di Alessandro Giuli
Questa non è una recensione. Invero nascerebbe come tale, ma
recensire un libro di Paolo Isotta non si può; non nel senso e nel verso
comune, per lo meno. Paolo Isotta, Paolino per chi ne meriti la consuetudine, è
un amico tremendissimo e tenace, avendo una concezione tutta ciceroniana
dell’amicizia: un dono degli dèi, dunque una responsabilità dell’anima, dunque
un privilegio da non dissipare, pena l’accusa di empietà che un tribunale
invisibile – il più temibile – è sempre pronto a proclamare a lettere di fuoco.
C’è poco da scherzare sull’amicizia.
Paolino è il più colto e intenso critico musicale vivente, il
che già offre la misura della distanza abissale tra lui e chiunque di lui
voglia scrivere senza sciatteria. Impresa titanica, fronteggiare una cultura
che atterrisce anche quando – più o meno sempre – viene dispiegata con quella sua
magistrale levità di gentiluomo napoletano.
Paolino, che ha insegnato al Conservatorio di Torino e poi a
quello di Napoli; Paolino che è intimo di Rossini e Wagner e ha signoreggiato
per tanti anni sulla terza pagina del Corriere della Sera; Paolino che ha
esibito doti innate da polemista sul Foglio – regnante Giuliano Ferrara – e
oggi tesse ricami sul Fatto di Marco Travaglio (pronubo Pietrangelo Buttafuoco,
per noi Buttaf);
Paolino che anche quando compila una lettera privata di posta
elettronica finisce per esprimere un lignaggio poetico, una sensibilità remota
e alta, un’inabilità naturale alla vulgaritas degna del dorico Tirteo…
“quest’agave sul mio balcone è fiorita / con una meravigliosa pigna. / E’ un faustum
omen arrivato a me / e a tutti coloro che mi voglion bene: augurissimi!”.
Paolino è insomma un amico delle Muse, siccome la musica – naturaliter
pagana – altro non è che arte modellata nel nome del lucente Apollo dalle
figlie di Zeus e Mnemosyne.
E Paolino, paganamente cristiano o cristianamente pagano come
solo può essere un discendente di Partenope, nella musica ha trovato il suo
destino e il suo tormento, il suo darsi e il suo ritrarsi, la sua biografia e
il suo stordimento. Il libro più importante di Isotta è uscito due anni fa, si chiama
“Le virtù dell’elefante” (Marsilio), ha avuto tre edizioni ed è stato
opportunamente giudicato come “il libro di una vita” e sopra tutto “un’opera
letteraria più che un testo musicologico”.
Qui al Foglio, dove leggemmo il manufatto ancora in bozza nell’attesa
che un editore impavido gli facesse da guardia del corpo, si gridò subito al
capolavoro condannato al successo, palpitante com’era di vita e di melodia, di
autenticità e dolcezze.
Ma è appunto a questa definizione – “un’opera letteraria” – che
bisogna aggrapparsi, intanto perché verissima e d’una verità anche delicata e
meritevole di protezione nell’epoca in cui lo statuto letterario è un timbro
maneggiato dai burocrati delle cose editoriali; e poi perché, in mancanza di
strumenti adeguati per orizzontarsi in sì tanta cultura musicale, non vedo
altro ponte levatoio se non quello dello stile e della forma letteraria per
accostarmi all’ultimo libro di Paolino, “Altri canti di Marte” (sempre per
Marsilio).
Si tratta di un post capo d’opera nato come appendice, riserva
di palinodie o mise au point supplementari – “parerga e paralipomena”, precisa
lui con Leopardi e Schopenhauer, “giacché il processo di riflessioni e ricordi
messi in moto dall’idea di un libro riassuntivo insieme e foriero di nuovo studio
non s’è fermato”.
Urgeva come “uno svelto volumetto d’un centinaio di pagine da
pubblicare a sé”, ma ecco che “la senile incontinenza” – e qui Paolino ci sta
scherzando, egli essendo un fanciullo del 1950 – prende per mano l’autore e lo
accompagna per oltre 460 pagine in cui rende onori aggiunti a Beethoven;
incorona i Trioscuri dell’avanguardia italiana (Franco Alfano, Gino Marinuzzi e
Ottorino Respighi); cavalca ancora il Novecento in sella a George Enescu e
Karol Szymanowski e, più ancora che altro: mette in rilievo “che con la
presente ‘lettura’ del Parsifal scritta ex novo e forse a me possibile solo
grazie a la force de l’âge, do la miglior prova alla quale m’è concesso
giungere della mia devozione wagneriana…”.
E qui, nell’isola dei beati wagneriani, si deve ammettere che
Paolino diventa inarrivabile, in certo modo realmente posseduto da un dèmone
lontano che gli detta e ridetta una conoscenza parsifaliana talmente densa da
rarefarsi in un trionfo non più materiale, disincarnato anzi e prodigioso.
Oltre il quale non è che il silenzio, al riguardo.
Qui però, dove le sonorità erudite di Isotta giungono tardive
come l’eco, dove ancora è il gesto a occupare i sensi e non ancora il canto,
non osiamo scostarci dall’indicazione iniziale ricevuta dall’autore, e relativa
al titolo anfibio della sua opera tratto non già – o forse non anzitutto –
dall’ardore guerriero del nume italico, pur schiettamente ritratto sulla
copertina in amorevole marmoreo connubio di sguardi con Venere, ma dal
“grandissimo poeta napoletano Giovan Battista Marino” il quale “dà così
principio al Sonetto proemiale delle Rime amorose: Altri canti di Marte e di
sua schiera / gli arditi e l’onorate imprese… Canti – spiega Paolino – è un
congiuntivo esortativo: cantino pure altri le glorie e le morti della guerra.
Io, prosegue il Poeta, canterò Amore: e lo prega, Amore, nell’ultimo verso: se
desti morte al cor, dà vita al canto”.
Ecco allora la chiave di salvezza per il cauto ermeneuta di
questo libro, ecco dunque la cosa in sé di Paolino: un supplemento d’Amore, che
è anche viaggio nel segno del capriccio personale. Il che incoraggia, autorizza
perfino, a scegliere – per amore o per capriccio? – quel che nel vasto pelago
più si confà alla nostra equazione personale. Ecco allora tre canti isottiani:
Muti o dell’amicizia; Ottorino Respighi e Carmine Gallone o de signis
receptis; la cattività dei delfini (titoletti nostri tranne l’ultimo).
Di Riccardo Muti, Paolino è amico deluso, rabbuiato inascoltato
tradìto: “Il più grande direttore vivente è stato per me uno dei più cari fra
gli amici del cuore: certe cose non possono cancellarsi; ma lo è stato”.
Ora non più, dacché il maestro abbandonò il Teatro dell’Opera di
Roma, ma senza pugnare, senza avvertire i suoi avamposti umani (quorum Paolino
e Alessio Vlad), senza nulla opporre alla “sventura di non aver volontà di
creare un recinto inviolabile pel suo essere artista”, senza mai aver ascoltato
un’antologia del gran negletto Francesco Libetta e – che è peggio – senza mai
dissolvere i legittimi sospetti sul suo patriottismo musicale: “Si riempie la
bocca della parola Italianità: a differenza di quel che non facesse Abbado, le
tasse le paga in Italia: e poi?”. E in questo punto interrogativo è il cappio
da cui pende la vera amicizia esatta e soffocata.
Le pagine isottiane su Respighi e Gallone valgono come il verso
di un denarius romano nel quale sono effigiate le insegne legionarie strappate
dalle mani barbariche che se n’erano impadronite, consegnandole all’ignominia
del nascondimento e dell’oblio.
Gallone è il regista conosciuto per “meravigliosi film fra i
quali la serie di Don Camillo e Peppone ove campeggiano due grandissimi attori
quali Fernandel e Gino Cervi…”, ma qui conta che il nostro Paolino ricorda
finalmente l’insuperabile pellicola che segna il terminus ad quem della
nostra cultura cinematografica: “… ho visto con incredibile ritardo un film che
avrebbe dovuto essere, e ch’è diventato uno di quelli della mia vita, Scipione
l’Africano, del 1937, del grande Carmine Gallone: nato a Taggia di padre
sorrentino nel 1886 e morto nel 1973… Il film su Scipione è una delle
meraviglie del cinematografo.
Popolare nelle intenzioni, la sceneggiatura è fatta passando per
la più minuta osservanza del dettato storico. Scipione campeggia per il suo
genio, la sua umanità, il suo esser caro agli Dei: virtù e fortuna, ma
grandioso è anche Annibale. La battaglia di Zama, lunga e dettagliata e
fedelissima alla Storia, toglie il fiato: le riprese di massa sono superiori a
quelle che farà Stanley Kubrick; è incredibile come si riesca a far recitare
persino gli elefanti, che simulano l’impazzimento per il terrore o il dolore
delle piaghe”.
Signis receptis. Con in più – aggiungiamo – il
dettaglio che artefice di quella sceneggiatura fu l’esoterista pagano Camillo
Mariani Dell’Anguillara; e che la colonna sonora venne scritta da un altro
misconosciuto artista: Ildebrando Pizzetti, anche autore della Sinfonia del
Fuoco che troneggia nel film dannunziano Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone (terminus
a quo).
Nemmeno un lustro fa accadde questo; accadde durante una
colazione con l’illustre Mario Bortolotto e Giuliano Ferrara, accadde che la
nostra ingenuità – cioè l’essere nel Genio italico – ci portò a domandare lumi
sulla reputazione assente o negativa di Respighi e Pizzetti; e il maestro
Bortolotto a momenti ci indicava la via dell’uscio, offeso sin nelle viscere da
quei che sentiva essere venditori di fumisterie musicali con pretese
esoteriche, lui che pure non disdegnò i salotti di Elémire Zolla e Roberto
Calasso, nonché il più audace e selettivo rifugio romano di Julius Evola.
Di qui adesso il godimento pubblico e privato nel degustare il
calice sapiente che Isotta, ministro della musicalità e della sperimentazione
canora italiana, offre al lettore poco alfabetizzato come me che di Respighi
conosce e ammira senza riserve la Trilogia romana; e che della famiglia
Respighi venera anche il meno celebre Lorenzo, l’astronomo che dal 1866 al 1889
diresse quell’Osservatorio capitolino – poi stoltamente trasferito a Monte
Mario per volere del ministro Giuseppe Bottai – dal quale nel 1918 sarebbe
stata avvistata l’Aquila di Giove che guidò i fanti del Piave alla vittoria
della Grande Guerra.
Isotta restituisce a Respighi la sua giustezza: “Ottorino è sì
l’orchestratore dalla tavolozza piena di colori e di sfumature; ma è sopra
tutto un poeta doctus: questa è la chiave per comprenderlo… E’ poeta doctus
quanto alla sua cultura classica; quanto ad amore rivissuto in ricreazione per
la musica antica; quanto alla scelta dei testi musicali da compositore di
musica vocale; e perché il suo modo di reagire alla crisi del linguaggio
musicale dopo Wagner è il ricorrere alla ricchezza dei Modi.
Pochi compositori del Novecento posseggono una ricchezza modale
come la sua… Respighi può essere accostato al Catullo dei meravigliosi carmina
cosiddetti docta”. Respighi, “tacciato inanemente di bassezza
onomatopeica”, rappresenta “l’estrema propaggine della divisa oraziana, propria
del classicismo, omnis ars imitatio naturae”. Che altro, o Muse?
La sapienza profondissima degli animali. Isotta lo chiama Dio
Creatore e va bene anche così, poteva definirlo orologiaio (ma fa un po’
massone kantiano) ovvero il Padre Celeste, origine prima della manifestazione…
fatto sta che, essendo amico delle Muse, Paolino sa ascoltare la trama musicale
che dalle sfere celesti si proietta fin quaggiù, dove uomini e animali agiscono
ritmicamente, incoraggiati da inaccessi canoni, sonorità luminose che si
cristallizzano in opere e pensieri corali.
Con la differenza che l’uomo, pur sapendo, dimentica e neglige;
mentre gli animali patiscono la nostra smemoratezza inquinante. “L’uomo uccide
col rumore gli animali che della musica hanno ragione di vita; e con un’indegna
schiavitù animali che della libertà hanno ragione di vita; animali all’uomo
soccorrevoli – i soli fra quelli selvatici: quando scorgono nuotare una donna
incinta, ché la loro sensibilità dotata di un vero e proprio sonar consente
loro di capire addirittura ciò, fanno particolare attenzione a non urtarla –
che così li ripaga”.
E ancora, in un crescendo che è anche un finale, e che avrebbe
tratto un sorriso di bonomia partecipe all’amico comune, e di comune
sensibilità, Stefano Di Michele: “L’essere umano possiede alcuni canoni
estetici innati, non derivanti dall’esperienza artistica; il più basilare è il
principio di simmetria: ciò ch’è simmetrico risponde a un ordine, è armonico, è
secondo forma, dunque è bello; ciò ch’è asimmetrico non risponde a un ordine, è
disarmonico, è informe, dunque non è bello. Ma la simmetria esiste da centinaia
di milioni di anni prima dell’uomo, nelle conchiglie a spirale, nella tela del
ragno, nella forma dell’alveare e nelle celle esagonali che lo compongono…”.
Un
canone, appunto, perché “il Dio tutto geometrizza” (Platone) in Numero puro,
Armonia delle sfere, Sezione dorata, Divina proporzione: chiavi della vita che
splende, come il Sole neapolitano di Paolino sulla sua opera magna sed apta
nobis.
(da "Il Foglio quotidiano" del 16 maggio 2016)
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