (Cfr pag 32 “Sguardo Incantato” )
Come    afferma Antonio Martorana nella sua dotta e originale prefazione: " Il ridestarsi del ricordo è dunque qui una delle principali fonti di ispirazione in una dialettica ricordo/ oblio come tentativo di resistenza alla cancellazione della memoria.” (Cfr pag 10) Afferma ancora Martorana che “sta nella materia memoriale il patrimonio fondativo di una vicenda personale, che può configurarsi anche come vicenda esemplare  nella misura in cui l’autorappresentazione  diventa rappresentazione.”(  Cfr pag. 11)
Oltre alla centralità della memoria il Martorana individua altre tematiche nelle liriche della Lupo che si trovano negli irrisolti rapporti tra realtà e sogno, tra Eros e Thanatos e tra contingenza e assoluto. In queste dicotomie la silloge  della poetessa si pone come un’opera che “ sia pure frutto della disperazione, non può avere come sostanza ultima altro che l’ottimismo, la fede nella vita …come d’altro canto anche la disperazione è una cosa singolare: reca già in se stessa la trascendenza della speranza.”  ( Cfr. Pagg,11,12 )
A corredo delle liriche sono presenti delle suggestive immagini di splendidi  paesaggi siciliani che completano ma al contempo aprono altri punti di domanda sulla poetica della Lupo perché inevitabilmente  il lettore è guidato a cercare ulteriori spunti della riflessione dell’autrice o comunque  punti di tangenza con le sue liriche.


lunedì 20 giugno 2016

Franco Trifuoggi, "La poesia di Tommaso Romano" (Ed. I quaderni di Arenaria)

di Giovanni Taibi

Un interessante viaggio intorno e dentro la poetica di Tommaso Romano è quello che compie il prolifico scrittore e critico letterario Franco Trifuoggi nel suo approfondito e puntuale saggio “La Poesia di Tommaso Romano” edito da Ila Palma ( 2013).
Da una analisi filologicamente attenta dei testi dell’autore palermitano, Trifuoggi traccia una linea ideale lungo cui scorre la poesia di Romano che, seguendo una direzione metafisica, manifesta tutto il suo desiderio di eterno e diventa viatico alla scoperta dell’assoluto.
L’indagine critica di Trifuoggi inizia sin dagli albori della poesia di Romano, da quelle prime Rime Sparse del 1969, in cui in nuce già si intravvedevano i primo germogli di una poesia che, seppur non distaccata dalle suggestioni futuriste marinettiane, manteneva saldo il rigore formale e la chiarezza del dettato poetico della grande tradizione letteraria italiana.
D’altronde per il nostro futurismo e tradizione non sono mai state in antitesi, anzi come spesso afferma: “più profonde sono le radici più l’albero potrà svilupparsi in altezza.”
Trifuoggi scava a fondo nella poesia di Romano e ne evidenzia gli influssi filosofici e letterari in essa presenti: da Aristotele agli esistenzialisti senza dimenticare la lezione storicistica di Vico e dei grandi autori spiritualisti e di quelli più intimisti da Petrarca a sant’Agostino.
 La sua è certamente una poesia impegnata mai semplice momento di disincanto. Il suo poeta è un anacoreta che però non fugge la realtà ma la richiama in ogni sfumatura per esaltarla a momento poetico da ricordare e condividere.
Una realtà spesso grigia da cui il nostro riesce a sottrarsi grazie a visioni di montaliana memoria che “donano al poeta pause liberatorie e suscitano immagini di vita affrancate da cure tormentose” ( Cfr pag. 35 )
Quello di Trifuoggi è un libro la cui trama è intessuta, o meglio integrata,  da citazione attinte a piena mani dalle liriche di Tommaso Romano che vengono inserite come un tutt’uno del discorso filologico che sviluppato con non comune perizia esegetica. È una perfetta simbiosi quindi quella che viene fuori dalle note critiche del Trifuoggi e dai frequenti richiami alla “Parola” di Tommaso Romano.
Il Romano intimo è quello che scalda più il cuore di Trifuoggi, in cui prendono corpo e dimensione luoghi e figure care al poeta del presente ma soprattutto del passato come nella delicata lirica dedicata ala padre: “In attesa del bel rivederti”.
 Sono queste le liriche ritenute più ispirate nelle quali prevale la “luce della religiosità” ammirata anche  dal celebre critico Mario Sansone.     
Quella di Romano è una poesia che si rinnova in itinere nel confronto col passato e con la quotidianità a volte routinaria e prosaica, che comunque Romano sa giudicare con il distacco di chi conosce il senso dell’inarrestabile flusso dell’esistenza. Una vita contempl-attiva in cui la ricerca di un senso travalica lo stesso reale che diventa segno o cosa di platoniana memoria.  

sabato 11 giugno 2016

Tommaso Romano, "Café de Maistre" (Ed. ISSPE)

di Guglielmo Peralta

      L'introduzione di Tommaso Romano al suo "Café De Maistre" si apre con la descrizione del locale panormita, degli "arredi originali e tirati a lucido" ispirati all'Art Nouveau e si chiude con la velata esortazione a lottare contro la decadenza culturale e morale della società contemporanea per "dare un senso autentico" al nostro essere nel mondo. L'eleganza del Liberty o dello stile floreale contrasta con tale decadenza, che non è più soltanto "Il tramonto dell'occidente", annunciato da Oswald Spengler nella sua opera (1918-1922), ma il declino della civiltà a livello mondiale, che sembra preludere al "suicidio dell'uomo" dopo la morte di Dio. Il contrasto si risolve nel bisogno di Romano di trovare "un rifugio elegante all'inclemenza del tempo", sicché il Café De Maistre, la sua eleganza, è metafora della bellezza e, perciò, esso è un "luogo elitario", ideale per la contemplazione e per ritrovare la pace interiore; è un "chiostro" dove meditare e ricercare la Verità "in laboriosa solitudine", lontano dai "volgari" e dalla mondanità. Il crollo dei valori morali, la desacralizzazione della Tradizione, l'indebolimento della Fede e del pensiero libero, sostituito sempre di più dal "libero pensiero" e dalla "dittatura del pensiero unico", devono sollecitare alla lotta contro il male, a "resistere" categoricamente, "individualmente, lucidamente" contro l'annichilimento e l'Apocalisse già in atto. È questo il magistero di Romano, il quale, animato dalla cultura dello spirito, leva alta la sua voce confortato da mentori quali Platone, Tommaso d'Aquino, Vico. Altri Personaggi-guida, incontrati in carne ed ossa o frequentati soltanto attraverso le opere negli anni di studio, nel suo cammino di formazione intellettuale e culturale, sono presenti in questa raccolta di perle di saggezza, dove non mancano, accanto ai quadri di pensiero, alla riflessione profonda su temi di teologia, filosofia, pedagogia, storia, letteratura, arte, le numerose invettive, tra cui quella contro il cieco conformismo di chi approva "tutto ciò che è progressivo, funzionalista e, quindi, moderno", quella contro i "poteri ideologici degli orientatori dei comportamenti della comunicazione e della pubblicità", quella contro il centralismo e il totalitarismo riformistico della scuola.
      Mi sembra che il cuore di questo Café De Maistre sia da ricercare in quella dimensione del "mosaicosmo" in cui è venuto a strutturarsi il pensiero di Romano, da quando egli è rimasto folgorato dalla felice intuizione dalla quale è nato il neologismo e che si è nel tempo evoluta fino alla contemplazione di quella visione cosmica, di quel mosaico, appunto, che ogni umano individuo contribuisce a comporre con la propria attività creatrice, o anche solo con il proprio esserci, e del quale è parte integrante e necessaria. In questa unione ideale di tutti gli uomini sembra realizzarsi quel principio della fratellanza universale che è disegno divino e motivo di salvezza. È questo un pensiero che ha nell'arte la sua culla e la sua ascesa e che si oppone allo svuotamento spirituale e al vuoto religioso segnato dall'assenza, o meglio, dalla non-presenza di Dio, al quale tuttavia - sottolinea Romano - bisogna restare fedeli, e il quale è da cercare proprio nel tempo della sua lontananza e della più grande povertà dell'uomo. Rafforzare la fede ancorandola in Cristo "è e sarebbe la via maestra" contro l'Apocalisse, per porre fine a questi tempi oscuri e "prepararci all'Evento soprannaturale della Parusia, al ritorno di Cristo in terra". Tessere preziose di quel "mosaico" sono, qui, Personaggi quali - ne cito solo alcuni - Divo Barsotti, Padre Giuseppe Rizzo, Lucio Zinna, Giovanni Volpe, Giovanni Gentile, Alessio Di Giovanni, Lucio Piccolo, Mario Luzi...che Romano ritrae negli aspetti che più li caratterizzano e dei quali lascia emanare la "Luce del pensiero" (già titolo, questo, di grande fascino, di un progetto culturale da lui ideato e concretizzatosi con la pubblicazione di sei volumi contenenti schede biografiche di autori tutti rigorosamente siciliani). Insieme, questi Personaggi, costituiscono una grande biografia dell'anima nella quale emerge, in trasparenza, lo stesso profilo di Romano avendo egli in comune con loro il medesimo cammino spirituale in direzione della ricerca di verità e di senso. Ed è forte, nel Nostro, l'esigenza di ristabilire e fare conoscere la verità là dove essa è manipolata, "truccata", distorta per risentimento o per motivi, spesso, ideologico-religiosi. Così, ad esempio, egli rende nota la rivisitazione della "Storia dei musulmani di Sicilia" di Michele Amari, da parte dello storico francese Henri Bresc, secondo il quale "il più che positivo giudizio" espresso dall'autore siciliano sui dominatori arabi e la "mitizzazione dell'Islam, visto come regno della perfezione" non sarebbero corretti perché frutto, probabilmente, della "passionalità" e delle "visioni romantiche" dell'Amari. Altro esempio di verità ristabilita riguarda una celebrata ottava di un canto popolare grandemente offensiva e infamante nei confronti dei Savoia e che Alessio Di Giovanni, nel suo articolo: Un'allusione alla Casa Savoia in un pseudo canto popolare siciliano, dimostra trattarsi di un falso storico. Se la pura e semplice verità è tradita e falsificata per futili motivi, per risentimenti, per meschine vendette, la Verità, quella che nel nome del Cristo ci è stata rivelata, è sempre più obliata e rinnegata, con la grave conseguenza della perdita della coscienza morale e del limite della libertà. "Tutto allora sarà, come in effetti è, permesso. Anche di ammazzare in nome di un dio, dell'onnipotenza umana o della dea ragione". E qui non possiamo non ricordare Ivan Karamazov, il quale afferma che "se Dio non esiste, tutto è permesso" e sottolinea lo stretto legame fra la negazione di Dio e la divinizzazione dell'uomo. Senza l'amore della verità l'eclissi dei valori, già in atto, sarà totale e inevitabile e la salvezza impossibile, perché con la perdita del sacro e del senso di Dio si perderà anche il senso dell'uomo. Nella prima domanda, posta da Romano a Mario Luzi nell'intervista inedita del 1989, è indicata, sia pure in modo sotteso, l'unica via da seguire per risollevarsi da tanta decadenza, per uscire dal tunnel infernale e tornare "a riveder le stelle". E la guida non può che essere la poesia, come essa lo fu di Dante nella figura di Virgilio, simbolo della saggezza poetica. La domanda è la seguente: "C'è la possibilità di una rinascita di una poesia ancorata ai valori, per così dire, forti?" È innegabile che la poesia sia il valore assoluto da riscoprire e praticare per conquistare l'amore della verità che, a detta di Sant'Agostino, è "il primo dei precetti, il sommo genere, il fonte di tutti". E dunque, amare la verità "è amare e desiderare il bene morale". Ristabilire il legame tra poesia e verità è quanto suggerisce Luzi nel preannunziare una "motivazione etica e religiosa (...) una richiesta di una poesia religiosa di "annuncio", oltre che di denuncia", nella convinzione che "la poesia ha la forza di progettare l'uomo futuro e di indicarlo anche alla scienza, che ha il compito di restituirlo a se stesso".
      La poesia è la risposta alla civiltà tecnologica, che ha fagocitato ragione e sentimento estromettendo l'uomo dalla sfera del sacro e della spiritualità generando l'individualismo che,  secondo Charles Taylor, è il maggiore dei mali della nostra società, la causa di quello che egli chiama “Il disagio della modernità”, ossia, la perdita dell'essenza umana, la chiusura verso l'altro,    l'oblio della socialità, che hanno il loro contrassegno nella ricerca del successo, dell'approvazione, nel distinguersi ad ogni costo dagli altri, nel narcisismo egoistico. Contro questa tendenza suicida, contro questo vivere inessenziale, Romano ci ricorda, citando Heidegger, che "la poesia è un modo di vivere" più autentico nel "tempo della povertà". Ed è nella presa di coscienza di questo "disagio", sempre più esteso all'intero consesso umano, che cresce il bisogno di senso e acquista valore veritativo l'ideale del "mosaicosmo", di cui Café De Maistre è un riverbero e una tessera ed è un micromosaico dell'immensa biblioteca spirituale in cui si inseriscono, si corrispondono, si riflettono infinite visioni: mondi e modi diversi di un pensiero unico e universale.

giovedì 9 giugno 2016

Sandra Vita Guddo Spatola, "Tacco dodici" (Ed. Hombre)

di Maria Elena Mignosi Picone

“Tacco dodici” è il titolo che Sandra Vita Guddo Spatola ha dato al suo libro mettendo in rilievo in tal modo il fulcro attorno al quale esso ruota, e cioè il mondo delle ragazze. Si tratta precisamente di racconti riguardanti in particolare ragazze di periferia, sue allieve, quando ella per un decennio ha svolto il compito di psicopedagogista nei quartieri a rischio di Palermo, secondo il progetto del Miur, contro la dispersione scolastica.
Lavoro difficile e impegnativo che ha portato avanti con competenza e abnegazione: di fronte a situazioni drammatiche non si è risparmiata intervenendo anche di persona con coraggio e fermezza, con senso di responsabilità e affetto.
Ha seguito le sue allieve con l’intuito e la comprensione come farebbe una madre, vigilando sul loro percorso, abbastanza doloroso e travagliato, di riscatto.
Attraverso le storie di queste giovani, affiorano, in tutta la loro drammaticità, i problemi della società odierna: droga, violenza, perdita dei valori, disoccupazione, omosessualità, migrazione e fondamentalismo islamico.
Il clima è tenebroso e pesante però la scrittrice riesce a porgere il contenuto senza suscitare angoscia, anzi, come è proprio del vero artista, lasciando una scia di riflessione, ma nella pacatezza dell’animo; infatti con una narrazione fluida e lineare, di rapida lettura, riesce ad avvincere senza sconvolgere.
E’ un libro che presenta un quadro della società di oggi nei suoi aspetti più degradati, e che, nella riabilitazione e nella risoluzione dei vari casi, apre alla speranza.
Non mancano neanche esempi di amicizia tra docenti e allievi. Ma soprattutto quel che riesce più edificante è il raggiungimento del riscatto che, pur da situazioni estremamente a rischio, riesce infine ad essere un sicuro traguardo.
Nell’opera della scrittrice risalta una gioventù sicuramente sbandata, ma non necessariamente marcia, il cui sbandamento affonda le radici, spesso, nel marciume della generazione passata, sia pure coperto talora sotto un atteggiamento di presunta normalità; non mancano neppure nelle allieve barlumi di ideali, aneliti e sprazzi di luce, propri dell’età giovanile ricca di slancio e di intraprendenza, in cerca di giusti canali in cui esprimersi.
Un compito sicuramente arduo quello di Sandra Vita Guddo Spatola, psicopedagogista in mezzo a tale gioventù, e con la responsabilità di trarre il meglio da questa, di dirigerla e guidarla verso giuste direzioni strappandola ai pericoli e ai rischi propri di questo ambiente di superare i condizionamenti familiari, sociali che hanno provocato in loro vizi e devianze.
L’unica cosa che lascia un po’ dubbiosi e perplessi è che talvolta l’autrice, nelle soluzioni che prospetta ai giovani, sembra cedere, in modo forse un po’ acritico, a pressioni sociali attuali, come ad esempio quella sul matrimonio omosessuale, che avrebbero invece richiesto una riflessione più cauta. In fondo l’educatore dovrebbe sempre stimolare nei giovani che lo incontrano, una ricerca su se stessi, non necessariamente confermarli nella loro condizione.


mercoledì 8 giugno 2016

Paolo Isotta, "Le virtù dell’elefante" (Ed. Gli specchi marsilio)

di Alessandro Giuli

Questa non è una recensione. Invero nascerebbe come tale, ma recensire un libro di Paolo Isotta non si può; non nel senso e nel verso comune, per lo meno. Paolo Isotta, Paolino per chi ne meriti la consuetudine, è un amico tremendissimo e tenace, avendo una concezione tutta ciceroniana dell’amicizia: un dono degli dèi, dunque una responsabilità dell’anima, dunque un privilegio da non dissipare, pena l’accusa di empietà che un tribunale invisibile – il più temibile – è sempre pronto a proclamare a lettere di fuoco. C’è poco da scherzare sull’amicizia.
Paolino è il più colto e intenso critico musicale vivente, il che già offre la misura della distanza abissale tra lui e chiunque di lui voglia scrivere senza sciatteria. Impresa titanica, fronteggiare una cultura che atterrisce anche quando – più o meno sempre – viene dispiegata con quella sua magistrale levità di gentiluomo napoletano.
Paolino, che ha insegnato al Conservatorio di Torino e poi a quello di Napoli; Paolino che è intimo di Rossini e Wagner e ha signoreggiato per tanti anni sulla terza pagina del Corriere della Sera; Paolino che ha esibito doti innate da polemista sul Foglio – regnante Giuliano Ferrara – e oggi tesse ricami sul Fatto di Marco Travaglio (pronubo Pietrangelo Buttafuoco, per noi Buttaf); 
Paolino che anche quando compila una lettera privata di posta elettronica finisce per esprimere un lignaggio poetico, una sensibilità remota e alta, un’inabilità naturale alla vulgaritas degna del dorico Tirteo… “quest’agave sul mio balcone è fiorita / con una meravigliosa pigna. / E’ un faustum omen arrivato a me / e a tutti coloro che mi voglion bene: augurissimi!”. Paolino è insomma un amico delle Muse, siccome la musica – naturaliter pagana – altro non è che arte modellata nel nome del lucente Apollo dalle figlie di Zeus e Mnemosyne.
E Paolino, paganamente cristiano o cristianamente pagano come solo può essere un discendente di Partenope, nella musica ha trovato il suo destino e il suo tormento, il suo darsi e il suo ritrarsi, la sua biografia e il suo stordimento. Il libro più importante di Isotta è uscito due anni fa, si chiama “Le virtù dell’elefante” (Marsilio), ha avuto tre edizioni ed è stato opportunamente giudicato come “il libro di una vita” e sopra tutto “un’opera letteraria più che un testo musicologico”. 
Qui al Foglio, dove leggemmo il manufatto ancora in bozza nell’attesa che un editore impavido gli facesse da guardia del corpo, si gridò subito al capolavoro condannato al successo, palpitante com’era di vita e di melodia, di autenticità e dolcezze.
Ma è appunto a questa definizione – “un’opera letteraria” – che bisogna aggrapparsi, intanto perché verissima e d’una verità anche delicata e meritevole di protezione nell’epoca in cui lo statuto letterario è un timbro maneggiato dai burocrati delle cose editoriali; e poi perché, in mancanza di strumenti adeguati per orizzontarsi in sì tanta cultura musicale, non vedo altro ponte levatoio se non quello dello stile e della forma letteraria per accostarmi all’ultimo libro di Paolino, “Altri canti di Marte” (sempre per Marsilio).
Si tratta di un post capo d’opera nato come appendice, riserva di palinodie o mise au point supplementari – “parerga e paralipomena”, precisa lui con Leopardi e Schopenhauer, “giacché il processo di riflessioni e ricordi messi in moto dall’idea di un libro riassuntivo insieme e foriero di nuovo studio non s’è fermato”. 
Urgeva come “uno svelto volumetto d’un centinaio di pagine da pubblicare a sé”, ma ecco che “la senile incontinenza” – e qui Paolino ci sta scherzando, egli essendo un fanciullo del 1950 – prende per mano l’autore e lo accompagna per oltre 460 pagine in cui rende onori aggiunti a Beethoven; incorona i Trioscuri dell’avanguardia italiana (Franco Alfano, Gino Marinuzzi e Ottorino Respighi); cavalca ancora il Novecento in sella a George Enescu e Karol Szymanowski e, più ancora che altro: mette in rilievo “che con la presente ‘lettura’ del Parsifal scritta ex novo e forse a me possibile solo grazie a la force de l’âge, do la miglior prova alla quale m’è concesso giungere della mia devozione wagneriana…”.
E qui, nell’isola dei beati wagneriani, si deve ammettere che Paolino diventa inarrivabile, in certo modo realmente posseduto da un dèmone lontano che gli detta e ridetta una conoscenza parsifaliana talmente densa da rarefarsi in un trionfo non più materiale, disincarnato anzi e prodigioso. Oltre il quale non è che il silenzio, al riguardo.
Qui però, dove le sonorità erudite di Isotta giungono tardive come l’eco, dove ancora è il gesto a occupare i sensi e non ancora il canto, non osiamo scostarci dall’indicazione iniziale ricevuta dall’autore, e relativa al titolo anfibio della sua opera tratto non già – o forse non anzitutto – dall’ardore guerriero del nume italico, pur schiettamente ritratto sulla copertina in amorevole marmoreo connubio di sguardi con Venere, ma dal “grandissimo poeta napoletano Giovan Battista Marino” il quale “dà così principio al Sonetto proemiale delle Rime amorose: Altri canti di Marte e di sua schiera / gli arditi e l’onorate imprese… Canti – spiega Paolino – è un congiuntivo esortativo: cantino pure altri le glorie e le morti della guerra. Io, prosegue il Poeta, canterò Amore: e lo prega, Amore, nell’ultimo verso: se desti morte al cor, dà vita al canto”.
Ecco allora la chiave di salvezza per il cauto ermeneuta di questo libro, ecco dunque la cosa in sé di Paolino: un supplemento d’Amore, che è anche viaggio nel segno del capriccio personale. Il che incoraggia, autorizza perfino, a scegliere – per amore o per capriccio? – quel che nel vasto pelago più si confà alla nostra equazione personale. Ecco allora tre canti isottiani: Muti o dell’amicizia; Ottorino Respighi e Carmine Gallone o de signis receptis; la cattività dei delfini (titoletti nostri tranne l’ultimo).
Di Riccardo Muti, Paolino è amico deluso, rabbuiato inascoltato tradìto: “Il più grande direttore vivente è stato per me uno dei più cari fra gli amici del cuore: certe cose non possono cancellarsi; ma lo è stato”.
Ora non più, dacché il maestro abbandonò il Teatro dell’Opera di Roma, ma senza pugnare, senza avvertire i suoi avamposti umani (quorum Paolino e Alessio Vlad), senza nulla opporre alla “sventura di non aver volontà di creare un recinto inviolabile pel suo essere artista”, senza mai aver ascoltato un’antologia del gran negletto Francesco Libetta e – che è peggio – senza mai dissolvere i legittimi sospetti sul suo patriottismo musicale: “Si riempie la bocca della parola Italianità: a differenza di quel che non facesse Abbado, le tasse le paga in Italia: e poi?”. E in questo punto interrogativo è il cappio da cui pende la vera amicizia esatta e soffocata.
Le pagine isottiane su Respighi e Gallone valgono come il verso di un denarius romano nel quale sono effigiate le insegne legionarie strappate dalle mani barbariche che se n’erano impadronite, consegnandole all’ignominia del nascondimento e dell’oblio.
Gallone è il regista conosciuto per “meravigliosi film fra i quali la serie di Don Camillo e Peppone ove campeggiano due grandissimi attori quali Fernandel e Gino Cervi…”, ma qui conta che il nostro Paolino ricorda finalmente l’insuperabile pellicola che segna il terminus ad quem della nostra cultura cinematografica: “… ho visto con incredibile ritardo un film che avrebbe dovuto essere, e ch’è diventato uno di quelli della mia vita, Scipione l’Africano, del 1937, del grande Carmine Gallone: nato a Taggia di padre sorrentino nel 1886 e morto nel 1973… Il film su Scipione è una delle meraviglie del cinematografo.
Popolare nelle intenzioni, la sceneggiatura è fatta passando per la più minuta osservanza del dettato storico. Scipione campeggia per il suo genio, la sua umanità, il suo esser caro agli Dei: virtù e fortuna, ma grandioso è anche Annibale. La battaglia di Zama, lunga e dettagliata e fedelissima alla Storia, toglie il fiato: le riprese di massa sono superiori a quelle che farà Stanley Kubrick; è incredibile come si riesca a far recitare persino gli elefanti, che simulano l’impazzimento per il terrore o il dolore delle piaghe”.
Signis receptis. Con in più – aggiungiamo – il dettaglio che artefice di quella sceneggiatura fu l’esoterista pagano Camillo Mariani Dell’Anguillara; e che la colonna sonora venne scritta da un altro misconosciuto artista: Ildebrando Pizzetti, anche autore della Sinfonia del Fuoco che troneggia nel film dannunziano Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone (terminus a quo).
Nemmeno un lustro fa accadde questo; accadde durante una colazione con l’illustre Mario Bortolotto e Giuliano Ferrara, accadde che la nostra ingenuità – cioè l’essere nel Genio italico – ci portò a domandare lumi sulla reputazione assente o negativa di Respighi e Pizzetti; e il maestro Bortolotto a momenti ci indicava la via dell’uscio, offeso sin nelle viscere da quei che sentiva essere venditori di fumisterie musicali con pretese esoteriche, lui che pure non disdegnò i salotti di Elémire Zolla e Roberto Calasso, nonché il più audace e selettivo rifugio romano di Julius Evola.
Di qui adesso il godimento pubblico e privato nel degustare il calice sapiente che Isotta, ministro della musicalità e della sperimentazione canora italiana, offre al lettore poco alfabetizzato come me che di Respighi conosce e ammira senza riserve la Trilogia romana; e che della famiglia Respighi venera anche il meno celebre Lorenzo, l’astronomo che dal 1866 al 1889 diresse quell’Osservatorio capitolino – poi stoltamente trasferito a Monte Mario per volere del ministro Giuseppe Bottai – dal quale nel 1918 sarebbe stata avvistata l’Aquila di Giove che guidò i fanti del Piave alla vittoria della Grande Guerra.
Isotta restituisce a Respighi la sua giustezza: “Ottorino è sì l’orchestratore dalla tavolozza piena di colori e di sfumature; ma è sopra tutto un poeta doctus: questa è la chiave per comprenderlo… E’ poeta doctus quanto alla sua cultura classica; quanto ad amore rivissuto in ricreazione per la musica antica; quanto alla scelta dei testi musicali da compositore di musica vocale; e perché il suo modo di reagire alla crisi del linguaggio musicale dopo Wagner è il ricorrere alla ricchezza dei Modi.
Pochi compositori del Novecento posseggono una ricchezza modale come la sua… Respighi può essere accostato al Catullo dei meravigliosi carmina cosiddetti docta”. Respighi, “tacciato inanemente di bassezza onomatopeica”, rappresenta “l’estrema propaggine della divisa oraziana, propria del classicismo, omnis ars imitatio naturae”. Che altro, o Muse?
La sapienza profondissima degli animali. Isotta lo chiama Dio Creatore e va bene anche così, poteva definirlo orologiaio (ma fa un po’ massone kantiano) ovvero il Padre Celeste, origine prima della manifestazione… fatto sta che, essendo amico delle Muse, Paolino sa ascoltare la trama musicale che dalle sfere celesti si proietta fin quaggiù, dove uomini e animali agiscono ritmicamente, incoraggiati da inaccessi canoni, sonorità luminose che si cristallizzano in opere e pensieri corali.
Con la differenza che l’uomo, pur sapendo, dimentica e neglige; mentre gli animali patiscono la nostra smemoratezza inquinante. “L’uomo uccide col rumore gli animali che della musica hanno ragione di vita; e con un’indegna schiavitù animali che della libertà hanno ragione di vita; animali all’uomo soccorrevoli – i soli fra quelli selvatici: quando scorgono nuotare una donna incinta, ché la loro sensibilità dotata di un vero e proprio sonar consente loro di capire addirittura ciò, fanno particolare attenzione a non urtarla – che così li ripaga”. 
E ancora, in un crescendo che è anche un finale, e che avrebbe tratto un sorriso di bonomia partecipe all’amico comune, e di comune sensibilità, Stefano Di Michele: “L’essere umano possiede alcuni canoni estetici innati, non derivanti dall’esperienza artistica; il più basilare è il principio di simmetria: ciò ch’è simmetrico risponde a un ordine, è armonico, è secondo forma, dunque è bello; ciò ch’è asimmetrico non risponde a un ordine, è disarmonico, è informe, dunque non è bello. Ma la simmetria esiste da centinaia di milioni di anni prima dell’uomo, nelle conchiglie a spirale, nella tela del ragno, nella forma dell’alveare e nelle celle esagonali che lo compongono…”. 
Un canone, appunto, perché “il Dio tutto geometrizza” (Platone) in Numero puro, Armonia delle sfere, Sezione dorata, Divina proporzione: chiavi della vita che splende, come il Sole neapolitano di Paolino sulla sua opera magna sed apta nobis.

(da "Il Foglio quotidiano" del 16 maggio 2016)

martedì 7 giugno 2016

Vito Mauro, "Distinti rifiuti" (Comune di Ciminna)

di Giovanni Taibi

   In un epoca in cui la questione ambientale diventa di vitale importanza per il futuro del pianeta, il libello di Vito Mauro “Distinti rifiuti”  ci offre un attenta analisi sul fenomeno dello smaltimento dei rifiuti
Il libro nasce grazie al progetto del servizio civile di Ciminna  Distinti rifiuti  che aveva come scopo informare i cittadini delle modalità per potenziare il servizio della raccolta differenziata;  il  messaggio, esternato anche in sinergia con la parrocchia locale, invitava ad avere un atteggiamento di responsabilità verso l'ambiente in cui viviamo poiché esso è la nostra casa comune la casa di tutti e come tale deve essere protetto ( cfr  pag 12 ).
A seguito di questo progetto è nato il libro in oggetto edito dal comune di Ciminna, con note introduttive di Andrea Piraino ( già assessore regionale )e Giuseppe Leone(  ex sindaco del comune) e  prefazione di Tommaso Romano.
Afferma, infatti, Piraino nella sua nota: “Il miglioramento dell’ambiente non dipende solo dalla soluzione dei grandi problemi planetari, ma anche dall’adozione di una serie di comportamenti quotidiani legati alla consapevolezza individuale”
“In tal senso, afferma Romano nella Prefazione, è importante  l’opera pedagogica tendente ad educare i giovani all’uso corretto ed al riconoscimento dei limiti da imporci rispetto al consumismo e allo spreco; elementi fondanti per un’etica ecologica che oggi appare sempre più necessaria per la tutela del nostro destino e del Cosmo tutto. “ ( Cfr pag. 9) 
Altro messaggio forte è che la terra non appartiene all'uomo ma è l'uomo che appartiene alla terra. Per raggiungere tale obiettivo è fondamentale la collaborazione con il territorio tutto: dalla famiglia alla scuola. A tale scopo importante è una massiccia campagna di sensibilizzazione che a partire dai più piccoli educhi al rispetto  dell’ambiente, anche quello delimitato dalla propria esperienza quotidiana.
Altro tema da non sottovalutare è quello dei rifiuti ingombranti o pericolosi come le batterie al piombo esauste, gli oli da cugina o industriali. Essi vanno conferiti in appositi contenitori che poi verranno inviati a industrie che tratteranno “queste bombe ecologiche nel rispetto dell'ambiente” 
Alla fine, una sana e consapevole gestione dei rifiuti diventa un valore morale alla ricerca del bene comune 
Ecco perché etica e ambiente vanno a braccetto 
Riduzione riutilizzo recupero e riciclaggio devono allora diventare azioni comuni e quotidiane  allo scopo di favorire lo sviluppo di comporta menti consapevoli e responsabili 
Solo così è possibile conservare la bellezza della natura e lasciarla alle nuove generazioni che hanno anche loro il diritto di godere delle meraviglie del creato
È importante allora promuovere comportamenti più consapevoli
Nulla si crea in natura e nulla si distrugge . Tutto si trasforma assumendo varie forme
L'importanza di affrontare il problema in chiesa non è stata solamente legata a comodità logistica ma già nelle sacre scritture è evidenziato come l'uomo debba vivere in armonia con Dio con gli altri simili e con le cose. E poi c'è la lezione magistrale di san Francesco d'Assisi che nella sua lauda esalta ogni elemento del creato            
Buttare è inoltre  un’azione legata al concetto di consumismo sfrenato che mal si
concilia con il messaggio evangelico, soprattutto in un’epoca dove più della  metà della popolazione mondiale non ha cibo e generi necessari sufficienti ad una vita dignitosa, anzi spesso vengono sfruttati con salari modestissimi proprio per permettere alla restante parte del mondo di vivere nell’agio e nell’abbondanza. 
Per concludere Mauro propugna  un gioco di squadra in cui tutti gli attori ( istituzioni politiche, chiesa e scuola) svolgano il loro compito non solo nella quotidianità , nell’educare verso comportamenti consapevoli.

giovedì 2 giugno 2016

Nicola Romano, "Voragini ed appigli" (Ed. Pungitopo)

di Giuseppe Bagnasco

“L’io osservatore nella poesia di Nicola Romano”. Potrebbe essere questo il compendio in sintesi di questa raccolta di poesie che si presenta come un pendolo che si trascina nello scenario poetico tra due poli sotto l’occhio attento di un “ io osservatore “. Un severo spettatore serioso e disilluso che critica la modernità operando un divorzio irreversibile nell’osservare come il perbenismo iper tecnocratico stia divorando una società ormai senza più traccia di se stessa. E a poco valgono gli appigli orfani di un vero credo socializzatore che si celano dietro un rigurgito di sentimentalismo che niente ha da vedere con il vetero movimento romantico né col neo-romanticismo, sepolti il primo dentro la sua tomba storica e il secondo incapace di rallentare la caduta verticale di una poesia che dopo Montale ha solo trovato deboli imitatori. In un aforisma del poeta Francesco Federico leggiamo “ ascoltate chi vi parla con parole umane”, e questo perché in tanti si cimentano a scrivere con parole nascoste concetti ermetici, chiusi alla comunicazione più immediata. Non è questo il verbo di Nicola Romano. Egli si presenta come un acquerellista della poesia dove i personaggi sembrano tratti dai nostri della porta accanto, della nostra strada, affacciati alle finestre mattutine a guardare un’aurora o affascinati dal declinare di un tramonto, come a lanciare un messaggio ecologico-naturalista, un messaggio allarmato per il modo come la distruzione scientifica del nostro mondo segue di pari passo il tramonto delle radici della nostra cultura. E’ tutto questo segue l’occhio dell’Io Osservatore che non ha più forze da opporre. E allora la poesia di Nicola Romano nel suo “Voragini e appigli”, possiamo definirla come una poesia d’attesa che senza alcuna velleità fa da testimone tra l’ascetico e l’eremita, ad una falsa normalità che sa d’essere sull’orlo del baratro culturale. La vede dentro un solco di un falso storico dove la stessa libertà, come afferma il Lucini, riportato nel volume, è solo una grande meretrice e, a parere di David Maria Turoldo, in altra parte, non ha più canti. Alla fine per cercare un angolo dove bene possano trovare dimora le liriche di Nicola Romano non resta che riconsiderarci, come afferma Vasco Pratolini e riportato dal Nostro, come animali che quando sono feriti sentono il bisogno d’appartarsi. E lui s’apparta con la convinzione che la poesia oggi ferita, ha bisogno di tante cure mediante il rinnovo della parola, una parola chiara senza ambizioni, senza sogni di grandezza o d’apparire e perciò apportatrice di semplice, vera spontaneità. 

mercoledì 1 giugno 2016

Giovanni Taibi, "Lame di buio dal passato" (Ed. Book Sprint)

di Giuseppe Bagnasco

“ A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, al perseguimento della felicità”. E’ una frase estrapolata dalla Dichiarazione di Indipendenza americana sottoscritta dai rappresentanti delle tredici ex-colonie britanniche riuniti a congresso a Philadelphia il 4 aprile 1776. Ma non è dei primi due diritti che parleremo ma del terzo e cioè quello che riguarda la ricerca della felicità. Giovanni Taibi nel suo “Lame di buio dal passato” (Ed.SCE – 2015) affronta con speculazione filosofica questo tema. E lo fa non con definizioni care ad alcuni filosofi della Grecia classica che l’identificavano alcuni con l’Eudaimonìa (avere una vita fortunata) o con l’Euthumìa (tranquillità dell’animo) o ancora con l’Ataraxìa (essere privi di turbamenti), ma con un romanzo che non è il classico racconto d’appendice, ma una storia nella quale interloquiscono personaggi che danno vita a quei “Oì Dialogòi” di platoniana memoria. Pertanto “Lame di buio dal passato” si pone non come un testo fine a se stesso ma come un mezzo attraverso il quale l‘Autore, dopo un percorso e un dibattito analitico sul sentimento dell’amore e una speculazione sull’Essere, che implicita­mente include il senso della vita, giunge alla sola e unica conclusione possibile.
E’ un tortuoso cammino già evidenziato dal titolo dal sapore dichiaratamente ossimorico. Infatti solitamente non è possibile descrivere una lama di buio ma una lama di luce, negata però dalla parola buio, come dire una luce di buio, esattamente un ossimoro. E che poi venga dal passato è solo per dire che ha radici lontane. Ma è questa contrapposizione luce-buio, sogno-realtà, passato-presente che traccia il dualismo su cui si snoda la trama del romanzo. Al titolo fa da conforto e testimonianza il dipinto in copertina dove il pittore Enzo Puleo raffigura i volti di due uomini e due donne di diversa età e che rappresentano due mondi, quello giovanile (lui con i capelli lunghi, lei nuda a rappresentare l’anticonformismo) e quello della maturità (lui stempiato e assorto, lei ben vestita col passo dinoccolato). Una dualità che viene raccontata con sapiente artifizio dal Taibi che interseca la vita reale del protagonista con squarci di ricordi quali emergono dai diari e dai racconti conservati nel tempo, appunto “lame di buio”. E’ una storia d’amore univocale, ad una sola voce, un sentimento coltivato fino all’esasperazione dal protagonista Salvo verso la coetanea Anna,un amore sbocciato nell’ultimo anno di Liceo e che nel suo svolgimento sebbene appaia  semplice, esplode in tutta la sua drammaticità nei tre racconti racchiusi come in uno scrigno nel romanzo. Se a ciò si aggiungono le tante riflessioni e le “sofìe” che impreziosiscono il testo  proprie dell’Autore (con laurea in Filosofia e docenza negli Istituti secondari statali di materie letterarie), ne risulta una sorta di Trattato di filosofia occulta.
   Nella sequenza temporale della storia, Salvo, un bel giovane ventenne, invaghitosi della compagna di classe Anna e mal corrisposto, per dimenticarla si trasferisce a Milano dove negli anni dopo la laurea, immergendosi nel lavoro, fa carriera tanto da assurgere  al posto di primario ospedaliero. Un’invenzione della sua mente pensare che la lontananza e il lavoro potessero costituire efficaci anticorpi capaci di distruggere il ricordo della donna. E’ una continua sofferenza, anche se normalmente, come afferma l’Autore,” il passato sembra sempre bello quasi come se eliminassimo i momenti più brutti lasciando prevalere solo i sentimenti più gradevoli”. Ma quel dolore, racchiuso nell’angolo più riposto del suo animo, Salvo lo ritiene comunque sacro per il semplice fatto che appartiene solo a lui e nessuno potrà mai cancellarlo tanto meno  lui tant’è che tornato al paese dopo vent’anni, per il matrimonio del proprio fratello, la ferita d’amore mai rimarginata, si riapre nel rivedere i luoghi di quel sogno fallito.
    Tutta la storia si evince unicamente dai tre racconti conservati e scritti contestualmente in quel periodo e che il giovane Salvo intitolò “ Amore e Morte – Trilogia di racconti di Salvatore”. Parlano del suo amore totalizzante e disperato, “un catartico viaggio interno e dentro l’amore che prende l’anima e lascia senza fiato”. Un viaggio che, come in ogni comune storia d’amore, è solito iniziare con l’innamoramento che si alimenta, come dice Francesco Alberoni nel suo classico “incontrarsi per dirsi addio”, con la progressiva carenza di serotonina, e finisce appunto con l’addio. Racconti che Salvo scrive proprio in quest’ordine ma che ora vuole rileggere all’inverso cioè, come afferma l’Autore, in senso catabatico anziché anabatico cioè anziché con la morte la storia finisca in gloria con un lieto fine. In tutti e tre i racconti i dialoghi avvengono, ad esclusione del terzo, tra un uomo e una donna, trasposizione di Salvo e Anna e che serve per comprendere l’evoluzione della trama della storia nei suoi risvolti più intimi e introspettivi.
   E’ questa la tecnica in chiave letteraria usata dall’Autore nell’esporre nel narrato i fatti “esterni” delegando ai protagonisti dei racconti il compito di esprimere i loro stati d’animo farciti di sofferenze, di domande e risposte che elevandosi dal comune interloquire, assurgono a dignità di pura filosofia. E questo già dal primo racconto dove il dialogo tra Luigi-Salvo ed Eliana-Anna verte sulla ricerca della definizione del concetto di felicità. L’uomo Luigi la cerca nelle sembianze di una dolce fanciulla, una ragazza capace di dare amore solo per lui. Lei, la donna Eliana scorge in questa sua spasmodica ricerca una ossessione, una ragione, l’unica della sua vita e pertanto vede se stessa non come una persona destinataria del suo amore, ma come l’egoistico mezzo che permetta a Luigi di raggiungere la tanto bramata felicità. Una pretesa folle e a suo giudizio al di fuori dei sentimenti dell’amore e pertanto ritenendo inutile la prosecuzione di quel rapporto abbandona l’uomo. Le conseguenze, come nella storia  hanno il sapore dell’infelice Werter goethiano, hanno un epilogo cruento al cui fa da sfondo il corpo di un’arma da fuoco tra l’indifferenza cinica della donna che si concede  un bagno all’acqua di rose. Siamo quindi al punto più basso della storia che, se letta in senso catabatico cioè discendente, conduce alla sua pur triste conclusione. Si tratta in fondo di uno degli aspetti della conclusione nella ricerca della felicità in quanto se cercata insistentemente sfugge ad ogni logica del concetto d’amore e svanisce  segnando con la fine il fallimento di una vita. E non lontano pertanto da quanto affermato dallo Stuart  Mill secondo cui anche se la felicità rimane lo scopo della vita non bisogna cercarla in modo parossistico.
     Nel secondo racconto, con una rappresentazione degna del migliore scenografo c’è l’interpretazione che fa l’“attore”  Walter-Salvo  nell’instaurare   un colloquio con la moglie Marta-Anna  da cui traspare tutta la disperazione di un uomo che non sa vivere senza amare ma che non sa amare. E’ un’altra sfaccettatura dell’esplorazione nella ricerca del concetto di felicità. Nell’analisi che ne segue il suo raggiungimento è legato all’appagamento di un obiettivo prefissato. Ma una volta raggiunto e svanitone l’entusiasmo ecco che si aspira al raggiungimento di un altro diverso facendo ripiombare il soggetto in una seconda infelicità e così via una dietro l’altra consegnandolo ad una vita perennemente infelice. E questo perché la felicità (penetrando nei meandri della speculazione filosofica), è solo un momento e nient’altro quale  bolla di sapone, per il pensiero leopardiano, bella e colorata che quando la si cerca di prendere, scoppia e svanisce. Un momento che l’Autore, usando una metafora, materializza come un puntino rosso, appena percettibile, immerso dentro la tela nera del quadro appeso alla parete della stanza di Walter. Ma una via d’uscita da questa impotente frustrazione c’è e la si trova nel servirsi dell’alienazione nei confronti di ogni passione e soprattutto di quel particolare tipo d’amore che fa soffrire e poi tutto sommato la felicità, come afferma Trilussa, è una piccola cosa. Altro mezzo come via d’uscita viene additato nell’apprezzamento dell’Arte, perché nella sua perfezione trasmette forti sentimenti, anche se limitati  a quanti sanno intenderli. Infine c’è la razionalità che nel contesto del racconto è rappresentata dalla personalità di Marta-Anna che la usa come uno strumento per sottrarsi a quella schiavitù d’amore di cui è vittima l’uomo-Walter e che si esprime con  quella concezione mentale che richiama l’atarassico uomo epicureo.  Ma tant’è. Lo scontro passione-ragione racchiuso tra la richiesta disperata d’amore dell’uomo e il rifiuto della donna ad assecondarlo, termina con il prevedibile addio di quest’ultima.
   Per spiegare però i motivi che determinano questa conclusione e che non emergono dal racconto-quadro che funge  da “voce fuori campo”, l’Autore ricorre ancora una volta al dialogo che intrattengono i personaggi del racconto-satellite. E come colui che al termine di una storia finita male, si interroga su quale fosse  stato il momento in cui giunto ad un bivio imbocca la direzione sbagliata, anche Salvo nel racconto-madre identifica il suo nella volta in cui alla richiesta di Anna di passare a prenderla con la macchina per andare insieme alla festa di una comune amica, lui si presenta all’appuntamento con a bordo altri due amici. E’ questo sottrarsi  nel farsi vedere solo con la ragazza che segnerà nell’animo della donna la convinzione che è l’insicurezza dei sentimenti a spingere il giovane a non compromettersi agli occhi della gente. Questa che lei ritiene una grave colpa e la lontananza materiale (lei studia a Pisa e torna in Sicilia solo d’estate) sono i due elementi a formare la razionale determinazione  a non accettare l’amore di Salvo. Non sa la donna quale dramma infuoca il cuore del ragazzo incapace di esprimersi sia per il suo carattere retrivo, sia per l’inconscio timore di vedersi rifiutato da lei e che ha fin troppo idealizzato. E sarà proprio nell’analizzare quell’amore a fare dire all’Autore come l’amore sfugga ad ogni nostro controllo perché quando si è innamorati passano in secondo piano tutte le altre qualità come la bellezza o l’intelligenza e si entra nella convinzione che il vivere senza amore è un non vivere, è come essere morti. E’ proprio in questa condizione che Eliana lascia Walter che non sa rendersi conto della realtà sotto la quale soccombe cercando nel suo sogno disperato l’unica ragione di vita. Una realtà a cui non s’arrende dopo vent’anni nemmeno il Salvo del romanzo che pensa irragionevolmente di andare a trovare Anna , già sposata e con figli, nella città dove abita da tempo, con la folle speranza che fugga con lui. Un copione la cui recita lo copre di ridicolaggine ad una età che invece dovrebbe assicuragli una sobria serietà. E’ per questo che rifugge da questo insano progetto arrendendosi finalmente alla realtà.
   Nel terzo racconto, al contrario dei precedenti, non esiste il dialogo tra un uomo e una donna. E’ il solitario viaggio di un uomo che, alla stregua del Diogene che andava in giro con la lanterna, anche Giulio (questo il nome dell’ultimo protagonista) va alla ricerca del significato della vita, ancora una volta della felicità. Sullo sfondo, nei suoi ricordi, una ragazzina che da sempre gli è stata vicina con affetto e discrezione, Giada e che questa volta non rappresenta Anna. Con essa  non intrattiene alcun dialogo perché  palesemente non cerebrale come Marta ed Eliana e tuttavia splendida nella sua aurea semplicità. Il racconto si svolge intorno ad una profonda riflessione da parte dell’uomo-Giulio, una sorta di monologo sulla definizione della felicità. Essa, al contrario di quanto afferma Schopenhauer che la nega assegnando alla ragione un ruolo essenziale nella vita, essa esiste ed è raggiungibile ma, afferma l’Autore, quando è in noi non ce ne accorgiamo e l’accogliamo quasi con indifferenza, al pari di una cosa dovuta senza nemmeno un grazie a Dio. E si considera tutto ciò che sta al suo opposto come l’infelicità, la tristezza o la solitudine, come componenti inevitabili dell’esistenza umana. La vita, come il destino degli uomini che per la mitologia greca risiedeva sulle ginocchia di Giove, altro non è che un filo invisibile nelle mani di Dio, una macchina che porta ciascuno di noi verso il suo destino, bello o brutto che sia. Ognuno col suo fardello senza cercare di modificarne il percorso con azioni ridicole e vane sopportandolo nel modo più sere_ no possibile. E’ questo il percorso che lo scrittore Taibi fa fare al Diogene-Giulio in fondo alla ricerca di se stesso pur attraverso innumerevoli esperienze a volte negative.  E siccome l’esperienza è maestra di vita il Nostro, dopo avere visitato mezzo mondo, dal gaudente Brasile, alla vita bohemienne di Parigi, approda, visto che tutto il vissuto lo aveva portato lontano dal raggiungimento della felicità, in un paesino delle Alpi tra gente semplice dalla vita semplice, senza le complicazioni delle domande esistenziali.
   Lì nella semplicità del lavoro di taglialegna e nelle serate trascorse all’osteria del paese, lì aveva trovato la serenità e imparato a non soffrire per quella ricerca risultata vana e deludente. Ma tutto ciò al prezzo della rinuncia a se stesso, alle parti più nobili de suo intimo sentire, come la riflessione, la speculazione, l’ammirazione per l’Arte. Una vita serena ma mediocre, una vita senza entusiasmo,  senza quell’entusiasmo che ricreava la sua vita da bambino quando per Natale spacchettava un dono o si apprestava a costruire il presepe. Si accorge allora che è quello di cui si deve riappropriare per ritrovare nella semplicità la sua individualità, fare riaccendere dentro di se quella luce cercata “fuori di se” e che credeva perduta. Una luce che gli avrebbe permesso di vivere e gestire ogni istante della sua vita. Ritenendo così la sua ricerca della felicità finita, ritorna al suo paese e va a bussare alla porta dell’unica donna splendida nella sua semplicità, che mai si è posta domande, che mai ha preteso risposte: Giada. Finisce così il romanzo speculativo di Giovanni Taibi, anche se vi aggiunge un epilogo che vede Salvo scrivere ad Anna una lettera, che forse non riceverà mai, la cui ultima parola è addio. Un addio comunque sofferto che, a parere nostro, non chiuderà mai la storia, dal momento che  si tratta di un addio ma senza fine perchè, come afferma Vasco Pratolini, la felicità è muta e una volta provata anche se svanisce resta comunque  nell’ombra silenziosa dell’angolo più inaccessibile del cuore.
    Spesso come nel nostro specifico essa è causata dall’amore che non è solo un’emozione, l’intimo sentire di un sentimento, ma lo svilupparsi  di una energia interiore che tutti possediamo anche se non ne abbiamo cognizione e che si rivela quando scatta a nostra insaputa l’innamoramento. Afferma Francesco Alberoni che “è meglio dirsi addio che non incontrarsi mai”  e questo per il fatto che un incontro, una relazione  anche d’amicizia, produce un arricchimento dell’animo che non avremmo se restassimo in quella nicchia di solitudine che conduce solo all’impoverimento  spirituale. L’amore è di per sé una forza estatica che ci permette di proiettarci verso gli altri in una comunione interpersonale. E’, come afferma Soren Kierkegaard, una porta che si apre verso l’esterno, verso gli altri. E’ la porta che tentò di aprire il Salvo del romanzo, ma la aprì solo dentro di lui, incapace di attraversarla per mettersi in comunicazione con Anna. Giovanni Taibi con questo suo volume ci prova. Riesce in ciò che non è riuscito al suo protagonista e cioè comunicarci il suo pensiero su ciò ch’egli crede sia la ricerca e il raggiungimento della felicità. E lo fa mettendo in evidenza tutte le possibili risposte attraverso i dialoghi nei suoi tre racconti. Luigi, Water e Giulio tentano di cercarla chi in modo spasmodico,  chi attraverso la donna, il terzo girando per il mondo. Falliranno tutti e tre chi arrivando al suicidio, chi all’abbrutimento dell’esistenza, il terzo all’annullamento della sua individualità. Ma quando, scartata l’ipotesi del suicidio e rimesso ordine nella sua vita, Salvo esce dal suo ventennale sogno e apre gli occhi alla realtà, ecco che ha termine la ricerca della felicità e senza più porsi domande sul motivo del suo malessere, finalmente la trova nelle cose più semplici, tornando a imparare a vedere il mondo ( sono le parole di esortazione dell’amico Lorenzo a Giulio) con gli occhi ingenui di quando si è bambini. Non si deve arrivare al momento del trapasso per chiedersi dove si è sbagliato, “in quale punto ci siamo persi a causa della nostra inesauribile voglia di cambiare il cammino della nostra vita”. E questo perché la vita è solo nostra e solo in noi risiede il suo segreto che dobbiamo svelare non dopo ma durante il suo corso. “Gran segreto è la vita e nol comprende che l’ora estrema” scrive infatti  il  Manzoni nel suo “Adelchi”. E allora Salvo, al pari di quel Giulio che ritrova il suo mondo tornando alfine da quella Giada che mai aveva preso in considerazione nella sua candida semplicità, riflettendo e riflettendosi  sul tempo passato, come in  una specie di catarsi, ritrova se stesso. Comprende che “doveva accettarsi, essere felice (ecco la felicità)  per quello che la vita riserva, cioè vivere le emozioni  assaporandole in ogni loro aspetto, spesso amaro, in ogni loro sfumatura spesso tendente al nero, ma mai al grigio”. Sottrarsi alla mediocrità ed essere se stessi, ecco il messaggio che Giovanni Taibi ci lascia. Il romanzo avvincente per l’impostazione scenica e dialettica in cui si svolge la trama è un sequel di messaggi ben camuffati dall’apparente reale ma evidenziati dai toni esasperati degli uomini e dagli atteggiamenti cinici e disincantati delle donne. Messaggi che solo un professore di filosofia, qual è Giovanni Taibi poteva sapere esprimere e sapientemente comunicare. Il linguaggio del testo risulta molto sciolto e avvincente sia per la chiarezza dei concetti che per la curiosità che destano i dialoghi dei personaggi. Se poi il racconto viene implementato con squarci di richiami sul costume sociale e familiare del tempo e con romantici descrizioni della natura, allora l’insieme assurge a opera filosofico-letteraria di valore, da potersi prestare sia nel campo culturale, che eventualmente anche in quello didattico.