martedì 30 giugno 2015

Giovanni Matta, "Gli sviluppi dell'arte moderna in Europa dalla fine dell'Ottocento agli inizi del Novecento"(Ed. Gangemi)

di Tommaso Romano

Giovanni Matta è da molti decenni impegnato, quale protagonista, della vita culturale palermitana. Poeta, saggista, fondatore e ora da qualche anno presidente dell'Ottagono Letterario (mandato col poeta Rosario Mario Garzelli) si dedica da sempre alla critica e alla storia dell'arte con articoli, presentazioni, interventi.
Ora, con la prestigiosa casa editrice Gangemi di Roma, si dà conto dei suoi studi e delle sue analisi con il volume riccamente illustrato Gli sviluppi dell'arte moderna in Europa dalla fine dell’Ottocento ai primi anni del Novecento. In realtà l'indagine di Matta incontra l'intero XIX secolo e arriva oltre la metà del Ventesimo, trattando pittori, scultori e qualche architetto al di fuori della cerchia italiana. Una scelta che ci auguriamo un prossimo volume possa integrare. Matta fa propria, integrandola, una definizione icastica di Edouard Manet: ”In  arte (e nella poesia e nella scrittura aggiungiamo noi, sottolinea Matta) la concisione è una necessità ed un'eleganza. L'uomo conciso fa riflettere l'uomo verboso annoia". A ciò Matta si attiene scorrendo autori e correnti di due secoli, mettendo in evidenza brevi ma essenziali notazioni biografiche insieme a brevi ma succose considerazioni critiche. Questo aspetto della ricerca di Matta ci convince oltre le pretese di un Croce sull'estetica e non solo, ove si tende a distanziare l'opera dal suo facitore. La biografia è una scienza - come abbiamo più volte avuto modo di sottolineare - non separabile umori , dalla visione della storia delle realizzazioni che hanno sì una loro autonomia ma che non possono disgiungersi da chi le ha fatte e create. È quando emerge nitide pagine, sempre sorrette da una chiara vocazione alla  che vuole incontrare il lettore e non raggiungerlo con l’ancoraggio - spesso ripetitivo – ad una pretesa scientifica. Se uno dei pregi da sottolineare della ricerca di Giovanni Matta è proprio, intanto, la discorsiva, piana e convincente chiarezza essenziale, la concisione appunto.
La frase di Redon posta ad apertura del testo è chiarificatrice degli intendimenti teorico-dimostrativi di Giovanni Matta : "La grande arte nasce dal diritto che si è perduto e che dobbiamo riconquistare : il diritto alla fantasia". È questo, per l'Autore, uno dei sigilli del c.d. moderno  termine ovviamente assai estensivo che Egli fa partire dai "Precursori" come li definisce, citando i paesaggisti inglesi e mettendo a fuoco J. Constable, William Turner, Delacroix, Cordet, Corot. I grandi esiti luministici , le chiarezze di colore e la potenza del colore secondo le lezioni di  Goethe , aprono senza manierismi al miracolo degli inizi, alla trasvalutazione del paesaggio e dei luoghi storici delle campagne al canal Grande (1835) di Turner, al sapiente e modulato "impasto" del colore ripreso come modulo efficace un secolo dopo della riportata immagine del quadro di Delacroix "Studio di caccia al leone" dove gli elementi della forza e della natura, anche attraversando altri continenti come l'Africa, si pongono come reale avanguardia nella concezione e negli esiti che, certo, risentono in molto di questi Artisti, della lezione dello sturm und drang   del Romanticismo. Ecco ancora Rousseau il Doganiere, la sua surreale poetica (v. L'incantatrice di serpenti) fra naif e raffinatezze, all'impegno sociale di un Millet (Le spigolatrici del 1857 ne sono esempio), al verismo della scuola della foresta di Barbizon, fino al neoromanticismo intriso di elementi classici e simbolici di un Rodin di cui si pubblica la famosa cultura "Il bacio" del 1888. Il cuore del volume di Matta si proietta all'Impressionismo con i suoi Maestri e interpreti a cominciare da Monet, senza "intermediari - scrive Matta - contro la retorica e i sentimenti" tipici di un ceto che, diciamolo, si andava affermando con una certa grettezza, la borghesia, carica di pregiudizi e chiusure. L'Impressionismo aggiunge bene Matta è stato la conquista di una "conoscenza intuitiva dell'arte, una sensazione visiva satura di contenuti etici, sociali, culturali, in pratica una nuova e geniale visione della realtà". Con Monet, Edouard Manet, Pierre Auguste Renoir , il “dinamismo sospeso" e leggero di Degas delle "Lezioni di danza "(1876), l'intensità di un Cèzanne, gli aspetti di un Pisarro di cui si riporta la splendida opera - debitrice del puntinismo  ma pienamente impressionista, "Pastore con le pecore" (1888). Si passa ad esaminare il Divinismo o Neoimpressionismo come lo definì il caposcuola Gerges Serant , con uno strepitoso Paul Signac con la sua "Veduta di Saint Tropez" del 1897. Arriviamo così alla fervida stagione dell'arte totale, unitaria in tutti gli dominii dall'architettura all'arte applicata che nasce in Belgio nel 1884 come, dice Matta "reazione allo scadimento del gusto" sviluppandosi negli ambienti antiaccademici e che si sviluppò in tutta Europa e Stati Uniti, con esiti originali e felici, specie riscoprendo e proponendo la curvatura e la dinamicità della natura in ogni ambito dai quadri, agli immobili, agli oggetti anche quotidiani e, appena trasgredendo al proprio compito di delimitazione, Matta non può non ricordare Ernesto Basile. La selezione efficace del nostro Autore incontra così le opere di un Von Stuck e di un Liebermann sino alla Secessione di Vienna del 1897 del grande Klimt con le sue opere simboliste, la colorazione piatta, l'uso dell’oro che giustamente Matta riporta, per alcuni versi, alle stampe giapponesi e ai mosaici bizantini e, ancora, ai Preraffaelliti citati peraltro. Si ricordano Otto Wagner, l’architetto Horta, Perret, Kircher, Mullus, , Munter, Macke ed Heche per la Germania, fra gli altri, insieme al sempre stupefacente Vassilij Kandinskij, di origine russa che è pregno di una cultura e di una spiritualità che trova esito nel puro colore, nella messa in sintesi del Mistero. Matta giustamente include ancora Gaudì (1852-1926) il veramente geniale, eclettico autore del Parco e della casa Gruel, della Casa Millà e Betleo ma, soprattutto, della Sagrada Familia a Barcellona in cui convergono in portentoso disegno, che prese Gaudì per una intera vita, le sue visioni di pietra ricche di suggestioni labirintiche e di arabeschi della memoria in una sacralità cristica che riscatta tante pessime architetture del suo tempo, anche per ciò che riguarda l'arte Sacra. Matta non manca, ovviamente, di sottolineare quanto decisivo sia stato il Simbolismo con il ricorso alla primitività e alla esoticità statica che, dice Guaguin "viene dallo spirito" con non poche consonanze con la psicologia e la psicanalisi che si andavano affermando. Si ricordano nel testo di Matta anche Bonnard , Mareau col suo mitologismo romantico, fino a Munch e alla sua "interiorità drammatica" che subito ci fa ricordare il suo Urlo del 1893, e a Matisse e ai registri espressivi plurali. Per la scuola di Parigi - sempre per citare alcuni fra i non pochi artisti ricordati da Matta – Rouault e il suo "Miserere", 58 epiche tavole prefazionate da Maritain e Georges Braque con le sue geometrie pure e la sua tavolozza viva. Giusto spazio ancora, Matta dedica al Post-Impressionismo, a Van Gogh con le sue "pennellate immediate e con i colori accentuati" che rendono lucente pure la notte, di Toulouse Lautrec, i suoi movimenti spontanei come la vita parigina suggerisce. Anche l'Astrattismo specie di Paul Klee è al centro del lavoro di Matta dove, dice, "gli elementi figurativi appaiono stilizzati, nitidi nelle modulazioni dei colori ed "astratti" nelle composizioni". Dopo aver affrontato Kokschka e Schile, Matta si occupa ampiamente e con ottime evidenziazioni del Cubismo, delle fasi artistiche di un Picasso (ed anche della vita privata convulsa) del suo genio innovatore che lo pone al centro del percorso di tutto il Novecento come un caposcuola e uno spirito di alto profilo umano e civile (vedi la celeberrima Guernica del 1937).
Anche la Montmatre  di Utrillo e la narrazione fantastica-onirica di Marc Chagall sono oggetto di viva attenzione, insieme a Brancusi. Arp. Marcel Duchamp, Picabia attraversano il Dada di T. Tzara senza dimenticare Mondrian.
Il volume si chiude con due dei capitoli sul Surrealismo e sulla Nuova Oggettività Tedesca. Attorno ad Andrè Breton si unirono molti intellettuali e artisti quali Ernst, Magritte, Giacometti, Dalì. Fra la tendenza astrattista e quella onirico-fantastica, l‘alterazione lirica e simbolica, del profondo si irradia nelle tele di Magritte e nelle contaminazioni simboliche e naturali di Ernst, fino agli enigmi allucinanti ma di grande fascino e pregnanza di S. Dalì, agli incontri di Mirò e alle solide, archetipiche figure di Henry Moore. Sulla Nuova Oggettività Tedesca Matta passa in rassegna George Grosz con i suoi tipi umani deformi, che mettono in evidenza, dice, "la crudeltà dei militari e la miseria morale della società tedesca" insieme ad altri significativi artisti che troveremo, come altri non citati qui, con ampio corredo iconografico e biografico.
Concludendo la tesi dello sviluppo, non sempre storicisticamente inteso, con ritorni e fughe in avanti, non sovverte l’uso - anche ideologico - della pittura e della scultura. Pur attraversando molti decenni e innumerevoli vicende, con sensibilità e stili a volte diversissimi e con uso di tecniche nuove (si pensi al collage e all'arte applicata) l'arte moderna in Europa è ancora, nel periodo investigato di Giovanni Matta, sul solco di una storia, fatta di dinamicità tipica dell’avanguardia e di un profondo ripensamento della condizione della modernità.
Ciò che resta in controluce, perché non oggetto della trattazione di Giovanni Matta, è l’attuale e persistente perdita del centro, per dirla con Hans Sedlmayr, ricolmo di minimalismo e la conseguente dissoluzione del post-moderno non sempre e non solo “concettuale”. ma questo, ovviamente, è un altro discorso.
Resta a noi l’attraversamento, la ricognizione “leggera” e al contempo viva e partecipe di Giovanni Matta che, con questo singolare studio, con questa ricerca-itinerario, ancora di più dà prova della sua vocazione all’umanesimo della Cultura, praticando nello spazio e nel tempo, come destino e scelta di vita, ricerca di senso e di significato, e non solo come proclamato annuncio. Ciò che, infonde, si richiede a chi liberamente vive la cultura , l’arte come visione e pratica dell’esistere, con libertà, onestà intellettuale, amore per il sapere e la bellezza. 

Vito Mauro, "La luna crollerà", (Ed. Thule)

di Francesca Luzzio

La silloge La luna crollerà di Vito Mauro propone poesie limpide, cristalline come l’animo del poeta che le ha create.
In molte delle liriche che compongono la raccolta c’è l’espressione giovanile dell’input ancestrale dell’amore, di un cuore innamorato dell’amore, di un’anima ricolma che cerca sinfonica rispondenza. Ben tre liriche portano il titolo “Amore” e in molte altre tale tema è l’oggetto preponderante dell’ispirazione, sicchè il lettore, a lettura ultimata, non può non rilevarne la preminenza e l’importanza che esso ha per il poeta.
È un amore cercato,trovato, perduto, un amore sofferente nella solitudine dell’inane ricerca o della lontananza: “Solo \ di nuovo solo, \ distante da te, \ staccato dalle cose, \ lontano dalla gente\....”(SOLO, PAG.25).  Il bisogno di amore, “l’impedito desiderio” inoltre tende a trasumanare anche la più carnale sensualità  in sogno, in miraggio: ”.....\  Frena la mia arsura \....\ Mandami in estasi, inebriami, \  chimera impossibile. \ Fa che non sia vano  \ il mio miraggio”. Ma non sempre è così, non sempre solitudine e ricerca rattristano e inquietano l’anima, infatti vibra anche nei versi la gratificazione del possesso dell’oggetto dei desideri e in tali circostanze, l’io realizza la pienezza dell’essere: “ ... No! Non tutti lo sanno \ dell’esistenza dell’amore .\ Chi lo sa? \ Io lo so! Sì lo so \ ...\ Ora ci sei tu. \ Finalmente ci sei.  \....”
L’intera silloge comunque rivela un’indole appassionata  eruggente che trova una barriera nella sua esplicazione in una coesistente timida ritrosia che rende faticosi e difficili l’approccio e la socializzazione; eppure tale limite è la forza della personalità di Vito Mauro e del lirismo dei suoi versi, in cui aleggia spesso quell’alone magico di malinconia che caratterizza la semplice bellezza della silloge.
La sua donna per il poeta ha la stessa funzione che  Clizia (Irma Brandeis) ha per E. Montale, ossia è Cristofa, portatrice di valori  e poesia, ma  al contrario del poeta genovese che di fronte alla seconda guerra mondiale e alla delusione del dopoguerra,assiste impotente alla fuga nell’“oltrecielo” della donna e dei valori cristiani che rappresentava, Maurodi fronte alla crisi dei nostri tempi, così come Sereni cerca un confronto continuo con la storia, ma non per segnarne come lui, la sconfitta, ma per denunziare  in pochi ma pregnanti testi,  alla luce degli insegnamenti evangelici econ amara ironia,la mercificazione o il venir meno dei valori:
 RASSEGNIAMOCI “Rassegniamoci,\ non più coscienza collettiva,\ ma incoscienza privata;\ ....\ rassegniamoci,\ non più ben’essere,\ ma ben’avere \ ...\ rassegniamoci, non più persone, \ ma personaggi;\ rassegniamoci,\ non più meriti, \ ma successi rassegniamoci,\ pochi  amori,\  molti tradimenti;\...\rassegniamoci, onesti     criminalizzati, \ birbanti premiati; \ rassegniamoci,\ i doveri? \ aspettiamo che li facciano gli altri;\...\ rassegniamoci, \ non più sostanza,\ ma apparenza;\...\   rassegniamoci,\ né speranze, \ né futuro,\ quando a Sua \ immagine o somiglianza?
REAGIAMO”.Si è cercato di proporre,in parte, anche la strutturazione estetico-visiva della lirica perché, come i Futuristi e Marinetti e dopo la Neo-avanguardia, Vito Mauro tende a realizzare spesso un “visivismo grafico”che si avvale del grassetto in poesie o versi interi, oppure in parole, lettere e sillabe, o ancora, come nella citata lirica,della scrittura verticale al fine di evidenziare a livellofonico-visivo,la  pregnanza semantica delle paroleche,anche attraverso la normale disposizionemorfo-sintattica o il loro uso anaforico avvalorano le emozioni, i sentimenti e le denunce che il poeta esprime nella sua cristallina versificazione. 

Carlo Caffarra, " L'amore insidiato"(Ed. Cantagalli)

di Domenico Bonvegna

“Quanto più profonda è la notte tanto più le stelle brillano”, è la scritta che si può trovare presso il monastero benedettino di Subiaco, sono convinto che tra le tante stelle che brillano, una di queste è la bellissima intervista,che ho proposto qualche giorno fa, del settimanale Tempia monsignor Caffarra, arcivescovo di Bologna. Monsignor Carlo Caffarra oltre ad essere un principe della Chiesa, è un eccellente uomo di cultura, studioso ed esperto di famiglia, matrimonio e temi bioetici, tanto che ha ricevuto da Giovanni Paolo II prima, e da papa Benedetto XVI dopo, diversi incarichi per guidare istituti, e corsi di preparazione in tutto il mondo. E’ autore di diverse pubblicazioni. E’ triste constatare come una figura così straordinaria abbia poco riscontro nel mondo della cultura italiana, e forse anche nel cosiddetto mondo cattolico.
Due libri dove possiamo trovare diversi suoi scritti sugli argomenti inerenti la famiglia e il matrimonio è “l’amore insidiato”, sottotitolo, “Non è bene che l’uomo sia solo. L’amore, il matrimonio, la famiglia nella prospettiva cristiana”. Io ho letto e propongo a voi alcuni stralci, del 2 volume (368 pagg). Il testo è composto da diversi scritti, conferenze, del cardinale che sono state ordinate secondo un disegno unitario dalla casa editrice Cantagalli(2008).
Il testo offre diversi e ricchi argomenti per comprendere la sfida culturale e antropologica che l’uomo d’oggi sta vivendo. Ormai si tratta di una vera e propria battaglia tra la cultura della vita e la cultura della morte. I temi che il cardinale affronta sono di estrema attualità, peraltro sono quelli che ha ben sintetizzato nell’intervista al settimanale diretto da Luigi Amicone: la crisi familiare e del matrimonio, la questione del gender, l’unione omosessuale, la procreazione assistita, la questione dell’aborto, l’emergenza educativa e tanto altro.
Il testo potrebbe rappresentare una specie di viaggio fra le “macerie dell’inumano”, dove la verità sulla persona è oscurata, le dimensioni costitutive della famiglia, come l’amore coniugale e il rapporto genitori-figli, sono insidiate. In queste condizioni la vita civile diventa impossibile. Anche perché come ben scrive il cardinale Caffarra, la famiglia, è “proprio la vera culla della società umana, poiché è in essa che l’umanità continua”.
Il testo è suddiviso in 4 ampi capitoli, carichi di domande e risposte, con diversi riferimenti filosofici e sociologici. Ritengo interessante cominciare la presentazione del volume con una citazione che il cardinale fa del filosofo franceseAlex De Tocqueville, che sembra fotografare la nostra vita sociale attuale verso la quale stiamo camminando a grandi passi: “Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri (…) Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte (…) ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi”.
La nostra epoca vive dentro una cultura e una comunicazione sociale nella quale si tende a trasformare ogni desiderio in diritto. La nostra è “una società nella quale vale il principio: ‘Se tu non vuoi, perché devi impedire che io possa?’. Una società, cioè, nella quale la soggettività individuale, la ricerca del proprio bene-essere diventa criterio supremo dell’organizzazione collettiva, negando che esistano beni umani insiti nella natura della persona umana che tutti devono riconoscere; che esiste un bene umano comune”. In pratica il principio utilitaristico, pervade tutti i rapporti della nostra società, rendendoli “scambio di equivalenti”, così come avviene nei rapporti economici e nel mercato.
Penso a quello che avviene con l’aborto quando il soggetto debole viene espulso, con la procreazione assistita in vitro, o con l’utero in affitto, significativa a questo proposito la campagna di sensibilizzazione de LaCrocequotidianodi Mario Adinolfi, che per mesi ha scritto, i figli non si pagano. Per una moratoria Onu sull’utero in affitto”, evidenziando e biasimando la pratica barbara  e il caso inquietante della nota soubrette inglese Elton John.“In una società dominata dal principio dell’equivalenza, - scrive Caffarra - è inevitabile che il più debole sia schiacciato; (mentre) in una società dominata dal principio della reciprocità, il bene proprio non è mai raggiungibile prescindendo da, o contro, il ben dell’altro”. E qui viene intesa la nascita del figlio soltanto come dono, frutto soltanto del rapporto sessuale dei genitori.
Il libro di Caffarra racconta la crisi della famiglia e del matrimonio, nella società utilitaristica di oggi, tutto il vissuto coniugale è messo in discussione, la vita di coppia è sottoposta a una crescente “contrattazione: si contratta tutto o pressoché tutto”. Alla fine anche la stessa definizione di matrimonio è diventata negoziabile. “E quindi logico - scrive Caffarra - che si proponga che sia riconosciuto anche alle coppie omosessuali il diritto di mettere su famiglia, di non essere discriminate nella distribuzione degli alloggi rispetto alle coppie eterosessuali, di adottare figli o, se lesbiche, di farsi inseminare con le tecniche oggi a disposizione. Insomma, il matrimonio è sempre più basato su ‘contratti rivedibili’”.
Qual è la contesa attuale? E che si sta nobilitando il rapporto omosessuale, mentre la preziosità propria del matrimonio si sta gradualmente oscurando. Per monsignor Caffarra è indicativo il voto del 2006 del parlamento Europeo che ha approvato la risoluzione che invita ad equiparare le coppie omosessuali a quelle fra uomo e donna e condanna come omofobici gli Stati e le Nazioni che si oppongono al riconoscimento delle coppie gay. Non era mai accaduto nella storia dell’umanità. “Perché si è giunti a questa richiesta? Che cosa stiamo rischiando in essa?” E’ una messa in crisi senza precedenti dell’istituto familiare, che ci porterà alla costruzione di una società di estranei gli uni agli altri. Per il cardinale lo sbocco naturale di questo comportamento sarà “la torre di Babele dei nostri edifici sociali”.
L’ultima frontiera di questo continuo svestirsi degli abiti naturali che hanno da sempre contraddistinto l’umanità, è la cosiddetta teoria del gender, dove le differenze fra mascolinità e femminilità vengono considerate come semplici effetti culturali, prodotti dalla società.
Pertanto, l’essere uomo o l’essere donna è frutto della libertà personale, ognuno” si costruisce” la sua forma sessuata. E’ un fatto culturale di immensa portata, nella coscienza dell’uomo occidentale è intervenuto un cambiamento nel modo di considerare il proprio corpo. A questo proposito abbiamo presente la disapprovazioneferma di Benedetto XVI dell’ideologia del gender, considerata una delle sfide più gravi per la Chiesa e per il bene comune.
Questi ed altri temi propone il testo. Lo “‘scontro antropologico’ si è fatto radicale, il ‘conflitto delle interpretazioni’ così decisivo che a molti, anche cristiani, sembra impossibile e quindi impraticabile un confronto veritativo”. E qui il cardinale rileva, lo stato di rassegnazionedel mondo cattolicoche si è ridotto “ad essere una delle tante aree o uno dei tanti prodotti del supermarket culturale, che si esibisce alla semplice scelta dei visitatori”. Pertanto, “il richiamo continuo alla ‘tolleranza’ non raramente o è mera retorica o è pieno cedimento allo scetticismo”.Tuttavia il rischio più grave di oggi per l’antropologia cristiana, è quello “di pensare che sia impossibile un confronto sul piano veritativo, e che dobbiamo semplicemente limitarci a lasciare a ciascuno la propria area. Monsignor Caffarra mette in evidenzia un dato fondamentale per chi vuole essere cristiano: “Il Cristianesimo non ha chiesto solo di essere libero di proporsi: ha sempre anche giustificato la sua richiesta di libertà in base alla coscienza di verità della sua proposta salvifica”.

Gladis Alicia Pereyra, "I panni del saracino" (Ed. Manni)

Il 18 maggio 1291 San Giovanni d’Acri, ultimo caposaldo cristiano in Palestina, cade per mano del Sultano di Egitto. Il giorno dopo inizia questa storia. In una vivace ricostruzione storica di avvenimenti reali e immaginari scorre la vita di Nerino dei Buondelmonti.
Cavaliere fiorentino, francescano e poi pirata e corsaro al servizio di Genova, Nerino è protagonista di guerre sanguinose, carneficine, rapimenti e riscatti in un Mediterraneo senza pace sconvolto dalla furia del potere ad ogni costo.
Ma nel romanzo c’è anche l’amicizia, la lealtà e un grande amore che trascinano il lettore fino all’ultima pagina.

Leggiamo alcune considerazioni dell’autrice a proposito del suo lavoro.
  Dati i problemi che la ricostruzione storica comportava, la stesura del romanzo ha richiesto alcuni anni; la bibliografia che sostiene le sue pagine è piuttosto consistente, tuttavia, ho scelto di lasciare in secondo piano gli eventi storici per dare maggiore rilievo al racconto. La ricca e complessa realtà dell’ultima decade del duecento è la traccia che ho seguito per sviluppare e dare coesione ai diversi momenti narrativi.
  La difficoltà maggiore l’ho trovata nella ricostruzione delle navi del periodo; delle galee sono stati ritrovati alcuni relitti di scafi, ma per avere notizie di come venivano armate bisogna rivolgersi a documenti scritti o all’iconografia; lo stesso vale per le navi commerciali, le cosiddette navi tonde. 
  Un’altra grande difficoltà è stata descrivere gli scontri navali, soprattutto perché i cronisti danno molto per scontato; con un’accurata ricerca, però, -spesso cercando tra le righe- e molta immaginazione, credo di aver composto un quadro bellico convincente. A giudicare saranno i lettori…   
Gladis Alicia Pereyra è nata in Argentina da madre italiana e padre argentino. Nel 1973 si è trasferita a Roma dove vive e lavora. Si occupa di storia medievale e nel 2011 ha esordito per Manni con il romanzo “Il cammino e il pellegrino”

venerdì 26 giugno 2015

Corrado Camizzi, ...Libera e una! L'Età del Risorgimento fra Tradizione e Rivoluzione (Ed. Thule)



di Piero Vassallo
Interprete insigne della destra nazionale, Camizzi riconosce che "l'Italia nacque come formazione politica, nel breve volgere di due anni e in maniera sostanzialmente eversiva, fu cioè il frutto di una serie di usurpazioni, malamente rabberciate da alquanto improbabili plebisciti".
 Se non che Camizzi, a differenza del Taparelli e dei suoi anacronistici continuatori, Angela Pellicciari ad esempio, rammenta che "i principi italiani videro la maggiore garanzia di stabilità, anziché nel consenso e nella fiducia dei loro popoli, nella protezione di una potenza europea interessata a garantire, con la sua influenza omogeneità a sicurezza".
 Al proposito, Camizzi cita la tesi di Francesco Leoni, secondo cui "nel clima della Restaurazione si manifestarono due tendenze nell'opinione pubblica di sentimenti controrivoluzionari, quella di coloro che ritenevano doversi almeno prendere coscienza di quanto era accaduto nell'arco di venticinque anni e dunque adattare la strategia del movimento sanfedista ad una realtà che, bene o male, era mutata e quella degli intransigenti, che respingevano ogni modifica introdotta introdotta nelle menti e nel contesto socio-politico dalla Rivoluzione francese e dall'esperienza napoleonica".
 La radice dell'avversione al risorgimento è la conclamata incapacità di vedere e il tarlo assolutista in azione devastante nelle monarchie europee e, al suo seguito, la folle pretesa di sottomettere le chiese nazionali.
 Non è dunque possibile contestare la puntuale sentenza di Camizzi: "non si può difendere in sede storica un mondo che rappresenta un passato senza alcun avvenire, come pretenderebbero di fare gli storici revisionisti più radicali".
 Le disoneste ombre della massoneria garibaldina, giustificano il rifiuto della malsana strategia liberale, non il rifiuto di un bene prezioso e inalienabile quale è l'unità della Patria.
 La critica dei metodi, in definitiva, non può e non deve rovesciarsi nel rifiuto del risultato, l'impresa unitaria, felix culpa da cui dipende la speranza di non essere schiacciati dalle teutoniche natiche della cancelliera Merkel. 

giovedì 25 giugno 2015

Sul Mosaicosmo. Testi, note, recensioni e testimonianze

E' uscito il numero 6, 2015 dei Quaderni del Sigillo Cultura, dal titolo" Sul Mosaicosmo, a cura CO.S.MOS. - Comunità Spirituale del Mosaicosmo, che contiene testi, note, recensioni, testimonianze sui volumi di Tommaso Romano " 7 Tessiture dal Mosaicosmo" e "Essere nel Mosaicosmo", a cura di Maria Patrizia Allotta e Luca Tumminello con una testimonianza di Arturo Donati, editi da Thule. Troverete i testi dei seguenti Autori: Franca Alaimo • Giovanni Amodio • Nino Aquila • Giuseppe Bagnasco • Giovanni Bonanno Giuseppe Bonaviri • Anna Bonetti • Anna Maria Bonfiglio • Domenico Cara • Silvia Giudice Crisafi Lino Di Stefano • Carmelo Fucarino • Giuseppe Fumia • Mariolina La Monica • Giuseppe La Russa Carmelo Lauretta • Flavia Lepre • Gaetano Licata• Francesca Luzzio • Maria Marcone • Emanuele Messina • Carmelo Montagna •Gregorio Napoli Walter Nesti • Guido Pagliarino • Laura Perdicchi • Guglielmo Peralta • Lina Riccobene • Paolo Rizza • Nicola Romano • Giuseppe Saja • Antonino Sala •Marcello Scurria • Primo Siena • Giulia Sommariva • Piero Vassallo
Testimonianze di: Nino Agnello; Paolo Armellini; Giorgio Barberì Squarotti; Anna Bonetti; Corrado Camizzi; Federico Cavallaro; Massimo de Leonardis; Giovanni Dino; Luigi Gagliardi; Fausto Gianfranceschi; Ubaldo Giuliani Balestrino; Giuseppe Gorlani; Ennio Inaurato; Giancarlo Kruyff;Maria Antonietta La Barbera; Giuseppe Lo Manto; Ernesto Marchese; Giacomo Ribaudo; Paolo Ruffilli; Biagio Scrimizzi; Delmina Sivieri; Vittorio Soldaini; Mario Sossi; Orazio Tanelli; Teresa Titomanlio; Pacifico Topa; Mario Varesi.

mercoledì 24 giugno 2015

ThuleLibri per informare

ThuleLibri è il nuovo blog della Fondazione Thule Cultura (via Ammiraglio Gravina 95, 90139 Palermo), che si affianca al nostro sito www.edizionithule.it per proporre in tempo reale le novità editoriali, le recensioni, le presentazioni, gli avvenimenti, le iniziative, i premi e i concorsi, e riproporre altresì, attraverso l'Archivio Storico della F.T.C., immagini, recensioni e profili della vita culturale e dei libri di Thule, operante come noto dal 1971, fondata e diretta da Tommaso Romano, come associazione no profit. Preghiamo tutti di usare per le corrispondenze la mail fondazionethulecultura@gmail.com.

martedì 16 giugno 2015

Giuliano Vigni, Cari bambini, cari genitori (Ed. Mondadori)

di Domenico Bonvegna

Attendendo la pubblicazione della nuova enciclica di Papa Francesco“Laudato si”sull’ecologiae la manifestazione del 20 giugno prossimo a Roma, “Difendiamo i nostri figli”. Stop gender nelle scuole”, ho letto e dunque presento un ottimo libretto che la Mondadori ha pubblicato qualche mese fa, “Cari genitori, cari bambini”, una miscellanea dei discorsi di Papa Francesco riguardanti l’importanza della famiglia e del matrimonio cristiano che deve durare per sempre.
Ho ricevuto il libro in dono di fine anno dai genitori dei miei bambini della scuola primaria. Per il suo linguaggio semplice, il testo, potrebbe essere utilizzato come ottimo strumento dagli insegnanti di Religione per far conoscere l’importante magistero di Papa Francesco anche ai bambini della scuola.
Stiamo vivendo un periodo storico difficile per la famiglia e per i suoi legami che si sfaldano sempre più. “Papa Francesco ci offre la testimonianza sapiente e paterna del suo magistero e ci regala parole di fede e incoraggiamento non solo per il nucleo familiare in genere, ma per ogni suo componente (dai genitori ai bambini ai nonni) in particolare”.
Il testo curato da Giuliano Vigini, pubblica una raccolta di discorsi, tenuti dal 2013 al 2015, da papa Francesco non solo sull’ambiente familiare, della sua centralità, degli affetti, la maturazione dei figli. Il Papa parla anche di chi danneggia la famiglia nel suo crescere e nel suo aprirsi al mondo. Scrive Vigini nella presentazione: “ci sono, in realtà, ostacoli e distorsioni che ne frenano o appesantiscono il cammino….”, Per questo l’umanesimo cristiano a cui punta Papa Francesco – che non si stanca mai di richiamare – è la ricostruzione di un’ecologia umana in cui l’uomo sia ricondotto alla sua integrità, unità e dignità di persona, e il creato, così sfigurato per tanti aspetti nei suoi equilibri, sia restituito alla sua bellezza e armonia”. Tra le tante tematiche affrontate dal Papa con energia e determinazione tipiche del combattente, quella della difesa della famiglia, è la battaglia più importante, “in cui si gioca il destino di tutti”. In questa battaglia, c’è proprio la famiglia cristiana ad essere chiamata a rendere testimonianza nella quotidianità dell’esistenza per rendere la società più giusta e solidale. Le famiglie cristiane che di fronte a quelli che brandiscono la “bandiera della libertà”, e sostengono la “cultura del provvisorio”, devono con la loro testimonianza, affermare la sacralità di una promessa che è per sempre e che è proiettata nel futuro.
Guardando alla famiglia di Nazaret, a Maria, madre esemplare che ascolta, decide e agisce, e a Giuseppe, uomo forte e di animo grande, i coniugi cristiani trovano il loro modello di fede e di speranza. I discorsi scelti da Vigini, riguardano spesso i temi connessi all’infanzia e alla vecchiaia.“Bambini e anziani rappresentano i due poli della vita e anche i più vulnerabili, spesso i più dimenticati”. Pertanto in una società dove pare trionfare una cultura di morte, come ben diceva san Giovanni Paolo II, mi sembrano profetiche le parole di Papa Francesco, pubblicate alla fine del libro: “Cari fratelli e sorelle, i bambini portano vita, allegria, speranza, anche guai. Ma la vita è così. Certamente portano anche preoccupazioni e a volte tanti problemi; ma è meglio una società triste e grigia perché è rimasta senza bambini!A noi italiani, europei, la risposta. In Italia, ormai da tempo, siamo al suicidio demografico, non nascono più bambini, i giovani non si sposano, anzi non hanno più neanche il desiderio. Le conseguenze di questo rifiuto sono abbastanza tragiche, si pensi alle pensioni. Il futuro per gli italiani non promette nulla di buono.Ma ritorniamo al libro, il Papa lo sa che il matrimonio e la famiglia sono in crisi. “Viviamo in una cultura del provvisorio, in cui sempre più persone rinunciano al matrimonio come impegno pubblico”. Per papa Francesco, “Questa rivoluzione nei costumi e nella morale ha spesso sventolato la bandiera della libertà, ma in realtà ha portato devastazione spirituale e materiale a innumerevoli esseri umani. Specialmente ai più vulnerabili”. Pertanto il Santo Padre è convinto che il declino del matrimonio sta portando alla povertà e auna serie di numerosi problemi sociali, che colpiscono principalmente, le donne, i bambini e gli anziani.
Per Papa Francesco occorre insistere su questi pilastri fondamentali che reggono una nazione, purtroppo da decenni i nostri governi sia di destra che di sinistra non hanno capito l’importanza fondamentale della famiglia e dei figli. Il matrimonio per sempre e la famiglia naturale con figli allo Stato conviene. Occorre aiutare i giovani a superare soprattutto “la mentalità dannosa del provvisorio” e di avere il coraggio di cercare l’amore forte e duraturo, andando controcorrente.
Il Papa ci invita a non cadere “nella trappola di essere qualificati con concetti ideologici. La famiglia è un fatto antropologico, e conseguentemente un fatto sociale, di cultura”. La famiglia non è né conservatriceprogressista, “la famiglia è famiglia!”.
Il Papa ci invita a non lasciarci condizionare dai concetti di natura ideologica. Infatti per la prossima manifestazione di Roma, sono stati invitati tutti, senza sigle partitiche o associative. A questo proposito monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, aderendo alla manifestazione promossa dal comitato “Difendiamo i nostri figli”, in un comunicato ha detto C’è la volontà di distruggere la radice profonda e culturale del nostro popolo. Quello che è in questione non è soltanto la difesa del grande tesoro della tradizione della famiglia cattolica - che è stata il soggetto vivo ed attivo per secoli della vita sociale - ma la possibilità di una libertà autentica della persona in tutte le fasi della sua vita, dalla nascita fino alla fine. Penso alla cura della libertà della persona come difesa della vita e della sua sacralità, come difesa di ciò che la natura ha stabilito per quanto riguarda la procreazione; ma anche alla difesa della libertà di educazione, che è strettamente connessa alla libertà della vita.
Tuttavia la difesa della famiglia deve interessare tutti.
Certo Papa Francesco è consapevole che al giorno d’oggi per formare una famiglia, ci vuole coraggio, le difficoltà sono tante, però occorre precisare che “i nostri nonni si sono sposati in condizioni molto più povere delle nostre, alcuni in tempo di guerra, o di dopoguerra…Dove trovavano la forza?”. E’ consapevole che essere genitori è faticoso, però bisogna trovare il tempo di giocare con i propri figli e soprattutto i nostri giovani che soffrono di orfandad, cioè di orfanezza, dice spesso il Papa. “I giovani sono orfani di una strada sicura da percorrere, di un maestro di cui fidarsi, di ideali che riscaldino il cuore, di speranze che sostengono la fatica del vivere quotidiano”.
I figli sono un dono di Dio, “una società avara di generazione, che non ama circondarsi di figli, che li considera soprattutto una preoccupazione, un peso, un rischio, è una società depressa”. Il testo offre tanti e importanti spunti di discussione come quello della presunta povertà delle famiglie numerose, per Papa Francesco, queste sono opinioni semplicistiche: “…la causa principale della povertà è un sistema economico che ha tolto la persona dal centro e vi ha posto il dio denaro; un sistema economico che esclude sempre i bambini, gli anziani, i giovani senza lavoro(…) e crea la cultura dello scarto che viviamo”. Termino con l’invito del Papa a difendere le famiglie dallenuove colonizzazioni ideologiche, che attentano alla sua identità e alla sua missione.

mercoledì 10 giugno 2015

Renzo Guolo, Chi impugna la croce. Lega e Chiesa (ed. Laterza)

di Domenico Bonvegna

La vittoriosa conferma elettorale della Lega in Veneto, mi ha stimolato a leggere, “Chi impugna la Croce”. Lega e Chiesa”, editrice Laterza (2011), un libro inchiesta sui rapporti tra Lega e la Chiesa cattolica, scritto da Renzo Guolo, professore di sociologia delle culture e della politica presso l’università di Padova e editorialista del quotidiano La Repubblica.
Renzo Guolo si pone alcuni interrogativi: perché il Carroccio si espande proprio su quell’Italia bianca in cui il Cattolicesimo e la DC hanno avuto sempre una forte rilevanza. Perché ha incontrato un sola resistenza: la Chiesa. E poi perché oggi il Carroccio e i vertici ecclesiali, dopo gli scontri iniziali, sembrano avviati verso strade meno conflittuali. Fino al punto che in Parlamento qualche mese fa, è rimasta solo la Lega a difendere quei “principi non negoziabili”, come per il caso “divorzio breve”. Ma soprattutto Guolo nel testo evidenzia nella Lega il passaggio dal neopaganesimoiniziale a una certa riscoperta del cristianesimo. Al riguardo Guolo vede tra la Lega e la Chiesa quasi una sfida che non interessa la salvezza delle anime, ma è soprattutto orientata  verso l’identità del territorio, su chi riesce per primo a dare forma alla società. Si tratta, a parere del professore dell’università padovana, di un conflitto, uno scontro egemonico nella società del Nord Est.
Per la verità il libro mi sembra sufficientemente equilibrato e in parte sgombro da certi pregiudizi negativi in riguardo alla Lega.
Certamente il rapporto tra la Lega e la Chiesa è atipico. Peraltro la loro relazione non è riconducibile allo scontro classico Stato-Chiesa. Secondo Guolo, la Lega si presenta come un partito che interviene attivamente nelle vicende della Chiesa, rovesciando “i crismi del partito confessionale”. Infatti il partito leghista,“tende a dare una linea alla Chiesa”. Scrive Guolo: “la Lega privilegia un corpus dottrinale anziché un altro; agisce come attore ostile a interpretazioni dottrinare e azioni pastorali ritenute potenzialmente destinate a sfociare in sistemi concorrenti alternativi”. E qui probabilmente Guolo si riferisce alle polemiche innescate all’interno del mondo cattolico sull’ermeneutica del Concilio Ecumenico Vaticano II. Dopo il celebre discorso alla Curia Romana di Papa Benedetto XVI nel dicembre del 2005, Papa Ratzinger ha ben inquadrato il Concilio, nella “giusta ermeneutica”, definendolo in continuità con tutta gli altri concili. Mentre altre interpretazioni invece vedono il Vaticano II come discontinuità, come rottura con la Chiesa di prima. La Lega si schiera con l’interpretazione della continuità e non disdegna di criticare teologi, intellettuali, e specialisti, “che avrebbero imposto alla Chiesa quell’ermeneutica della discontinuità”.
Per Guolo questo sembra un interventismo anomalo, che vede un partito definire pubblicamente ciò che è bene o meno nella condotta della Chiesa”
La Lega ribadirà sempre, “di non essere ostile alla Chiesa in quanto tale, ma solo nei confronti di quella post-conciliare”. E proprio qui, forse, in maniera grossolana, individua amici e nemici della sua politica religiosa. Tra i suoi “nemici” individua il cardinale Martini nella diocesi di Milano e poi il suo successore cardinale Tettamanzi. Poi c’è il vescovo monsignor Paolo Magnani di Treviso. Nel testo Guolo esamina il “caso Treviso”, dove forse c’è stato il contrasto più forte con la Chiesa. Il contendere è la questione immigrazione, il rapporto con i musulmani , che chiedono moschee per il loro culto. Il culmine della contesa si ha quando ai primi di gennaio del 2009, un corteo contro i bombardamenti israeliani su Gaza si conclude con la preghiera dei musulmani sul sagrato del Duomo di Milano, episodio molto grave per i leghisti milanesi, ma anche per tanti altri cittadini milanesi. Ma se ci sono vescovi “nemici”, ci sono anche gli “amici”, e tra questi c’è il cardinale Giacomo Biffi di Bologna, che gode della simpatia leghista.
Il sociologo Guolo, fa un’ottima sintesi del magistero biffiano. Viene spiegato il celebre discorso di San Petronio del settembre 2000, quando il cardinale chiarì quale doveva essere la posizione politica del nostro Paese nei confronti dell’immigrazionismo. Per quanto riguarda la Chiesa, il prete giustamente deve accogliere tutti, bianchi, neri, verdi etc. Lo Stato, invece, deve discriminare, non può far finta di nulla, deve stare attento alla cultura, alla religione degli uomini e donne che fa entrare nel nostro Paese. Naturalmente il primate bolognese, fa riferimento agli immigrati musulmani che per la loro “diversità”, costituiscono un serio problema per l’integrazione. Secondo Biffi, gli immigrati dovrebbero conoscere e rispettare le nostre tradizioni e la nostra cultura e identità. Per lo meno se dobbiamo rispettare le “minoranze”, bisognerebbe rispettare anche le “maggioranze”. Pertanto abolire i crocifissi nei luoghi pubblici, per non urtare la sensibilità di minoranze di altre religioni, è aberrante.
Il cardinale di fronte alle dinamiche demografiche sul futuro dell’Italia e dell’Europa, propone l’unica “medicina” possibile: o riscopriamo la nostra vera identità e ridiventiamo cristiani, oppure saremo conquistati dall’Islam o dalla “cultura del niente”. “Solo la riscoperta dell’avvenimento cristiano potrà dare, secondo Biffi, un esito diverso a questo inevitabile confronto”. Ma a distanza di quindici anni ancora oggi, né i “laici”, né i “cattolici”, sembrano rendersi conto del dramma che si sta profilando all’orizzonte.
Nel libro, Guolo dà conto di un diversoapprezzamento dei leghisti nei confronti di Papa Wojtyla e di Papa Ratzinger. Secondo l’editorialista di Repubblica, il leghismo italiano non ha digerito molto il pontificato di Giovanni Paolo II, mentre si è trovato in perfetta sintonia con Benedetto XVI. Addirittura al papa polacco viene idealmente contrapposto il bergamasco Giovanni XXIII. La contrapposizione mi sembra abbastanza forzata, anche perché Benedetto XVI ha continuato l’opera magisterialee di riforma di san Giovanni Paolo II. Ma non bisogna meravigliarsi, ormai è abitudine di certo giornalismo contrapporre i vari pontefici.
Il testo di Guolo descrive correttamente il superamento della Lega della prima fase neopagana anticlericale, del culto al dio Po e ai Celti, intriso di new age e di panteismo. Peraltro, è  il periodo del secessionismo duro e puro, all’approdo al cattolicesimo.
Anche sulla faccenda dei rapporti tra il cattolicesimo padano e quello tradizionalista dei lefebvriani, anche su questo tema non riscontro squilibri, Guolodescrive i fatti come sono stati e poi tira delle conclusioni. L’aspetto della strumentalizzazione, forse, affiora quando Guolo descrive le battaglie della Lega in difesa del crocefisso e del presepe. Si nota una certa esagerazione nella difesa dei simboli religiosi. Chiaramente il crocifisso non si impone per legge o con i carabinieri. Anche se per il leghismo, la mobilitazione a favore dei simboli cristiani, “dà forma e valorizza i sentimenti di appartenenza alla comunità locale”. Pertanto secondo Guolo, “la presenza del crocifisso viene vista da questi cittadini come segno della continuità identitaria della comunità locale più che come simbolo del messaggio di fratellanza cristiana”.
Il testo, naturalmente affronta altre questioni dei rapporti complessi tra Lega e Chiesa.  Per l’autore, il Carroccio esalterebbe una religione senza Chiesa, addirittura il cattolicesimo del Carroccio, che pure si richiama alla Tradizione, si nutrirebbe di un’interpretazione della fede più simile alla matrice protestante, soprattutto, quando intende mettere in discussione la stessa forma romana del cattolicesimo. Ma queste, forse, sono interpretazioni del professore Guolo, simili a quelli che identificavano i leghisti nei riti neopagani dei celti. A questo proposito, il professore Massimo Introvigne che ha diretto una ricerca scientifica nel 2001sul tema,“Aspetti spirituali dei revival celtici e tradizionali in Lombardia”, proprio tra gli iscritti e gli elettori della Lega in Lombardia, con notevoli sforzi, ha trovato ben quindici persone che dichiarano di professare la religione dei celti e partecipano a riti neo-pagani: una minoranza colorita, dunque, ma infima. Ma sugli studi del professore e sociologo Introvigne sarà opportuno in futuro dare conto.

martedì 9 giugno 2015

Andrea Guastella, Il ramo verde (ed. Aurea Phoenix)

Si inaugura sabato 6 giugno 2015, alle ore 18.00, presso la Civica Raccolta “Carmelo Cappello” di Palazzo Zacco a Ragusa, la mostra Elogio del disegno, a cura di Andrea Guastella. L’esposizione, organizzata dall’Associazione Aurea Phoenix col Patrocinio dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Ragusa, raccoglie una selezione di disegni di autori italiani contemporanei.
Martedì 23 giugno alle 18.00, sempre presso i locali di Palazzo Zacco, alla chiusura della mostra verrà presentato il volume di Andrea Guastella Il ramo verde, Aurea Phoenix Edizioni, una raccolta di scritti sull’arte comprensiva del saggio che dà il titolo alla mostra e che le è esplicitamente dedicato.
Dal testo di Andrea Guastella: «In un capitolo dal titolo emblematico, Elogio del pastello, della sua indimenticata Critica della modernità, Jean Clair registrava la risurrezione del disegno che, a suo dire, ritorna “ad occupare […] quel posto primordiale che fu, in altri tempi, il suo”. Trent’anni e passa dopo risulta difficile credere al primato di un’arte universalmente caduta in oblio, abbandonata dalle scuole e soppiantata, nella sua funzione mimetica, da strumenti ottici che consentono di riprodurre il reale con una facilità di gran lunga maggiore. Poco a poco tali strumenti, a cominciare dai più semplici come la fotocamera del telefonino, sono diventati delle vere e proprie protesi corporee, dei prolungamenti delle facoltà percettive col non trascurabile vantaggio di fissare una visione stabile, non soggetta ai capricci della memoria e modificabile a piacimento. 
Oggi, perciò, non sembra strano che una star del calibro di Maurizio Cattelan dichiari candidamente di non saper disegnare: “Le mie cose”, afferma, “non le tocco proprio. È il vuoto che mi concentra e mi dà delle idee”. Si potrebbe – ammettiamolo – ironizzare facilmente su quel vuoto, ma sarebbe come prendersela con uno scienziato perché non sa cucinare: l’arte concettuale risponde infatti a logiche mentali che hanno poco da spartire con la “primordialità” del disegno, col suo essere identico a sé stesso da quando i primitivi tracciarono schizzi sulla pareti di una grotta. 
Davvero il disegnare fonde l’uomo e il mondo: come lo sciamano si immedesimava nella preda da cacciare, nessun disegnatore che si rispetti è in grado di affrontare una montagna senza diventare in qualche misura una montagna, o di ritrarre una donna limitandosi a contemplarne la sagoma, la forma. Occorre percorrere i luoghi, frequentare le persone, conoscere la luce e l’atmosfera dei primi e i movimenti delle seconde, dal modo in cui, con un gesto della mano, ravvivano i capelli, al piegarsi di una ruga se un pensiero le attraversa. Disegnare non è infatti copiare passivamente il dato oggettivo: è cogliere un’armonia fra rapporti complessi e trasporli in un ordine proprio, sviluppandoli secondo dinamiche autonome. E non si tratta di impresa da poco. Per quanto si tratti di un atto primigenio, per disegnare – come per scrivere – occorre superare una barriera. 
Lo aveva capito Van Gogh, che in una lettera al fratello definisce il disegno «l’arte di aprirsi un passaggio attraverso un muro» eretto tra i sensi e l’intelletto, tra ciò che si vede e ciò che si intende esprimere. Ostacolo da superare ma non perciò meno necessario, essendo proprio la sua presenza ad accendere l’immaginazione trasformando la percezione meccanica in interpretazione. Ogni artista, per dirla tutta, ha il proprio muro, che a volte coincide col suo limite, altre con la sua qualità maggiore. Prendiamo il caso di Vincenzo Nucci, amico carissimo da poco scomparso cui ho il piacere di dedicare questa mostra: forse il disegno era per lui un limite, una sfida, ma senza impegnarsi in questo confronto sviluppando le sue attitudini di colorista non sarebbe probabilmente diventato il grande pittore che tutti ammiriamo. Non a caso il suo Paesaggio della memoria, un disegno che mi donò per una mia pubblicazione, è quasi un unicum nel suo corpus, e non manca di ricorrere al bianco del pastello. 
Al contrario, per Franco Sarnari il disegno è la prima rimozione – parafrasando un suo famoso ciclo potremmo quasi definirlo una Cancellazione – della sua lunga storia: disegnatore abilissimo, egli farà sempre più a meno della spontaneità dimostrata agli esordi (lo Scooter in mostra risale agli anni ’50) in nome di un tratto più freddo, pensato. C’è quasi da credere che egli abbia temuto di rimanere impantanato nelle secche della facilità esecutiva – la qualità maggiore come ostacolo da superare – rimanendo soltanto un disegnatore.È questo un timore probabilmente condiviso da Giovanni Blanco, altrettanto dotato ma alla continua ricerca di prestazioni superiori per il suo strumento e, sebbene in misura minore, da Salvo Barone, dove l’intellettualismo di alcune scelte tematiche è un freno a mano inserito che rallenta un fluire di linee altrimenti impetuoso. 
Solo Giovanni La Cognata, disegnatore naturale se mai ve ne fu uno, è all’apparenza esente da simili preoccupazioni: all’apparenza, poiché il suo ductus, incisivo come plastica è la sua pittura, si nutre di natura almeno quanto è carico di memoria culturale. La spontaneità, è proprio il caso di ripeterlo, è figlia dello studio.Qualcosa del genere accade anche a Piero Guccione, il cui disegno è costruito, meditato, rarefatto proprio come la sua splendida pittura. E alla pittura, a una tessitura fine, quasi – se fosse possibile – per velature sovrapposte, si richiamano il disegno di Giovanni Iudice, dalla trama così sottile da rendere arduo cogliere il solco della matita sulla carta, nonché quello poetico, evocativo, carico di suggestioni letterarie di Giuseppe Colombo, Francesco Balsamo e Giovanni Robustelli.
Un discorso a parte va fatto per il gesto ipnotico e sognante di Sandro Bracchitta, una sorta di inconscio del suo lavoro di incisore, per quello incerto e sfumato, come se il tempo ne avesse diluito la nettezza, di Giovanni Lissandrello e per quello espressionistico di Momò Calascibetta, forse il maggiore erede di una tradizione che ha in Grostz e in Dix i suoi padri fondatori e una delle massime testimonianze nel segno sospeso tra l’impegnato e il surreale di Bruno Caruso.In realtà ciascuno di questi autori meriterebbe un discorso approfondito, addirittura monografico, che renda giustizia al suo percorso individuale. A me basta, in questa sede, riconoscere che Jean Clair non si sbagliava». 

mercoledì 3 giugno 2015

Luca Zaia, Adottare la terra (ed. Mondadori)



di Domenico Bonvegna
Raramente mi capita di leggere un libro come quello scritto da Luca Zaia, “Adottare la terra”. Per non morire di fame”, edito da Mondadori. Perché bisogna adottare la terra, come se fosse un’orfana? Perché evidentemente l’uomo non la rispetta. Infatti nel testo si sostiene che basta un pò di buon senso, un po’ di rispetto, di una classe dirigente che si innamori dello spazio e dei luoghi che abita, che le cose cambiano. Per fare questo scrive Zaia, bisogna cambiare mentalità: “bisogna abbandonare l’idea che il mondo rurale rappresenti una sorta di residuo del passato”.
Luca Zaia, leghista, già ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, riconfermato con un esito plebiscitario governatore del Veneto, in questo testo cerca di riscoprire un mondo che è morto o che sta per morire. E’ il mondo dei contadini, dell’agricoltura, dove la terra è come una madre, “forza generatrice che dà frutto, che viene lavorata, che si bagna del loro sudore”. E’ una terra che ormai è sconosciuta a troppi giovani. Leggendo le pagine del libro si intuisce che questo mondo agricolo è troppo importante, non può essere abbandonato, ecco perché l’ex ministro, provocatoriamente scrive che bisogna adottarlo, per non morire di fame.
Questo mondo “oggi più che mai incarna, una realtà viva, ricca di risorse e di valori; è il settore fondamentale, ‘primario’ nel senso pieno del termine, per il nostro futuro”. Il libro è stato è stato prefato dal direttore della Sala stampa del Sacro Convento di Assisi, padre Enzo Fortunato, che dalla terra di San Francesco, lancia una sfida: aprirsi a un confronto sincero e aperto perché si arrivi alla promozione e difesa della terra contro le minacce del nostro tempo.
Chiaramente il fratelloZaia accetta la sfida, e da ministro come racconta in questo libro, si è messo al lavoro in difesa delle varie comunità italiane. Innanzitutto Luca Zaia intende stare dalla parte della multinazionaledei contadini, come ama chiamarli. Da ministro e forse ragionando da leghista, Zaia ha rotto un tabù, quello di avvicinarsi al mondo contadino, storicamente lontano dagli apparati istituzionali. “Infrangere il diaframma fra politica e comunità rurali: questo è l’imperativo categorico da porre alla base del rinnovamento della politica agricola nazionale”. Zaia crede nel mondo contadino, fino a percorrere in lungo e in largo la penisola, entrando in aziende e stalle, visitando campi coltivati e allevamenti. Zaia da ministro dell’agricoltura si è occupato davvero della terra, una persona che si è impegnata a difendere gli interessi dei contadini, e soprattutto, ha detto basta “una volta per tutte alla gestione imbalsamata e burocratica della res pubblica”. Sostanzialmente Luca Zaia, ha avuto il coraggio di “farla finita con l’agricoltura ‘urbanizzata’ dei convegni, delle conventicole di esperti, delle multinazionali come centrali di comando, delle università lontane dalla realtà rurale”.A questo punto dopo la recente vittoria elettorale, conoscere il metodo politico dell’ex ministro è importante, per la verità conoscevo poco Luca Zaia, anche se non ho mai abboccato agli stereotipi della sinistra che considera i leghisti, “rozzi, anti-italiani e razzisti”. Dopo aver letto il testo penso che il leghista cattolico Zaia potrebbe offrire tanti contributi per il futuro politico del nostro Paese.
Interessanti le idee sul radicamento e l’appartenenza, il governatore veneto, riferendosi a Simone Weil, ribadisce l’importanza della persona reale che vive legata a una comunità. “Il radicamento è forse l’esigenza più importante e misconosciuta dell’anima umana”. Ogni essere umano ha bisogno di radici multiple, morali, intellettuali, spirituali. Zaia spiega perché fa riferimento alla Weil. La piccola e minuta parigina afferma la visione dell’uomo concreto e reale che vive immerso nelle relazione con altre persone in determinato luogo, la comunità, contro le dottrina totalitarie nazionaliste o socialiste. Scrive Zaia: “le radici di cui scrive Simone sono anche la base dell’esperienza politica leghista, che pone al centro della propria visione le comunità locali, quelle radicate nel territorio e che quel territorio modificano creando paesaggi identitari, la cui struttura portante per lo più è fondata sull’esperienza rurale”.Zaia recupera il concetto di comunità, contro il pensiero neo-illuminista, che egemonizza da un paio di secoli la politica e oggi anche contro l’ideologia nichilista. Purtroppo, scrive Zaia, sono poche le voci che si levano per “risvegliare le coscienze dal torpore dell’ultima versione del pensiero nichilista: la società globalizzata dal mercato”. La voce più forte è stata quella di Joseph Ratzinger. “… è impossibile non ascoltare il monito di Benedetto XVI circa il fatto che il tramonto della follia dei grandi pensieri totalitari – il comunismo e il nazismo – non è coinciso con la morte della loro causa: il nichilismo. Anzi, quest’ultimo è ancora all’opera in molta parte della cultura contemporanea”.
Luca Zaiacrede nel mondo rurale dei contadini, il loro radicamento è un’esperienza vitale. Quei contadini che “hanno bisogno di credere che oltre quella siepe c’è sempre un Dio a cui affidarsi”. I contadini, forse, sono quelli che sanno che cosa sia fare comunità: “stare insieme, condividere il pane e i valori, la lingua, la sapienza dei gesti di tutti i giorni”. Ecco perchésecondo Zaia, i contadini “sono diventati le vittime privilegiate delle ideologie dello sradicamento”, come “la deportazione dei kulaki”, “una tragedia enorme del primo Novecento, ancora non sufficientemente entrata nella coscienza collettiva italiana, anche grazie alle reticenze di una parte del mondo intellettuale”. I contadini erano un impedimento alla rivoluzione staliniana della costruzione del Mondo Nuovo.
Chiaramente Zaia ci rassicura che le sue riflessioni non sono guidate per ricreare un mondo arcaico bucolico, è convinto che oggi il contadino debba essere anche un buon manager, un bravo imprenditore, un eccellente artigiano. Parlando di multinazionali Zaia racconta come sia riuscito a convincere la grande multinazionale McDonald’s ad usare i prodotti agricoli made in Italy. “Migliaia di tonnellate di cibo vendute alla catena, per un correspettivo, in crescita, di tre milioni e mezzo di fatturato al mese”.
Sono tanti gli spunti che il libro di Zaia offre a chi lo legge. A cominciare, da un certo ambientalismo ideologico, che porta a un atteggiamento suicida nei confronti della nostra economia agraria, “che guarda all’agricoltura e non al contadino, convinto che un presunto ritorno alla Natura debba essere l’unico criterio guida nelle attività rurali”. Ma per Zaia, i contadini non possono essere considerati  semplici custodi del territorio.
L’ex ministro è convinto che bisogna educare gli italiani a mangiare diversamente. Cominciando dall’infanzia, dalla scuola primaria e rilancia l’idea della frutta a scuola.
Naturalmente sono interessanti le riflessioni intorno al federalismo come Foedus, e alla politica centralista del nostro Stato. Altre considerazioni notevoli sono quelle sul riconoscimento della comunità dalla sua identità alimentare. E poi le lingue locali come scrigni di identità e cultura. Infine la questione delle questioni: la fame nel mondo e le cattive soluzioni dei vari celebrieties, Bono, Bob Geldof, Angelina Jolie, Madonna. A questo proposito, sono interessanti e sorprendenti le dichiarazioni denuncia di DambisaMoyo, apprezzata economista dello Zambia. In pratica, gli aiuti occidentali non aiutano per niente la terra africana. Ancora più sorprendente la soluzione del politico Zaia per aiutare questi paesi in via di sviluppo: “l’attore principale sul campo resta la Chiesa”. Ma questo è un tema che va ripreso e affrontato in un prossimo intervento.