martedì 29 dicembre 2015

Mario Arturo Iannaccone "Persecuzione" (Ed. Lindau)

di Domenico Bonvegna

In appendice al libro dal titolo “Persecuzione”, di Mario Arturo Iannaccone, pubblicato da Lindau (2015), c'è una lunga lista di beati e canonizzati di martiri assassinati prima e durante la guerra civile spagnola. Una lista che da sola testimonia l'eccezionale violenza nei confronti della Chiesa spagnola. Nel complesso l'opera di beatificazione iniziò dopo il 1998 con San Giovanni Paolo II, poi Benedetto XVI, quindi è continuata con papa Francesco. Prima le opere di beatificazione andavano a rilento, perché la Chiesa intendeva evitare che la memoria di questi assassinati dagli anarco-comunisti repubblicani fosse usata politicamente o strumentalizzata in certi ambienti politici (leggi destra franchista).
Perchè sono stati beatificati solo i religiosi uccisi dai rojos?
Nel libro troviamo alcune risposte sulla persecuzione della Chiesa in Spagna. Per esempio nel capitolo 7°, Iannaccone spiega perché sono stati beatificati soltanto i religiosi uccisi dai rojos.”La risposta è stata data molte volte ed è sempre la stessa: molti di coloro che furono uccisi dai repubblicani, lo furono per l'odio di questi verso la fede cattolica, mentre non è provato sia avvenuto lo stesso per coloro che morirono per mano della parte nazionale”. Poi esistono altri religiosi che morirono come “soldati della Repubblica”, perché precettati. Altri furono innocenti vittime della guerra ma non si può provare che morissero per la fede e questo li accomuna agli oltre 300.000 morti che questa guerra costò alla Spagna. Tuttavia, molti di coloro che furono assassinati, non sono stati beatificati o santificati, furono però dei “veri eroi e come tali meritano di essere ricordati (a non pochi di essi sono stati dedicati statue, monumenti, piazze, vie, parchi...)ma non furono, fino a che non viene provato il contrario, martiri della fede”. Iannaccone in merito alle beatificazioni, precisa che “la Chiesa beatifica o canonizza solo i martiri cattolici, anche se ammira eroi non cattolici o cattolici non morti in odium fidei e comunque rispetta tutti i morti di quella immensa tragedia”.
Lo studioso ricorda alcune opere autorevoli sulla persecuzione religiosa. Ma soltanto negli ultimi tempi, gli storici sono riusciti a chiarire molti punti oscuri, anche se c'è ancora molto da fare. Dopo le beatificazioni del 28 ottobre 2007 (498 persone) e del 13 ottobre 2013 (522 persone) sono state scritte quasi 200 libri, saggi storici e di approfondimenti di aspetti generali o particolari. Molte di queste opere sono apologetiche scritte nelle diocesi. Però, l'opera più importante ed esaustiva, riguardo i beati, sono i due volumi curati da Vicente Carcel Ortì, Martires del Siglo XX en Espana (BAC, Madrid 2013), si tratta di circa 2500 pagine, dove si ricostruisce le radici dell'aggressione alla religione e alla Chiesa nel 900' spagnolo. Tuttavia l'immensa opera di monsignor Ortì racconta anche una breve biografia dei 1523 tra santi e beati proclamati dopo la Guerra Civile, quasi tutti a partire dal 1992 a oggi sotto i tre ultimi papi. Praticamente è uno studio che aggiorna le precedenti pubblicate sempre dallo stesso autore.
Il testo di Iannaccone che ho letto, racconta giorno dopo giorno l'assassinio dei beati, “un'impressionante e secca cronaca delle uccisioni suddivise per data”.
I primi attacchi alla Chiesa spagnola
Iniziarono il 18-19 luglio 1936, furono incendiate chiese, uccisi parroci, religiosi, laici cattolici. “la furia iconoclasta distrusse metodicamente tutte le immagini delle  numerose chiese, cappelle, conventi e così le croci, le insegne del Sacro Cuore...”. Molti degli assassinati laici e religiosi cattolici avvenne il 25 luglio, giorno di Santiago Apostolo, un lungo elenco di religiosi, dai carmelitani ai lasalliani, i passionisti, i domenicani, fino ai mercedari. Una quarantina di pagine. Tutti questi ed altri centinaia di casi, secondo Iannaccone, “mostrano un'azione coordinata nel territorio controllato dai repubblicani nelle primissime ore dell'alzamiento, come tutto fosse già pronto”.
La ritualità dell'assassinio dei religiosi.
L'8° capitolo viene dedicato ai casi più celebri, le uccisioni di gruppo come il massacro dei 51 clarettiani di Barbastro, uccisi in uno spazio di tempo che va dal 20 luglio al 18 agosto, un vero e proprio rito di morte protratto nel tempo. I giovani seminaristi tenuti prigionieri, in condizioni proibitivi, in un estate calda, hanno subito un lento calvario, sono stati uccisi poco alla volta. I carnefici miliziani tentarono in tutti i modi di farli abiurare, introducendo nel luogo della prigionia, anche delle donne, qualche prostituta e alcune miliziane addestrate alla seduzione. Inoltre davanti al luogo in cui li tenevano prigionieri, i miliziani, fecero sfilare alcune donne vestite con i paramenti sacri. “Era una forma di scherno feroce che in questo caso prendeva di mira la virilità di uomini che vestivano tonache”. Iannaccone nel testo si sofferma sulla questione dei vestiti dei religiosi, per i rivoluzionari rossi, “i vestiti clericali femminili e soprattutto maschili erano considerati innaturali perchè negavano il sesso anatomico”. Alcuni preti uccisi, che chiedevano il motivo, gli è stato detto: “Per i vestiti che porti”
Comunque sia, “dai documenti risulta che dei circa 8000 religiosi uccisi soltanto uno abbia abiurato”. Lo storico descrive l'assassinio anche nei particolari, “Dopo essere stati fucilati fu dato loro il colpo di grazia e lasciati lì a sanguinare perchè non sporcassero di sangue il camion. Qualche ora dopo i miliziani tornarono, caricarono i cadaveri e li seppellirono in una fossa comune gettando sui corpi acqua e calce viva. Ignoravano che le loro vesti portavano cucito un numero che avrebbe consentito di identificarli”. Tutti i religiosi prima di morire gridarono: “Lunga vita a Cristo Re! Lunga vita al Cuore di Maria. Lunga vita alla Chiesa Cattolica!”, perdonando i propri aguzzini.
A Consuegra (Toledo) vennero uccisi 20 francescani, un'esecuzione accettata dal sindaco e dai membri del consiglio comunale. Una giunta socialcomunista che “considerò un dovere far fucilare dei naturali nemici della Repubblica”, tra l'altro il sindaco accompagnò gli esecutori dell'assassinio sul luogo della fucilazione come fosse un atto politico dovuto.
A Toledo oltre ad essere uccisi 16 carmelitani, furono distrutti circa 30.000 volumi di grande valore storico, con molti incunaboli e manoscritti antichi lì conservati da secoli. Iannaccone sottolinea come la diocesi di Barbastro sia stata la più colpita dalla repressione, qui c'è stata la percentuale più alta di preti assassinati di tutta la Spagna.“Fu più violenta di quella rivolta contro coloro che avevano partecipato alla sollevazione militare. Segno che esisteva una motivazione separata, mascherata da altri pretesti: eliminare la Chiesa dalla vita della Spagna”.
Venivano uccisi anche i religiosi, monaci, che operavano negli ospedali, magari più rinomati, più avanzati e moderni per il trattamento di gravi malattie. Il fatto che fosse gestito da religiosi, risultava intollerabile per coloro che erano stati educati a ideologie radicali. Come gli 11 hermanos dell'Hospital Infantil de Malavarrosa uccisi a Cabanyal de Valencia. Beatificati da papa Francesco assieme ai 498 martiri il 13 ottobre a Tarragona.
Poi c'è il caso dei 46 hermanos maristas (Montcada, Barcellona). I maristi furono secondo Iannaccone una delle congregazioni più colpite dai miliziani comunisti. Naturalmente nessuno di loro aveva qualche particolare vocazione politica. Sarebbe interessante poter raccontare la loro storia. In questo momento penso ai fratelli maristi che ho conosciuto alcuni anni fa nelle scuole di Taormina.
Iannaccone nel libro non risparmia i dettagli più cruenti delle uccisioni, come il caso del giovane padre Gabriel Albiol Plou. Una crudeltà estrema, a costo di sembrare sadico, vale la pena fare la descrizione, peraltro abbastanza simile ad altri assassinii:“gli tagliarono entrambe le orecchie e poi lo costrinsero a bagnare le ferite con l'acqua di mare. Fu frustato e bastonato in tutto il corpo. Gli furono bucati gli occhi, rendendolo cieco. Gli tagliarono la lingua, poi i genitali, quindi gli fu infilata la baionetta in un orecchio. Dopo la tortura fu colpito da alcune pallottole e lasciato morire lentamente a dissanguarsi”.
Uno degli aspetti più sconcertanti delle esplosioni anticattoliche della Spagna del '900 è quella delle esumazioni ed esposizione di cadaveri mummificati, ridotti a scheletri o decomposti di religiosi e religiose, estratti dai sepolcri ed esposti davanti alle chiese e conventi o addirittura nelle pubbliche vie. Esistono diverse testimonianze fotografiche. Ricordo bene un numero speciale di un giornale storico degli anni '60, dove in copertina c'era una mano insanguinata che teneva la Spagna; é qui che ho visto per la prima volta le immagini raccapriccianti delle esumazioni dei cadaveri. 

lunedì 28 dicembre 2015

Gabriele Camelo, "Boliviario" (Ed. Paoline)

di Sandra V. Guddo 

“ L’effimero e la Fede “ . Avrei scelto queste due semplici parole , come sottotitolo a questo straordinario libro, che già dal suo titolo,rappresentato dal neologismo Boliviario ( Bolivia + diario ) è testimonianza della fertile creatività del suo autore Gabriele Camelo : una giovane penna alla sua opera prima, che , con un grande bagaglio culturale sorretto da una forte motivazione,  parte per la Bolivia come V. I. S. ( Volontario internazionale per la Solidarietà ). Gabriele racconta la sua esperienza di volontario ma ancor prima cerca di spiegare a chi glielo chiede il perché di quella partenza improvvisa che interrompe un fruttuoso percorso lavorativo, da tempo intrapreso,  che lo avrebbe condotto che alla cosiddetta sistemazione economica  frutto di un lavoro stabile. Ma lui dà un calcio a tutto questo , vuole cambiare vita ed andare alla ricerca di se stesso in un cammino impervio che gli riveli ancora più luminosamente chi è e chi vuole essere. Intanto sa chiaramente chi non vuole  diventare “ io non voglio ritrovarmi la sera ad accendere la televisione e a stare impalato di fronte al culetto delle veline e ad ascoltare il rumore degli applausi a comando e il rumore delle risate finte. Io la smetto . Basta coi rumori. Parto per cercare l’essenza. Musica . “
Gabriele  cerca il proprio Sé autentico e non banale, iniziando una ricerca escatologica ed esistenziale che lo porterà a scoprire il vero senso della vita . Sente che è necessario per lui andare in Bolivia, a Santa Cruz,  per aiutare quei tanti , troppi bambini che vivono per strada e che hanno fatto della strada la loro casa. Così si susseguono racconti carichi di pathos, assolutamente veri che condurranno il protagonista – scrittore a ridefinire il significato dell’essere cristiani oggi, armati della fede che può essere l’unica via di salvezza in un mondo dove  dolore e sofferenza non possono essere eliminati. Allora che senso ha partire come volontario se non è possibile venirne fuori ? Se non è possibile cancellare lo schifo morale e fisico dove crescono questi bambini ?
Gabriel riesce a trovare la risposta “ Io non posso fare a meno, fare altro che vivere la speranza per lui , per tutti questi ragazzini come Deiby che  “ sa solo picchiare, rubare e - diventato adolescente – sommergerà il suo dolore in tagli profondi sulle braccia, come tutti gli altri bambini di strada , che imparano a piangere con il sangue. “
Gabriel non può fare altro che sperare e pregare per loro  il “ Padre Nostro “ nel suo stentato spagnolo . In realtà sta facendo molto di più , a mio parere, li ama e li accetta così come sono questi ragazzini che non hanno mai conosciuto il calore di una carezza o di un abbraccio , che non hanno mai ascoltato parole di pacificazione verso un’umanità che sembra avere perduto l’anima oltre che il corpo , preda della “ Colla “. La colla è la droga che i bambini sniffano o foglie di coca appallottolate che masticano in bocca per ore per stordirsi e non sentire i morsi della fame e tutta la sofferenza che si portano dentro.
In tal modo, il nostro autore è nettamente in antitesi con certi filosofi del cosiddetto “ esistenzialismo “ ; ci riferiamo in particolar modo a Martin Heidegger , secondo cui la morte viene considerata come l’unico momento in cui l’uomo, non essendo almeno in questo sostituibile, è autentico , mentre per tutto il resto della sua esistenza egli non è altro che “ Geworfenheit “ cioè l’uomo si pone su questa terra come solitudine ontologica dell’individuo. Gabriel invece sostiene la forza benefica , se non addirittura salvatrice del dialogo , del comunicare. La rabbia infatti esplode quando non si sono chiariti con l’altro le nostre esigenze, i nostri dubbi e le nostre rimostranze . Forte di questa convinzione , utilizza con questi bambini estremamente difficili, prima di qualsiasi altro strumento educativo, il dialogo anche se non sempre funziona subito ed occorre supportarlo con premi e castighi e a volte anche con forme educative basate sul rigore. Dopo un percorso doloroso in cui Gabriele spesso si sente incompreso ed isolato da tutti, quando è convinto di avere fallito, quando la pressione esercitata dall’ambiente ostile e animalesco nel quale si trova ad operare , ecco che alcune manifestazioni d’affetto di questi bambini lo faranno ricredere e lo faranno rientrare in Italia, dopo un anno di volontariato, arricchito e con un senso non di divertimento né di felicità ma con “ una lieve, leggera gioia . “
La narrazione si svolge sotto forma di diario utilizzando la prima persona, com’è ovvio, trattandosi di esperienze che lui vive sulla sua pelle, con un linguaggio brillante e sobrio mai sdolcinato e melenso, senza sbavature o descrizioni strappalacrime, neanche quando parla dei bambini ospedalizzati e intubati  o dei  molti altri bambini  che hanno subito violenze fisiche e psicologiche terribili al punto da preferire la strada anziché una famiglia dove gli abusi e le violenze, al suo interno, sono routine quotidiana: padri ubriachi che picchiano mogli e figli, che spacciano, rubano e istigano i loro figli anche piccoli a fare lo stesso. Violenza cieca e bruta che trasforma questi bambini in esseri in cui il dolore trova sfogo riproducendo i medesimi alienanti comportamenti dei loro genitori.
 Il suo è un linguaggio colorato che utilizza ad esempio per descrivere il circo “  un circo boliviano che , come tutto il resto del mondo boliviano, sembra degli anni settanta . La tenda è piena di buchi (… ) la luce del sole, di mattina, trapassa le tende blu e colora il pulviscolo di blu; la luce degli strobo e dei fari –di notte –anch’essa si posa sulla polvere dell’arena e colora l’aria del circo boliviano di giallo, arancione, rosso, viola “.
In quel circo , Gabriele ha avuto modo di esibire i suoi numeri di giocoliere, di mago, di uomo mangiafuoco, di trampoliere, di scultore di palloncini, abilità grazie alle quali  egli riuscirà a conquistare molti di questi bambini che vivono la disperazione quotidianamente ma che troveranno, nelle semplici attività proposte dal giovane educatore, momenti di gioia ma soprattutto occasione di apprendimento.
Apprender “ è molto importante, forse può diventare il punto di partenza per iniziare il Cambiamento , per diventare più forti dentro ed iniziare un nuovo cammino.
Il  linguaggio che il nostro autore utilizza in questo splendido diario è carico di odori e sapori “ Camminare per le strade della Bolivia significa camminare assaggiando il sapore lievemente salato della polvere che si deposita in gola ( …. ) significa camminare e incontrare Deiby, undici anni, occhi rossi, mani sporche, maglietta sudicia e puzza di piscio e droga nel naso. “
Tante altre storie, altrettanto drammatiche, come quella del piccolo Deiby, entrano nella vita di Gabriel ( così viene chiamato dai ragazzi di strada ) come un uragano spogliandolo di tutte le sue certezze ,tranne il conforto di scrivere la sua esperienza da cui nasce questo diario e la forza della preghiera che lo ha guidano a superare suoi dubbi, dubbi che possono rivelarsi , in molti casi, più corrosivi dell’acido muriatico ma che egli riesce a superare per non sentirsi solo nella solitudine.
“ Boliviario “  ha meritato un prestigioso riconoscimento con la consegna della targa “ Pietro Mignosi “  nell’ambito del Premio Letterari Internazionale  “ Pietro Mignosi “ 2015.

E noi lettori e suoi sostenitori non possiamo che congratularci con Gabriele Camelo per il primo  traguardo raggiunto a cui, ne siamo certi, ne seguiranno altri non meno importanti.

martedì 15 dicembre 2015

Giorgio Bàrberi Squarotti "Le avventure dell’anima 1998-2013" (Ed. Thule)

di Nicola Romano


Tenere in mano un libro di Giorgio Bàrberi Squarotti è come evocare, per quel che l’autore rappresenta con la sua consistenza intellettuale di lungo corso, la storia della letteratura italiana dal secondo Novecento fino ad oggi. Lo conoscevo per nome e per la fama di attento critico letterario, sin dai tempi in cui abitai a Torino (ed erano gli anni ’70), ma ebbi modo di conoscerlo di persona nel 1993, allorquando egli occupava un posto in Giuria al Premio “Città di Como”, che vinsi in maniera inaspettata poiché, da finalista, il riconoscimento si seppe durante la cerimonia. Mi colpì la sua sorprendente umiltà nel relazionarsi cordialmente con un autore come me, che ero soltanto agli inizi dell’avventuroso cammino nel mondo della poesia. C’incontrammo ancora a Palermo in occasione d’un convegno, ricordammo insieme quel nostro primo incontro, dove in Giuria c’era – lo ricordo adesso - anche Luciano Erba. Per non dire il fatto che, ad ogni mio nuovo libro inviatogli, ha sempre risposto in maniera sollecita, puntuale e cortese, seppur con poche righe.
Ho premesso tutto questo in maniera personalizzata al solo scopo di sottolineare la sua amabile predisposizione umana e la sua sincera umiltà dimostrata in diverse occasioni, sensazioni che adesso ritrovo ancora una volta ribadite nel corso della lettura della sua raccolta poetica dal titolo “Le avventure dell’anima” (1998-2013), pubblicata in veste tipograficamente raffinata dalle edizioni Thule, e recante una pregevole prefazione di Vanessa Ambrosecchio. 
L’umiltà scritturale che tendo piacevolmente a sottolineare riguarda quella che è la convincente fierezza della sua capacità espressiva non disgiunta dai valori contenutistici scandagliati a vasto raggio, e che hanno a che fare con la sfera della vera essenza umana, dal momento che il complesso (senza complessità) del suo dettato è strutturato fra pensieri, circostanze e relazioni con le tante persone (che egli stesso rende alla fine come dei personaggi) incontrate per caso, o propriamente più contigue e familiari, che hanno fin qui accompagnato certamente il suo cammino di vita, persone che, per quelli che sono gli esiti dell’affabulante sviluppo descrittivo, sentiamo quasi palpitanti, vive e come se fossero a noi vicine e vere.
Quelle che maggiormente colpiscono, in questi versi di Giorgio Bàrberi Squarotti, sono soprattutto “le atmosfere” ariose e piene di vita che egli va a rappresentare attorno ad un avvenimento, ad una casualità o ad una memoria, tanto da far rivivere al lettore gli stessi gesti, le stesse parole e forse gli stessi sguardi che si affollano e si intrecciano nei vari quadri delle diverse scene facenti parte – queste – di un percorso creativo che si rivela originale e denotativo. E pertanto, i vari Elena, Anselmo, il dottor Murgia, Angelina, Diana, Maria, Bruno, Daniele ed altri, da semplici nomi comuni di persona si trasformano in figure essenziali che a turno salgono sul palcoscenico d’una rappresentazione quasi carnale, e vieppiù tramutati in deliziose solvenze lessicali attraverso delle felici trasposizioni poetiche. 
Per quella che è la nostra esperienza di militanti e di osservatori, siamo consapevoli della difficoltà dall’essere allo stesso tempo dei buoni critici e dei buoni poeti o prosatori, a volte l’una condizione esclude l’altra, ma nel caso di Bàrberi Squarotti dobbiamo prendere atto che non c’è scissione tra l’indagine/studio letterari e l’operatività scritturale, poiché entrambe le dedizioni fanno parte dell’incantevole mondo in cui Bàrberi Squarotti è da sempre immerso senza una soluzione di continuità, tanto da indurre a far dire – senza tema di smentita – che la sua semplice persona fisica ed il suo alto carisma rappresentano a tutto campo “la letteratura italiana”. 
Oltre ad una certa mitologia ancorata a dei «nomi» troviamo in questa raccolta un’altra mitizzazione che è quella dei «luoghi», di quelle numerose “località” che egli per lavoro o per diporto ha calpestato e che sono rimaste per ben precisi motivi nella sua parte sensibile, e che rivisitate a distanza di tempo diventano – alla nostra vista – dei luoghi certamente dell’anima, se sono stati prescelti per tracciare una sorta di viaggio memoriale il cui tessuto immaginario riesce a ben instaurarsi dentro al lettore. E, in buona sintesi, la materia di questa raccolta appare molto congruente e armonicamente trattata con una certa sensualità di linguaggio, pur residuando il comune e irrisolvibile convincimento che attraversare le pieghe dell’anima costituisce sempre un’intricata avventura!

Manifestazioni Culturali a Ciminna



mercoledì 2 dicembre 2015

Giuvanni Meli abate pi scherzu

di Carmelo Fucarino 

Comu fu e comu nu’ fu l’abate Giovanni Meli morì il 20 dicembre 1815, proprio duecento anni fa, mentre i convitati del castello di Schönbrunn con allegri brindisi azzeravano l’Europa illuminista e napoleonica e portavano indietro l’orologio della storia. Perché dirlo? Perché Meli fu un illuminato, esordì a quindici anni nell’Accademia del Buon Gusto (attiva fino al 1791), quando cantò il Trionfo della Ragione, passò a quella nobiliare, l’Accademia della Galante (il 1762 scrisse per caso La Fata Galante), per finire nel 1766 all’Accademia degli Ereini, l’Arcadia greca, localizzata, secondo Diodoro, sui monti dove sarebbe nato il tragico Dafni, inventore della poesia bucolica. 
Di tutta la sua vita frenetica voglio riprendere soltanto il momento della sua acme professionale e culturale, la data del 1787, quando da medico di Cinisi stipendiato dai benedettini di S. Martino delle Scale ottenne la cattedra di chimica all'Accademia degli studî di Palermo. Proprio in quell’anno raccolse e pubblicò in cinque volumi il suo corpus poetico. L’edizione completa, si badi bene, in sette volumi, sarebbe uscita il 1814.
Da questa prima superba edizione del 1787 voglio estrapolare passi dall’estroso e celebre componimento, il Ditirammu, poesia di un’altezza audace e di sfrontata e plebea comicità, degna dell’inventore del genere poetico richiamato nel titolo, quell’Arione, come affermava Erodoto, o chiunque egli fosse. Era un ritmo di melica corale in onore di Dioniso, dalla quale, diceva Aristotele, sarebbe nata la divina tragedia, genere poetico dionisiaco per eccellenza. Il ditirambo fu con i suoi abituali tetrametri trocaici la poesia della passione e del tragico, della morte e della resurrezione. Dai moderni pertanto fu intesa come poesia dell’abbandono e dell’estasi, della pazzia sfrenata nel deragliamento del vino.
Perciò, sintiti sintiti che bella compagnia si prepara ad invadere la taverna. Questo è siciliano, cari Verga e Buttitta e Camilleri, di un cromatismo pittorico che poveri moderni ve lo sognate e questa è poesia. Senza regole di prosodia e metrica, sfrenati come la combriccola. “Tutti silenziu, Sintiti sintiti”.
Sarudda, Andria lu sdatu, e Masi l’orvu,
Ninazzu lu sciancatu,
Peppi lu foddi, e Brasi galiotu
Ficiru ranciu tutti a taci-maci
’Ntra la reggia taverna di Bravascu,
Purtannu tirrimotu ad ogni ciascu.

E doppu aviri sculatu li vutti,
Allegri tutti misiru a sotari
E ad abballari pri li strati strati,
Rumpennu ’nvitriati
’Ntra l’acqua e la rimarra, sbriziannu
Tutti ddi genti chi jianu ’ncuntrannu.

E intantu appressu d’iddi
Picciotti e picciriddi,
Vastasi e siggitteri,
Cucchieri cu stafferi,
Decani cu lacchè
Ci jianu appressu facennuci olè.
Sarebbe bello seguire questa sganasciata brigata lungo il Cassaro della Palermo del 1787, che, se vi aggrada, potrete conoscere meglio dal sulfureo Goethe che, sbarcato a Palermo proprio il 2 aprile, era ospite nell’albergo di Francesco Benso alla Marina accanto a Palazzo Butera e lo percorreva morbidamente sulla munnizza per comodità delle carrozze. Ed era Palermo al-Aziz, per la cui bellezza mancavano le parole, non come si continua a vanvareggiare per tristo piacere sadomasochistico: «Com’essa ci abbia accolti, non ho parole bastanti a dirlo: con fresche verzure di gelsi, oleandri sempre verdi, spalliere di limoni ecc. In un giardino pubblico c’erano grandi aiuole di ranuncoli e di anemoni. L’aria era mite, tiepida, profumata, il vento molle. Dietro un promontorio si vedeva sorgere la luna che si specchiava nel mare; dolcissima sensazione, dopo essere stati sballottati per quattro giorni e quattro notti dalle onde!».
Ma seguiamo la nostra sfrenata brigata di seguaci di Dioniso nella loro scorribanda tra Cassaro e vicoli della vecchia Palermo, tra via dei Chiavittieri e via dei Coltellieri, per le vie dei Frangiai, dei Cassàri e dei Materassai, che oggi incrocia con via Giovanni Meli.
Allurtimata poi determinaru
Di jiri ad un fistinu
Di un so vicino, chi s’avia a ’nguaggiari,
E avia a pigghiari a Betta la cajorda,
Figghia bastarda di fra Decu e Narda;
L’occhi micciusi, la facciazza lorda,
La vucca a funcia, la frunti a cucchiara,
Guercia, lu varvarottu a cazzalora,
Lu nasu a brogna, la facci di pala,
Porca, lagnusa, tinta, macadura,
Sdiserrama, ’mprisusa, micidara.
Lu zitu era lu celebri ziu Roccu,
Ch’era divotu assai di lu diu Baccu;
Nudu, mortu di fami, tintu e liccu;
E notti e jornu facia lu sbirlaccu.
Mi dispiace abbandonarli in questo indiavolato fistinu, ma chi vuol conoscere il resto, Giuvanni è sempre pronto ad accompagnarvi. Vi riserva un Don Chisciotti e Sanciu Panza, due eroi nelle terre sicule:
Don Chisciotti spirdutu ntra timpesti;
Sanciu si agghiummarìa 'mmenzu 'a nivi.
Oppure sentire dell’Origini di lu Munnu:
Jeu cantu li murriti di li Dei,
chi vulennu sbiarisi cu nui,
crearu un Munnu chinu di nichei,
d'omini pazzi, eccettu 'un si sa cui;
jeu di li soi, e Tiziu di li mei...
Io voglio seguire solo per un po’ il caro Sarudda, che, tracannando un bicchiere dopo l’altro, fa un portentoso sberleffo ad un tipo che a Palermo si sciala in una trentina di siti assai diversi, qua e là, a dove capita, per più di quattrocento anni.
Primu di tutti Sarudda attrivitu
Stenni la manu supra lu timpagnu,
E c’un imperiu d’Alessandru Magnu,
A lu so stili, senza ciu nè bau,
A la spinoccia allura s’appizzau.
Fra i tanti abbacinati brindisi il nostro Sarudda ad un certo punto così s’adira, con una frase che mi fa venire i brividi per la sua sonorità. Ci pinsati, risentire ancora lu diantani, che solo noi di una certa età sentivamo dai nostri nonni! Altro che abate, come lo si babbiò per la strana foggia del suo vestito. A voi:
Scattassi lu diàntani,
Chi vogghiu fari un brinnisi
A Palermu lu vecchiu, pirchì in pubblicu
Piscia e ripiscia sempri di cuntinu
’Ntra la funtana di la Feravecchia;
E pisciannu e ripisciannu
Lu mischinu cchiù s’invecchia.
Jeu vivu in nomi to, vecchiu Palermu,
Pirchì eri a tempu la vera cuccagna;
Ti mantinivi cu tutta la magna,
Cu spata e pala, cu curazza ed elmu.
Ora fai lu galanti e pariginu,
Carrozzi, abiti, sfrazzi, gali e lussu;
Ma ’ntra la fitinzia dasti lu mussu,
Ca si’ fallutu ohimè senza un quatrinu.
Oziu, jocu, superbia mmaliditta
T’ànnu purtatu a tagghiu di lavanca;
Tardu ora ti nni avvidi, e batti l’anca;
Scutta lu dannu, pisciati la sditta.
Palermo la mischina di oggi, più tragica di quella del nostro Giuvanni, che avrebbe goduto del re profugo con tutta la sua regia, quel buonuomo che si divertiva in quella reggia stravagante di cineseria, oggi spregiata come Palazzina, mentre preparava ricottine, oppure riempiva carnè di selvaggina nella sua reggia di Ficuzza sotto l’incombente bosco sotto l’augusta Rocca Busambra.
Ma vàjanu a diavulu
St’idei sì malinconici;
D’ora ’nnavanzi in cumpagnia di Baccu
Vogghiu fari la vita di li monaci,
Quali cantannu, vivennu, e manciannu
Càmpanu cu la testa ’ntra lu saccu.
(Ditirammu, da Opere di Giovanni Meli, Salvatore Di Marzo editore, Francesco Lao tipografo, 
Palermo 1857). 

Duecento anni e non sembrano, Come si fa, cari miei, a scordarsi di un tale poeta che tutti ci invidierebbero, se avessero la fortuna di conoscerlo. Vergognatevi, palermitani dell’incuria e dell’abbandono, palermitani (lo scrivo minuscolo) dell’ignoranza, stanchi delusi disamurati.
Chi sono Porta, Belli e Pascarella, in confronto al maestoso, immenso Giuvanni?

Un riconoscimento si deve al Comitato organizzatore del Bicentenario della morte di Giovanni Meli (vedi portale incompiuto e derelitto del Comune), segretario Giovanni Mazza, consulente letterario Salvo Zarcone, presidente Centro studi Linguistici e Filologici Siciliani Giovanni Ruffino. Gli amici hanno visto il docu-film.
(Purtroppo impossibile trovare online il programma aggiornato dopo la sua generica e pomposa presentazione a palazzo Niscemi e conoscere gli eventi. Peccato!). 

martedì 1 dicembre 2015

Ambrogio Giacomo Manno,"Problemi epistemologici" (Ed. Leonardo da Vinci)

Segnaliamo un importante volume apparso nella collana Propedeutica filosofica, intitolato Problemi epistemologici. L’autore, il filosofo napoletano Ambrogio Giacomo Manno, alla luce delle recenti discussioni tra scienziati ed epistemologi, introduce allo studio della natura nei suoi valori immanenti e nella sua proiezione teologica. I saggi qui raccolti si soffermano sulle più importanti scoperte scientifiche, dall’origine dell’universo fino ai problemi riguardanti l’origine delle specie, senza tralasciare l’analisi del pensiero dei più noti filosofi della storia: da Agostino a Kant, da Bonaventura a Cartesio, nonché la ricerca di scienziati quali Einstein, Planck, Schroedinger, Fantappié, Dallaporta.
 Come l’Autore afferma nell’Introduzione, questi saggi nascono dall’insoddisfazione per le «teorie unilaterali che per secoli hanno dominato il campo del sapere, il meccanicismo, il determinismo, il positivismo, il neo positivismo, che insieme alla mortificazione della natura, avvilivano e degradavano la dignità dell’uomo». Da qui l’entusiasmo per «le nuove teorie scientifiche, che dimensionando le pretese monopolizzanti e assolutizzanti del dogmatismo scientista, hanno prospettato la scienza come sapere limitato, fallibilista, progressivo, aperto…Si può dire che, in proporzione dei suoi successi la scienza ha acquistato in umiltà e misura». Di seguito l’indice di questo lavoro:
 1. Origine e tempo dell’Universo secondo le ultime ipotesi; 2. Breve storia del Cosmo e della vita secondo le conoscenze attuali; 3. Problemi epistemologici e filosofici riguardanti l’origine delle vita e della specie; 4. L’origine dell'uomo e sua natura alla luce delle scoperte paleontologiche; 5. Incertezze e antinomie dell’antropologia attuale sull’origine dell’uomo; 6. Scienza, fede, ragione: una lezione dei Vedanta; 7. Il mondo alla luce di Dio secondo S. Agostino; 8. Anima e mondo: Itinerarium mentis in Deum secondo Buonaventura da Bagnoregio; 9. Il meccanicismo del ‘600-‘700 e il suo residuo nei secoli successivi; 10. Il concetto di scienza in Kant; 11. Le contraddizioni del noumeno e le pseudo critiche agli argomenti per l’esistenza di Dio. 12. I limiti della fisica matematica secondo Bridgam; 13. Induzione e intuizione nel pensiero scientifico secondo Medawar; 14. Criterio di falsificabilità, “Terzo Mondo”, indeterminismo e libertà in Popper; 15. Fisica classica e fisica quantistica; 16. Ipotesi sui processi vitali ed evolutivi in biologia; 17. La dialettica negativa di Adorno; 18. Un pluralista esclusivista: Hilary Putnam; 19. La dialettica decostruttiva di Rorty; 20. La natura in Heidegger; 21. Nuove frontiere della scienza nel rapporto psiche-soma; 22. Unità del sapere e del fare; 23. I grandi scienziati del secolo XX reclamano la metafisica e la religione come prospettiva fondamentale della scienza e della vita; 24. Futuro del Cosmo, futuro dell’uomo.