mercoledì 28 settembre 2016

Pasquale Attard, "Dal Califfato al Regno" (Ed. Thule)

di Maria Patrizia Allotta

  “In un alba gelida che però spera in un rosso tramonto, sono germogliate, e non uso questo termine a caso, le composizioni che compaiono in questo volume, tutte gocce di vita, di amore, o di dolore, di sogno o di cruda realtà, ma sempre tenendo bene a mente che siamo servi inutili”.
    Nel 2014, così scriveva il poeta Pasquale Attard nella nota che introduce la sua prima silloge dal titolo Il tuo Regno viene.
    Adesso, a distanza di due anni, nel leggere le nuove liriche che compongono la seconda raccolta intitolata Dal califfato al regno - pubblicata, come la prima, dalla prestigiosa casa editrice Thule -  sembra, a chi adesso scrive, che le gelidi albe e la speranza nel rosso tramonto non abbiano ancora abbandonato il Poeta palermitano di origine maltese il quale, con lo stesso rigore spirituale, attraverso la parola fervida del rimare, continua a raccontare il suo germoglio esistenziale.
   Infatti - al di là di una significativa evoluzione stilistica che svincola i versi, appartenenti alla seconda crestomazia, dalla rigida impalcatura morfologica e sintattica di stampo classico, dando, pertanto, maggiore spazio alla libertà e all’agire creativo dell’Autore - le trattazioni vitali, in nome di una profonda coerenza, appaiono sostanzialmente le stesse.
   Ancora una volta, infatti, non c’è posto per le mode letterarie bizzarre, né per le voghe sapienti ma alterate, neppure per le forme d’intimismo esasperate e paralizzanti fini a sé stesse; non si intravedono inutili e fugaci colloqui, né spicciole conversazioni, neppure chiacchierate alla buona; non si scorge l’interesse per il parziale o per il particulare, né per il soggettivo, oppure per l’individuale.
  L’interesse di Attard va oltre. Il suo sguardo è proteso verso l’oggettivo, l’universale, l’Assoluto, il Vero.
  Non c’è spazio, dunque, per il relativismo, ancor meno per il sensismo e il materialismo, né per l’ottuso criticismo illuministico negatore di ogni istanza metafisica, o per i facili entusiasmi settecenteschi falsamente egalitari, democratici e libertari.    
   Piuttosto, l’indagine portata avanti dal Nostro si basa sull’Idealismo tradizionale di stampo trascendentale che vede nell’io un’entità creatrice unica e infinita capace, se vuole, di conoscere e praticare, e nella natura la massima incarnazione di quell’arché incondizionato e assoluto che prende forma e consapevolezza anche attraverso l’arte.
  Pertanto la ragione dei philosophes, oggi tanto celebrata acriticamente dai più, sembra sia lontana dal sopracitato Autore, perché ritenuta incapace di comprendere la realtà profonda e ultima dell’uomo e del Cosmo tutto, mentre, pare, prevalere la volontà di dare spazio a quel Logos, a quell’ethos e a quel pathos che si muovono, con estrema sofferenza, tra una sorta di ilozoismo e un certo panteismo che mai viene a mancare all’interno delle due raccolte.  
   Una forza intrinseca, un respiro profondo, una divinità eterna si sente fra le strofe.  
   E in effetti, il Poeta - riluttante e impensierito, coerente e coraggioso, serio nella sua atipicità che lo pone lontano dal coro dei dormienti, distante dai facili entusiasmi, dal delirio di onnipotenza dettato dalla moderna tecnologia, dai miscredenti e da ogni forma irrazionale di arroganza e presunzione - con mano ferma e a voce alta, oltre a sottolineare la fragilità dell’uomo, i limiti dell’antropico agire, le colpe e i peccati, le mancanze e le debolezze, la solitudine e la nostalgia, il dolore e la morte, evidenzia contestualmente la gioia e l’allegria, l’amicizia e l’amore, gli incontri e le lusinghe, la vita e la redenzione, il riscatto, la liberazione, la possibile salvezza.   
   Ecco il pneuma vitale attardiano che va oltre ogni nichilismo bigotto per esplodere in quella  Parusia che accarezza i cuori e rinvigorisce gli spiriti.     
  Dopo il peccato la salvezza; oltre il dolore e la morte, la speranza e la vita; al di là del male il bene, il tutto espresso in una visione autenticamente cristiana che dà vita a un tappeto musivo dove ogni lettore si orienta, sosta, si consola. Anche, forse, se non credente.
   “E’ il Pantocratore, che torna a prendere possesso del suo mondo, per inaugurare il Regno dell’Eterna Vita del Dio con noi, risposta viva e definitiva al Mistero”, scrive lo stesso Attard nella sua nota a favore della seconda silloge, e poi, a conferma di quanto detto, verseggiando scrive:           “Pazienza, / chiede Cristo / al popol suo, / per poco ancor / sarà martirizzato, / e arriverà Giustizia / al fine / della Gran Tribolazione (…) E’ tempo, adesso, / delle nozze dell’Agnello, / col popol suo / nel mondo preparato. / Alleluia, salute, / gloria e potere / al nostro Dio, / dategli lode / voi tutti suoi servi.” (Dal califfato al Regno).
   Dunque sembrerebbe che, secondo la filosofia poetante di Attard, superata ogni decadenza il Cristo ritornerà sulla terra per decretare giustizia e rinascenza.
   E già questo non ci sembra poco. Ma non è tutto. A conferma della sua visione cristiana e dell’alta visione mistica aggiunge:  “Qual nube / di porpora e d’oro, scendendo / silente la china, / scivola / portando ristoro / la dolce / Parola divina. /All’animo fratto e dolente, / e bene lo vede il serpente, / la mite / carezza del Padre / è balsamo / come di Madre, / perché / in effetti il Signore / è padre / e madre d’amore, / e in Lui / risplende qual stella / Maria, ch’è mamma e sorella.” (Balsamo e ristoro), a dimostrazione della forza incantatoria e terapeutica che solo la contemplazione e la preghiera possono donare a discapito di quella sofferta schizofrenia che caratterizza i nostri giorni.  
   Ma ciò che più piace e avvince è che la stessa dimensione ascetica, indiscutibile, Lo porta, comunque, ad indagare incessantemente circa le questioni teologiche tradizionali più alte come avviene nella poesia intitolata, Cos è la fede. E la Fede, risponde l’Autore a sé stesso / è Amore, / fede / è conoscere / che sei Tu, / Signore, / Eterna Parola / che bruci / le carte / del Tempo, / per unire / ieri e domani, / anche se / sempre rimani / infinito mistero, e pur / così vero, / da poterti toccare, / sentire / sul colo / il tuo fiato, / mentre il Male / ci urla / il Peccato, / sentire / il tuo dolce conforto, / che ci fa entrare / nel porto, / ove onda tranquilla / è la Pace / ove Tu, / sei ancor sulla barca, / a gettare / col tuo amore / le reti.” 
     Certo, gli infedeli, il Miscredente cieco che “stringe in pugno / un piacer di vento”, oppure quella porzione di umanità - che asseconda Il flauto magico, suonato da Satana - che va “alla sua rovina; (…) giù per la china” e “scivola, scivola” fino a quando la “vita sua declina”, o tutti coloro i quali si lasciano prendere dall’Antico serpente che “offusca la mente (…) offrendo agli umani / tentacoli insani (…) e avvinghia e incatena / invitando a cena, / ma l’insano banchetto / è omicidio perfetto”, non godranno mai di quella pace interiore che solo il Regno di Cristo può donare, né di quella fede che, oltrepassando il fuoco apocalittico, garantisce un’eco celeste.       
    E costantemente, parole leggere e trasparenti, come pennellate, musicalità lieve anche nella delusione e nell’indifferenza, come in un canto antico, sa usare Attard per declinare, dunque, quella contemplazione visiva che abbraccia ricordi e rimembranze, alti ideali e antiche virtù, miti e riti, incontri e amicizie, affetti e amori, natura e creato, in una visione mosaicosmica (per dirla alla Tommaso Romano, peraltro attento prefatore di entrambi le sillogi) di raro effetto e di rara intensità che come fiotto vitale alimenta l’essenzialità della speranza.  

martedì 27 settembre 2016

Francesca Buzzotta, "La certezza dell’immortalità" (Ed. L'Erudita)

di Maria Patrizia Allotta

   
 Tutte le storie d’amore autentiche sono belle. Certo, molte nell’arco del tempo inevitabilmente si dissolvono come neve al sole, altre, invece, rimangono eterne nella storia dell’umanità come rocce inscalfibili, magari perché capaci di accarezzare l’anima, rinvigorire lo spirito, lasciare un segno indelebile nel cuore e nella mente di chi ne viene a conoscenza.
   La storia d’amore, per esempio, di Veronica Palermo e di Giorgio Emanuele Di Giovanni - romanzata magistralmente da Francesca Buzzotta nella sua prima opera dal titolo La certezza dell’immortalità, edita dalla casa editrice L’Erudita - per la sua esclusività ha mantenuto intatto il suo significato, il suo senso, la sua ragion d’essere.
   Le vicende dei due amanti si snodano attraverso precise coordinate spazio-temporali caratterizzate da ambientazioni tipicamente mediterranee appartenenti, più precisamente, alla realtà storica della Sicilia contadina dell’Unità d’Italia che vede nella piana Archiepiscopatus Montis Regalis e, soprattutto, presso la  Quercia dei viceré il naturale palcoscenico dell’agire dei protagonisti i quali pur muovendosi in una dimensione soggettiva, personale, intima, danno vita ad un tappeto musivo sociale e collettivo che inevitabilmente riconduce ora all’esclusiva ricchezza etno-antropologica - fatta d’intimi affetti, riti bizantini, splendidi usi, rari costumi, sacre credenze - di quella che fu dell’attuale Piana dei Greci, attuale Piana degli Albanesi, ora allo squallore, alla meschinità e alla grettezza di una porzione di quella umanità che essendo presa da una visione paralizzante della vita spende l’intera esistenza tra, rancori e invidia, violenza e odio, dolore e morte.
  Infatti, l’Autrice - che appare totalmente disinteressata dall’abbaglio delle voghe dotte ma artefatte, distante dalla furbizia degli infingimenti letterari e lontana da ogni sagoma d’intimismo fine a sé stesso - attraverso un linguaggio chiaro e immediato, sostanzialmente semplice ma incisivo, libero da costrutti baroccheggianti, da banali concessioni alla ridondanza e dall’effimera arte retorica, supportato, invece, da ricerche oggettivamente attendibili ed esplicative che illuminano la storia e la rendono verace, nel raccontare l’odissea di Nica e Giorgio dà vita a un nobilissimo chiaroscuro dove lucentezza e tenebre, gioie e dolori, evocazioni e Mistero, vita e morte si alternano in una visione totalizzante capace di echeggiare non solo infiniti spazi e interminabili tempi ma anche - al di là dell’odio - la forza prorompente dell’amore che in quanto tale se “tenuto costantemente accesso conduce con certezza all’immortalità”.
    E in effetti, è tra le nobili figure femminili e le umili e oneste popolane, tra le autentiche arbërëshe e le volgari comari, tra proprietari e contadini, ricchi e poveri, signori e delinquenti, galantuomini e mafiosi, che nasce, accresce e trionfa un’indicibile passione tra Nica e Giorgio, due anime essenzialmente diverse ma rese identiche da quel prodigioso pneuma vitale che solo il vero bene può sostanziare.   
   Nica - appartenente ad una modesta famiglia di braccianti, bella e giovane, vigorosa e libera,  esuberante ed istintiva “ (…) testarda come un mulo e scalpitante come una puledra”, educata ai veri valori esistenziali e naturalmente protesa verso le alte virtù - senza neppure volerlo, con la sua semplice e naturale armonia rapisce Giorgio - figlio del padrone di una azienda agricola, nobile, maturo, possente, conoscitore della differenza tra le effimere attrazioni fisiche e le durature passioni affettive, ardito e coraggioso - il quale, libero da ogni inutile pregiudizio sociale e svincolato da ogni paralizzante stereotipo collettivo, si perde in quell’amore tanto difficile e complesso quanto necessario e insostituibile che neanche la morte potrà annullare.
   E in effetti, dopo mille vicissitudini, Giorgio muore per mano mafiosa ma nulla cambia per Nica perché “ (…) quando due esseri, due persone, si sono amati profondamente, al punto da far coincidere la propria sfera affettiva - la percezione delle sensazioni e delle emozioni è così amplificata che provano dolore e gioia insieme, la lontananza è vissuta come un abbandono e sentono che nessuno potrà dargli mai quelle emozioni che hanno provato l’un l’altro - con quella sensuale l’esplosione millimetrica dei loro corpi coinvolge tutti e cinque i sensi, vivono dell’odore della pelle del partner, e del suo fiato per respirare, allora  nella coppia c’è Alchimia”, e l’Alchimia come ápeiron rimane in eterno nei cuori autenticamente innamorati.  
   Ciò che è giusto sottolineare è che la straordinarietà della famiglia Di Giovanni coincide con la straordinarietà della Scrittrice palermitana la quale, presa dalla voglia di raccontare le vicissitudini personali di una sua antenata, non soltanto riferisce il tormento di due anime esclusive ed inseparabili quali quelle di Nica e Giorgio ma, in buona sostanza, espone le vicende politiche ed economiche di quell’Italia meridionale tormentata e mortificata allor quando, nonostante gli audaci ma rari atteggiamenti libertari e rivoluzionari, di fatto, i  “puvireddi arristaru puvireddi”.
     Ma non è tutto.
     La dimensione pedagogica - sottile ma costantemente presente nelle 163 pagine che compongono il testo - oltre ad inneggiare il valore assoluto dell’amore celebrato come unica vera arma per sconfiggere ogni male, si muove anche in altre direzioni.
  Infatti, l’enunciazione educativa di stampo platonico circa l’immortalità dell’anima; la rivalutazione dell’insegnamento oraziano del carpe diem ovvero del “sapere cogliere l’attimo, vivere quel momento, intensamente, senza pensare al dopo”; l’edificante sapienza eraclitea della “lotta per una giusta causa” e del “prendere di più da sé stessi”, senza mai arrendersi e senza mai scendere a patti e compromessi con nessuno; l’addottrinamento filosofico a discapito di ogni forma di volgarità, scetticismo e nichilismo tanto caro a Nietzsche, secondo il quale “Chi ha un perché per vivere sopporta ogni come”; e ancora, la teoria leopardiana circa l’importanza delle rimembranze, dei ricordi, delle memorie che reggono e inteneriscono lo spirito e, infine, l’insuperabile lezione di vita di Haidegger che si concentra nel “dover esserci lasciando un segno ai posteri”, sono tutte istanze pedagogiche presenti all’interno del libro che rappresenta un prezioso dono per le nuove generazioni ormai lontane, purtroppo, da certi valori esistenziali.    
  Francesca Buzzotta, dunque, grazie a Nica e Giorgio, attraverso l’edificante parola scritta, viva e autentica, forse inconsapevolmente, combatte il nichilismo, celebra la dignità, festeggia la memoria, proclama la libertà, inneggia l’amore e lascia un segno con il suo esserci.    

martedì 13 settembre 2016

Alberto Monticone e Enzo Forcella, “Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale”, (Ed. Laterza)

di Domenico Bonvegna

Studiando la 1 guerra mondiale, tra i tanti temi mi ha incuriosito il fenomeno dei processi più o meno sommari ai tanti e troppi ragazzi impegnati in una guerra sanguinosa. Sulla prima guerra mondiale esiste una bibliografia sterminata, oltre 60.000 titoli, ma uno solo ha analizzato specificatamente le sentenze emesse dai tribunali militari. Si tratta del testo dello storico Alberto Monticone e del giornalista Enzo Forcella, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale”, edizioni Laterza,  (2014), che sono riuscito casualmente a leggere perchè prestatomi da un amico.
Le sentenze raccolte in questo volume sono 166, scelte tra circa 100.000, contenute in due fondi dell'Archivio Centrale dello Stato in Roma. Secondo Forcella,“Per circa cinquant'anni l'aspetto punitivo e repressivo della prima guerra mondiale è stato pressoché ignorato dalla cultura italiana. Storici illustri accennavano appena, quando vi accennavano, alle varie manifestazioni del dissenso e ai modi con cui vennero fronteggiate. Da una parte i documenti che avrebbero potuto far luce su queste vicende erano tenuti gelosamente nascosti, dall'altra non v'era neppure l'interesse a disseppellirli”. Le sentenze riguardano, diserzioni, ammutinamenti, discorsi e corrispondenze disfattiste, casi di autolesionismo. Si tratta di un“immenso cimitero di drammi umani”, scrive Forcella nella prefazione.
I documenti pubblicati in questo libro sono delle testimonianze preziose, sino ad oggi ignorate.“Se si eccettuano le poche lettere di combattenti già note (le lettere anticonformiste, bloccate dalla censura o sfuggite al suo controllo, non quelle edificanti dei vari epistolari a sfondo patriottico) e in una certa misura le canzoni 'proibite', queste sentenze costituiscono la sola 'fonte' non letteraria e non memorialistica per ricostruire la 'storia coscienziale' delle classi subalterne durante la prima guerra mondiale, per conoscere e valutare i vari fermenti di opposizione, le ribellioni e le proteste con cui la massa dei contadini soldati reagiva ai sacrifici, alle sofferenze, alle crudeltà che le erano stati imposti”.
E' l'altra faccia della realtà della guerra, di quelli“che non vogliono combattere o che combattono loro malgrado bestemmiando e piangendo: perchè non condividono le idealità e gli obiettivi della guerra patriottica[...]”. Forcella è abbastanza critico sull'oleografia interventista e smonta il mito che univa le due Italie, un disegno sostanzialmente fallito. Tutti quei contadini delle varie regioni obbligati a combattere da “una minoranza audace e geniale che trascinerà per la gola questa turba di muli e di vigliacchi a morire da eroi[...]”. Combattenti però con “alle spalle gli spettri della polizia militare e di plotoni d'esecuzione”.
Per Forcella“basterebbe una sola fucilazione per mettere a nudo la sostanza autoritaria sulla quale poggia il preteso consenso delle masse combattenti”. Peraltro basta leggere il bando di Cadorna per capire come le autorità militari hanno paura dell'isolamento di fronte alla popolazione e quindi minacciano pesantemente.
In pratica Forcella sottolinea la gravità del numero di tutti quelli che hanno avuto a che fare con la giustizia penale di guerra. Tra il 1915 e il 1918 ci furono 870.000 denunzie all'autorità giudiziaria. “In tre anni e mezzo di guerra circa il 15% dei cittadini mobilitati e il 6% di coloro che risposero alla chiamata prestando effettivo servizio militare furono oggetto di denunzia ai tribunali militari”. Sono cifre che non hanno bisogno di tanti commenti.
Le descrizioni che emergono dalle sentenze sono significative, per esempio,“c'è gente che non solo sfida il plotone d'esecuzione, ma accetta deliberatamente il rischio di rimanere cieca per tutta la vita”, come i 19 contadini zolfatari siciliani che “si presentano all'ospedale con gli occhi pieni di pus blenorragico dopo essersi in precedenza procurati un tracoma strofinandosi gli stessi occhi con indefinibili 'sostanze caustiche ed irritanti'”. Fenomeno che con il passare degli anni acquista dimensioni di massa, tanto che bisogna istituire in ciascun corpo d'armata degli speciali “Ospedali per autolesionisti”.
Altro capitolo squallido è la censura postale, “uno dei principali collaboratori invisibili della giustizia militare, cioè il canale attraverso il quale tanti combattenti finiscono sotto processo”. Senza trascurare poi la censura preventiva sulla stampa. Infine un altro“collaboratore invisibile” dei tribunali militari di cui fanno spesso riferimento le varie sentenze prese in considerazione dal libro, è l'arma dei RR. Carabinieri, a cui erano affidati i compiti di polizia militare. Praticamente i carabinieri svolgono un ruolo ingrato, a volte si travestono da soldati per carpirne confidenze. In pratica agiscono come una vera e propria polizia segreta. Per questo sono odiati dai soldati.
Sempre nella prefazione, Forcella si interroga sul perche questi soldati si ribellano. Quali sono i sentimenti e le ragioni che inducono migliaia di persone a compiere le azioni che le condurranno davanti ai tribunali di guerra.“In nome di quali valori, nel quadro di quali ideologie affrontano il rischio delle fucilazioni, delle lunghe pene detentive, delle compagnie di disciplina, della vergogna civile?”.
Forcella raggruppa il dissenso in due gruppi: le ribellioni di motivazioni ideologiche-politiche, esplicite o abbozzate come quelle riguardanti il “processo di Pradamano”. E quelle dei comportamenti “che pur non avendo nulla a che fare con la “delinquenza comune”, rispecchiano una opposizione di tipo preideologico e apolitico”.
Nell'ambito della querelle degli interventisti e neutralisti, Forcella fa riferimento ai principali protagonisti delle ribellioni politiche come i socialisti e gli anarchici, ma mancano del tutto i riferimenti all'opposizione cattolica. Anche se secondo gli autori del libro, non c'è stata una vera e manifesta opposizione di cattolici. Per quanto riguarda la gerarchia ecclesiastica, Forcella rileva un atteggiamento favorevole all'inizio della guerra e poi una rassegnata obbedienza. Infine per Forcella, anche la frase che definisce la guerra“inutile strage”, fatta da Benedetto XV, “aveva una portata, per così dire, esclusivamente diplomatica e non intendeva assolutamente costituire un incitamento alla disobbedienza civile e militare”. Anche se per la verità i contadini soldati nelle trincee ne facevano ogni giorno diretta esperienza dell'inutilità della strage e la interpretavano proprio in questo senso.
La giustizia in questa guerra di “massa, con forte caratterizzazione ideologica e con una mobilitazione totale che investe oltre ai membri della popolazione validi per il servizio armato tutta la società civile - per Forcella - è qualcosa di molto relativo”. Il giudice non deve stabilire la verità tra le parti, ma deve dare degli esempi e riaffermare la volontà del governo che ha deciso la guerra. Le norme sono nello stesso tempo rigide ed estremamente elastiche. Si colpisce da una parte con estrema durezza, fino alla pena capitale; dall'altra,“si considera delittuoso qualsiasi comportamento lasciando così ai giudici un amplissimo margine di discrezionalità”. Il famoso bando del generale Cadorna, è un esempio tipico di generalizzazione:  sono punibili tutte le espressioni anche generiche: denigrare le operazioni di guerra, disprezzare l'esercito, oltraggiare persone, diffondere certe notizie, etc.
Praticamente è abbastanza eclatante l'agghiacciante episodio dell'aspirante ufficiale che finisce davanti al plotone di esecuzione per aver detto nel corso di una cena con alcuni colleghi in una casa privata che non gli importava niente se i nemici fossero arrivati a Milano. Forse non gli sarebbe toccata questa sorte se non fosse stato di origine tedesca e non avesse lavorato in Germania.
“Al fronte costituisce reato far sapere alla propria famiglia che la guerra sta provocando una quantità di morti”. Addirittura il governo decide e fissa quanti millimetri un giornale deve dedicare agli annunci mortuari. Ecco perchè i giornali devono fare propaganda sminuendo la crudeltà della guerra. “Denunciate alla stampa gli stranieri e gli italiani sospetti”, raccomanda “La Voce”, la rivista fiorentina, diretta da Prezzolini. Praticamente in quarantadue mesi di guerra,“la paura del disfattismo rimbalza continuamente da un capo all'altro del paese, dà il tono alla propaganda, influenza profondamente l'attività della censura e della giustizia militare, diventa una ossessione”.
Nella 1 guerra mondiale emerge una caratteristica che poi sarà presente in tutte le guerre rivoluzionarie ideologiche:“la nuova guerra ideologica, dai suoi combattenti non pretende soltanto obbedienza ma anche entusiasmo, che non si contenta di condannare ma pretende il ringraziamento dei condannati ai quali è stata rivelata la verità e la luce, che trasforma i giudici in una compagnia di predicatori e di pedagoghi”.
Un giovane esponente dell'interventismo ricordava: “la storia ci ha riservato il compito tragico di far trionfare, come i sanculotti francesi, le idee di libertà sulla punta delle baionette”. Il giornalista conclude sottolineando la nefandezza di questi ideali collettivi, che si presentano nel cinquantennio successivo,  e che cercano di avanzare sulla punta delle baionette imponendosi con la “solidarietà coatta”. “le pretese di questo tipo avanzate dai 'sanculotti' di qualsiasi colore sono davvero tragiche[...]”.
In una nota gli autori specificano che in questa antologia delle sentenze, sono stati omessi i nomi dei condannati, dei quali si danno solo le iniziali, in modo che non possano essere individuati. Questo criterio è stato adottato per un senso di rispetto verso i condannati. Si è fatta eccezione alla regola di tacere i nomi degli imputati solo in due sentenze di natura politica, nelle quali la colpa è rappresentata da una affermazione di ideali. Una di queste è il processo di Pradamano, il più importante processo politico di tutto il conflitto. La sentenza del Tribunale militare prende in esame alcuni centri sovversivi dell'esercito combattente in collegamento con altri centri rivoluzionari dell'interno che avevano lo scopo di diffondere le idee affermate nei convegni socialisti di Kienthal e Zimmerwald, dove si sosteneva l'azione per una pace immediata e senza annessioni. I centri giovanili socialisti dei quali provenivano o a cui avrebbero fatto capo gli imputati erano quelli di Vicenza, Cremona, Schio e Messina.

Con mia sorpresa constato che tra i 19 imputati ci sono un sottufficiale domiciliato a S. Teresa di Riva e un ragioniere domiciliato a Mandanici. Peraltro il militare santateresino risulta abbastanza attivo nel tessere i rapporti con gli altri cosiddetti sovversivi, per questo viene condannato a sette anni di reclusione militare ed alla dimissione del grado.  

lunedì 12 settembre 2016

Tommaso Romano, "Antimoderni e critici della modernitá in Sicilia dal '700 ai nostri giorni" (Ed. ISSPE)

di Corrado Camizzi

In un suo celebre libro, uscito nel 1966, il filosofo tedesco Hans Blumenberg, per rivendicare la “legittimità” dell'Età Moderna (vale a dire, in sostanza, della Modernità), piuttosto che ricorrere all'idea di “secolarizzazione” con l'implicita rinuncia a qualunque tipo di trascendenza, preferiva avvalersi del concetto di “autolegittimazione dell'uomo rispetto all'assolutismo teologico”, definito come un processo evolutivo del rapporto tra Ragione e Storia, svoltosi fra il tramonto del Medio Evo e l'avvento dell'Età Moderna e risoltosi, a detta dello stesso Blumenberg, nel “naufragio delle ultime aspirazioni dell'Illuminismo europeo”. Si sarebbe dovuto affrontare i presupposti stessi della Ragione Kantiana, nella loro intima sostanza, in una sorta di “Illuminismo dell'Illuminismo”, quale quello tentato, senza riuscirci, dai Filosofi di Francoforte. Ma il dibattito della cultura occidentale nei cinquant'anni succeduti al libro del Blumenberg, lungi dal percorrere tale cammino, ha insistito in un Razionalismo sempre più radicale e totalmente secolarizzato, persistendo in un ostinato rifiuto di qualunque apertura metafisica e di un corretto dialogo tra Ragione Fede. Eppure – come ha scritto Larry Siedentop, filosofo statunitense di orientamento laico-liberale, già allievo di Isaiah Berlin – proprio il Cristianesimo giocò un ruolo decisivo nella valorizzazione del rapporto di collaborazione tra Fede e Ragione. Solo nel XVIII secolo – appunto con l'Illuminismo – è esploso quel profondo conflitto fra Secolarismo e Fede, che vede oggi, nelle società occidentali, la forte recrudescenza che lo fa apparire inevitabile, relegando in una posizione subalterna l'ipotesi di una civiltà in cui istanze religiose e realismo secolarista potevano coesistere. Ma, a questo punto, è intervenuto il Laicismo – assunto a sua volta a concezione “religiosa” - a far prevalere la concezione conflittuale.
            La sconfitta dell'ipotesi conciliatrice tra Secolarismo e fedi religiose è stata ben rilevata, ad esempio, da Monsignor Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, che ha individuato, in Occidente, “un acuto processo di secolarizzazione che tende progressivamente ad estenuare il cristianesimo nella sua capacità di produrre civiltà. Solo nel contesto occidentale si è sviluppata per la prima volta una cultura che costituisce la contraddizione in assoluto più radicale, non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali della Società”. Un radicale positivismo, “dogma della modernità”, per costruire un Ordine senza Dio e fondato su una antireligiosità assoluta, che nega la natura e l'identità umana, ignora il Diritto naturale e la Verità, dando vita a quella che Papa Benedetto ha coraggiosamente denunciato come Dittatura del Relativismo.
            E contro questa, paradossalmente intollerante, dittatura relativista, che rende impossibile distinguere il Vero dal falso, il Bene dal Male, il Bello dal Brutto, vengono battendosi fin dalle sue origini, nell'Età dell'Illuminismo o, addirittura, della Riforma protestante con la sua “libertà di coscienza”, i critici della modernità con scarso successo, a dir il vero, dato l'ovvio, oppressivo predominio, nel sistema massmediatico, della cultura dominante, che è quella progressista e modernista.
            Con un'ampia ed esauriente rassegna, ha dato spazio a tali autori, coraggiosamente controcorrente, Tommaso Romano, editore, organizzatore culturale e uomo di pensiero egli stesso, con un corposo (oltre duecento pagine) ed elegante volume, edito per conto dell'Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici [Antimoderni e Critici della Modernità in Sicilia dal '700 ai nostri giorni, ISSPE, Palermo, 2012] e concepito dal particolare angolo visuale della sicilianità. In un'acuta e illuminante Introduzione, il Curatore rende ragione di tale scelta a favore di quella Sicilia che “Sofocle ebbe a chiamare Italia Illustre” e si può assumere come “metafora di un orizzonte certo più vasto”, “mosaicosmo siciliano [di] non redenti, non arresi all'ineluttabile modernità, pur con cento e cento differenze e tuttavia con un denominatore comune di critica e/o di spirito”. In Francesco Mazziotta (1859-1927) e Nunzio Russo (1841-1906) – citiamo solo a titolo d'esempio emblematico – appaiono più evidenti le peculiarità siciliane della critica mossa alla Modernità dagli autori studiati da Tommaso Romano: il primo auspice di un'Italia confederata, in cui l'autonomia della Sicilia si baserebbe sul motto secondo il quale “ciò ch'è legittimo e giusto è inviolabile” in quanto fondato sulle “libertà reali”, alla Sicilia sempre riconosciute, e non dedotte dall'astratta Libertà giacobina che l'Unità affermava; il secondo “...intransigente con la modernità … ritenne che Dio lo chiamasse alla missione di evangelizzazione della Sicilia dopo la tempesta rivoluzionaria che aveva portato (…) anche i processi di laicizzazione dello stato e di secolarizzazione della società che apparivano a lui come la dimensione storica di una guerra metastorica, apocalittica che (…) aveva coinvolto nazioni, governi nati dalla rivoluzione, sette massoniche, singoli individui in un progetto mondiale di estromissione di Gesù Cristo e della Chiesa dalla vita e dagli ordinamenti sociali”.
            Non è certo qui il luogo per estendere il discorso nemmeno ad una piccola parte dei centosessanta nomi rievocati nel ricco dizionario (il lettore li scoprirà da sé, uno per uno) ma va pur detto che tra di essi figurano personaggi della levatura di un Padre Brucculeri e di un Michele Federico Sciacca, di un Vito d'Ondes Reggio e di un Padre Tapparelli D'Azeglio, di un Nicola Spedalieri e di un Domenico Fisichella, di un Julius Evola e di un Emanuele Samek Lodovici (il rivelatore di quella metamorfosi della gnosi che Don Ennio Innocenti ha smascherato come Gnosi spuria e che inganna, oggi, anche intelletti e spiriti non in mala fede), per andare ad un Nicolò Rodolico, a un Giuseppe Tricoli, a un Gaetano Falzone, intellettuali versati nelle discipline più diverse e di differenti impostazioni culturali, ma aventi in comune – come opportunamente precisa il Curatore dell'opera – la “posizione favorevole al Diritto Naturale e critica nei confronti della modernità”, in una tesi, ammette Tommaso Romano, “sicuramente ardua, anche metodologicamente, ma chiara negli assunti e nelle proposte per una insorgenza interiore, prima di tutto spirituale e intellettuale e morale, che parta appunto da una revisione profonda, intima, soggettiva per poi essere in grado di irradiarsi come cultura e azione, anche storica, civile e politica, nel senso più alto del termine” e contrastare, ancora e più che mai, la “crescente crisi di valori, di identità e di senso, che caratterizza il  mondo moderno e la sua logica”. Una logica che, scrisse benissimo padre Cornelio Fabro, “si rovescia in umiliazione della ragione, incapace di raggiungere qualunque certezza del sapere, ridotta al nulla dal dubbio radicale e assoluto” che la ispira. Irretito in tale incapacitante e contradditoriamente totalitario relativismo, “perso il Timor di Dio, l'uomo contemporaneo non vuole neppure, ormai – è ancora Tommaso Romano a farlo notare – farsi Dio, ma annullarsi nell'insignificanza, annegare nel non-senso, nell'ovvio, verso una sorta di trasformazione antropologica” di un uomo, che pretende di poter vivere nella completa assenza di Dio”.         
            Eppure, ci ricordava Papa Benedetto, quando era, semplicemente, il Cardinale Ratzinger, “Quaerere Deum – cercare Dio - e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura”.
            A questo punto, pur riconoscendo gli indubbi benefici materiali che la modernità ha portato,  si è tentati di dire, con Voegelin, che “la morte dello spirito è il prezzo del progresso”. In qualche misura sembra un fatto che non si può negare. Ma occorre anche ammettere che ben venga il progresso con tutti i suoi benefici, purché si riesca a non lasciar soffocare lo spirito. È un compito a cui si può – si deve – dedicare la vita. Come hanno fatto questi Nostri Maggiori. E se siamo qui a leggere e disquisire di tutto ciò, forse, c'è ancora speranza.

domenica 11 settembre 2016

Guglielmo Peralta, "La via dello stupore" (Ed. Thule)


di Giuseppina Rando


     Il saggio La via dello stupore nella visione est-etica della soaltà  di Guglielmo Peralta merita di essere attentamente letto perché l’argomento si riveste di pregnante attualità in un’epoca, la nostra,  che di fatto enfatizza la “ destrutturazione “, lo smantellamento della soggettività e della persona fin quasi a frantumarla. Un simile contesto si era già verificato all’inizio del secolo scorso (la riflessione filosofica sul postmodernismo non era ancora materia di dibattito!) quando il filosofo tedesco Nicolai Hartmann scriveva: “La vita dell'uomo d'oggi non è propizia all'approfondimento… L'uomo moderno non è solo quello della fretta senza riposo, ma è anche lo stordito, svagato, l'uomo che nulla più eleva, prende, e commuove interiormente…Anzi fa virtù della sua superficialità”; incapace di meraviglia e di entusiasmo ama “scivolare sopra tutte le cose senza essere toccato da nulla, è un comodo modus vivendi. Perciò si compiace della posa di superiorità, che nasconde la sua interiore pochezza.” (Etica ,1926- I)
     A Guglielmo Peralta, studioso e attento osservatore dei comportamenti sociali, non sfugge il  processo di reificazione e di omologazione in atto con la derivante scomparsa delle differenze autentiche tanto da offrire, in questa sua ultima pubblicazione, un possibile argine a tanta deriva restituendo dignità e valore alla persona.
     Un saggio che affascina  il lettore per chiarezza e al contempo profondità di pensiero.
      In una struttura di impianto filosofico e con una prosa stilisticamente poetica, l’autore rileva   come la dimensione conoscitiva ed oggettivante non risolve le diverse problematiche per cui urge  ridare valore alla sfera spirituale dell’uomo: emozionalità, volitività, intersoggettività fanno di ognuno di noi, di ogni singolo una realtà “personale” che si significa e che si può rapportare al mondo circostante non unicamente nella modalità del conoscere e del sapere, ma anche con la singolarità dello sguardo, della creatività, della visione, dello stupore, della parola ontologicamente fondata. Concetto questo che Peralta mette in evidenza già in esergo riportando un pensiero di Karol Wojtyla:

Io credo che l'uomo soffra soprattutto
per mancanza di visione.
Si soffre per mancanza di visione.
Deve allora aprirsi la strada fra i segni
fino a ciò che gravita dentro
e che matura come frutto nella parola

e poi via via lo riprende in ogni pagina del testo fino a scrivere che "riempirsi gli occhi di stupore è riscoprire il Paradiso".
    Non è  una sorta di rifugio nella trascendenza, ma un ritorno alla libertà della “persona spirituale" a quel soggetto “finito" tra esseri "finiti" che riesce a vedere spiragli di luce nell’aprirsi all’ "Essere" nella sua totalità di finito e infinito, di realtà e sogno, apertura possibile tramite il potere creativo connaturato alla "parola".

     Dalla Genesi ( 1,3-4 ) apprendiamo che la creazione avviene per un atto di “parola”. Dio dice: “Sia la luce” e "La luce fu". Nomina e subito le cose assumono uno stato ontologico.
     E ancora nel Nuovo Testamento, nel quarto Vangelo, Giovanni esordisce: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
     Dio non creò quindi il Verbo perché la Parola è Dio stesso.
     E la parola Una si fa molteplice e diventa - come scrive Agostino - “le parole dell’uomo“, parole che, utilizzate consapevolmente, rivelano la propria intrinseca forza creativa.
     Ed è proprio il potere “creativo“ della parola la cifra che qualifica il saggio “La via dello stupore nella visione est-etica della soaltà" , dove  Guglielmo Peralta,  poeta e scrittore - come si è già accennato -  indica all’errare umano una nuova via di salvezza: la ricerca di parole nuove, parole di verità, capaci di elevare, parole che rendono leggibile il mondo.
     Intimamente lacerato e convinto della inautenticità della logica comune e dominante, l’autore  affonda il proprio pensiero nella radice silenziosa dell’Essere con cui stabilisce un dialogo fondato sull’ascolto di quel silenzio ricchissimo di potenzialità che il frastuono e i fatti della storia hanno svuotato di senso.
      Ponendosi all’ascolto dell’Essere ne coglie il linguaggio aurorale, il guizzo di luce che dà origine a nuove parole, parole che “sanno”  vedere oltre le apparenze “un’epifania che riempie di meraviglia il cuore e la mente discoprendo la vera natura del mondo e delle cose”.
     Soaltà, fondendo in sé sogno e realtà, svela la visione di uno “spettacolo infinito”, apre ad una realtà altra. “E questa realtà è il sogno che edifica il mondo e ne garantisce l’esistenza reale. Soaltà è parola eponima che nomina il mondo interiore o della soggettività”.
     In questo personalissimo palcoscenico “dietro le quinte dell’occhio, lo s-guardo, unico attore e spettatore, dà inizio allo spettacolo”. Spettacolo che rimanda il lettore allo stupendo poemetto di Rainer Maria Rilke Vita di Maria di cui si riportano alcuni versi:

 L’angelo curvò verso di lei un viso
di giovinetto; lo sguardo di lui e il suo s’incrociarono
come se tutto fosse vuoto a loro
e come se quello che milioni d’altri sguardi hanno cercato,
raggiunto, sopportato
fosse in loro penetrato: solo lei e lui; guardare e guardato,
 occhio e gioia dell’occhio…
Ed entrambi provarono timore.
Allora l’angelo cantò la sua melodia.

      Come la melodia dell’Angelo rilkiano il “giardino soale“ di Peralta unito a “l’implume conoscenza,  prende il volo sulle ali del sogno pantocratore… La soaltà, che nella luce “estiva” si palesa, è la visione che ac-coglie il mondo nella sua unione di sogno e realtà correggendo la conoscenza difettiva che abbiamo di esso a causa dell’occhio, il quale, incapace di discernere il sogno, dà carattere di evidenza a una realtà, che il pensiero riflettente giudica pura apparenza lasciando indovinare, al di là di essa, una realtà altra. E questa realtà è il sogno che edifica il mondo e ne garantisce l’esistenza reale.”
     Nella soaltà di Peralta sembra, quindi, svelarsi il mistero dell’incontro tra cielo e terra, tra divino (sogno) e umano (realtà) tra infinito e finito; e soltanto chi riesce a cogliere il guizzo di quella luce arcana può vedere con occhi nuovi il mondo e superare ogni timore: "Quando si apre la scena, quando le porte del tempio si spalancano e appare la diafana visione, un godimento, un senso di beatitudine pervade il sognatore e lo incanta ripagandolo dall’angoscia".
     Parola priva di nominazione è soaltà, priva di ogni collocazione spazio/temporale e di  apparenze,  incarna l‘Im-possibile, parola che è  la cosa stessa  sub specie aeternitatis, parola che trasforma e rinnova e guida all’esistenza vera.
      L'esigenza di Peralta sembra quindi quella di ridefinire l'etica nella direzione di una rivalutazione della vita  dello spirito come primario veicolo delle essenze valoriali…”Lo spirito è l’essere e il principio del mondo. In quanto essere, è infinito presente, ossia presenza eterna e in(di)visibile….E il sogno è lo spirito e la realtà stessa. Il sogno, dunque, è la presenza necessaria per l’a-venire del mondo, il quale è la venuta dello spirito, la sua "a-posteriorità", l'avvento dell'essere nella forma dell’ex-sistenza, o del non-essere, che non è la negazione dell'essere, ma il modo diverso di essere dello spirito, ovvero, il suo modo di essere molteplice e diversamente  infinito.”
     L’autore indica così momenti di esperienza che la persona coglie come verità di sé, e in cui essa si identifica, momenti che si incarnano soprattutto in rapporti con l’altro da sé e in questa trasposizione del sé rende l'oggetto, ossia la realtà, forma funzionale dello spirito.
     “La soaltà non è una visione metafisica né astratta, ma doppiamente realistica.”… e ancora, si legge: “Essere realisti è toccare il sogno nel corpo della realtà e costatare che questa non è solo materia, natura morta, ma spirito, perché tale è il sogno che la anima. Riconoscere la natura intima delle cose, in virtù degli occhi educati dallo sguardo che ne rivela l’essenza spirituale, significa restituirle alla loro trascendenza, al loro “essere” disincarnato e proclamare la loro resurrezione”.
È lo sguardo penetrante del “sapiente” che sa scoprire nelle realtà, anche minime, segnali di vita e di bellezza, lo sguardo illuminato del credente che sa cogliere in esse l’impronta del Creatore.    Bellezza connaturata all’Essere creatore che si riflette nel creato, come splendore del vero.
      La Bellezza acquista così consistenza e concretezza, non è più una realtà effimera e transitoria,
ma qualcosa che muove la libertà dell’uomo-persona sul piano etico. Un rimando - a mio avviso - a Marx Scheler, il filosofo tedesco che in Ordo amoris scrive: “all'essenza del mondo morale appartiene il fatto che esso si manifesti, proprio nel caso della sua massima perfezione, nello spazio del bene oggettivo e universalmente valido, in una pienezza mai definitiva di individuali uniche formazioni assiologiche…”,  vale a dire che ciascun individuo ha una vocazione.
      Tale vocazione, se riconosciuta e accettata, sostiene Peralta, porta alla luce il posto peculiare che spetta a un determinato soggetto nel piano salvifico del mondo.
     Etica ed estetica così si completano nella contemplazione della Bellezza e ogni atto morale viene vissuto più intensamente.
     Nella contemplazione o stupore permane una tensione razionale che si traduce in lucidità di sguardo, commosso e capace di riconoscere la Bellezza. 
       In questa pregevole e singolare opera dai risvolti est-etico/filosofici, Guglielmo Peralta, poeticamente, restituisce visibilità alla Bellezza e indica una nuova e perseguibile via di salvezza,  quella di lasciarsi affascinare dalle meraviglie dell’Universo, altrimenti come scriveva l’intellettuale  inglese Gilbert Chesterton l’uomo perirà non per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia, cioè di stupore, di contemplazione, di profondità interiore.



sabato 10 settembre 2016

Pasquale Attard, "Dal Califfato al Regno" (Ed. Thule)

di Giovanna Sciacchitano

La ricerca interiore  e la meditazione che hanno preceduto le due pubblicazioni di Pasquale Attard “Il tuo Regno viene” e “Dal Califfato al Regno” entrambe edite da Thule, fanno dei versi di questo autore <<atipico>> un’epifania di luce, in tutto comparabile all’Epifania del Signore, allo svelamento della Verità, del Divino, “come condicio sine qua non”, affinchè l’uomo possa uscire dalle tenebre in cui è avvolto. Nella raccolta  Dal Califfato al Regno, titolo che già auspica un percorso di salvezza, l’autore definisce con più rafforzata convinzione e passione i temi della sua poetica e li esprime con un versificare libero e semplice, spesso accompagnato dalla musicalità delle rime. Strategie metriche, foniche e semantiche mirate danno rilievo a contenuti il più possibile coerenti con il messaggio poetico dell’autore.
 Questa scrittura lineare in realtà nasconde una complessità che rimanda ad una filosofia esistenziale e teologica che regala input al cambiamento. Attard racconta con immagini forti, attraverso procedimenti retorici causa-effetto finalizzati ad enfatizzare parole chiavi, l’egocentrismo dell’uomo, in particolare la decadenza morale dei tempi, la tecnologia che annulla quella spiritualità che dovrebbe far prendere coscienza dell’indifferenza verso sé stessi e verso il prossimo.
Come lo stesso poeta scrive nella nota introduttiva al libro <<non è più tempo d’incertezze nelle nebbie del razionalismo anti-umano…è tempo di decidersi per Dio o per mammona>>.
L’uomo ha bisogno di fermarsi, di riflettere e cogliere il messaggio d’amore di Dio, fonte di rinascita e in questa <<epifania>> divenire un’unica casa con l’Altissimo in una tensione trascendente che non si esaurisce mai. Come si evince dalla poesia Incontro:

“… fra sogno e visione,
nella speranza
di germoglianti radici,
fra presente
e ieri
nell’ardente sete
di futuro …….
nella mistica attesa,
dono infinito
del Padre ierante
il finalmente 
“Eccomi”

E da questa fusione nell’Amore nascono sentimenti di speranza e di fiducia in un tempo migliore. E’ la metafora della vita: la gioia e il dolore, la continua lotta tra il bene e il male. Una contrapposizione di carattere etico e spirituale che impone una scelta, il sempiterno binomio buio/luce.
Nelle poesie di Pasquale Attard è presente una ricca ed eloquente simbologia, soprattutto collegata alla Storia Sacra e a ragione il poeta augura <buon viaggio> al lettore che si appresta alla lettura dei suoi versi ; vero percorso di liberazione  dal male. Infatti, proprio per lo stile icastico usato, l’autore offre rappresentazioni efficaci che ci portano alle immagini bibliche della Genesi e dell’Apocalisse, cui Attard fa spesso riferimento. La parola, dunque, che si traduce in rappresentazione per rimanere fedele all’importanza rivestita dalla Parola all’interno della Bibbia, rispettando quella che è l’ermeneutica biblica basata soprattutto sul principio imprescindibile che la Bibbia è libro ispirato da Dio e pertanto punto di riferimento unico per la fede dei cristiani e per la loro condotta morale.
Alcuni versi dalla esplicativa poesia Dal Califfato al Regno.

“…E’ caduta, è caduta
la grande Babilonia,
in un attimo
è venuto il tuo giudizio,
...
E’ tempo, adesso,
delle nozze dell’Agnello,
col popol suo
nel modo preparato.
Alleluia, salute,
gloria e potere
al nostro Dio;
dategli lode
voi tutti suoi servi.”

La vittoria sul male, ci dice Attard, è la sola condizione per l’avvento del Regno di Dio sul mondo.
Non mancano nella raccolta poesie di intenso lirismo che, a volte, riducono ad una più terrena umanità, ma non per questo meno nobile, il sentire di Pasquale Attard, come la poesia <<Concerto del mare>>, dedicata a Giovanni Falcone, o <<Il canto di mia madre>> o ancora <<C’era una volta>>, nostalgico ritorno al tempo passato, alla vita “in bianco e nero”, quando la tecnologia non aveva invaso ogni campo dell’esistenza e c’era ancora posto per il sogno, unica e vera molla per realizzare il proprio progetto di vita.                  

sabato 3 settembre 2016

Alberto Monticone, Enzo Forcella, “Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale”,(Ed. Laterza,

di Domenico Bonvegna

Leggendo il libro di Del Boca,“Maledetta guerra”, Piemme (2015), tra i tanti temi affrontati, mi ha incuriosito il fenomeno dei processi più o meno sommari ai tanti e troppi ragazzi impegnati in una guerra sanguinosa. Del Boca fa riferimento al libro dello storico Alberto Monticone e del giornalista Enzo Forcella, “Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale”, edizioni Laterza,  (2014). Il testo gode è di una straordinaria solitudine. Infatti la prima guerra mondiale presenta una bibliografia sterminata, oltre 60.000 titoli, ma uno solo ha analizzato specificatamente le sentenze emesse dai tribunali militari. Questo libro è appunto quello di Monticone e Forcella, che sono riuscito casualmente a leggere perchè prestatomi da un amico.
Le sentenze raccolte in questo volume sono 166, scelte tra circa 100.000, contenute in due fondi dell'Archivio Centrale dello Stato in Roma. Secondo Forcella,“Per circa cinquant'anni l'aspetto punitivo e repressivo della prima guerra mondiale è stato pressoché ignorato dalla cultura italiana. Storici illustri accennavano appena, quando vi accennavano, alle varie manifestazioni del dissenso e ai modi con cui vennero fronteggiate. Da una parte i documenti che avrebbero potuto far luce su queste vicende erano tenuti gelosamente nascosti, dall'altra non v'era neppure l'interesse a disseppellirli”. Le sentenze riguardano, diserzioni, ammutinamenti, discorsi e corrispondenze disfattiste, casi di autolesionismo. Si tratta di un“immenso cimitero di drammi umani”, scrive Forcella nella prefazione.
I documenti pubblicati in questo libro sono delle testimonianze preziose, sino ad oggi ignorate.“Se si eccettuano le poche lettere di combattenti già note (le lettere anticonformiste, bloccate dalla censura o sfuggite al suo controllo, non quelle edificanti dei vari epistolari a sfondo patriottico) e in una certa misura le canzoni 'proibite', queste sentenze costituiscono la sola 'fonte' non letteraria e non memorialistica per ricostruire la 'storia coscienziale' delle classi subalterne durante la prima guerra mondiale, per conoscere e valutare i vari fermenti di opposizione, le ribellioni e le proteste con cui la massa dei contadini soldati reagiva ai sacrifici, alle sofferenze, alle crudeltà che le erano stati imposti”.
E' l'altra faccia della realtà della guerra, di quelli“che non vogliono combattere o che combattono loro malgrado bestemmiando e piangendo: perchè non condividono le idealità e gli obiettivi della guerra patriottica[...]”. Forcella è abbastanza critico sull'oleografia interventista e smonta il mito che univa le due Italie, un disegno sostanzialmente fallito. Tutti quei contadini delle varie regioni obbligati a combattere da “una minoranza audace e geniale che trascinerà per la gola questa turba di muli e di vigliacchi a morire da eroi[...]”. Combattenti però con “alle spalle gli spettri della polizia militare e di plotoni d'esecuzione”.
Per Forcella“basterebbe una sola fucilazione per mettere a nudo la sostanza autoritaria sulla quale poggia il preteso consenso delle masse combattenti”. Peraltro basta leggere il bando di Cadorna per capire come le autorità militari hanno paura dell'isolamento di fronte alla popolazione e quindi minacciano pesantemente.
In pratica Forcella sottolinea la gravità del numero di tutti quelli che hanno avuto a che fare con la giustizia penale di guerra. Tra il 1915 e il 1918 ci furono 870.000 denunzie all'autorità giudiziaria. “In tre anni e mezzo di guerra circa il 15% dei cittadini mobilitati e il 6% di coloro che risposero alla chiamata prestando effettivo servizio militare furono oggetto di denunzia ai tribunali militari”. Sono cifre che non hanno bisogno di tanti commenti.
Le descrizioni che emergono dalle sentenze sono significative, per esempio,“c'è gente che non solo sfida il plotone d'esecuzione, ma accetta deliberatamente il rischio di rimanere cieca per tutta la vita”, come i 19 contadini zolfatari siciliani che “si presentano all'ospedale con gli occhi pieni di pus blenorragico dopo essersi in precedenza procurati un tracoma strofinandosi gli stessi occhi con indefinibili 'sostanze caustiche ed irritanti'”. Fenomeno che con il passare degli anni acquista dimensioni di massa, tanto che bisogna istituire in ciascun corpo d'armata degli speciali “Ospedali per autolesionisti”.
Altro capitolo squallido è la censura postale, “uno dei principali collaboratori invisibili della giustizia militare, cioè il canale attraverso il quale tanti combattenti finiscono sotto processo”. Senza trascurare poi la censura preventiva sulla stampa. Infine un altro“collaboratore invisibile” dei tribunali militari di cui fanno spesso riferimento le varie sentenze prese in considerazione dal libro, è l'arma dei RR. Carabinieri, a cui erano affidati i compiti di polizia militare. Praticamente i carabinieri svolgono un ruolo ingrato, a volte si travestono da soldati per carpirne confidenze. In pratica agiscono come una vera e propria polizia segreta. Per questo sono odiati dai soldati.
Sempre nella prefazione, Forcella si interroga sul perche questi soldati si ribellano. Quali sono i sentimenti e le ragioni che inducono migliaia di persone a compiere le azioni che le condurranno davanti ai tribunali di guerra.“In nome di quali valori, nel quadro di quali ideologie affrontano il rischio delle fucilazioni, delle lunghe pene detentive, delle compagnie di disciplina, della vergogna civile?”.
Forcella raggruppa il dissenso in due gruppi: le ribellioni di motivazioni ideologiche-politiche, esplicite o abbozzate come quelle riguardanti il “processo di Pradamano”. E quelle dei comportamenti “che pur non avendo nulla a che fare con la “delinquenza comune”, rispecchiano una opposizione di tipo preideologico e apolitico”.
Nell'ambito della querelle degli interventisti e neutralisti, Forcella fa riferimento ai principali protagonisti delle ribellioni politiche come i socialisti e gli anarchici, ma mancano del tutto i riferimenti all'opposizione cattolica. Anche se secondo gli autori del libro, non c'è stata una vera e manifesta opposizione di cattolici. Per quanto riguarda la gerarchia ecclesiastica, Forcella rileva un atteggiamento favorevole all'inizio della guerra e poi una rassegnata obbedienza. Infine per Forcella, anche la frase che definisce la guerra“inutile strage”, fatta da Benedetto XV, “aveva una portata, per così dire, esclusivamente diplomatica e non intendeva assolutamente costituire un incitamento alla disobbedienza civile e militare”. Anche se per la verità i contadini soldati nelle trincee ne facevano ogni giorno diretta esperienza dell'inutilità della strage e la interpretavano proprio in questo senso.
La giustizia in questa guerra di “massa, con forte caratterizzazione ideologica e con una mobilitazione totale che investe oltre ai membri della popolazione validi per il servizio armato tutta la società civile - per Forcella - è qualcosa di molto relativo”. Il giudice non deve stabilire la verità tra le parti, ma deve dare degli esempi e riaffermare la volontà del governo che ha deciso la guerra. Le norme sono nello stesso tempo rigide ed estremamente elastiche. Si colpisce da una parte con estrema durezza, fino alla pena capitale; dall'altra,“si considera delittuoso qualsiasi comportamento lasciando così ai giudici un amplissimo margine di discrezionalità”. Il famoso bando del generale Cadorna, è un esempio tipico di generalizzazione:  sono punibili tutte le espressioni anche generiche: denigrare le operazioni di guerra, disprezzare l'esercito, oltraggiare persone, diffondere certe notizie, etc.
Praticamente è abbastanza eclatante l'agghiacciante episodio dell'aspirante ufficiale che finisce davanti al plotone di esecuzione per aver detto nel corso di una cena con alcuni colleghi in una casa privata che non gli importava niente se i nemici fossero arrivati a Milano. Forse non gli sarebbe toccata questa sorte se non fosse stato di origine tedesca e non avesse lavorato in Germania.
“Al fronte costituisce reato far sapere alla propria famiglia che la guerra sta provocando una quantità di morti”. Addirittura il governo decide e fissa quanti millimetri un giornale deve dedicare agli annunci mortuari. Ecco perchè i giornali devono fare propaganda sminuendo la crudeltà della guerra. “Denunciate alla stampa gli stranieri e gli italiani sospetti”, raccomanda “La Voce”, la rivista fiorentina, diretta da Prezzolini. Praticamente in quarantadue mesi di guerra,“la paura del disfattismo rimbalza continuamente da un capo all'altro del paese, dà il tono alla propaganda, influenza profondamente l'attività della censura e della giustizia militare, diventa una ossessione”.
Nella 1 guerra mondiale emerge una caratteristica che poi sarà presente in tutte le guerre rivoluzionarie ideologiche:“la nuova guerra ideologica, dai suoi combattenti non pretende soltanto obbedienza ma anche entusiasmo, che non si contenta di condannare ma pretende il ringraziamento dei condannati ai quali è stata rivelata la verità e la luce, che trasforma i giudici in una compagnia di predicatori e di pedagoghi”.
Un giovane esponente dell'interventismo ricordava: “la storia ci ha riservato il compito tragico di far trionfare, come i sanculotti francesi, le idee di libertà sulla punta delle baionette”. Il giornalista conclude sottolineando la nefandezza di questi ideali collettivi, che si presentano nel cinquantennio successivo,  e che cercano di avanzare sulla punta delle baionette imponendosi con la “solidarietà coatta”. “le pretese di questo tipo avanzate dai 'sanculotti' di qualsiasi colore sono davvero tragiche[...]”.
In una nota gli autori specificano che in questa antologia delle sentenze, sono stati omessi i nomi dei condannati, dei quali si danno solo le iniziali, in modo che non possano essere individuati. Questo criterio è stato adottato per un senso di rispetto verso i condannati. Si è fatta eccezione alla regola di tacere i nomi degli imputati solo in due sentenze di natura politica, nelle quali la colpa è rappresentata da una affermazione di ideali. Una di queste è il processo di Pradamano, il più importante processo politico di tutto il conflitto. La sentenza del Tribunale militare prende in esame alcuni centri sovversivi dell'esercito combattente in collegamento con altri centri rivoluzionari dell'interno che avevano lo scopo di diffondere le idee affermate nei convegni socialisti di Kienthal e Zimmerwald, dove si sosteneva l'azione per una pace immediata e senza annessioni. I centri giovanili socialisti dei quali provenivano o a cui avrebbero fatto capo gli imputati erano quelli di Vicenza, Cremona, Schio e Messina.
Con mia sorpresa constato che tra i 19 imputati ci sono un sottufficiale domiciliato a S. Teresa di Riva e un ragioniere domiciliato a Mandanici. Peraltro il militare santateresino risulta abbastanza attivo nel tessere i rapporti con gli altri cosiddetti sovversivi, per questo viene condannato a sette anni di reclusione militare ed alla dimissione del grado.  

venerdì 2 settembre 2016

Lorenzo Del Boca, "Maledetta guerra" (ed. Piemme)

di Domenico Bonvegna

Per avere l'idea che cosa ha significato la 1 guerra mondiale per l'Italia, bisogna cominciare dai numeri. In un Paese che contava 34 milioni di abitanti, gli arruolati furono cinque milioni e 900.000. Nel 1920 si parlò di 517.000 “caduti”, che nel 1925 diventarono 572.000, mentre nel 1926 salirono a 677.000. Sembra però che da questi numeri mancano i morti in prigionia, che furono almeno 100.000, in più i reduci ricoverati negli ospedali psichiatrici. Ecco questi dovrebbero essere i numeri dell'”odiosa macelleria”, della guerra di trincea, descritti dall'ottimo e documentato studio di Lorenzo Del Boca, “Maledetta guerra”, pubblicato da Piemme nel 2015.
Per Del Boca, è meglio dire che la guerra mondiale costò all'Italia un milione e mezzo di vittime.“Ogni mille uomini, 105 non tornarono; ma la percentuale risultò poderosa nel Sud; 112 in Campania, 113 in Calabria, 138 in Sardegna, 210 in Basilicata”. Praticamente, paradossalmente, “alla gente 'liberata' dal Risorgimento toccò il sacrificio maggiore per 'liberare' anche le regioni del Nord-est”.
Per non parlare dei numeri di vittime riguardanti gli altri paesi in guerra, come l'Austria, la Germania, la Russia e la Francia, per ricordare quelli più impegnati nel conflitto mondiale. Un conflitto, quello della “Grande guerra”, che ha accatastato venti milioni di morti, probabilmente il più sanguinoso dell'intera storia umana, una vera carneficina (per non parlare delle epidemie collegate, altrimenti si superano i sessanta milioni). Solo a Verdun, nel 1916, i francesi persero mezzo milione di uomini tra morti e feriti e i tedeschi 400.000. “Quando la guerra terminò, - scrive Alberto Leoni - l'11 novembre 1918, le perdite umane avevano raggiunto livelli che, ancora oggi, appaiono inconcepibili, concentrate nelle popolazione maschile giovane. Percentuali di perdite del 73 per cento fra i mobilitati francesi o del 64 per cento per i tedeschi rendono l'idea”.(Alberto Leoni, “Il tremendo costo umano”, in Il Timone, aprile 2014)


L'attentato di Sarajevo.

Gli storici si sono interrogati sui vari motivi dello scoppio della guerra, sui libri di Storia, il punto fermo resta sempre l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell'impero austro-ungarico. Il libro di Del Boca, racconta scenari inediti, almeno per i libri scolastici. Praticamente Ferdinando era sgradito a tutti, anche agli austriaci, era un peso del quale si sarebbero volentieri liberati. L'incidente che lo coinvolse a Sarajevo, per Del Boca,“avrebbe risolto, contemporaneamente, due problemi: eliminare un personaggio ingombrante e costruire il pretesto per farla finita con i serbi”. Per questo hanno nascosto deliberatamente tutti i segnali negativi che provenivano da quel viaggio in Serbia.“Di fatto non vennero adottate nemmeno le minime precauzioni”. Insomma, lasciarono che Francesco Ferdinando si cacciasse nella trappola che gli era stata preparata”.Una superficialità che si potrebbe attribuire a un paese mediterraneo come l'Italia, non a degli austriaci, con la stessa testa e la stessa mentalità dei tedeschi.


La prima guerra democratica.

Così si arrivò all'inevitabilità della guerra, voluta, a quanto pare, da tutte le cancellerie europee, tranne però dalle popolazioni.“Furono non più di duecento uomini, fra politici e militari […] a decidere le sorti del mondo”. A questo proposito è interessante quello che scrive lo storico Francois Furet, in cento anni dal 1814 al 1914,“si sono combattuti soldati volontari o professionisti, non popoli interi. Ma s'è trattato di guerre brevi, che non hanno inventato il connubio fra l'industria e la democrazia [...]nessuna delle guerre europee ha sconvolto l'ordine internazionale in maniera duratura; nessuna ha messo in causa il regime, sociale o economico, delle nazioni in conflitto”. (Francois Furet, “Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo”, Arnoldo Mondadori editore, 1995)
Non sono più le guerre “monarchiche”, nelle quali si mobilitavano i fedeli eserciti, ma non tutte le forze del regno, si lottava per “arrotondare il loro territorio. I re potevano venir sconfitti sul campo di battaglia e conservare il trono. Con la guerra del 1914-18, finite le caste guerriere e gli eserciti professionali, finito il calcolo dei costi e benefici, il conflitto s'è esteso dalle Corone alle nazioni, dagli eserciti ai popoli”. In pratica,“l'intera attività di produzione si trova a essere subordinata agli imperativi della guerra e tutto l'ordine civile è allineato sull'ordine militare”. (Ibidem) Sostanzialmente da questo momento,“alle guerre parziali degli aristocratici e dei re succede la 'mobilitazione totale' degli Stati e dei 'lavoratori', l'ultimo ritrovato dello spirito di progresso e dell'umanesimo 'tecnico'”.
Per Furet, la guera del 1914, fu “una guerra democratica perchè è fatta da numeri: dei combattenti, dei mezzi, dei caduti”. Pertanto,“per questo motivo più che una vicenda militare è una vicenda civile; più che un combattimento di soldati, è una prova subita da milioni di persone strappate alla loro esistenza quotidiana”. Per le straordinarie e interessanti considerazioni è opportuno citare ancora Furet:“la guerra è combattuta da masse civili irreggimentati, passati dall'autonomia civile all'obbedienza militare per un periodo di tempo che non sanno quanto durerà, gettati in un inferno di fuoco dove più che calcolare, osare o vincere devono soltanto 'resistere'”. E sempre in riferimento alle masse, Furet, descrive egregiamente come sono state immerse per anni in una battaglia “totale”.“Hanno sacrificato tutto all'immenso meccanismo delle guerra moderna, che ha falcidiato milioni di vite umane nel fiore degli anni, amputando popoli e lasciando vedove le nazioni [...]La ferocia della guerra, a sua volta, più che spingere i soldati all'odio ha portato i civili a rincarare la protesta per i loro sacrifici. Gli scopi del conflitto si sono ingigantiti e si sono persi nell'immensità della guerra, diventando infiniti, come il campo di battaglia”.


La Guerra raccontata dalle lettere e dai diari.

Ritornando a Del Boca, in “Maledetta Guerra”, utilizza molto le le lettere e i diari dal fronte, peraltro, sempre trascurati - al più lasciati alle cure delle Pro Loco che, di tanto in tanto, potevano scoprire qualche scritto di un loro concittadino. Ma quei fogli raccontano un'altra guerra. Una guerra insensata, da combattere con armi vecchie, indumenti inadeguati, cartine sbagliate. Con i piedi a mollo nel fango delle trincee, i gomiti appoggiati sulla neve, facendo colazione a un passo dai corpi dei caduti. Altro che l'epica e l'eroismo, altro che medaglie al valore. Dalla voce dei soldati traspare il dolore, la sofferenza, la necessità di obbedire a ordini spesso insensati e la voglia di mandarli tutti a quel paese. "Il nostro peggior nemico era Cadorna" dichiara efficacemente uno di loro.
Rivelando segreti inediti, Lorenzo Del Boca racconta l'altra faccia della Prima guerra mondiale, quella che la retorica ufficiale e i libri di scuola nascondono. Perché dovremmo deciderci finalmente a onorare il debito di riconoscenza nei confronti dei nostri nonni.
Leggendo il testo di Del Boca, denso di laceranti combattimenti e dai macabri esiti, ho pensato al diffuso pacifismo di oggi, ai tanti pacifisti di professione, che hanno paura di perdere la vita e di combattere contro i tagliagole dell'Isis.


Una minoranza di avanguardisti sognano la bella guerra.

All'inizio della guerra tutti furono presi dall'euforia, soprattutto gli intellettuali.“Com'è bella e fraterna la guerra”. Ernst Junger tentò di spiegare quell'euforia:“La guerra come un'ubriacatura. Partiti sotto il lancio dei fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. La guerra ci appariva per veri uomini. Immaginavamo combattimenti a colpi di fucile su verdi campi dove il sangue sarebbe sceso a irrorare i fiori”.
Per molti intellettuali, la guerra doveva partorire l'”uomo nuovo”. Tutti pensavano di sbrigarsi in pochi mesi, ma i primi combattimenti, hanno stroncato da subito, l'entusiasmo che molti giovani avevano coltivato in partenza. Un giovane al fronte annotava: “E' impossibile descrivere la mia agonia mentale di fronte alla distruzione della vita umana. Scene raccapriccianti. Incredibile spargimento di sangue. Ho visto cadaveri ammucchiati a centinaia”.
Il pittore Fernand Leger, quello che si era entusiasmato per i mazzi di fiori che la gente lanciava ai soldati, si è ricreduto: “Dopo un mese la guerra è diventata maledetta”. Niente a che vedere con l'immagine zuccherosa coltivata nei salotti. “E' un combattere in trincea...in difesa...in attacco...e in contrattacco...per guadagnare appena cinquanta metri”. La vita in trincea era un supplizio. Ogni piccolo movimento diventa un problema, difficile fare i propri bisogni, si rischiava di essere colpiti. Il testo di Del Boca è pieno di informazioni, pressoché inedite, come quello della morte del capo di stato maggiore Alberto Pollio, appena qualche settimana prima dello scoppio della guerra. Per il giornalista è stato volutamente assassinato, da chi aveva deciso che l'Italia doveva modificare l'alleanza, non più con gli Imperi centrali, ma con la Francia e l'Inghilterra. Il tenente generale Pollio era una figura scomoda, per la sua posizione politica filo austriaco, quindi non poteva rimanere al proprio posto, occorreva eliminarlo.
Il 6° capitolo, Del Boca lo dedica alla “guerra combattuta a colpi di milioni”. La Grande guerra è stata preparata in casa dagli intellettuali, principalmente dai cosiddetti futuristi, tra cui Mussolini e D'Annunzio. Un'avanguardia culturale minoritaria all'interno del Paese. Peraltro la guerra diventava un grande business per le industrie italiane, che misero in campo tutte le amicizie, contatti e soprattutto corruzione, per convincere dell'ineluttabilità della guerra. 


La guerra come “igiene del mondo”.

In pratica,“per favorire il disegno di portare l'Italia al fronte, si trattava di scaldare la testa a quel manipolo di scalmanati che il cervello l'avevano già bollente di loro”.
Si pensi che il delirio dei futuristi, la guerra era considerata “igiene del mondo”, “perchè consentiva una salutare pulizia delle scorie sociali. La 'prova del fuoco' doveva rigenerare la nazione, che solo con un 'bagno di sangue' avrebbe potuto superare la 'società pantofolaia', per irrompere nel 'mondo nuovo'”.
Al partito della guerra si arruolarono in tanti, da Carducci a Giovanni Papini, che nello“speciale concorso degli irresponsabili, vinse il primo premio pubblicando l'editoriale 'Amiamo la guerra' e assaporiamola da buongustai finché dura”. Declinato così, in qualunque tempo, non può che apparire come la declamazione di un pazzo, il delirio di un criminale. Addirittura per questi signori la guerra diventava “un'operazione malthusiana”. In Italia,“siamo in troppi”, quindi, occorre eliminarne un po. 


L'interventismo di Mussolini.

A questo proposito il libro di Del Boca smaschera l'interventismo di alcuni di questi avanguardisti come quello del futuro duce, Benito Mussolini. “L'Italia, senza guerra, avrebbe evitato la carneficina ma sarebbe rimasta un ibrido di provincia”. Pertanto secondo Del Boca, Mussolini, cedette “all'oro che gli offrivano per saltare il fosso del neutralismo e votarsi alla causa della guerra”. Un certo Filippo Naldi, direttore, suo collega, gli consegnò 30.000 lire, per modificare il suo pensiero. Addirittura Maria Rygier, una strana figura di massone anarchica, si vantò di essere stata l'ideatrice del cambiamento politico di Mussolini. Pare che anche gli inglesi misero mano al portafoglio, destinando 100 sterline al mese (ben 6.000 euro di oggi). Dopo Caporetto aumentarono. Per non parlare dello stesso D'Annunzio, che diede l'assalto alla casa di Giolitti, dopo aver intascato tanto denaro:“il vostro sangue grida, la vostra ribellione rugge...”, così il Vate incitò la folla.
Nel libro Del Boca mette in evidenza l'impreparazione degli italiani alla guerra, a cominciare dai generali, che eseguivano tutti gli ordini di Cadorna. “gli ufficiali applicavano al mestiere delle armi una mentalità impiegatizia: puntigliosamente attaccati al grado e al posto”. 


I soldati italiani come servi della gleba.

Raccapriccianti i racconti di Del Boca su come venivano trattati i nostri soldati. “Cominciarono ad arruolare giovani da mandare al fronte in numero sempre maggiore. Servivano soldati per gli attacchi di volta in volta più violenti e più sanguinosi. La maggior parte di quei poveri ragazzi non tornava più indietro o – peggio ancora – tornava senza braccia e senza gambe, storpi, ciechi, con la testa squarciata, con il tarlo della follia che non li lasciava riposare nemmeno lontano dal fronte. Poteva importare a chi distribuiva gli ordini?” In pratica secondo Del Boca, “la teoria di chi dirigeva le operazioni militari era una sfida alle leggi della fisica, della meccanica e della statistica. Secondo loro, si trattava di avere a disposizione più soldati dei proiettili delle mitragliatrici avversarie. Se il fuoco nemico non riusciva a fermare tutti gli assalitori, qualcuno sarebbe arrivato alla trincea nemica e l'avrebbe espugnata. Un massacro pianificato”. Come chiamare, come definire, questi comandanti che si comportavano con i soldati, come se avessero a che fare con dei servi della gleba. 
Il testo si occupa di tanto altro delle “trincee come gironi infernali”, dove “era più facile morire che vivere”. Erano delle“catacombe a cielo aperto che si rincorrevano per centinaia di chilometri”, delle tane, sparpagliate su un territorio sterminato. E che dire dei vari plotoni d'esecuzione fra il Carso e l'Isonzo, i nostri soldati se non morivano per mano nemica, potevano essere “ammazzati da un plotone d'esecuzione formato dai loro stessi compagni, per ordine dei comandanti”. Era il regolamento sadico del terrore, della giustizia sommaria, implacabile e sfrenata. In pratica,“si moriva davanti al nemico e si moriva per il capriccio dei propri ufficiali”. Gli ordini del generale Cadorna erano perentori, bisognava eseguirli, nessuno può sottrarsi. A questo proposito è interessante il volume, “Plotone di esecuzione”, scritto a quattro mani da Enzo Forcella e Alberto Monticone, edito da Laterza (2014). Una raccolta di sentenze che diventa un libro inedito su un tema tenuto nascosto per oltre cinquant'anni. Ragazzi uccisi per diserzioni, ammutinamenti, discorsi e corrispondenze disfattiste, casi di autolesionismo. Una maledetta guerra che ha eliminato oltre 101.665 militari condannati a morte da una giustizia sommaria. In occasione del centenario Del Boca, auspicava a un ripensamento e a un atto di giustizia nei confronti di questi ragazzi uccisi per niente.