lunedì 27 aprile 2015

Segmenti memoriali di Stefano Lo Cicero (Thule)

di Vito Mauro

Molto opportunamente del nuovo libro di poesie di Stefano Lo Cicero, il prefatore e postfatore, Salvatore Lo Bue e Tommaso Romano parlano di un Artista completo in tutti i domini riferendosi alle Poeta palermitano dell’Addaura . Lo Cicero è, infatti, rinomato pittore, scultore, autore di testi musicali oltre che poeta in italiano e in siciliano con qualificato curriculum critico e vasti apprezzamenti di pubblico. Figura singolare, Lo Cicero interpreta modernamente - ma con fermo ancoraggio alla tradizione - sentimenti, valori, stati d'animo espressi mirabilmente in un susseguirsi di icastiche immagini, che ben ce lo rappresentano come un moderno protagonista.
Troviamo così nella raccolta, dal titolo Segmenti memoriali, elegantemente edita da Thule di Palermo, le costanti ispira attive di un poeta -sognatore che pur consapevole delle asperità dell'esistenza, continua, nonostante i segni dei tempi, il suo cantare, fra umane comprensioni e naturali smarrimenti, fra altruismo e riflessioni esistenziali, colme di sofferta meditazione interiore, a volte struggente.
Lo Cicero interpreta, fra i pochi poeti di oggi militanti, una visione a tinte definite, intensa e al contempo multiforme, degna comunque di figurare - anche per acuta coerenza stilistica - fra le voci significative, imprescindibili, nel panorama della poesia siciliana contemporanea.

domenica 26 aprile 2015

LO SPORT BOCCE A FIRENZE E PROVINCIA NELL’ULTIMO MEZZO SECOLO, di Antonio Rosania (Masso delle fate)

di Marcello Falletti di Villafalletto

È proprio vero che puoi stare accanto a persone per anni e non conoscerle minimamente. Magari le incontri, le vedi quotidianamente, ma non ti soffermi che per qualche sguardo o breve saluto ossequioso, per mancanza di tempo, rubato dall’incedere turbolento della frenetica esistenza; o magari perché sei ben educato e allora non dimentichi di dare il tuo saluto, fermandoti a scambiare qualche formale parola, ma sempre pressato da quell’incedere tanto rovinoso. Ciò, da sempre, è successo a me e Antonio, seppur vivendo sotto lo stesso tetto dalla maggior parte dei nostri anni. Pare però che, nonostante le avversità esistenziali, abbiamo rimediato a questo accaduto!
     Del gioco delle bocce, personalmente sapevo ben poco, se non per essermi soffermato, da ragazzo, a guardare gli adulti che, al paese dei miei genitori, particolarmente nelle domeniche estive, vi giocassero e continuino a giocarci ancora oggi. Ho scoperto che è un antichissimo e bellissimo sport, amato anche dai giovani e piaceva praticarlo anche al mio “idolo” canoro, il grande tenore Beniamino Gigli. È la prima cosa che ho scoperto dall’interessante lavoro di Antonio Rosania.
     Dopo una breve traccia evolutiva, partita dalla preistoria, attraverso Ippocrate, Ovidio, fino alla regina Vittoria d’Inghilterra, ai Doge di Venezia, arriva ai nostri giorni, toccando la nostra penisola, approda a Firenze e alla sua provincia; l’avventura sportiva dello “sport bocce”, attraverso l’esperienza diretta dell’Autore, diventa una realtà tangibile, particolarmente per quanto riguarda gli ultimi cinquanta anni.
     Rosania, essendo arrivato al prestigioso incarico di Consigliere Nazionale della Federazione Italiana Bocce, ha potuto sviluppare meticolosamente gli eventi principali degli ultimi cinquanta anni di attività sportiva di Firenze e provincia legata alle bocce. Attingendo ad archivi sportivi e alla sua diretta conoscenza, nelle quasi trecento pagine dell’Autore emergono avvenimenti, successi e tantissime curiosità, tanto da farne una entusiasmante lettura anche per il più profano o lontano dall’argomento.
     Atleti, di ieri e di oggi, associazioni bocciofile e altrettanti personaggi che hanno dato vita a memorabili avvenimenti agonistici, sono stati trattati in modo veramente adeguato, offrendo ai lettori una piacevole e scorrevole lettura.
«Antonio Rosania, attraverso questa pubblicazione – sommando la sua competenza da dirigente con la passione innata verso le bocce – interpreta con efficacia questo patrimonio, che ripercorrendolo in maniera puntuale e coinvolgente, produce una testimonianza autentica vissuta e sentita.
     Un dono che egli fa agli appassionati e alla nostra intera comunità.», hanno correttamente evidenziato i redattori, nella breve nota di presentazione, che condividiamo appieno.
     Nel complimentarci con l’amico Antonio Rosania, gli auguriamo tutti i successi che il lavoro merita; oltretutto il volume si presenta in ottima veste editoriale, corredato da tantissime fotografie in bianco e nero e a colori, ma anche di esplicativo impianto documentario, completato da innumerevoli articoli giornalistici che ne permettono una lettura scorrevole e agevole.
     L’intero volume è attraversato da “rimarcate curiosità” aggiunte deliberatamente dall’Autore, da renderlo stimolante, gratificante; non esclusivamente per lui che l’ha redatto ma per il lettore, anche per quello meno attento.

Invito alla presentazione del volume "Si dubita sempre delle cose più belle"


venerdì 24 aprile 2015

Il sismografo e la cometa (Tommaso Romano) - ISSPE

di Lydia Gaziano

Tommaso Romano, intellettuale, poeta, saggista, che non si arrende, non depone le armi, anzi continua - novello Prometeo - la propria battaglia.    Il sismografo e la cometa è – parole dell’autore - un lavoro di ricapitolazione, ma dal titolo apparentemente esoterico. Sismografo, perché attinente agli stati d'animo dell’autore, cometa, perché stella augurale in grado di indicarci una via di salvezza. Con “La tradizione e la deriva apocalittica - Linee antimoderne per i cavalieri erranti dell’ideale” (primo capitolo del pamphlet) l’autore entra nel tema a lui più caro: “la critica alla modernità, (che) non è... incapacitante esotismo d’isolati e fieri reazionari, d’intransigenti individui fuori dal tempo, di curiosi soggetti impermeabili agli “immortali principi”, ma una lucida e impellente necessità per trovare la forza, le idee e la fede onde reagire alla barbarie”. Al contrario, “va raccolta in positivo e senza settarie demonizzazioni una tale critica alla logica moderna”. L'antica trilogia, Dio, patria, famiglia, su cui ha scritto uno dei suoi libri esemplari Marcello Veneziani, può sembrare a qualcuno una “anticaglia” per pochi cultori ma, se appena si riflette sulle conseguenze dell’abbandono di tali valori, ecco che ciò che viene troppo frettolosamente rifiutato torna ben presto a imporsi e a giustificarsi davanti al tribunale della ragione.     Viviamo in piena Apocalisse - afferma Romano - e non si tratta di un paradosso. La critica demolitrice, totale ed estrema ad ogni forma di industrialismo, progresso tecnologico non poteva essere più radicale, ma quali esiti ha dato? Infatti, dopo tanta distruzione, non siamo certo tornati all’auspicata cura del territorio, alla riscoperta dell’identità e delle bellezze della nostra terra. Abbiamo perso, invece, competitività. Inondati da prodotti stranieri di bassa qualità e invasi da immigrati, a loro volta sfruttati e malpagati. Stanchi e impoveriti, noi siciliani, vaghiamo ormai nel limbo dell’inesistenza, alla ricerca dell’identità perduta.    “Sosteniamo da tempo che agricoltura, pesca, artigianato, energie naturali, valorizzazione e investimenti a tutela dei beni culturali e ambientali, centri di eccellenza creativa e scientifica, turismo sono la nostra riserva vera, il nostro giacimento, il campo da far rifruttificare” e invece, proprio all’opposto, “ciò che è già imperante è la spirale verso la totale schiavitù, il diventare una colonia senza prospettive, vegetare e quindi perire; dissanguando conseguentemente i risparmi e le poche riserve e annichilendo il tessuto morale, l’orgoglio di un popolo, già smarrito e con poche speranze”.    Come dice Franco Cassano la logica della modernità va ribaltata. Non è un lavoro da poco e di pochi. Ma è ineluttabile il tentarci... se ciò potrà avverarsi sarà attraverso l’unità di gruppi culturali e politici coesi e con nuovi protagonisti sociali.    Mentre si vaga alla ricerca di illusorie felicità materialistiche e malsane, si istilla l’odio per la vita, l’odio per gli avi, per il passato, per la tradizione. Senza un ritorno a Dio e alla legge naturale vi è solo la perdita del centro della bussola, il voler far tutto solo perché si esiste, o si vegeta, annegando nelle droghe e nel libero arbitrio, provocando spesso la morte di esseri indifesi come donne e bambini. Il sismografo e la cometa è una silloge di opere e personaggi della nostra terra, illustri nei vari campi del sapere. Dino D’Erice, poeta del noi, della coralità, di una tradizione rinnovata da un linguaggio scabro, essenziale. Di profonda spiritualità le lettere di Salvatore Li Bassi a Padre Matteo La Grua. L’opera del frate castelbuonese, che operò alla Noce di Palermo, rivive negli scritti del figlio spirituale che ebbe sempre nel grande carismatico una guida, un aiuto, una speranza.    Il coraggioso scrittore di mafia Michele Pantaleone, condannato a immeritato oblio, ma ripercorso esemplarmente prima dal letterato catanese Mario Grasso e poi da Gino Pantaleone, trova giusta menzione. E ancora, tra gli altri, trovano posto lo storico ciminnese Francesco Brancato come le rivisitazioni critiche di Salvatore Di Marco. A conclusione, l’intera Opera di Tommaso Romano ricapitolata da Ida Rampolla del Tindaro, studiosa attenta e profonda di letteratura, arte e storia.

mercoledì 22 aprile 2015

Francesco Ferrante "Nto jardinu di l’amuri" (Drepanum)

di Maria Elena Mignosi Picone
 
Il giardino che il poeta Francesco Ferrante usa spesso come immagine metaforica, non è per lui semplicemente una idea astratta ma è il terreno reale e concreto in cui la sua anima poetica si è formata. Infatti il padre era un lavoratore del giardino.
In Littra a me patri egli scrive: “ Tu zappavi nto^n  jornu / dudici uri / e nta li caddi di li manu / m’insignavu a leggeri l’amuri”.
E così il figlio continua in effetti l’opera del padre sia pure diversamente. Si può comprendere meglio quanto affermato dai seguenti versi: “Mi cunsignù un saccu Diu, chinu di simenza, di simenza di puisia. / E iu mi fici viddanu / ntò jardinu di l’amuri”. E così Francesco Ferrante è diventato, a detta di lui stesso, il “viddanu” della poesia.
E come il padre, anche il figlio è  tenace  nella fatica, nell’impegno. Le ispirazioni poetiche non se le fa scappare ma le accoglie, ne ha cura; si impegna nel dare frutti, sempre più succosi. Lo esercita bene il suo talento, la poesia di cui il Signore gli ha fatto dono. “Iu…/ la cultivai, / studiai, l’allisciai / e la fici crisciri.” E non si ferma: “Ma quantu ancora / haiu a travagghiari! / Quantu ancora / l’haiu a^ abbivirari…/zappari, / jttari sali, arrimunnari!”
La commozione certamente prendeva il padre alle fatiche e ai traguardi del figlio: “Cu ll’occhi lustri taliavi  / ogni scaluni di la vita / ca sulu, adaciu e cu fatica /  iu arrinisceva ad acchianari”.
Il padre ora non c’è più. Ma il figlio non può fare a meno di pensarlo sempre nel giardino, un giardino diverso “nto jardinu du Paradisu”.
E da lì certamente  sorriderà a lui divenuto poeta e agli apprezzamenti che ha ricevuto e ai prestigiosi  premi che ha conseguito non solo nell’opera poetica ma anche nella narrativa.
Ma il giardino, elemento al poeta tanto caro, non è un giardino qualunque, è il giardino dell’amore. Di qui il titolo del libro “Nto jardinu di l’amuri”.
E perché? Per comprenderlo meglio rifacciamoci ad alcune sue parole: “Vogghiu sapiri scriviri / cu l’inchiostru abbagnatu / nto calamayu di Diu!” In queste semplici parole c’è racchiuso un concetto elevatissimo, e cioè l’origine divina della poesia. La poesia è infatti ispirazione proveniente da Dio. “Manna è la puisia”. Francesco Ferrante ha la consapevolezza che la poesia viene dall’alto, è dono di Dio. E come tale non può che essere impregnata di amore perché Dio è Amore. Essendo impregnata di bene, dunque è diretta alla coscienza perché la coscienza è un giudizio sul bene o sul male delle cose. “Li puisii parranu di giustizia, paci, umiltà”. “Li puisii  sunnu lacrimi di Cristu / ca li pueti incanalanu nta li vattali / ca portanu a la cuscenza”. E da qui la potenza di edificazione della poesia. “Li puisii  sunnu armi dunati da Diu / pi cuntinuari la rivoluzioni d’amuri / accuminciata duemila anni fa”.
Nella esistenza di Francesco Ferrante c’è da rilevare che egli  si occupa della difesa dei diritti umani e in questa veste è andato in Africa, in Tanzania come volontario.
Ora Francesco Ferrante, nell’esercitare il dono della poesia, vi mette una disposizione di animo che è analoga a quella che egli mise nell’andare in quel continente. Il nostro poeta prese questa iniziativa certamente mosso dalla  propria indole che si caratterizza per la sua profonda umanità. E come in Tanzania andò con lo spirito di missionario così nella poesia dimostra questa continuità; egli non ha abbandonato questa intima disposizione e con questa stessa  si accosta alla poesia. La poesia intesa come missione. Una poesia che si allarga dalla sfera intimistica e familiare ai problemi del mondo, alle sue ingiustizie, ai suoi drammi. E quel che aveva detto di sé un missionario africano da lui conosciuto: “Partivu un jornu / parravu di Cristu / cunsulatu lu chiantu / senza circari vantu”, questo il nostro poeta analogamente fa. Innanzi tutto è ispirato a portare  la luce, luce di bene, che è la verità. “…la virità in rima avvampa / è focu c’abbrucia / è faidda di puisia”.  Ecco la verità, la Verità di Dio, che si fa poesia. Attraverso i poeti. Qui attraverso Francesco Ferrante. 
E la verità, che è amore, suscita il senso della fratellanza. “La puisia è sangu / e fa l’omini frati”. Ed è facendo leva sulla poesia che Francesco Ferrante addita la via per il miglioramento delle sorti dell’umanità, per la sua rigenerazione verso cui nutre sicura speranza. E perciò invita accoratamente alla poesia, anche ad accostarsi alla sua lettura: “Grapi lo to cori alla puisia / …picchì chista è la via / pi canciari li sorti di lu munnu”. Certo con l’impegno, con la lotta: “…la giustizia po’ triunfari / chistu scrivitillu in testa / semu nati pi luttari.” E così poter dire alla fine: “…vogghiu sulu putiri diri all’ultimu rispiru: / Era cà / iu ci cridivi / ca stu munnu / Signuruzzu / assumigghiassi o^ Paradisu”.
E ora torniamo al giardino. Il giardino dell’amore è il giardino del cuore.  E “Nto jardinu di lu cori / nun servunu fauci o zappuni / sulu amuri e tolleranza/ …Cunta sulu l’amuri…cunta la spiranza, l’amicizia/…servi…pacienzia / e soprattutto umiltà”.
E questo si può raggiungere con l’aiuto di Dio perché l’uomo, senza, è come una sedia a tre gambe. “L’omu è seggia a tri gammi! / senza l’aiutu di Diu / Patri amurusu/ manca sempri na cosa / pi esseri granni / semu pilligrini persi nto bagghiu scurusu”. E si rivolge anche alla stella nera, una bambina di colore, morta: “Edita, parra tu a lu Signuri / e fanni mannari / chiddu chi nni manca: /   solidarietà e amuri”. E con convinzione afferma : “Lu terzu munnu nun esisti / picchì u munnu è solu unu / semu frati nta sta terra / lu suli spunta a ogni agnuni”.
L’animo poetico di Francesco Ferrante , che lo fa volgere all’immagine del giardino, lo volge pure ad un altro elemento della natura, in cui egli non può fare a mano di ravvisare Dio. E’ il mare.
“Nun sacciu a vuatri /  ma a mia u’ mari mi rigorda Diu…/ Immensu maistusu / …e nta li so vrazza un jornu / abbandonando tutti i piccati / mi piacissi anniari”. Il mare è  fonte di ispirazione: “Ogni sira  / lu suli nta lu mari / prenu di puisia / fa nasciri versi / c’addattanu l’arma mia”. Ascutati…ascutati…quannu la musica di l’unni / fa l’amuri cu li palori / nasci comu stasira / un ciuriddu dilicatu: la Puisia!” Bellissimo questo accostamento della poesia al fiore.
La poesia infatti ha la bellezza, la soavità e la leggiadria del fiore. La poesia è dolcezza.
Quella poi di Francesco Ferrante è una poesia particolarmente delicata perché riflette il suo animo che si contraddistingue proprio per questo. Ecco perché   il suo verso è  “duci comu ‘nzolia”. E’ intriso di miele. “La burnia è lu regalu / ca Diu fa a lu pueta, / p’inchilla di meli duci finu a quannu l’arma è queta”.
La delicatezza dell’animo di Francesco Ferrante la possiamo rilevare anche e soprattutto nel suo sdegno, che non ha mai toni duri o accesi, ma anzi, nell’instaurare un dialogo, si tinge di toni paterni, volti alla persuasione.  “Eppure tu dici d’esseri  / omu d’onuri / ma l’unuri, chiddu veru,/  sai can un ci ‘ncugna / unni c’è un omu senz’amuri / ca cumanna cu priputenza”.
Il giardino, il mare …la poesia. Francesco Ferrante è palermitano e da dieci anni vive a Terrasini, un ridente paese di mare della suddetta provincia.
Nei suoi versi affiora la Sicilia ad esempio nel ricordo della voce di Rosa Balistreri, in cui si sentiva  il calore del sole e la freschezza della rugiada, nella valorose gesta dei paladini di Francia che difendono la giustizia, nelle tradizioni dei morti, che non vanno soppiantate perché i siciliani ci tengono. E come il siciliano è legato alle tradizioni così è alla famiglia. “Siddu taliu lu presenti e lu futuru / di ‘sta vita ammiscata cu’ i sonni / vidu tri stiddi nto me celu / cometi ‘i sangu e carni / ca signanu la strata  / di st’armuzza pilligrina”. La tenerezza di padre poi emerge da questi versi: “Accussì  / m’abbrazzu li me’ figghi, / ci vasu leggiu a frunti / e ci cuntu favuli antichi”.
In conclusione possiamo affermare che umanità e delicatezza sono le note dominanti della persona di Francesco Ferrante.
Delicatezza di animo che è stata quasi l’humus, il sostrato su cui è stata seminata ed è poi germogliata la poesia.  Lo sbocciare dei suoi versi, il suo emergere da poeta ci evoca la gemma che si schiude a primavera e allora egli ci appare come fosse un fiore.
Francesco Ferrante è un fiore della nostra terra di Sicilia.
E’ un ciuri.  Un ciuri…nto jardinu di l’amuri.

lunedì 20 aprile 2015

Cosmospirituale Blog: Quaderni del Sigillo cultura - IV 2015

Cosmospirituale Blog: Quaderni del Sigillo cultura - IV 2015: Sul numero quattro dei "Quaderni del Sigillo Cultura" - curati dalla Comunità Spirituale del Mosaicosmo - è uscito il nuovo quader...

Nel buio aspettando l’alba, speranza che non muore. Schegge da Mosaicosmo di Tommaso Romano, a cura di Maria Patrizia Allotta,Villasanta (Monza), ed. Limina Mentis, 2015, pp. 64.

di Gaetano Licata
 
L’intonazione letteraria di Maria Patrizia Allotta introduce il lettore, in questo testo sorprendente, alla scoperta del pensiero e dell’attività, appunto della virtuosa “contemplattività” di Tommaso Romano. Qui nel testo, più che in altri spazi dell’esistenza, Tommaso Romano è infatti spectator e insieme protagonista dell’actio teatralemessa in scena dall’autrice. Se vi è uno spectator, viene da sé, vi è uno spectaculum, e chi conosce il pensiero di Romano sa già che lo spectaculum di cui qui si tratta non può che avere la forma spirituale, nella materia, del mosaico. La potente metafora del mosaico annoda i temi di questa filosofia e di questo attivismo facendosi finanche carne e struttura del testo di Maria Patrizia Allotta, perché il metodo compositivo del mosaico guida di fatto la composizione dell’opera, restituendo al lettore un rimandometatestuale di rara forza espressiva: il testo di Tommaso Romano è materia di una destrutturazione e di una ricostruzione che lo fa divenire altro pur rimanendo se stesso, così il testo di Romano è anche il testo di Allotta, in un sodalizio di pensiero che, unendo nell’immobilità del testo esistenze vive di autori, risulta davvero unico. La storia del pensiero e della cultura conosce diversi esempi di forte sodalizio fra maestro e allievo, fra pensatori in comune, ma non credo che un’operazione come quella compiuta dall’autrice sia stata finora tentata. Questo sodalizio è possibile solo grazie all’idea del mosaico, alla capacità del mosaico di fare armonia della differenza a partire dal progetto.Quasi superfluo dire, a questo punto, che quella stessa meraviglia, quello stesso stupore filosofico che colse coloro che cominciarono a porsi domande sull’universo coglie lo spectator di un mosaico sotto la vibrante fascinazione di un richiamo estetico e secondo le coordinate storiche e religiose che il mosaico, come opera d’arte sacra, indica con chiarezza nella nostra cultura. E il mosaico cui ci riferiamo è arte cristiana, ed arte medievale.
        Lo spectator, che Maria Patrizia Allotta decostruisce attraverso il suo meta-testo e in cerca della sua personalità, è Tommaso Romano e lo spectaculum è il creato, il participio passato passivo che rimanda all’Autore. Se poi le tessere sono raggruppate in capitoli, entro i registri della filosofia della Parola, della filosofia del principio (che è anche teologia), della gnoseologia, dell’etica (che è anche estetica), della pedagogia, e della filosofia della religione, il lettore del testo di M.P. Allotta avrà l’impressione di una sistematicità per argomenti, di una differenza metodica nello studio e nella proposta teorica; ma è impressione che presto cede il passo al riconoscimento dell’unità che sottende e che pervade il pensiero e l’attività di Romano, l’unitàderridianamente disseminata nei mille rivoli di vita vissuta che distinguonoimportanti temi della riflessione filosofica, il cui fondo rimane però fortemente connotato dall’indeterminato anelito al Bello. I mille rivoli così distinti, si ricongiungono nel potente fiume della passione – artistica, culturale, civile, esistenziale – dell’uomo Tommaso Romano. Dall’uno i molti e dai molti l’uno del frammento 50 (DK) di Eraclito, in cui la simmetria da ordine ad un divenire la cui bellezza può essere detta e cercata solo per frammenti. Il mosaico diviene così, con parola eraclitea, “cosmo”, e il mondo, col potente neologismo di T. Romano “Mosaicosmo”.M.P. Allotta, poi,a sua volta, fa mosaico del suo soggetto: la filosofia dell’ideatore del Mosaicosmo.
La tessera del mosaico, il modulo di pensiero che la Allotta isola e destruttura dal testo di Romano, diviene così frammento, residuo di qualcosa che continua ad esprimere la propria luce anche dopo essere stato infranto, scheggiato, per l’appunto, come le sch¬egge di Mosaicosmo cui allude l’autrice nel suo titolo. I frammenti dei presocratici, così valorizzati nella riflessione di Romano, hanno attraversato la storia, portano la parola, ma parlano soprattutto attraverso il mistero, concedono poco alla parola e molto al silenzio, il loro dire è antico, pensato sotto la suggestione di una visione sacra della natura, al di qua del dominio del logos scientifico e dell’avvento dell’impero della tecnica. Si pensi al riferimento al frammento di Anassimene, con cui si apre il volume VI (2007) della collezione del Mosaicosmo, intitolato Scolpire il vento, in cui l’aria, come physis e pneuma dell’universo, prefigura l’anima mundi platonica. La tessera musiva raccoglie così l’eredità del frammento.La tessera di mosaico può farsi anche aforisma, non di rado, infatti, Romano sceglie per la sua scrittura la forma aforismatica. Rispetto al frammento, scheggiato dalla storia, l’aforisma è breve per umiltà e per debolezza del logos umano. Come il frammento e la tessera anche l’aforisma allude ad un intero presupposto, ad un progetto da ricercare. Si esprime in poche righe concise, ma, a differenza del frammento, la brevità dell’aforisma è programmata e voluta, come a produrre un breve e intenso lampo di verità.Ma le tessere di Romano, queste “parti”, ritrovano nuova unità e vita nella ricomposizione proposta da M.P. Allotta, e ogni proposizione che il testo dell’autrice rivivifica è estrapolata dai testi di Romano.
La tessera è in rapporto geometrico-matematico al progetto. Allo stesso modo il Dio leibniziano del secondo capitolo del libro della Allotta, capace di un’infinita potenza di calcolo, prestabilisce in libertà l’armonia, la coerenza e la bellezza del Tutto. E’ il Leibniz dell’anti-meccanicismo e dell’anti-fatalismo, il Leibniz critico di Spinoza. Così libertà e bellezza sono i caratteri che Dio, come origine ed essere immutabile, conferisce al creato. Al centro del creato, e non del Tutto, l’uomo e il suo spirito libero, l’uomo gravato del fardello della libertà che è heideggerianamente l’unico essere per cui ne va del proprio essere, l’unico vivente chiamato dalla luce dell’essere a soggiornare nella radura dell’essere e a rispondere a questo Geheiss. Il secondo capitolo è così l’ambito dell’antropologia e dell’etica, oltre che della cosmologia e della cosmogonia.
Ma la tessera del mosaico ha un valore metaforico che abbraccia anche il significato dell’esistenza personale, la psicologia, l’etica e la relazione dell’individuo con l’assoluto, nella storia del mondo. Scrive Maria Patrizia Allotta nel Proemio: «E se è vero che per percorrere itinerari straordinari che condu¬cono alla contemplazione della bellezza necessita la cura della pro¬pria interiorità, allora ogni uomo, probabilmente, potrebbe trovare giovamento grazie alla lettura e all’interiorizzazione dei contenuti esposti nelle Sue opere saggistiche, anche se il corpus dottrinale e pedagogico del pensiero romaniano lo rintracciamo nei dodici volumi che formano la Collezione del Mosaicosmo, tutti editi dallo storico Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici che rag¬gruppano saggi e interventi curati nell’arco del tempo. Finestra sul Cassaro (1996), Pellegrino al pellegrino (1998), Torre dell’Ammiraglio (2002), Oro del Mosaico (2004), Il fare del¬la bellezza (2006), Scolpire il vento (2007), Itinerari metapoliti¬ci (2008), La colonna e il mare (2009), L’Anima della Tradizione (2010), Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere (2011), Mosai¬cographia Siciliana (2012), Il sismografo e la Cometa (2014). È in questi volumi che si rintraccia “non una filosofia, né un sistema organizzato ma un umile cammino eternamente proteso verso l’ir-raggiungibile perfezione, una via ancora da spianare” attraverso la quale lo scrittore “tenta la non contraddizione con se stesso, con gli altri e con Dio”.Il neologismo Mosaicosmonasce “dall’identificazione della tessera del mosaico con la sintesi simbolica che la vita dell’uomo sviluppa nei suoi atti, nella sua coscienza, nella profondità del suo essere unico. È una rammemorazione che nel mosaico dell’Univer¬so non si perderà, nel nulla, l’attesa unicità dell’evento esistenziale che si perpetua come rinnovamento dell’umano e come perennità dell’anima in questa dimensione musiva, rappresentazione corale del concetto degli spiriti, di tutti gli spiriti nessuno escluso, che con gradazioni e intensità diverse collaborano a formare la catena che non si spezza tra vita e oltrevita fra mondo e cosmo, fra terreno ed Infinito”, come lo stesso autore attesta.»(p. 7).
La scelta del metodo di questa filosofia è allora molto chiara, il gesto decostruttivo dell’autrice, che fa materia dello spectator, anche. Il progetto che nel medioevo cristiano articola il mosaicoa carattere religioso, ed esempio nelle cattedrali siciliane di epoca normanna, negli intendimenti dei maestri bizantiniaffonda le radici della sua ispirazione nella sacralità inconoscibile di Dio e della physis: il mosaico di fronte al quale si pone lo spectator è opera abissalmente più che umana. A questo proposito è utile ricordare che l’odierno operare tecnico, risultato in parte alienato dell’operare artistico, deve tempestivamente riconquistare umiltà di fronte alla trascendenza e alle forze naturali. Nell’opera d’arte invece, comeHeidegger ciricorda, l’operare tecnico, in quantotechne, mantiene ancora questa umiltà di fronte alle forze della natura. L’antico ed il medievale sono così stretti e alleati, in atteggiamento critico, di fronte al moderno, in una considerazione della storia che si rifà alla tradizionee parla alla cultura europea dei suoi urgenti problemi di oggi. La teoresi filosofica, lo studio della storia e l’attività politica trovano così una profonda coerenza.
Magicamente, il senso estetico e l’attività poetica operano all’unisono con tutto questo, come se si potesse attraversare con disinvoltura piani, registri, tradizioni di saperi e attività artistiche,facendo sempre la stessa cosa: aspirare al bello. Come se si potesse…anzi si può. Così rintracciamo il forte platonismo del pensiero di Romano in cui l’anelito al bello è trascendenza. Pensiero in cui, platonicamente, aspirazione al Bello e tensione etica al Bene, come si vede chiaramente nel sesto capitolo della ricostruzione di M.P. Allotta del testo di Romano, non si distinguono. E viene citato il Filebo: «Non c’è dubbio che la sottovalutazione della bellezza è anche la sottovalutazione del bene. Dice Platone: “La potenza del bene si è rifugiata nella natura del bello. Infatti, la misura e la proporzione vengono a realizzare ovunque la bellezza e la virtù”. Questa affermazione è fondamentale rispetto al principio che ogni “scheggia di bellezza e di bene” è una micrototalità in cui rin¬tracciamo la “possibilità” dell’esistenza autentica. Tale “possibilità” è appunto opportunità, e siccome la bellezza è questa ragione del bene, questa stessa bellezza deve realizzarsi per la concretizzazione del bene.»(p. 51). Così ogni singola “scheggia” di bellezza e di bene, fuor di metafora, ogni singola esistenza individuale, ha in se quella luce conferitagli dal principio; essendo capace di scelta libera e responsabile, essa ha la possibilità di un’esistenza autentica, di portare a buon fine la creazione divina. La scelta, biblicamente prima e heideggerianamente poi, è assoluta bivalenza fra autenticità e inautenticità, fra accoglimento della luce dell’essere e risposta alla chiamata da un lato, e rifiuto della luce e mancato ascolto della voce dell’essere dall’altro. La “scheggia” così, l’equivalente decostruitoin stile derridiano dalla Allottadella “tessera” musiva di Romano, è una “micrototalità”, una parte che riassume in sé il tutto, il granello di sabbia di William Blake in cui si vede un mondo, ed è naturalmente la geniale monade leibniziana, principio di vita infinitamente piccolo che contiene l’intero universo. Il cosmo, composto dalle tessere vive delle esistenze individuali, è così un mosaico vivo, un’orchestrazione di spiriti prima che di materia e corpi. Spiriti chiamati a contribuire alla creazione dell’Opera, con la loro vita, coi loro atti deliberati.
Da qui, dalla necessità, nell’economia del tutto, di ogni singola esistenza e di ogni singolo atto libero della vita di ciascuno, il senso di Romano per la storia. Storia della salvezza ma anche storia delle vicende umane di cui il grande Mosaico raccoglie il senso. E’ così che nella visione di Romano, proposta da Allotta tramite la sparizione dell’autrice dietro il metatestori-strutturato del suo soggetto, l’esistenza viva e il suo senso si conservano oltre la vita, e il Mosaicosmo è come la grande scrittura, la registrazione in gerarchica armonia della Historia Mundi. Il senso della storia diviene così senso della tradizione, perché la tradizione è la memoria dell’uomo nel mondo, e il senso della tradizione può volere dire in Romano, coraggiosamente, ancherifiuto della modernità, rifiuto di un razionalismo antropocentrico che fa a meno di Dio e celebra i fasti di uno scientismo nichilista che desacralizza ogni cosa.  Allora la tradizione può diventare la chiave di un progresso che non sia esclusivamente progresso tecnico, scrivono Romano e Allotta: «Recuperando l’autentica Tradizione, come radice e come pos¬sibilità di sincera renovatio, garanzia dell’autentico progresso. Sa¬pendo che senza radicamento, v’è lo smarrimento, la dissociazio¬ne, la paura e la violenza, l’atto gratuito, il delirio di onnipotenza travestito, a volte, da superomismo inconsistente. Cogliendo nel sacro, inteso come epifania permanente, il sen¬so di ogni cosa, fatto, avvenimento che ricolleghi alla dimensione spirituale e cosmica, il tassello musivo che è la nostra esistenza. E. Quindi. A Dio.» (p. 35).
Così il senso della storia e della tradizione, così come la concezione della storia e del mondo come Mosaicosmo, spingono ad una politica in cui le finalità dell’agire siano ispirate dall’identità fra il bene e il bello.La città felice, anche platonicamente, deve essere la città in cui ogni singolo atto umano deve essere conformato alla cooperazione per la costruzione di un’opera d’arte, un mosaico di atti e di esistenze che sostanzia nella sua eterna bellezza la correttezza e la bontà degli atti stessi. Così, col Platone della Repubblica e il Leibniz della Monadologia, la polis felice è la polis in cui gli spiriti sono gerarchicamente ordinati secondo la loro essenza naturale, un’essenza – si badi bene – che essi stessi si danno coi loro atti liberi e che non viene impostaa priori da nessuno. Così la politica, il cui fine è la felicità degli spiriti e il cui compito più importante è la formazione della virtù tramite l’educazione, nasce, e non può non nascere, dal senso della storia, in questa accezione “mosaicosmica”. E la visione del sacro, in politica come in bioetica, non può che chiedere lumi al diritto naturale, all’idea cioè che il creato, nelle sue forme fisiche e biologiche, è portatore di indicazioni inaggirabili riguardo ad un agire tecnico-scientifico rispettoso del nostro essere e dell’ecosistema che ci sostenta: le leggi dell’essere sono già scritte nell’essere, opporsi ad esse è follia e delirio di onnipotenza. L’uomo non è Dio, scrivono Romano e Allotta (p. 55) contro certe etiche utilitaristiche e contro certo positivismo scientista pericolosamente miope, ma pellegrino errante che deve sopportare l’esilio e la diaspora con virtù eroica, che affronta il cammino verso l’approdo con stoica resistenza al dolore. Naturalmente il tradizionalismo non è chiusura, ma riflessione consapevole di fronte alle nuove urgenti problematiche di una società così plasmata dal consumismo, dall’impero della tecnica, dalla rivoluzione informatica e così allo sbando per mancanza di guida politica e di ispirazione etica, quasi ad ogni livello del sistema. Scrive Romano: «La critica alla modernità, l’antimodernità e lo stesso post-moderno tradizionalista, non è incapacitante esotismo d’isolati e fieri reazionari, d’intransigenti individui fuori dal tempo, di curiosi soggetti impermeabili agli “immortali principi”, ma una lucida e impellente necessità per trovare la forza, le idee e la fede onde reagire alle barbarie» (Collezione del Mosaicosmo 12, 2014).
Così, per fare due esempi scottanti, se la crisi politica e morale ci colpisce così fortemente a livello nazionale ed europeo, questa filosofia che trova i suoi autori e i suoi valori fondanti nella storia europea, fin dalle origini greco-romane e giudaico-cristiane, può parlare dei problemi che affliggono oggi l’occidente. Il senso dell’arte, l’anelito al bello, come pienezza dell’essere e pienezza di vita di cui gli artisti sono protagonisti, diviene un exemplum da seguire nella cultura del consumo, del nichilismo e della bruttezza morale. Ma anche nella storia europea esistono esempi di eroica virtù, di difesa del sacro, di rispetto della trascendenza come essenza radicale dell’uomo, e di difesa identitaria, che possono costituire, e nei testi di Tommaso Romano costituiscono, lumi di civiltà per l’Europa di oggi. Il riferimento di Romano, non è un balzo inopportuno, è agli occhi del Cristo Pantocratore dei mosaici di Monreale in Oro del Mosaico (Collezione del Mosaicosmo 4, 2004), la cui genesi artistico e il cui contesto storico sono portatori di tre fondamentali suggestioni, legate fortemente fra loro, che l’eclettico immaginario delle opere di Romano raccoglie: la Sicilia, il Medioevo e il Cristianesimo. Intendo il RegnumSiciliae, al cui significato Romano dedica il suo profondoimpegno di storico, così legatoalla militanza cristiana da cui nacque il Regnum e che al Regnum restò sempre legata. E’ questo uno dei tesori culturali della denigrata civiltà medioevale, così importante per quei valori cavallereschi che sono certamente radici fondanti dell’Europa contemporanea e che possono divenire nuova ispirazione etica per i popoli europei. Perché la “militanza” è implicita nel concettostesso di cristianesimo, visto che,come ci ricorda Kierkegaard in Esercizio del cristianesimo, il cristianesimo non deve essere mai“trionfante” ma sempre “militante”, pena la perdita della sua linfa vitale, nel senso che il cristianesimo non si esercita come ammirazione distaccata che esalta Cristo e proclama il trionfo della chiesa, ma nella Sua imitazione, nel farsi carico della sofferenza che Lo segna, in contemporaneità con Lui.
Un tale complesso, variegato ma coerente e valido pensiero è ora lo spectaculum di fronte cui si pone, e che ci restituisce, M.P. Allotta col suo libro: lo spectator, in questo lucido e creativo sforzo interpretativo per composizione, è ora dentro il mosaico, in un giocometatestuale di rimandi senza fine, come è per lo scintillìo di luce che fugge rapido di tessera in tessera, nei racconti dei mosaici d’oro delle cattedrali normanne di Sicilia.

mercoledì 15 aprile 2015

IL GIGANTE CONTROVENTO (Gino Pantaleone) - SCS

di Mario Grasso
 
UN LIBRO PER FORMARE COSCIENZE ANTIMAFIA
 
Una curiosa riflessione, la mia, nell’accingermi a una scheda di lettura del libro di Gino Pantaleone (Il gigante controvento – una vita contro la mafia – con prefazione di Lino Buscemi, postfazione di Tommaso Romano e un contributo di Carlo Marchese), che non mi sembra del tutto peregrina dal momento che pone a carico della grafica di copertina del denso studio dell’autore, i segni definitori-definitivi della ricerca, e il suo obbiettivo. Anzitutto il titolo e il sottotitolo come traccia e specificazione: “Il gigante controvento”, quindi le tre sintesi di Tommaso Romano, Carlo Marchese e Lino Buscemi, come viatico per un’opera insolita nell’universo della pubblicistica tra realtà storica, costume e contingenze. Tommaso Romano dice: “(…) Gino ha certamente ripercorso in interiore homine il suo personale e fecondo viaggio di liberante verità che si è fatta imperiosa, civilissima necessità”. Nel climax dei tre significanti finali cogliamo quanto ci verrà puntualmente confermato dalla lettura dell’intero denso volume (pagg.336 - € 18,00 Spazio Cultura Edizioni, Palermo). Inoltre il quadro di copertina di Pippo Madé, che ne didascalizza agilmente la drammatica e sconvolgente metafora, in calce alla quarta di copertina in bandella del libro. Una grafica che esalta la genialità di Francesco Villa che la ha concepita e realizzata. In altre parole un volume che informa e conquista il lettore fin dall’involucro destinato alla vetrina del libraio.
E va bene. Ma come spiegare l’esito della ricerca di Gino Pantaleone? Le recensioni librarie tendono quasi sempre a cogliere o le parti che siano gratificanti per la fatica dell’autore, o quelle che ne illuminano carenze, o momenti non congeniali al gusto del recensore. Consuetudini che per questo saggio di Gino Pantaleone non esistono e non possono essere invocate, per il semplicissimo fatto che l’autore in trama tutto con il filo dei fatti certi e documentati. Se ci fosse consentito ricorrere a una locuzione definitoria diremmo che i fatti ripescati per questo libro sono, possono e debbono essere definiti di “chiara fama”. Ma a patto di aggiungere alla locuzione, che adoperiamo per evidenziare una credibilità acclamata e condivisa, un imprescindibile aggettivo qualificativo: nascosta. Un moto spontaneo di cattiveria interiore in chi scrive questa nota farebbe aggiungere che quando ci si riferisce a qualcosa di nascostosi tira in ballo, volenti o nolenti, qualche complicità. Perché chi nasconde ha comunque, sempre un peculiare interesse a nascondere. Ed ecco la chiara frase che abbiamo evidenziato dalla sostanziosa postfazione di Tommaso Romano “imperiosa, civilissima necessità”. In un Paese civile non può essere consentita che una verità rimanga celata perché qualcuno abbia interesse a farla ignorare ad “altri”
      E siamo nel cuore del saggio di Gino Pantaleone, un’opera che rende giustizia a un gigante della operatività culturale e del coraggio civile e politico, in tempi di privazione di questi beni, imprescindibili per una sana civiltà. Aggiungerei, alle puntuali valutazioni di Romano, Marchese e Buscemi, una deduzione a mo’ di sillogismo: potremo misurare il grado di civiltà raggiunto dal costume politico del nostro Paese dall’interesse concreto che sarà operativamente dimostrato dai responsabili nei confronti di questo studio scientifico di Gino Pantaleone. L’esito di una ricerca che, per la sua funzione di informazione e formazione civile, dovrà essere adottata in tutte le scuole dell’obbligo. Tale realizzazione segnerebbe l’intenzione del “Potere” rivolto finalmente a scalzare dalle fondamenta il continuum della mafia. Perché fino a quando il caso unico di Michele Pantaleone, perversamente destinato a rimanere ignorato dalla ufficialità di Stato, non sarà portato a conoscenza di tutti e prescelto a modello di informazione sulla realtà della mafia e delle sue componenti vitali, non si potrà affermare che la lotta alla cancrena criminale di questo fenomeno, ormai secolare, abbia avuta inizio. Non si può educare contro la mafia senza conoscere la verità su come, il suo sopravvivere a tutte le lotte contro, sia stato agevolato da connivenze politiche e persino di Stato.
Gino Pantaleone ha condensato nel suo benemerito lavoro sul tema mafia un vero e proprio universo pertinente. Non ci sono divagazioni nel documento costituito da “Il gigante controvento”, ci sono “fatti”, c’è quello che i latini definivano “Onus probandi incumbiti ei qui dicit”. Gino Pantaleone “dice e prova” nello stesso tempo; non solo: riesce persino a trattenere, con esemplare stile di saggista rigoroso che evita il parenetico, la propria indignazione al momento di didascalizzare episodi tratti dalle cronache e da tantissimi altri documenti ufficiali. Basterà ponderare con razionale analisi quanto c’è di amaro e deludente nel paragrafo “Una condanna politica postuma” (cfr. pag. 304).  In altre parole, il libro, pagina dopo pagina ripercorre il “Caso Pantaleone” come fosse un filmato le cui immagini sono altrettanti fatti di cui vengono presentati al lettore protagonisti, risvolti celati, cause, effetti, e lo sforzo costante del Gigante controvento nel suo illuminare con la torcia del proprio coraggio l’intera scena. Michele Pantaleone infatti nelle sue inchieste non si limitava a descrivere fatti e protagonisti collegati agli eventi criminali della mafia, ma si spingeva oltre, fino a farne nomi e cognomi, fino a riportare i recapiti telefonici per certi specifici casi nei quali il coinvolgimento di importanti istituzioni politiche, finanziarie o di altro genere, responsabilizzavano la sua coscienza a fronte del pubblico destinato a prendere atto delle denuncie.
Ma torniamo al metodo e alla struttura del lavoro svolto da Gino in “Il gigante controvento”. Gino ha concepito un ordito che possiamo intendere identificandolo ( a mio sentire) in una locuzione tematica. Tutto su Michele Pantaleone e su tale denominatore ha collocato la trama costituita da quanto possa essere il più esaustivo resoconto, servendosi di dati inoppugnabili come i  documenti pubblici e di archivii. A cominciare dagli antenati di Michele e, via-via, a risalire fino al protagonista Gigante. Una integrazione doverosa, si può e deve dire, e non a caso:  al lettore non sfuggirà l’impronta di coerenza allo “stile” di una stirpe, mano a mano che prende conoscenza delle scelte dell’intellettuale che destinava la propria vita alla lotta contro la mafia. Seguono, capitolo dopo capitolo, illuminanti sinossi delle inchieste giornalistiche e dei poderosi saggi di Michele, pubblicati da Einaudi, Cappelli e altri grandi e piccoli  editori. (a conclusione anche l’elenco completo degli scritti di Michele Pantaleone)
Come contrappunto integrativo i percorsi politici di Michele deputato, politico, impegnato in prima fila con la linea Socialista,  accanto ai suoi rappresentanti primari del tempo. Preziosi documenti le foto che ritraggono Michele con Pietro Nenni e altre personalità di prim’ordine di quegli anni. Il climax dei repachages delle testimonianze viene, inoltre. arricchito da fotocopie di documenti, manifesti, autografi, immagini, con un rigore di scelta  adeguata alla essenzialità più consone alla destinazione del libro. Insomma, non si può che dare atto a Gino Pantaleone di avere collazionato un esemplare mosaico, nel quale qualsiasi lettore, quale che sia la sua estrazione culturale,  potrà leggere con profitto tre quarti di secolo di storia di una parte della Sicilia e (per riflesso) dell’Italia intera, attraverso la biografia ragionata e (insistiamo) documentata di un cittadino che si è destinato al ruolo di personaggio scomodo della realtà civile e politica del Paese. Michele Pantaleone rivive tra le dense e coinvolgenti pagine di questo volume, con tutto il carisma della sua personalità di politico e di sociologo, di siciliano dalle istanze culturali cosmopolite, di scrittore al servizio della verità, della liberazione della propria regione dalla cancrena mafiosa.
Resta adesso a carico della responsabilità morale civile e politica di chi ha a cuore le sorti del domani, accogliere questa occasione editoriale per destinarla alle istituzioni culturali del Paese preposte alla educazione delle nuove generazioni, dalle elementari alle Medie alle Superiori, dove la lotta alla mafia non sia una astratta e convenzionale informazione di passaggio ma una documentata informazione costante e continua. Forse più che periodici rinnovi di Commissioni antimafia sarebbe da meditare sulla maggiore raccolta di frutti da una formazione civile delle nuove generazioni, alle quali far conoscere la storia di chi ha lottato la mafia fino al punto di restarne vittima. Questo libro di Gino Pantaleone contiene tutti i requisiti per far capire che non ci sarà nulla da capire fino a quando la lotta alla mafia sarà condotta da chi è compromesso con la mafia.

La poesia di Tomas Trantrsomer, Premio Nobel per la letteratura 2011. Qualche corrispondenza negli autori italiani.

di Cinzia Demi
 
La poesia di Tomas Trantrsomer, Premio Nobel per la letteratura 2011.  Qualche corrispondenza negli autori italiani.
Introduzione: quando, lo scorso anno, in occasione del “Toscana Nordic Festival” Riccardo Baldelli, l’organizzatore, mi ha proposto di parlare della poesia scandinava mettendola in relazione con quella italiana, non ho avuto dubbi per la scelta del poeta svedese di cui parlare: chi meglio dello svedese Tomas Transtromer, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 2011, può essere indicato a rappresentare la schiera di poeti scandinavi del XX° secolo? Oggi, a pochi giorni dalla morte del poeta, scomparso il 28 marzo 2015, mi sembra opportuno poter proporre anche al grande pubblico del web questa mio lavoro sulla sua opera.
L’idea nasce comunque dal fatto che, in fondo, per un poeta, un critico, è un’opportunità di approfondimento di un mondo poetico diverso da quello in cui opera di solito, vuoi per tematiche che per stili formali. Si potrebbe dire che è una sfida a cercare di capire, a cercare di calarsi empaticamente nella poetica di un autore il cui operato è passato alla storia, la cui fama resterà immortale, il cui pensiero è studiato e le cui opere sono tradotte in oltre cinquanta lingue mondiali.  Quindi, grazie all’aiuto delle traduzioni e dei testi che accompagnano i lavori di Transtromer cercherò di darvi anche una mia visione sulla sua poesia comparandolo alle poetiche di qualche autore italiano. Lungo il percorso che affronteremo vedremo quindi se ci possono essere tematiche di confronto, o modalità linguistiche analoghe espresso con la poesia italiana, limitandoci a qualche breve cenno. E in conclusione approfitterei di questa iniziativa, che mi si offre, per presentarvi qualche mio testo, leggervi qualcosa di mio.
Biografia e radici poetiche: dunque, Tomas Transtromer nasce a Stoccolma nell’aprile del 1931 e vive nella sua infanzia un particolare rapporto affettivo coi nonni materni, specie col nonno che è pilota di rimorchiatori nel Baltico. Di loro e dell’ambiente della natura svedese di quei luoghi si trovano molte tracce nelle sue poesie, così come della sua professione di psicologo e dei suoi innumerevoli viaggi all’estero. Dopo la laurea alterna il lavoro all’attività letteraria e vive soprattutto a Vasteras. Transtromer è anche un pianista di talento e compositore, e anche di questa sua peculiarità si trovano tratti nei suoi testi. A predominare la poetica degli ultimi suoi scritti è tuttavia la dolorosa esperienza della malattia, che lo colpisce nel 1990 e che limita i suoi movimenti e il suo parlare, e dalla quale stenta di riprendersi, cercando di affrontare una vita pressoché normale, grazie anche all’aiuto della moglie.
La sua prima raccolta è del 1954 s’intitola 17 poesie ed ha subito un grande successo e l’ultima è del 2004, Il grande enigma. Il consenso per la sua opera è universale sia per il suo valore intrinseco sia per la sua grande attività di traduttore, avendo tra l’altro fatto parte della Commissione per la traduzione della Bibbia. Brevemente, prima di passare a parlare del lavoro La lugubre gondola, un lavoro del 1996, riedito in Italia nel 2011 dalla Rizzoli in occasione del Premio Nobel all’autore, diciamo due parole sulle radici della sua poesia che sono state ritrovate sia nei lavori classici che nella mistica medievale, nella metafora barocca e in alcun tratti romantici, nel simbolismi e nel surrealismo e naturalmente in alcuni grandi autori svedesi e altri stranieri contemporanei del ‘900 come Baudelaire, Pound, Eliot. Per le sue liriche si parla di Modernismo e non solo in relazione alla tecnica ma anche per l’attenzione alla natura, al rispetto per la vita, per il profondo senso della storia e per una religiosità tali,  da far sentire al lettore la forza e l’umanità che emergono dai suoi testi. Transtromer universalmente riconosciuto un grande poeta, ha avuto così infiniti riconoscimenti per il suo operato tra i quali – come detto – il più importante riconoscimento per un autore, il Nobel nel 2011.
La lugubre gondola: la raccolta di cui andiamo a leggere qualche testo e a parlare è La lugubre gondola – titolo ripreso da due composizioni di Franz Liszt, composte a Venezia nel 1882/83 ispirate al passaggio delle gondole funebri dirette al cimitero -. Chiaramente sembrerebbero riflessioni sulla vita e sulla morte. Transtromer è ormai anziano, segnato nel fisico dalla malattia e ad una prima lettura si potrebbe pensare che si tratti anche solo di questo tipo di riflessioni. Ma non è solo così. La poetica di Transtromer non è una poetica che si rassegna di fronte agli accadimenti della vita, limitandosi a constatare l’andamento degli stessi.  Qui, in questa raccolta, lo stile, l’intreccio delle tematiche e la continuità del suo pensiero sono particolarmente evidenti e significativi.
Vediamo come… Chiaramente la raccolta è ambientata a Venezia, luogo ideale d’ispirazione per scrittori e musicisti, peculiarità riscontrabili entrambi nel nostro autore, e al tempo stesso peculiarità entrambi riscontrabili nell’opera in questione, tanto da farla definire da alcuni un’opera che sembra letteratura scritta per pianoforte, con frasi che hanno il sapore di accordi musicali. Una letteratura del viaggio… dell’ultimo viaggio che tra note e parole manifesta frammenti del mistero, dell’ignoto: una possibilità espressiva che non trova uno sbocco solo, ma ha bisogno di più forme che si compenetrano per trovarne una adeguata. Nello scenario quasi irreale che offre Venezia, città sull’acqua, viene al poeta facile il paragone con la precarietà della vita: un pensiero di sprofondamento della città diviene l’annegamento anche della vita nelle acque della laguna. Il mare, come la morte, divengono elementi pronti a sommergere, a travolgere, a far sprofondare nell’abisso l’umanità tutta e sembra quasi che, al contempo, lo stesso luogo induca a raccontare come l’uomo tenti invano di nascondersi dietro le maschere della propria identità… non a caso ci sono senz’altro riferimenti al Carnevale, che a Venezia trova una collocazione di primo piano tra gli eventi della città. Ecco allora che il viaggio su questa gondola dai caratteri lugubri appare anche avvolto in una dimensione di fuga, forse unica via d’uscita per ritrovare un senso alla vita: parrebbe un messaggio politico, nel senso ampio della parola, un messaggio dove – oltre ad indicazioni a fatti o accadimenti di attualità – ritorna forte la denuncia verso una società che ha privato l’uomo di naturalezza, una società che ha basato tutte le sue strutture in funzione del potere, in direzione molto speso solo di un ipotetico futuro che mai sarà raggiunto… ma noi lettori, se insieme al poeta ci adagiamo sulla lugubre gondola, sentiamo la possibilità di scivolare sulle acque incontro al mistero, con la sensazione quasi di afferrarlo. E’ la magia della dimensione poetica che nell’arte del rovesciamento di prospettiva porta l’uomo a immergersi anche nel dubbio, nella possibilità di vivere un’esperienza che non sia solo tangibile in risultati concreti, ma faccia immergere il pensiero in qualcosa di religiosamente profondo.
L’opera di questo poeta è stata tradotta, come dicevamo, in oltre 50 lingue. Certo alla base c’è il suo amore per la poesia e l’uso di questo linguaggio per comunicare, ma anche l’uso di una lingua che cerca questa comunicazione (vedremo in che modo). Tra l’altro, osservazione molto interessante e che condivido, egli ha anche detto che in fondo ogni lettore ha la sua lingua e che in questa sua lingua traduce la poesia che legge, adeguandola al suo ambiente, al mondo della sua fantasia. Ad uno stesso testo corrispondono così diverse poesie, forse tante quanti sono i lettori: si tratta di un atteggiamento di generosità letteraria non indifferente e di un compito molto gravoso per un eventuale traduttore, che deve stare attento a non sciupare la possibilità del lettore stesso di essere libero di interpretare, a modo suo, il testo.
La poetica: affronteremo adesso qualche nodo della poetica di Transtromer, chiaramente toccandone qua e là alcuni punti focali e con la consapevolezza dell’impossibilità di essere esaustivi, in questa sede:
1) Spunti poetici: parla Transtromer di necessità di spunti poetici, anche in relazione alle modalità comunicative… cosa vuol dire? In realtà è un concetto che condivido molto perché  rientra proprio nell’accezione della parola poetica così come io la intendo e del concetto stesso di poesia. Dice Transtromer che la parola intesa come elemento che organizza la percezione delle cose e che costruisce le tecniche comunicative non rientra nel discorso legato alla poesia. La poesia è un luogo d’incontro, un luogo dove si stabilisce un legame inatteso tra la realtà, le sue parti e le lingue e i modi convenzionali di vederle che tendono ad essere separati. Ecco che laddove:
-          i dettagli incontrano le culture,
-          uomini di diverse culture creano opere artistiche,
-          la natura si incontra con l’industria…
si creano legami…in tutto questo se è vero che usiamo la lingua per comunicare, se è vero che è la lingua il mezzo che fa da tramite per relazionare convenzionalmente gli accadimenti, spesso ci accorgiamo che, certe volte, questo non basta, anzi rischia di stroncare la comunicazione sul nascere… la poesia invece che nasce da stimoli esterni meditati, più che da strategie comunicative, rende conto nel miglior modo possibile di molti aspetti della vita. Il lavoro del poeta, e sottolineo la parola lavoro che sento mia, che mi appartiene,  utilizzata intorno al concetto di poesia,  è quello di far emergere i frammenti colti dalla realtà, rivestirli di immagine, suono, ritmo…ovvero di poesia creando un insieme vero e non falsificato di ciò da cui era partito. Poesia come luogo d’incontro di immagini e simboli in forma non statica ma dinamica per dare all’uomo la possibilità di ritrovare se stesso tra riflessione e attesa, tra apertura e stimoli, prudenza e riservatezza. Poesia dove il legame con la quotidianità non significa arrendersi alla routine e di conseguenza al linguaggio convenzionale, ma capacità di leggere dietro la forma delle parole la vita vera che è semplicità, essenza, e obiettivo della forma stessa.
2) Concentrazione: un altro elemento che caratterizza la poetica del nostro autore è quello che riguarda il tema della concentrazione. Le sue poesie diventano semplici e perfette descrizioni per riflessioni che aderiscono perfettamente alle immagini/sensazioni evocate per una massima concentrazione, intesa dal poeta come l’essenza stessa della poesia. L’arte così intesa, ovvero come forza espressiva e concisa  non può non ricordarci grandi modelli novecenteschi quali Pound e Elliot di cui abbiamo già detto troviamo molti echi nei testi di Transtromer. Ma, al contempo, passando per la prosa poetica di cui spesso fa uso e nella quale comunque egli mantiene alto il livello che si è imposto relativo alla concentrazione, egli raggiunge una tale dimensione in un modello che è di per se una forma poetica concentrata al massimo, un modello che sembra essergli davvero congeniale e che è quello dei componimenti haiku. Qui la poesia esprime davvero ciò che nella filosofia giapponese viene indicato con un termine che significa comprensione intuiva, illuminazione: ovvero una conoscenza che oltrepassando i confini della logica superi lo spazio e il tempo. Esperienza permessa grazie all’uso di questa forma poetica che diventa un’arte dell’allusione, un’arte che permettere di trasformare in conoscenza una situazione oggettiva grazie all’uso di una lingua che traduce elementi concreti in esperienza immediata. E Trasnstromer ne fa largo uso, ne leggeremo alcuni. Ma anche laddove la poesia assume una forma più classica e comune nulla vi è di superfluo: i versi sono asciutti e scarni con una tecnica che tende dunque a delineare, a tradurre in linee e traiettorie quasi geometriche i pensieri e leggendo come abbiamo detto alcuni suoi testi lo vedremo molto bene. Con questi mezzi il poeta compie delle vere e proprie indagini metafisiche, sui misteri dell’esistenza e partendo da elementi della quotidianità volge la sua costante attenzione verso una dimensione altra, attraverso l’assoluta chiarezza di immagini unita al forte senso della transitorietà.
3) La chiarezza di immagini va rapportata naturalmente agli strumenti retorici che utilizza, in specie alla metafora e alla frequentazione del tema del sogno, mentre il senso di transitorietà si sviluppa principalmente con la frequentazione del tema del viaggio.
 
a) Metafora: relativamente all’uso di questo strumento, universalmente, il poeta è riconosciuto un maestro e si potrebbero fare tantissimi esempi. Vediamone alcuni:
1) ONDE COME PALLIDE/LINCI, CHE INVANO CERCANO UN APPIGLIO SULLA RIVA GHIAIOSA
2) QUANDO L’ANNO GETTA VIA GLI STIVALI CON UN CALCIO,/E IL SOLE SI ARRAMPICA Più IN ALTO, GLI ALBERI SI COPRONO DI FOGLIE/E SI GONFIANO DI VENTO E VELEGGIANO VIA LIBERI.
3) L’ANIMA/ SFREGAVA CONTRO IL PAESAGGIO COME UNA BARCA/ SFREGA CONTRO IL PONTILE A CUI E’ ORMEGGIATA.
Alcuni critici affermano che quanto è più lontana la distanza tra i campi semantici cui si attinge per formare una metafora, tanto più questa è efficace e questa è davvero una capacità del nostro autore che attingendo dal Surrealismo per l’audacia con cui usa la lingua promuove un assoluto e personale modernismo. All’uso della metafora Transtromer aggiunge spessissimo l’uso di uno strumento analogo, la similitudine, riconoscibile per la presenza del marcatore som, in altre parole il come italiano. Così, se con la metafora il legame che si crea tra la parola e l’immagine è visivo, questo trascende verosimilmente nella similitudine e quindi nel sogno, così come nello specchio non solo per riflettere le cose quanto per catturarne la natura più autentica. Ecco come anche la metafora si lega al metodo della focalizzazione centrando il punto e il momento in cui l’oggetto poetico vive in quanto tale, fermandone l’immagine, rivelandone l’identità e ciò che vi sta dietro ovvero la sua essenza. La metafora va a riempire un vuoto inteso come apertura per una conoscenza superiore e non come assenza di qualcosa.
b) Sogno: Ora, se La vita è un sogno - come direbbe Calderon de la Barca – anche la poesia per Transtromer si inoltra spesso nell’inconscio della personalità umana – non dimentichiamoci anche la sua attività di psicologo – andando ad esplorare proprio il sogno.  Questo elemento diventa spesso una sorta di despota nei confronti dell’uomo: è il sogno che domina il sognatore e che diventa il centro dell’attenzione – e quindi torna anche il discorso della concentrazione del poeta -. Il sogno sta alla poesia come la poesia sta all’io del poeta: è un mezzo ed è anche una meta vicina alla verità su se stessi, sulle cose della vita, sull’interazione tra l’uomo e i misteri dell’universo. Dice in un verso, il poeta: “Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro,/una viene da fuori/e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi.”
c) Viaggio: Ora, oltre alla chiarezza di immagini della quale fanno parte, come detto, la forma retorica della metafora e gli elementi di contenuto come il sogno, abbiamo accennato allo strumento della transitorietà che si sviluppa con il tema del viaggio e dall’intersezione di elementi quali il tempo e lo spazio… Il discorso intorno al viaggio possiamo risolverlo:
a) con la sensazione della dissolvenza che spesso accompagna le immagini: nel  momento stesso in cui vengono descritte esse mutano perché la loro consistenza è appunto transitoriala metafora del viaggiatore – di colui che intrattiene con la realtà solo un legame temporaneo (che poi è il rapporto dell’uomo con la vita) – è un altro tema caro a Transtromer. 1) le sue poesie prendono spesso spunto da situazioni in movimento….2) da luoghi, da momenti – come detto anche per il sogno – dove la situazione del quotidiano è sospesa e, di conseguenza, vi è un certo distacco o ancora una certa attesa.
b) E’ qui – in questa peculiarità del viaggio - che l’uomo va incontro al mondodiversamente invece dal sogno dov’è il mondo dell’inconscio ad andare incontro all’uomo stesso -. Indagine e pensiero, ricerca sull’uomo che ancora una volta necessità di concentrazione anche per intersecare questa visione della vita come viaggio con le soste necessarie, punto di quiete transitoria, punto da poter considerare metafora anche della malattia (data anche la situazione del poeta, in questo senso). E allora pensiamo, con Transtromer, al sogno e alla malattia come situazioni che allontanano l’uomo dalla realtà consueta e lo spingono verso i confini più estremi, verso l’idea della morte. D’altra parte il distacco necessario per avvicinarsi alla dimensione altra/estrema – o meglio la distrazione necessaria per farlo – e le soste o gli incontri inattesi del viaggio stesso sono le due condizioni indispensabili per lo spazio e il tempo della riflessone che tende a raggiungere un centro… un centro che si sposta continuamente nel momento stesso in cui si procede con l’indagine artistica. E lo vediamo dalla simbologia, dalle immagini, dalle sensazioni mediate dalla psiche, dall’apertura a spazi nuovi dove il viaggio e la meta trovano la loro coincidenza poetica in un rimando continuo l’un l’altra, mirabilmente espresso, tra altro, in un verso particolare del poeta: “Nella prua spumeggiante c’è la quiete” dove la linea della prua è al tempo stesso il limite dell’orizzonte che si spinge sempre più avanti nel mare, elemento non certo statico, sfuggente al controllo, simbolo di mistero stesso.
c) Ancora, il viaggio non è solo dislocazione ma anche allontanamento. Cosa vuol dire? Vuol significare il muovere il proprio centro verso altri per poi ritrovare il proprio, partendo da un necessario e continuo rapporto con sé per arrivare all’esperienza che dia frutti artistici: nel ritrovare il proprio sé, come dice l’autore stesso, si ritorna quasi ad un vuoto iniziale, quello che c’era prima dell’esperienza, e da qui si può partire per accogliere il mistero, e per creare la poesia.
d) Infine, come accennato, non c’è tema del viaggio che non faccia pensare alla morte, e questo torna specie nelle ultime raccolte del poeta, dove se
- da un lato la morte sembra l’unica possibilità di scoprire, lontano dall’io, il vero punto di concentrazione per capire il mistero dell’esistenza,
- dall’altro lato, ancora una volta, questa ricerca è fatta nel percorso rasente la vita – unica possibilità che si ha per aprirsi davvero alle epifanie del mistero -.
Il confine è labile e solo la poesia può superarlo perché è capace di creare una sorta di varco segreto al crocevia del tempo e dello spazio. Ma per riuscire a far questo ci vuole tutta l’esperienza di un grande poeta. Un poeta che sa collegare il buio alla morte e rovesciare il concetto trasformando il buio nell’ombra in cui l’uomo si muove durante la vita, raccontando così anche il disagio della civiltà che si basa sul dualismo esistenza/distacco dalle radici della stessa e che tenta di dare una soluzione, che egli ritiene possibile solo nel momento in cui potrà avvenire l’incontro tra luce/buio, sogno/coscienza, lingua/silenzio, vita/morte un incontro che diventa compresenza e che si risolve nel pensare (e questo pare l’unico scopo della ricerca del poeta) ad una sosta nel viaggio della vita sul liminare del mistero fino a che il mistero stesso non ci avvolgerà. Una confluenza, se ci pensiamo, dell’uomo nell’infinito laddove l’io trova la sua dissolvenza. C’è un verso che esprime bene questo: “lasciare/l’abito dell’io su questa spiaggia/dove l’onda batte e si ritira, batte//e si ritira”.
4) Tempo e spazio: come già accennato, la ricerca poetica di questo autore che parte dal distacco della realtà cercando il segreto dei momenti e dei luoghi di passaggio verso spazi e dimensioni altre, si incrocia certamente con i due elementi chiave della vita dell’uomo: il tempo e lo spazio. Infatti, i suoi testi, partono quasi sempre da un luogo geografico definito o da un tempo preciso, ma questi sono solo pretesti, spunti che aprono a possibilità infinite di epifanie sul mistero, labirinti di intersecazioni, come labirinto è la vita stessa, come labirinto è del resto il tempo che trova, in Trastromer, conformazione spaziale così come lo spazio può essere pensato come un labirinto temporale. Questo, pensando ad una dimensione geometrica della poesia, ci porta ad immaginarla come un luogo fatto di mille centri, tutti uguali dai quali non può uscire col solo mezzo della parola (e l’abbiamo già visto, esplorando tutti gli elementi che servono per arrivare a costruire una poesia)… Labirinto è però – ancora, vedete come i concetti tornano – uno spazio vuoto dove chi entra deve trovare in se stesso la forza di uscirne, deve inventarsi soluzioni per arrivare al centro – ovvero al proprio io – difficile anche da definire, raggiungibile solo dopo passaggi stretti e impervi che rappresentano le implosioni spirituali, il distruggere l’inutile per arrivare all’essenza. Il raggiungimento dell’essenza per il poeta passa da un percorso linguistico dove si incrociano quindi simbologia del sogno, del viaggio, del tempo, dello spazio in un cammino che l’uomo deve compiere partendo da un punto focale di concentrazione – dove mondo interiore ed esteriore si incontrano - aprendosi a tutte le direzioni per tradursi nell’immagine poetica, nella metafora l’uno dell’altro.
 
5) L’io poetico: in tutto questo restano da dire ancora un paio di cose. La prima riguarda la presenza dell’io poetico nei testi dell’autore, discorso molto ampio su cui si potrebbero aprire varchi disquisitori davvero infiniti e contrastanti. Dunque Transtromer come si comporta in questo senso? Se nelle prime raccolte è più schivo a rappresentarsi notiamo come invece, in seguito, il suo io abbia trovato più spazio se pure il suo rapporto con gli altri, con l’universo, il suo sentirsi un io in mezzo a tanti altri non è così mutato. La sua voce ha bisogno di affermarsi non tanto per comunicare i propri sentimenti ma per verificare quanto egli stesso non si possa perdere o confondere o mimetizzarsi con altri io, altrettanto incerti , indefiniti, confusi non dimenticando di sottolineare - certe volte - come egli si senta anche sconosciuto a se stesso o abbia addirittura paura di conoscersi. Un io che cerca la propria identità, il senso della propria esistenza concentrando le energie/percezioni/conoscenze nel punto in cui queste, riassorbite, si trasformano in esperienza e quindi in poesia – attraverso gli strumenti linguistici -.  Per far questo ritornano, necessari, due concetti intersecati tra loro:
- il concetto di presenza: ovvero dell’attenzione, della concentrazione del poeta che diventa come una sentinella (e c’è un testo che esprime questo concetto, si chiama “Di guardia”) come colui che con la propria attenzione porta beneficio agli altri;
- il concetto di assenza: ovvero di allontanamento del proprio io dalla visione poetica per lasciare spazio all’opera, che resti sola testimone del senso della vita.
Il poeta dunque non agisce ma misura la realtà coi propri strumenti, si trasforma in ciò che esprime mantenendo la consapevolezza di sé data dalla stessa parola. La parola?
6) La lingua: e qui torniamo all’inizio del nostro discorso intorno alla poetica di Transtromer. Quale voce dare agli spunti poetici che si affacciano alla coscienza senza che vengano corrotti nell’atto di trasporli in parole? Qui sta il nocciolo della questione: la concentrazione tanto ricercata porta il poeta ad uno scetticismo sempre maggiore verso la lingua, ad una stanchezza verso coloro che si presentano con la parola, ad una ricerca di rifugio nella natura. Dice in un suo testo il poeta: “La natura non ha parole./ Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!” E su questa neve solo le orme degli animali selvatici, una lingua senza parole: per un bisogno di immediatezza, di semplicità, lasciando spazio alla natura che ha come interlocutori privilegiati i bambini che, avendo un’intuitività ancora non corrotta, hanno anche una lingua che può considerarsi nuova, ma che in realtà è antichissima. Appaiono  chiaramente alcune cose:
-  la necessità di tornare a ritrovare la naturalezza dell’infanzia
-  la necessità di ricercare un po’ di silenzio (nel vociare ininterrotto della modernità)
- la paura che porta a considerare la lingua come uno strumento di potere, come prigione dove l’uomo si trova rinchiuso in convenzioni costruite e subite.
 
La poesia può essere una via d’uscita? Sì, se abbinata al luogo della natura, l’unico luogo dove si possa riuscire a far brillare quell’oro che in essa esiste, che non siamo capaci di vedere. E qui, come già accennato, sta il Trastromer inteso come poeta politico, come accusatore dell’uso della parola per farne arma di potere. Egli afferma in un testo: “La lingua marcia al passo dei carnefici./ Perciò dobbiamo cercarci una lingua nuova”… cosa intende? Che la lingua non deve offuscare l’essenza delle cose, distruggere la verità che contengono. E la riflessione ultima che andiamo a fare sta proprio in questo concetto di verità, inteso su due piani distinti, se pure anch’essi intersecati:
-          la verità come valore individuale da esprimere e difendere con le parole, ovvero con la propria lingua, per difendere la propria dignità umana
-          la verità come concetto oggettivo, difficile da dimostrare, e legata al mistero, e quindi non necessariamente esprimibile con le parole, se non attraverso una ricerca di parola poetica – al poeta è dato il compito più ambizioso, dunque – per aderire il più possibile all’essere e al divino che si manifesta. Saranno parole spinte all’estremo perché dovranno essere capaci di svuotarsi del loro significato convenzionale, diventare trasparenti per riflettere la luce del mistero, essere scritte per la loro comprensione nei brevi attimi in cui la verità le trapassa. Parole fatte di suoni e silenzi, un po’ come la musica, parole che creano un’immagine perfetta ma al tempo stesso sempre diversa, che può essere letta fra le righe e interpretata in modo sempre uguale e diverso ogni volta. Parole la cui ricerca nella lingua è come un moto perpetuo, continua ininterrottamente in autori come Trastromer con un desiderio sempre nuovo di migliorare il proprio modo di rapportarsi col mondo.
7) Concomitanze d’intenti e poetiche con la poesia italiana:
 
Questo diciamo che è il compito più difficile che mi sono data ma, d’altra parte, mi sembrava anche doveroso cercare di trovare qualche assonanza con la poesia italiana, per lo meno a grandi linee, a intuizioni o semplicemente a indicazioni, a intersezioni di spunti e poetiche di autori europei che in qualche modo hanno attinto dalla nostra poesia e proprio per questo non possiamo negare che ci sia un qualche legame anche con la poesia di Transtromer… almeno di riflesso.
Transtromer in Italia era poco conosciuto fino al Nobel del 2011.  Di lui erano state pubblicate La lugubre gondola nel 2003 (per Herrenahaus) e Poesia dal silenzio nel 2008 (per Crocetti). Dopo il Nobel abbiamo visto qualcosa di più, abbiamo sentito qualche critico affacciarsi al suo pensiero e parlare di lui. Ma vediamo con ordine qualche intervento anche precedente.
-          Daniela Marcheschi, ad esempio, nel 2005, traducendo alcune sue liriche per l’Almanacco dello Specchio Mondadori, disse che tra i maestri del poeta c’erano Orazio e Mallarmé, ricavando tale intuizione dall’uso della metafora che, come abbiamo detto, ha un ruolo fondamentale nella sua scrittura.
-          nel 2011 Mario Grimoldi fa riferimento ad Osip Mandel’stam ed al suo lavoro “Conversazione su Dante” e, prendendo a spunto il discorso della  novità della conversazione intorno alla poesia che si rifà alla natura, recitandola per immagini, sembra riferirsi alla poetica di Trantromer che si occupa principalmente della natura, la recita per immagini dando voce alle idee che stanno nelle cose e che dice, come abbiamo già sentito: sono stanco di parole senza lingua… preferisco le impronte di un animale sulla neve, una lingua senza parole.
-          Nel 2014 Giorgio Linguaglossa parla di una poesia svedese che abita il contemporaneo e che egli ritiene verticale, intendendo per verticalità sia la direzione delle metafore che la costruzione tra i vuoti e i pieni, tra la forma e l’ombra degli oggetti e dice che in questo si differenzia dalla poesia italiana che invece dalla raccolta Satura di Montale del 1971 ha un’esposizione orizzontale.
-          A fronte di questi pochi spunti, quali sono le osservazioni che possiamo fare a conclusione di questo intervento? Sicuramente in Transtromer si ritrovano echi di Eliot e di Ezra Pound… li abbiamo sentiti anche solo aprendo il primo testo della raccolta La lugubre Gondola, oltre che nell’uso delle metafore e delle similitudini. Questi due autori basano la loro poetica principalmente su Dante: il primo ne La terra desolata ripercorre molti passi della Commedia, ne cita dei versi, scrive su Dante ben due saggi a distanza di quarant’anni l’uno dall’altro e lo conferma il suo maestro principale, il poeta della filosofia che parla per immagini. Dante usa le allegorie, dei condensati di immagini che esprimono un concetto e usa le similitudini che, come detto – sono analoghe alle metafore: il secondo nei Cantos pisani ripercorre nelle intenzioni lo stesso itinerario della Commedia…dunque a grandi linee non possiamo escludere l’influenza dantesca anche in Transtromer. Pensando alla ricerca del proprio io per conoscere meglio gli altri, alla necessità di una poesia verticale, al rifiuto della lingua delle parole non mi viene che in mente Giorgio Caproni – che con analoghe espressioni parlava della sua poesia, della sua voglia di esprimersi – tra l’altro - verso la fase finale della sua produzione poetica con poche e scarne parole… Pensando ad alcuni testi anticipatori di situazioni e pensieri ritrovo D’Annunzio che si proclamava come poeta testimone e profeta del suo tempo. Pensando al desiderio di guardare il mondo con gli occhi incontaminati del bambino ritrovo la poetica del Fanciullino di pascoliana memoria. Potrei continuare ma mi fermo qui, ricordando un solo ultimo punto. Transtromer cita, ad un certo punto, pensando a quanto gli uomini non vedono ciò che hanno davanti, magari neanche il divino che si palesa, perché troppo concentrati nelle proprie faccende, nei propri convincimenti, l’episodio del Vangelo, laddove di fronte all’adultera che sta per essere lapidata , Gesù ferma quelle mani e solleva la donna dicendole di andare e non peccare più, mente gli uomini non si soffermano neanche sulla necessità di compiere certi gesti, sono già pronti a colpire prima ancora di capire…