di Corrado Camizzi
In un suo celebre libro, uscito nel 1966, il filosofo tedesco Hans Blumenberg, per rivendicare la “legittimità” dell'Età Moderna (vale a dire, in sostanza, della Modernità), piuttosto che ricorrere all'idea di “secolarizzazione” con l'implicita rinuncia a qualunque tipo di trascendenza, preferiva avvalersi del concetto di “autolegittimazione dell'uomo rispetto all'assolutismo teologico”, definito come un processo evolutivo del rapporto tra Ragione e Storia, svoltosi fra il tramonto del Medio Evo e l'avvento dell'Età Moderna e risoltosi, a detta dello stesso Blumenberg, nel “naufragio delle ultime aspirazioni dell'Illuminismo europeo”. Si sarebbe dovuto affrontare i presupposti stessi della Ragione Kantiana, nella loro intima sostanza, in una sorta di “Illuminismo dell'Illuminismo”, quale quello tentato, senza riuscirci, dai Filosofi di Francoforte. Ma il dibattito della cultura occidentale nei cinquant'anni succeduti al libro del Blumenberg, lungi dal percorrere tale cammino, ha insistito in un Razionalismo sempre più radicale e totalmente secolarizzato, persistendo in un ostinato rifiuto di qualunque apertura metafisica e di un corretto dialogo tra Ragione Fede. Eppure – come ha scritto Larry Siedentop, filosofo statunitense di orientamento laico-liberale, già allievo di Isaiah Berlin – proprio il Cristianesimo giocò un ruolo decisivo nella valorizzazione del rapporto di collaborazione tra Fede e Ragione. Solo nel XVIII secolo – appunto con l'Illuminismo – è esploso quel profondo conflitto fra Secolarismo e Fede, che vede oggi, nelle società occidentali, la forte recrudescenza che lo fa apparire inevitabile, relegando in una posizione subalterna l'ipotesi di una civiltà in cui istanze religiose e realismo secolarista potevano coesistere. Ma, a questo punto, è intervenuto il Laicismo – assunto a sua volta a concezione “religiosa” - a far prevalere la concezione conflittuale.
La sconfitta dell'ipotesi conciliatrice tra Secolarismo e fedi religiose è stata ben rilevata, ad esempio, da Monsignor Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, che ha individuato, in Occidente, “un acuto processo di secolarizzazione che tende progressivamente ad estenuare il cristianesimo nella sua capacità di produrre civiltà. Solo nel contesto occidentale si è sviluppata per la prima volta una cultura che costituisce la contraddizione in assoluto più radicale, non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali della Società”. Un radicale positivismo, “dogma della modernità”, per costruire un Ordine senza Dio e fondato su una antireligiosità assoluta, che nega la natura e l'identità umana, ignora il Diritto naturale e la Verità, dando vita a quella che Papa Benedetto ha coraggiosamente denunciato come Dittatura del Relativismo.
E contro questa, paradossalmente intollerante, dittatura relativista, che rende impossibile distinguere il Vero dal falso, il Bene dal Male, il Bello dal Brutto, vengono battendosi fin dalle sue origini, nell'Età dell'Illuminismo o, addirittura, della Riforma protestante con la sua “libertà di coscienza”, i critici della modernità con scarso successo, a dir il vero, dato l'ovvio, oppressivo predominio, nel sistema massmediatico, della cultura dominante, che è quella progressista e modernista.
Con un'ampia ed esauriente rassegna, ha dato spazio a tali autori, coraggiosamente controcorrente, Tommaso Romano, editore, organizzatore culturale e uomo di pensiero egli stesso, con un corposo (oltre duecento pagine) ed elegante volume, edito per conto dell'Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici [Antimoderni e Critici della Modernità in Sicilia dal '700 ai nostri giorni, ISSPE, Palermo, 2012] e concepito dal particolare angolo visuale della sicilianità. In un'acuta e illuminante Introduzione, il Curatore rende ragione di tale scelta a favore di quella Sicilia che “Sofocle ebbe a chiamare Italia Illustre” e si può assumere come “metafora di un orizzonte certo più vasto”, “mosaicosmo siciliano [di] non redenti, non arresi all'ineluttabile modernità, pur con cento e cento differenze e tuttavia con un denominatore comune di critica e/o di spirito”. In Francesco Mazziotta (1859-1927) e Nunzio Russo (1841-1906) – citiamo solo a titolo d'esempio emblematico – appaiono più evidenti le peculiarità siciliane della critica mossa alla Modernità dagli autori studiati da Tommaso Romano: il primo auspice di un'Italia confederata, in cui l'autonomia della Sicilia si baserebbe sul motto secondo il quale “ciò ch'è legittimo e giusto è inviolabile” in quanto fondato sulle “libertà reali”, alla Sicilia sempre riconosciute, e non dedotte dall'astratta Libertà giacobina che l'Unità affermava; il secondo “...intransigente con la modernità … ritenne che Dio lo chiamasse alla missione di evangelizzazione della Sicilia dopo la tempesta rivoluzionaria che aveva portato (…) anche i processi di laicizzazione dello stato e di secolarizzazione della società che apparivano a lui come la dimensione storica di una guerra metastorica, apocalittica che (…) aveva coinvolto nazioni, governi nati dalla rivoluzione, sette massoniche, singoli individui in un progetto mondiale di estromissione di Gesù Cristo e della Chiesa dalla vita e dagli ordinamenti sociali”.
Non è certo qui il luogo per estendere il discorso nemmeno ad una piccola parte dei centosessanta nomi rievocati nel ricco dizionario (il lettore li scoprirà da sé, uno per uno) ma va pur detto che tra di essi figurano personaggi della levatura di un Padre Brucculeri e di un Michele Federico Sciacca, di un Vito d'Ondes Reggio e di un Padre Tapparelli D'Azeglio, di un Nicola Spedalieri e di un Domenico Fisichella, di un Julius Evola e di un Emanuele Samek Lodovici (il rivelatore di quella metamorfosi della gnosi che Don Ennio Innocenti ha smascherato come Gnosi spuria e che inganna, oggi, anche intelletti e spiriti non in mala fede), per andare ad un Nicolò Rodolico, a un Giuseppe Tricoli, a un Gaetano Falzone, intellettuali versati nelle discipline più diverse e di differenti impostazioni culturali, ma aventi in comune – come opportunamente precisa il Curatore dell'opera – la “posizione favorevole al Diritto Naturale e critica nei confronti della modernità”, in una tesi, ammette Tommaso Romano, “sicuramente ardua, anche metodologicamente, ma chiara negli assunti e nelle proposte per una insorgenza interiore, prima di tutto spirituale e intellettuale e morale, che parta appunto da una revisione profonda, intima, soggettiva per poi essere in grado di irradiarsi come cultura e azione, anche storica, civile e politica, nel senso più alto del termine” e contrastare, ancora e più che mai, la “crescente crisi di valori, di identità e di senso, che caratterizza il mondo moderno e la sua logica”. Una logica che, scrisse benissimo padre Cornelio Fabro, “si rovescia in umiliazione della ragione, incapace di raggiungere qualunque certezza del sapere, ridotta al nulla dal dubbio radicale e assoluto” che la ispira. Irretito in tale incapacitante e contradditoriamente totalitario relativismo, “perso il Timor di Dio, l'uomo contemporaneo non vuole neppure, ormai – è ancora Tommaso Romano a farlo notare – farsi Dio, ma annullarsi nell'insignificanza, annegare nel non-senso, nell'ovvio, verso una sorta di trasformazione antropologica” di un uomo, che pretende di poter vivere nella completa assenza di Dio”.
Eppure, ci ricordava Papa Benedetto, quando era, semplicemente, il Cardinale Ratzinger, “Quaerere Deum – cercare Dio - e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura”.
A questo punto, pur riconoscendo gli indubbi benefici materiali che la modernità ha portato, si è tentati di dire, con Voegelin, che “la morte dello spirito è il prezzo del progresso”. In qualche misura sembra un fatto che non si può negare. Ma occorre anche ammettere che ben venga il progresso con tutti i suoi benefici, purché si riesca a non lasciar soffocare lo spirito. È un compito a cui si può – si deve – dedicare la vita. Come hanno fatto questi Nostri Maggiori. E se siamo qui a leggere e disquisire di tutto ciò, forse, c'è ancora speranza.
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