giovedì 28 aprile 2016

R. H. Benson, "Con quale autorità?" (Ed. Bur)

di Luca Fumagalli

Considerato da molti il romanzo storico più bello di Robert Hugh Benson,Con quale autorità? (By What Authority?, 1904) vanta una trama avvincente e ricca di colpi di scena a cui si assomma un’ottima caratterizzazione dei protagonisti e una singolare capacità di analizzare le diverse passioni religiose e politiche in campo. Accanto ai tradizionali personaggi come Maria Stuart, Edmund Campion e John Felton – impiccato per aver affisso la Bolla di scomunica di Elisabetta alla porta del palazzo vescovile di Londra – fanno la loro comparsa i veri eroi della storia inglese, gli uomini e le donne che, nonostante le violenze e il regime di terrore imposto dai protestanti, seppero fare della loro fede un ideale così alto da affrontare persino la morte pur di non tradire Cristo e la Chiesa.
Il libro, ambientato nell’Inghilterra elisabettiana, racconta la storia di due famiglie, quella cattolica dei Maxwell e quella calvinista dei Norris, vicine di casa nel piccolo villaggio di Great Keynes. Nonostante la rigida educazione calvinista impartita loro dal padre, Anthony Norris e la sorella Isabel si convertono al cattolicesimo; più tardi il ragazzo è ordinato sacerdote. Dopo essere stati testimoni delle prime persecuzioni – di cui è vittima anche il giovane James Maxwell, tornato in Inghilterra dopo aver preso i voti nel continente – i due Norris si trovano presto costretti a sfuggire dalle guardie che sono ormai sulle loro tracce.
L’autorità, come ricorda il titolo del romanzo (che cita Mt. 21, 23), è il problema centrale attorno a cui si muovono i numerosi protagonisti, preoccupati innanzitutto di trovare un punto fermo all’interno di una parentesi storica mai tanto convulsa. Scegliere tra Elisabetta e il papa non è sempre facile: se i cattolici più intransigenti organizzano una ribellione armata – con esiti purtroppo drammatici – c’è anche chi, come Hubert Maxwell, fratello di James ed ex fidanzato di Isabel, giunge al punto di abbracciare il protestantesimo, inebriato dalle scorrerie piratesche condotte a fianco del carismatico Drake. Alla fine di questa aspra contesa è ancora una volta la regina, una Tudor, a trionfare, anche se la vittoria è ottenuta al prezzo del sangue di numerosi innocenti.
Benson ritrae Elisabetta come una creatura altera e spietata, ma mai realmente antipatica. L’aspetto fisico non sempre impeccabile e la sgraziata danza contribuiscono a dare caratura umana a un personaggio che, seppur manifestatamente antagonista, non si può definire totalmente malvagio. L’autore vede specchiarsi in lei tanto i pregi quanto i difetti dell’Inghilterra.
Maria Stuart funge invece da controparte benevola, è il simbolo della sovrana ideale, fedele a Roma e generosamente disposta ad accogliere con fiducia ciò che Dio ha in serbo per lei. Manca però della concretezza della cugina, della capacità di fare del bieco tornaconto politico un’opportunità per guadagnare spazi sempre più grandi di potere. Inutile dire che la sua ingenuità le sarà fatale.
Con quale autorità? – che con Il trionfo del re e Vieni ruota! Vieni forca!costituisce una sorta di trilogia dedicata ai martiri della Riforma – è dunque l’affresco eloquente di un’apostasia ormai maturata su scala nazionale, alimentata dagli egoismi dell’aristocrazia e dalla connivenza conformista di buona parte del popolo (più o meno in buona fede). L’anglicanesimo è diventato la religione della maggior parte degli inglesi, e per i cattolici c’è solo la via del patibolo, dell’esilio o della clandestinità.
L’Inghilterra del XVI secolo, nelle tinte fosche usate da Benson, è la sinistra anticipazione dell’apocalittica società del futuro descritta ne Il padrone del mondo.

giovedì 21 aprile 2016

San Pio X, "Catechismo della dottrina cattolica" (Ed. Fede & Cultura)

di Alberto Maira

I libri di istruzione e formazione religiosa sono stati scritti fin dal tempo dei Padri della Chiesa, ma il termine catechismo è entrato in uso nel XVI secolo.  Durante il Concilio di Trento fu sviluppato un catechismo diretto ai parroci perché potessero meglio insegnare la dottrina cattolica in risposta anche alla  Riforma protestante. Il Catechismo tridentino fu promulgato da papa Pio V ed adottato dall'intera Chiesa cattolica. Fino alla promulgazione dell’ attuale Catechismo della Chiesa cattolica approvato da S.Giovanni Paolo II non ci sono stati altri catechismi "universali", ma soltanto catechismi locali. Nel 1905 il catechismo redatto da papa S. Pio X, detto Catechismo maggiore, ebbe una grande diffusione e fu adottato da gran parte delle diocesi italiane circolando anche all'estero.
Ha ricordato  papa Joseph Ratzinger che « la fede come tale è sempre identica. Quindi anche il Catechismo di san Pio X conserva sempre il suo valore. Può cambiare invece il modo di trasmettere i contenuti della fede »
Non può che essere un bene quindi ancora oggi prendere l’abitudine di affiancare al nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, anche quello su cui si sono formati i ragazzi per 60 anni: organizzato per formule a domanda e risposta, e che contiene i principali asserti teologici della fede cristiana.
Voluto appunto da San Pio X per assicurare l’uniformità dell’insegnamento religioso dei ragazzi nella diocesi di Roma e in quelle limitrofe, il Catechismo della Dottrina Cristiana è divenuto il catechismo universale usato per circa 60 anni in tutte le parrocchie italiane. Organizzato in formule al fine di assimilare meglio i principali contenuti della fede cristiana, questo piccolo catechismo nasce dall’idea che memorizzare le formule sarebbe tornato utile ai bambini una volta raggiunta l’età adulta, quando ne avrebbero compreso a pieno il significato. Il papa era convinto infatti che, per raggiungere l’obiettivo di far conoscere le più importanti verità della fede anche alle persone più umili, fosse necessaria la lettura non tanto dei testi voluminosi destinati ai sapienti, quanto di un piccolo libro contenente tutta la sapienza cristiana.

martedì 12 aprile 2016

La malattia dell’esteta: “The Sentimentalists” di R. H. Benson

di Luca Fumagalli

The Sentimentalists (1906) dell’inglese Robert Hugn Benson, come lascia intendere il titolo, è un romanzo – ancora inedito in Italia – dedicato agli artisti romantici, uomini passionali ma fondamentalmente fragili.
La trama è piuttosto semplice ancorché ricca di personaggi e figure secondarie che si muovono sullo sfondo della vicenda principale.
Dick Yolland è un sacerdote amente della letteratura e dai gusti particolarmente ricercati (un ironico autoritratto dell’autore). La sua vita si incrocia con quella di Cristopher Dell, un convertito di Oxford, che guadagna qualche soldo attraverso l’impiego giornalistico. Letterato decadente, Dell è ormai vittima del suo spiccato estetismo che si concretizza in convinzioni e atteggiamenti piuttosto bizzarri come quello di credere fermamente negli dei dell’antica Grecia, di preparare offerte per Ermes e di praticare la magia persiana. Caduto in profonda depressione, medita il suicidio. In questa occasione, però, mostra la sua debolezza, incapace com’è di rinunciare anche solo all’amato libro di Boccaccio, alla camicia da notte di seta e alla preziosa tabacchiera. Yolland riesce a procurargli un posto di lavoro presso il “Saturday Express” e Chris è introdotto nei salotti bene del mondo aristocratico dove conosce la giovane Annie Hamilton di cui si innamora perdutamente. La loro felice relazione è osteggiata dalla madre di lei che, una volta scoperto i trascorsi disordinati del giovane, costringe la figlia a rompere il fidanzamento. Dell sprofonda nuovamente nel vizio. Fortunatamente per lui un aiuto inaspettato arriva da John Rolls. Anche la condotta passata dell’anziano nobiluomo non è stata encomiabile, ma ora vive espiando i suoi peccati aiutando ex preti, attrici fallite e tutti coloro che hanno commesso gravi sbagli a ritrovare un senso nella loro esistenza. È così che nasce la “colonia degli eccentrici” in cui Chris trova accoglienza e conforto. Le prove, però, non sono finite e la situazione sembra nuovamente precipitare quando il giovane apprende la notizia del matrimonio di Annie.
Nelle pagine del romanzo, che alterna ritmi e tinte contrastanti che vanno dai toni cupi del dramma alla satira graffiante, è concentrata l’esperienza che Benson visse nella Cambridge di inizio secolo, a cavallo tra l’esigenza di un rinnovamento spirituale e le tentazioni suadenti della letteratura decadente e della vita bohemienne. Tutti i personaggi, a partire da Dell – modellato sulle figure di Frederick Rolfe “Baron Corvo” e dell’amico Eustace Virgo – traggono ispirazione dagli stravaganti studenti che ruotavano attorno ai circoli universitari.
Chris Dell è il prodotto di questo clima. Il suo cattolicesimo, frutto di una conversione consapevole, si tramuta rapidamente in esotismo d’accatto, non più in grado di arginare la montante disperazione. Rolls è artefice di quel necessario scossone spirituale che contribuisce a ridare spessore alla vita del giovane. La preghiera e il giardinaggio, l’ora et labora benedettino, sono due facce della medesima medaglia, quella di un ritrovato rapporto con la realtà, lontano dalle follie egocentriche di una mente priva di Dio (non a caso i titoli dei capitoli ripercorrono le tappe che vanno dalla malattia alla guarigione).
Chris è un personaggio molto complesso che vive un costante conflitto tra due personalità: quella del dandy, tentato dal mondo, e quella del santo, l’ambizione naturale della vita cristiana. La sua è quindi la stessa battaglia tra il peccato e la virtù che caratterizza l’esistenza di ogni uomo. Il paganesimo del letterato romantico è un surrogato del desiderio di autentica umanità che sgorga dal suo cuore, un tentativo puerile e inconsistente. Attraverso una storia di confessione ed espiazione, Dell arriva finalmente a comprendere che solo Cristo è in grado di donargli una felicità perfetta, eterna, senza più il timore di un rovesciamento della sorte.
Il finale, in cui il protagonista si allontana sereno e imperturbabile verso l’orizzonte, è immagine eloquente di un uomo finalmente in cammino verso una bellezza più vera.

lunedì 11 aprile 2016

Marina Alberghini, "Céline magico" (Ed. Solfanelli)


Presente da sempre nella grande letteratura del Novecento come uno scrittore estremamente realistico fino alla brutalità, e dalla vita avventurosa fatta di sfide continue e affrontata con estrema concretezza, pochi sanno invece che Louis-Ferdinand Céline fu anche vicino ai misteriosi messaggi che ci giungono dall’Altrove. Confesserà infatti che per lui, che possedeva un’immensa riserva di poesia e immaginazione, il quotidiano sarà sempre solo un duro dovere di denuncia: «Io sono celtico, prima di tutto SOGNATORE BARDICO — è veramente là il mio dono — io l’ho piegato al realismo per odio verso la crudeltà degli uomini — per il gusto della lotta — ma in realtà la mia musica è la leggenda.»
     E in effetti Céline fu profetico e visionario come i Druidi ed ebbe molte esperienze di precognizione. Il suo rifugio contro gli orrori del mondo contingente, che la sua penna denunciava spietatamente, sarà quella che chiamava la “féerie”, il mondo di Entità e di Archetipi mitici, che per lui furono la Danza, la Musica, la Leggenda e il Mito, i Castelli, l’Arte, i Gatti, i Fantasmi. Là dove regnano l’extrasensoriale e il paranormale, il mondo di quelle vibrazioni che lo scrittore chiamava le “onde”, dalle quali confessava gli arrivasse il suo dire, e al quale hanno accesso solo pochi privilegiati, come gli artisti, i sensitivi, i mistici. Come celtico, si sentì sempre figlio di quel Paese favoloso, nelle cui foreste occhieggiano creature come gli elfi, i folletti e le fate. Non a caso infatti Céline amò particolarmente Hieronymus Bosch, il Mago della Visione.
     Un Céline visionario e inedito, dunque, e che non è meno interessante e intrigante dell’altro Céline, l’uomo che sfidò e denunciò il Potere con una penna simile ad una spada, fino a restarne stritolato.

giovedì 7 aprile 2016

Miriam Katiaka, "Dante nei cantautori italiani" (Ed. CSR)

di Pierfranco Bruni 

I cantautori, proprio nel momento di crisi del linguaggio e delle neo-sperimentazioni, recuperano la lingua dando senso alla Parola e portano dentro il testo le esperienze letterarie. Dante, come più volte affermato nei miei studi dal 1978 in poi, costituisce la chiave di lettura tra le forme le metafore e una metafisica del senso.
Miriam Katiaka nel suo bel testo “Dante nei cantautori italiani”, (con elegante copertina di Maria Zanoni e pubblicato da CSR, farà da apripista a un convegno su “Canzone d’autore, poesia e Dante” a maggio a Catania) ha scavato nei linguaggi di quei cantautori che hanno fatto della parola un luogo dell'essere e mai una dimensione ideologica.
Le lingue di De André, le ironie di  Paolo Conte, gli Orienti di Battiato (ma non trascura tutto il filone che va da "Volare" sino alla grande maestria di Skoll o alle ballate del tradizionalismo che lega Dante a Guininzelli e Cavalcanti a Poliziano e Dante a Ungaretti alla canzone francese) vivono in questo splendido originale unico lavoro della Katiaka, una vera e profonda studiosa del legame tra Dante e la canzone del Novecento in un filtro che è quello di Salvatore di Giacomo.
Conosco da anni la Katiaka e so che con molta scientificità è riuscita a penetrare tra i testi dei cantautori creando dei forti legami con Dante. Non soltanto il Dante della “Divina Commedia”, ormai analisi fatta e rifatta, ma il Dante delle “Rime” e di quelle “sparse” e il Dante della “Vita Nova” e anche in un gioco di linguaggio, come abbiamo cercato di fare con la brava Annarita Miglietta in una Cartella Studio, con il “De Vulgare Eloquentia”.
È la “Vita Nova”, comunque, che si presta ad una interpretazione articolata con cantautori come De André o come addirittura Bruno Lauzi. Non siamo alla consueta navigata nel mondo dell’ulissismo dantesco o omerico, che va da Lucio Dalla a Guccini, ma ad una interpretazione che tocca persino Biagio Antonacci, il cantautore che sa di “orchestare” il suo verso in un intreccio tra Tibullo e Catullo (operazione ben riuscita) e attraversa Sergio Cammarieri,  il cui incontro, sotto la lezione di Tenco, è ben definita su un viaggio omerico come d’altronde è leggibile nel futurista Vinicio Capossela.
Miriam Katiaka porta alla luce un lavoro ben confezionato, sul quale ci siamo spesso confrontati in diversi convegni, sul rapporto proprio su canzone d’autore e letteratura partendo da una presentazione del testo “Volammo davvero” (Rizzoli) dove c’è un mio capitolo sul legame tra De André e Pavese, e in quell’occasione la Katiaka “improvvisò” un intervento splendido leggendo De André con le parole  incrociate tra la “Commedia” e le “Rime sparse” di Dante.
Ma parlare di Dante e delle diverse lingue di Dante dentro il Novecento musicale significa partire dalla canzone degli anni Trenta. Si pensi alla Nilla Pizzi di “Grazie dei fiori” e poi si vada a scavare nelle “Rime sparse” di Dante per approfondire il connubio “amoroso” e medievale in una melodia che giunge sino alle ballate veneziane barocche.
Dante viene filtrato e citato non solo per Paolo e Francesca e l’ulissismo, ma per quel suo mondo esoterico e alchemico che trova in Battiato un impatto notevole come lo trova nei canti della “Compagnia degli Anelli” e di Skoll. Ma anche nel testo recitato – cantato di Manlio Sgalambro (con Battiato) si legge il legame tra Dante e Baudelaire proprio nella metafora del viaggio che è il viaggio – viaggiare nel sacro di Branduardi.

Ebbene, credo che sia un testo di base (mi onoro di aver curato la Prefazione) questo della Katiaka e dal quale non si può prescindere e tanto meno si possono improvvisare conferenze tra Dante e i cantautori senza prima averlo almeno consultato. Un tema straordinario che soltanto con la professionalità è possibile penetrare.

lunedì 4 aprile 2016

Aldo Rocco Vitale, "Gender questo sconosciuto" (Ed. Fede & Cultura)

di Alberto Maira

L’ideologia gender  fa parte di un itinerario di disgregazione umana, filosofica, intellettuale, morale, giuridica, psicologica che viene da molto lontano. Segna uno degli ultimi passaggi di un processo rivoluzionario che non sta risparmiando nulla di quanto di più essenziale vi è nella nostra società e che è condizione indispensabile per la sopravvivenza stessa dell’uomo, in particolare dell’uomo ordinato e ragionante , così come Dio lo ha pensato e creato.
Non solo in quanto cristiani, ma anche semplicemente come uomini,  abbiamo il dovere di combattere questo errore della mente umana, di combattere questa battaglia con intelligenza, costanza e pazienza. Non è una battaglia che può essere improvvisata, non può ridursi a qualche superficiale slogan ed è contro un nemico agguerrito, dotato di mezzi di straordinaria portata propagandistica e finanziaria E’ espressione di una lobbie potentissima.
Poco conosciuto, sottovalutato e da più parti negato come invenzione propagandistica della Chiesa cattolica, il pensiero gender esiste  e agisce a tutti i livelli societari. La negazione della differenza tra l’identità maschile e quella femminile non insita nella natura ma nella cultura è la prova di una vera e propria ideologia che ha per fine l’utopia di una nuova era di pace sociale senza discriminazioni. Il volume di Aldo Rocco Vitale risponde ai moltissimi  punti oscuri del pensiero gender: la sua genesi, i suoi sviluppi, i suoi legami con il movimento gay e il femminismo, i problemi antropologici e biogiuridici che inevitabilmente solleva. Con una convinzione: l’unico fine che può conseguire è la distruzione totale dell’identità personale.
La battaglia a difesa dell’uomo e della famiglia oggi, non può essere condotta senza una adeguata conoscenza del gender, della sua portata totalitaria, dell’industria dell’utero in affitto che l’accompagna, del suo essere contro i sentimenti più autenticamente umani che possano esistere. Questa battaglia ha come strumento intellettuale questo nuovo libro pubblicato da Fede & Cultura.


venerdì 1 aprile 2016

Imperia Tognacci, "Là, dove pioveva la manna" (ed. Laterza)

di Sandra Guddo

Il deserto che lentamente ma inesorabilmente si allarga è la metafora esistenziale che la nostra poetessa Imperia Tognacci utilizza sapientemente per raccontare l’attuale condizione di una società che, lentamente ma inesorabilmente, copre  l’autentico Sé, fondante della propria essenza, che appare sempre più travolto da una società dentro la quale l’individuo si affanna a rincorrere l’effimero, il vago, l’illusione ed il piacere strumentale piuttosto che l’estasi dell’anima e la sacralità del nostro vivere, attraverso il continuo e logorante processo di omologazione, di disconoscimento di negazione dove tutto diventa banale e commerciale.
Il deserto viene presentato in questo viaggio in terre antiche, cariche di storia e di simboli, come un luogo di mistica bellezza attraversato dagli echi lontani delle carovane dei nomadi, dal soffio del vento che, durante le violente tempeste di sabbia, diventa ululato, dalla voce del muezzin che dall’alto del minareto, esorta i fedeli alla preghiera, dalla voce della natura nel suo insieme che ora si fa canto di uccelli, ora diventa il mormorio del grano accarezzato da un vento leggero, ora lo scroscio delle acque pure delle sorgenti.
Ma il turista sembra non accorgersi della meraviglia che lo circonda, interessato più a visitare i centri commerciali e a scattare foto – ricordo, nei luoghi più noti limitandosi a “ vedere” più che ad osservare in profondità e a scoprire il fascino segreto dei luoghi visitati. E’ necessario, ribadisce Imperia Tognazzi, diventare viaggiatori consapevoli che si soffermano ad osservare i paesaggi e a coglierne tutte le vibrazioni .
Come scrive Marcel Proust, per conoscere non importa viaggiare alla scoperta di nuovi luoghi ma occorre avere nuovi occhi per osservare ciò che ci circonda. Soltanto se si guarda con occhi nuovi è possibile superare la noia della quotidianità con il fardello della routine e la banalità del già visto. In soccorso ci può venire incontro, come ultima speranza, la poesia che ci aiuta a superare le “ fatue consuetudini “ , le “ stalattiti di abitudini “ cristallizzate “ dalla solita goccia “.
Ecco allora la necessità di costruire un ponte ideale tra la poetessa ed i suoi lettori, attraverso il quale poter affrontare , in un coinvolgente dialogo, i temi esistenziali più profondi che si concretizzano in domande che l’uomo si è sempre posto, fin dalla notte dei tempi:  che senso ha questo ininterrotto viaggio in cui morte e vita si alternano e “ dove ricercare la verità che illumina e unisce o fa fiorire il deserto dell’anima ? “
 Imperia Tognacci dunque ricerca non un soliloquio sterile e senza confronto ma un dialogo aperto all’altro e riesce egregiamente in tale arduo compito grazie ai suoi componimenti poetici espressi in versi liberi, formalmente molto vicini alla ballata. Versi che mantengono un ritmo lento e cadenzato riconducibile alla presenza di parole con dialèfe che risultano armoniose, piene di grazia e di leggerezza anche grazie all’uso di allitterazioni e di assonanze che assicurano una certa musicalità .
Versi che coinvolgono ed invitano il lettore nella sua totalità al punto che, di fronte ad essi, egli ha la netta sensazione di doversi porre come  “ attimo di eternità “ ,  parte di una retta infinita che comprende il Tutto, un punto fermo e reale che acquisisce la consapevolezza della sua essenza.
Il deserto così come il viaggio, altro tema caro alla nostra poetessa, non perdono mai la loro valenza denotativa pur acquistando anche la valenza connotativa attraverso un linguaggio lirico colto e raffinato, intimo ed universale, atto a cogliere l’essenzialità più che la banalità.
In quelle terre mediorientali dove la poetessa è realmente stata in viaggio, la Giordania e l’antica città di Aquaba, inizia un viaggio anche spirituale che tutti dovrebbero compiere per non rischiare che la nostra ragione diventi “ Inutile pietra “ ma strumento di indagine che ci metta in comunicazione con il  “ Verbo “ .
 Sarebbe stato facile, per il viaggiatore, perdersi durante le tempeste di sabbia nel deserto oppure rimanere accecato, sotto il sole rovente, o smarrirsi nelle le tende dei carovanieri piene di ombre scure e di sagome sfuggenti tra “ le spirali di fumo dei narghilè “. Ma il desiderio di raggiungere l’oasi verde e rassicurante, piena di vita e che dà la vita è stato più forte di ogni pericolo, di qualsiasi fatica e tentazione: l’importante è stato non perdere la rotta e seguire la via che millenni prima hanno seguito profeti indiani seguendo la stella cometa che li avrebbe condotti infine a destinazione.
Fuori dalla metafora, l’ individuo, simile ai re magi, sorretto anche dalla forza spirituale della poesia, va alla ricerca del proprio Sé fondante che, sfidando i limiti della ragione,  si costruisce “ ali di cera “ con cui spiccare il volo e , sfidando tutte le leggi della gravità, cerca nella sfida contro il tempo cronologico quell’attimo di eternità , proprio “ là dove pioveva la manna. “