venerdì 29 maggio 2015

Presentazione del libro: "Teologia della liberazione: per i poveri o per la povertà?"


Piero Vassallo, Pensieri filologicamente scorretti (Ed. Radio spada)

di Lino Di Stefano

In quest’ultimo saggio – ‘Pensieri filologicamente scorretti (Ed. Radio Spada, Milano, 2015) – lo studioso Piero Vassallo, che non ha bisogno di nessuna presentazione, affronta, da par suo, una tematica di grande rilevanza teologica e culturale, in genere; quella relativa, cioè, ai rapporti tra Ebraismo e Cattolicesimo in occasione, altresì, del 50^ anniversario della fine del Concilio Vaticano II.
Relazioni mai idilliache secondo l’Autore ad onta, egli sostiene, del noto ‘buonismo’ di estrazione concilarista. Prefato da Piergiorgio Seveso secondo il quale “se è vero che non si può uccidere Dio, si può tentare di ucciderlo”; prova ne è, a detta di Proenca Sigaud, che “il giudaismo internazionale vuole scardinare la Cristianità e sostituirsi ad essa” tant’è vero che, prosegue il citato autore, certe” ‘destre politiche’, quali il fascismo e il nazionalsocialismo non furono che fasi di una medesima guerra contro la Chiesa di Cristo”.
E veniamo, adesso, al libro di Piero Vassallo giudicato dal Prefatore quale ricerca “con coloriture spesso felici e con accenti sovente fecondi”. Ora, per Vassallo, se è auspicabile il dialogo fra Ebrei credenti e Cattolici fedeli alla tradizione, è parimenti criticabile l’affermazione di Bergoglio volta a dispensare gli “Ebrei dalla conversione a Cristo”. 
Al riguardo, l’Autore menziona Padre Giovanni Cavalcoli - il quale conferma che oggi la Santa Sede ha “nei confronti degli Ebrei un atteggiamento di eccessiva indulgenza e quasi di adulazione” - non senza far riferimento, inoltre, al Pontefice Benedetto XVI. Questi, a detta di altri teologi, non esitò, in polemica con la Sinagoga, a raccomandare le preghiere del Venerdì Santo per il ravvedimento degli Ebrei.
Dopo aver respinto la posizione di Carlo Angelino diretta alla dichiarazione della morte del tomismo e quella di Eugenio Scalfari tesa ad esaltare l’Illuminismo contemporaneo basandolo su una “triade di anti-illuministi furenti, ossia Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche”, l’Autore dà ragione ai teologi che, sulla linea tracciata dal Cardinale Siri, “nella centralità del problema costituito dal conflitto che oggi oppone le diverse correnti della cultura ebraica vedono un segno apocalittico”.
Criticata, a questo punto, la posizione di Ben Gurion intorno al mondo musulmano perché incentrata sul principio della “comune origine biologica”, l’Autore riferisce anche sul cosiddetto ‘caso Mortara’, bimbo ebreo sottratto alla famiglia per farne un sacerdote, non senza porre l’accento, ancora, sulla presa di posizione di Papa Ratzinger che, nella Sinagoga di Colonia, auspicò una sempre maggiore conoscenza fra Ebrei e Cristiani. 
Riferendosi, poi, a Gershom Scholem – facente parte insieme con Benjamin Bloch, Marcuse, Jonas e Taubes della schiera dei pensatori eterodossi sostenitori delle svolte sessantottine della moderna rivoluzione – l’Autore parla, appunto, di Scholem come conoscitore di autori e testi neo-platonici e quale commentatore, inoltre, del testo ebraico ‘Zohar’, ampia raccolta, di trattati scritti da un ebreo esule in Spagna tra il 1265 e il 1285.
Estimatore, com’è noto, del grande Pontefice Pio XII, Piero Vassallo difende quest’ultimo dalle diffamazioni provenienti da più parti e relative alle presunte simpatie del Papa per il nazismo laddove è notorio che già dall’Enciclica ‘Mit brenner der Sorge’ (con pungente preoccupazione) – ispirata dall’allora Cardinale Pacelli – si evincono gli atteggiamenti anti-nazionalsocialisti ed anti-comunisti del futuro Vicario di Cristo. E ciò, in perfetta, opposizione alla diceria di Pio XII amico del Fuehrer. L’Autore affronta pure la problematica delle ‘mitologie intorno al delitto umanitario’ soffermandosi sul pensiero di Alexandr Solzhenitsin per il quale il regime di Stalin non era migliore di quello di Hitler.
Da qui, l’equazione dei due ‘Leviathan’ di hobbesiana memoria, ma da qui, anche la concezione della studiosa ebrea Hanna Arendt “la quale – parole di Vassallo – riconosceva che gli Ebrei, nel XX secolo, sono stati attori del gioco storico alla pari con gli altri popoli”, coinvolti in tali errori.
Dopo aver prodotto i dovuti rilievi alla concezione del mondo del marxismo e reso i dovuti riconoscimenti al filosofo Carlo Costamagna con l’asserzione secondo cui “la condanna del lavoro di qualità è la condanna dell’intelligenza”, l’Autore si accomiata dal lettore menzionando sia Giovanni Paolo II – a detta del quale la “Shoah fu opera di un tipico regime moderno neopagano” – sia l’eresiarca Marcione inventore di una teologia dualistica di probabile stampo persiano pre-Islam. 
Le ultime pagine della ricerca di Piero Vassallo si chiudono con un ‘excursus’ sul pensiero di Simone Weil - proteso a dichiarare la propria estraneità alla teologia della Sinagoga e la consequenziale adesione al Cristianesimo marcionita – e col doveroso omaggio al pensatore e teologo Cornelio Fabro secondo il quale “il popolo d’Israele sopportò con disagio l’altezza della sua eccelsa vocazione e preferì trasformare il regno spirituale nell’ambizione di un dominio temporale e politico”.
Redatto con la consueta acutezza concettuale e con il solito brio letterario, il libro in questione si fa leggere tutto d’un fiato a conferma, se ve ne fosse bisogno, anche delle solide basi teologico-speculative dell’Autore.

mercoledì 27 maggio 2015

Rosa Maria Ponte - La tragica bellezza (Ed. Sciascia)

di Carmelo Fucarino

Pensando alla gelida freddezza dell’e-book, tecnologico come tutta la episteme americana, bianca tavoletta che reagisce e risponde al tatto. Il sentimento che ci fa amare o respingere, la gioia del possesso di qualcosa che è unico e nostro. Per me il libro è ancora questo, profumo di carta, anche con il sottofondo di petrolio, magia che lo rende unico, singolare compagno di affabulazione e di sogni. Fra le due mani, le due pagine aperte in un continuum che non ammette stasi e pause. Sul comodino nell’attesa di notti di insonne desio. Nello scaffale con la costa in evidente attesa, sbirciante i miei riposi, ancor sempre brevi. Perché quel libro che ho scelto fra tutta la pila, quello e solo quello sarà sempre l’unico mio esemplare, per tutta l’esistenza. Con qualche involontario graffio, anche quando la copertina sarà ingiallita.
Perciò la sua singolarità si concede e ci avvolge in un profondo amplesso,in tutte le sue parti. A cominciare da quelle più evidenti, la sua veste, che in greco diede nome all’estetica, la filosofia del bello, della bellezza “percepita” (da aisthánomai, “percepisco attraverso i sensi”). La “copertina”. Brutto quel “cover”, che mi sa di eterno riposo. La copertina è il primo gesto di presentazione, il sorriso o la tristezza, pur sempre la bellezza. Mi fanno pena quei cosiddetti libri in cui la trasandatezza, lo schiaffo del quotidiano, vogliono apparire come forme di originalità. La maglietta pienamente distesa, un pantalone, un cavolo, un reggiseno, addirittura una gialla banana. Si vuol stupire con la banalità. Si vuol apparire originali nello sberleffo del quotidiano abusato. Perché alla fine quella copertina rappresenta l’inutilità della scrittura fra quelle pagine chiuse.
Questo gironzolare alla larga su una esistenziale unica amicizia terrena voleva essere un modo per sciogliere il ghiaccio, per presentare un oggetto vivente, che parla e ascolta e sa dare risposte, ma soprattutto riempie la nostra esistenza. La occupa e possiede con l’affascinazione del Logos, del Verbum, della “Parola” che è divina, è lo stesso Dio.
La bellezza evocata nel romanzo di Rosa Maria Ponte esplode già nella copertina (La tragica bellezza, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 2014, € 18). Ed è il modo di presentarsi al lettore, una indicazione di scelte estetiche e di tragitto. La copertina è infatti un suo olio su tela che ha titolato Dopo la tempesta. I colori si intrecciano ed inseguono nella loro frastagliata impossibile apparenza, il verde che sbiadisce nel luminoso e si rifrange nel rosso, un relitto informe con una prua arcuata a gondola, abbandonato di traverso sul fondo,ove alghe e improbabili fiori marini tendono verso la luce. Un pesce grande come un quarto di scafo, pare un sarago, altri che sgusciano come impazziti, in tutte le direzioni alla sommità. Titolo e composizione rimandano entrambe ad una surrealtà che rimane arcana e misteriosa nella citazione rievocativa o descrittiva e nella sua rappresentazione. Qui penso ad André Breton: Chèr eimagination, ce quej'aimesur tout en toi, c'est que tu ne par donnespas (Manifeste du Surréalisme, 1924).
Come d’altra parte il titolo del libro, che tende a stravolgere le qualità primigenie del bello. Se si pensa alla definizione più perfetta e sublime della bellezza, “serenatrice”, da parte di un pessimista che portò tanti giovani al suicidio: «l’aurea beltate ond’ebbero / ristoro unico a’ mali / le nate a vaneggiar menti mortali». Ma già proclamata in quella dimensione più “eroica” (nella lettura etimologica di Giordano Bruno), in cui Platone collocava la bellezza: «ed è qui che perviene l’intero discorso riguardo alla quarta specie di divina mania: quella per la quale, qualora uno veda la bellezza di quaggiù, riandando nel ricordo alla bellezza vera, si doti di ali e rizzando le piume agogni di volare, ma impotente a farlo, guardi in su a guisa di uccello e trascuri le cose di quaggiù, ha l’accusa di essere folle. Questa mania è la migliore fra tutti gli invasamenti e deriva dai migliori, tanto per chi la possiede quanto per chi ne partecipa. Ed è per ciò che chi partecipa di questa mania divina ed ami i belli, è detto amante» (Fedro, 249 d-e).
Non intendo analizzare la dimensione di questa bellezza e la valenza di tragico. Pongo soltanto la questione dei due simboli in copertina: il relitto che nella quarta è spiegato con un titolo equivoco per uno scafo adagiato in modo scomposto in un prato in fondo al mare, con la fine di una tempesta (la quiete, il rasserenamento leopardiano?), e la bellezza che è definita tragica nella sua intrinseca essenza, nel suo attributo e non nel suo predicativo. Naturalmente nella copertina l’autrice intende lanciare precisi avvertimenti e la simbologia dei due termini vorrebbe essere la spia di una verità. Ma quale? Non è che l’oscura ed enigmatica massima taoista ci possa servire a individuare una traccia. Confonde di più le idee con riverberi culturali estranei alla concezione del bello come lo trasmisero in eterno Prassitele e Fidia.
La circoscritta “storia immaginaria” comincia con una partenza, un viaggio. E perciò si sviluppa con tutti gli ingredienti di un viaggio odierno, le raccomandazioni della banalità quotidiana, il taxi e la corsa verso Fiumicino. L’aereo e il salto oltre. Due punti uniti dal nulla etereo.
Una paginetta e poi lo scirocco di una Sicilia del 1860. Sembra che il tempo cronologico si sia azzerato, l’orologio è tornato indietro, si suppone di un secolo e mezzo. Si suppone, perché se il passato è ben focalizzato e scrutato nelle sue evanescenze che tornano a realizzarsi, il presente non trova una sua precisa temporalità. Nessun avviso, nessuna indicazione di rotta. Tutto è avvenuto in un cortocircuito temporale e spaziale, da una Roma odierna, di quando?, ad un paesino arretrato del trapanese che, senza alcun suo merito, entrò nella storia della Nazione. Inutile chiedersi le ragioni di questo scarto improvviso, bisognerà abituarsi a questi celeri mutamenti di situazioni e di tempi. Come è nella tecnica narrativa della scrittrice, a cominciare dal suo primo romanzo Nel cuore della notte e poi nella serie di La collezionista di guanti e altri racconti, i tempi reali si intrecceranno compulsivamente a volere rappresentare questo intersecarsi di passato e presente nella lettura esistenziale delle azioni e dei pensieri umani. Come se il presente, nel suo farsi imminente, non fosse altro che una serie di sezioni del passato. Anche di sprazzi di futuro che affioreranno in deliri e angosce oniriche, in incubi e ascensioni, e si perderanno in surreali e arcane verità che solo l’autrice può capire a fondo.
Tutta la vicenda dunque si snoda in un inseguirsi di presente, pieno di attese e di ricerche di verità, tra la Roma appena sfiorata e soltanto nominata, e la New York vista e sentita attraverso lo stupore del primo incontro e dell’amore a prima vista. Non solo i grattacieli, abituali oggetti connotativi della città, con il loro nome surreale e impensabile per un palazzo, l’americano sky scraper, cioè l’altissimo albero maestro dei brigantini inglesi. Ma quella particolare atmosfera che si prova negli odori delle Streets, in quel fumo che esce dai tombini, nei mercatini di rione o nelle Little Italy, nel pollo fritto e nelle Steakhouse. Anche a Palermo se ne trova una. Il romanzo vive il presente in questa dimensione non meno onirica di una New York incantata, stupenda e inconfondibile fino alla sequenza lunga della Funeral house, la location gelida ed anonima della morte, ove fa da bordone un insolito Diesirae. C’è l’incontro con una cugina svanita di cinema e di memorie appassite in sogni di gloria, c’è il misterioso senatore che tronca il passato con la sua fuga improvvisa, la soluzione estrema, il rifiuto assoluto della verità che giunge fino alla scomparsa fisica. La verità. Sembrerebbe a portata di mano e svanisce tra intrigate rievocazioni di un passato romanzesco e fughe rocambolesche di giovani e vecchi verso esotici porti. Perché se il presente è rodato su una verità chiara e senza veli, il passato si presenta nella probabilità degli eventi, nel “pensiero negativo”. Sembrerebbe che ognuno possieda una sua verità, senza che riesca ad incastrarla con quella degli altri. Perciò il riandare insistente, alternato nelle cadenze più o meno lunghe, alle campagne di Calatafimi, sa più di sogno e di riesumazione di spettri. I contadini appaiono fantasmi di un mondo appena sfiorato, sono esistenze che si perdono in sogni di prosperità e in una miseria che neppure la gratuita ricchezza ha saputo sconfiggere. Il pecoraio arricchito, i signorotti del contado, il professore svanito, il parroco perduto nell’arte e nell’irrisolto desiderio di un piatto di pasta, la levatrice e fattucchiera, fino al popolo anonimo, sono figure, più spesso macchiette che non riescono a trovare un vero ubiconsistam, perdute nella loro esistenza mitica e lontana. È una campagna che risulta di contatti epidermici, un mondo che si intrufola nella grande storia e cerca di trovarvi un posticino. Come quella lanterna magica che giunge nel nuovo mondo in una fabbrica di candele, per restare muto cimelio di un museo di abitatori frustrati.
Perciò alla fine la scrittrice (quale? quella di dentro o di fuori?) non riesce a sciogliere i nodi del passato. È giunta alla decisione che il romanzo giallo non era fatto per lei? Ha dato perciò un taglio al passato? Oppure sotto la finzione narrativa della recherche continua a insinuarsi questa esigenza di ammaliare il lettore, proponendogli misteri da risolvere, tra una sospensione e l’altra, tra un tempo da vivere e un tempo da scoprire?
Alla fine, anche l’amica, segretaria, inserviente, tutto fare ritorna nei ranghi abituali. Ed è lei la spia che alla pazzia del rifacimento delle pareti, un equivoco boudoir, alla rivoluzione di mobili e colori è subentrata l’esigenza della normalità, il ritorno al come prima. La padrona con il suo arcano antenato americano irrisolto e il vuoto di amore. L’altra, dopo l’illusione dell’amore marinaio, come se non sapesse della storia di “una donna in ogni porto. Tutto si è ricomposto dopo le sconsiderate fughe di entrambe nella piatta quotidianità dell’esistenza.
La ventata che le ha travolte e prospettato radiose avventure si è chiusa su una certezza.

Paola Galioto Grisanti - Ciminieri (Ed. Itinera)



di Maria Elena Mignosi Picone
Ciminieri è il titolo che la poetessa Paola Galioto Grisanti ha voluto dare a questo suo libro che non è solo di poesie, ma anche di racconti, seguiti da acrostici, e che è ampiamente corredato da fotografie che segnano, inserite opportunamente nel contesto letterario, le varie tappe della sua vita.
Ma vorrei soffermarmi prima di analizzare i versi e il seguito, su una fotografia che apre le pagine del suo libro; in questa aveva due anni ma già c’è in lei quel che sarà Paola Galioto Grisanti da adulta: una persona solare, di una radiosa bellezza sia fisica che spirituale, dallo sguardo ridente che emana bontà. 
E la vedremo anche adolescente, aggraziata e composta, la vedremo come figlia coi suoi genitori, come sorella, ma purtroppo per pochi anni, essendo venuta a mancare ancora piccola la amata sorellina, come moglie e madre col marito e la figlia. Questo per quanto riguarda la sua vita familiare.
Ma oltre a queste ricchezze, una famiglia unita sia quella d’origine che la sua propria, anche se la sua esistenza è stata oscurata da un grande dolore, Paola Galioto Grisanti è stata dotata dalla sorte di vari altri talenti.
Sin da giovinetta ha manifestato una grande passione: la musica, e ha studiato per alcuni anni pianoforte arrivando a suonare in concerti organizzati nella scuola.
Poi è sopravvenuto il dono della poesia. Ed è anche scrittrice. 
Un’altra passione ancora, la fotografia , ma a livello di arte. 
E oltre a ciò, ha manifestato anche predisposizione per il ricamo, l’uncinetto e la maglia.
Una persona versatile, dunque, con animo da artista.
Spirito contemplativo, sin da piccola non si stancava mai di ammirare dal terrazzo di casa sua il paesaggio che le si offriva davanti, i tramonti “sempre l’uno diverso dall’altro”, l’ “Aspra, bella e splendente nei…colori, adagiata tra il verde dei limoni e quel mare azzurro”, e soprattutto la ciminiera da cui trae il titolo il libro. 
Ciminieri, una sintesi di ciminiera e di ieri, con cui l’autrice vuole esprimere quasi il motivo ispiratore dell’opera: la nostalgia. La contrapposizione tra passato e presente, tra l’oggi e l’ieri, che va però a beneficio del tempo trascorso.
Ecco la nostalgia è il nucleo dell’intero lavoro, il cuore, ma non è una nostalgia strerile, quella propria di coloro che inneggiano sempre al passato, i “laudatores temporis acti”, no, è una nostalgia diversa che suona quasi come una denunzia, e nel mettere innanzi il degrado dello stato attuale, quasi auspica un risveglio, un cambiamento di rotta. E questo lo possiamo dedurre dalle sue parole poste in esergo alle poesie in dialetto, dopo quelle in lingua. “Curriti, iti sempri avanti, ma nun dimenticati a vostra terra, a parrata di li vostri patri, a vostra matri ca vi fici. A Sicilia è terra d’amuri, prutiggitila, nun lassatila affunnari.” 
Ed è con questo intento che si rivolge alla ciminiera con l’animo pregno di nostalgia: “Povera ciminiera dei miei ricordi…/ oggi ti ho cercata nel vederti / un tuffo al cuore mi ha creato / ahimè mozzata ti ho trovata / della tua altezza ti hanno privato” e il motivo lo spiega “…anche al paese mio i palazzoni si son fatti”. E perciò ella non può ormai provare le sensazioni di prima: “Alta e maestosa eri per me…Eri bella pulita…sempre la più alta eri / e dietro per sfondo avevi / l’azzurro mare e il grande Pellegrino.”
La nostalgia la ritroviamo in altre poesie: “Così bella, verde e colorata / era la campagna di mio padre. / Ora tutto è secco, anche i limoni.” In questa ella ricorda le farfalle che ora non si vedono più, le lucertole, le lumache. “Ho lontano in me / il ricordo di tante / belle colorate farfalle” E non può fare a meno di prorompere: “Perché distruggere la natura / e non far sopravvivere gli animaletti / che il buon Dio ci / ha donato?” Quella farfalla che le ispirava sogni grandiosi: Vorrei essere una farfalla / e volare nei cieli azzurri / in cerca di pace.” E aggiunge. “Dove e quando vivremo la / tanto attesa pace?..per troppi interessi / i potenti vogliono distruggere / tutto il creato”. E si rivolge alla luna: “Ah se tu potessi parlare/ …non più guerre e cattiverie / sulla terra avremmo, / ma vera serenità.”
Ecco la nostalgia che si fonde con l’anelito alla pace , al superamento del male che affligge il nostro tempo.
Risulta così la poesia di Paola Galioto Grisanti, che è soffusa di nostalgia, uno specchio veritiero della realtà attuale e uno sprone a miglioralrla.
E’ spirito contemplativo ma anche realistico, con gli occhi aperti sul mondo circostante, di cui non dimentica neanche personaggi della sua cittadina, Bagheria, o anche personaggi che conosciamo attraverso le notizie della televisione. E così non manca una poesia A Giacomo Giardina nel decennale della sua scomparsa, ad Alberto Sordi in occasione della sua morte, e pure la preghiera accorata per la salute di Giovanni Paolo II.
Animo sensibile e delicato, non le sfugge sin da bambina, sempre dal terrazzo della sua casa, l’arrivo del treno. “Così da bimba quando l’ansimare / del treno udivo, correvo su in terrazzo / a vedere il treno partire.” E ancora aggiunge: “A me sempre caro il treno è stato.” E con senso romantico lo paragona all’amore: “L’amore è come il treno” ed esorta “E tu fanciulla svegliati, / …sappi riconoscere se quello è / il treno giusto dell’amore”. 
Come possiamo osservare, dall’ammirazione della bellezza, sia essa la natura o il treno che sbuffa e la attira, ella però poi non si ferma lì, non si esaurisce il sentimento della bellezza in se stesso ma si apre alla bontà, all’amore.
Questo lo possiamo pure osservare a proposito del suo sogno, da bambina sempre, di vedere le strade del suo paese, alberate. Poi questo suo sogno si avvera, sia pure con lentezza, dopo cinquant’anni, però ella pensa al vecchierello stanco che si può riposare nel sedile sotto l’albero, pensa a chi può farsi pure una lettura, ai bimbi che possono giocare accompagnati dalle loro madri. “Iu sunnava strati arvulati / e sidili ‘nta li marciapiedi / pi fari ripusari i vicchiareddi stanchi.”
Bellezza e bontà fanno un tutt’uno nell’animo di Paola Galioto Grisanti.
E la bellezza la poetessa non solo la contempla ma ella stessa è fattiva e operosa nel realizzarla. Basti pensare che ha rimesso a nuovo la già Villa Coglitore ora Villa Galioto, e ne ha fatto sede per convegni culturali, per trattenimenti. E’ un donna che non si ferma mai: “Lu jornu su tanti / li cosi ca fazzu / curru a dritta e a manca / …A sira stanca mi ritrovu”.
La nostalgia ritorna anche nelle poesie in vernacolo. Una di queste porta proprio il titolo: “ ‘A nustalgia”. “Nustalgia è pinzari / li tempi di la fanciullezza / quannu u mari era chiaru / cristallinu e ciaurusu.”
Nostalgia è anche ricordare certe consuetudini familiari come quella di fare il pane in casa. La massaia si alzava di buon mattino, impastava con amore ed allegria e per tutta la casa si diffondeva un odore inebriante: “Ah chi ciauru si rispirava / ‘n dda casa quannu ‘u pani si facia!”
Ma anche nelle poesie in vernacolo l’angoscia: “ ‘U munnu forsi forsi sta finennu?” e invoca: “Signuri nostru Ddiu ajutanni, / libira ‘u munnu di tutti sti guai.”
Alle poesie, che sono in lingua nella prima parte e poi in dialetto, seguono i racconti.
Essi sono in numero di quattro. Si imperniano più che altro sulla descrizione di luoghi della sua Bagheria con particolare riferimento all’arte, alle Ville Nobiliari di cui la cittadina è ricca. A questa si intreccia in genere una storia d’amore di ragazzi, l’innamoramento tra studenti, l’amore giovanile . che si conclude sempre con la formazione della famiglia e il raggiungimento della felicità. 
Sono gradevoli a leggersi e soprattutto risalta una minuziosa precisione, oltre che una profonda conoscenza degli artisti che vi hanno lavorato, della storia. Sono utili anche appunto per chi apprezzasse e volesse sapere.
Sono scritti con una precisione che si sofferma pure nei dettagli e che definirei quasi fotografica.
E infine non possiamo non fare cenno a un’altra grande passione di Paola Galioto Grisanti, la fotografia. In lei la fotografia diventa arte. Le inquadrature, la luminosità, la prospettiva sono mirabilmente curate. Si sente il cuore dell’autrice. E’ poesia. Ha la forza di trasmettere un messaggio, il messaggio della bellezza e con questo sembra raccomandare la tutela di quei luoghi che ella ritrae. Perché è patrimonio incommensurabile, è segno di civiltà.
Ecco uno straordinario messaggio si propaga da tutta l’opera della nostra autrice: poetessa, scrittrice, pianista e fotografa. 
Stupenda persona, ricca di valori umani e spirituali, di quei valori che restano perenni nel tempo e non tramontano mai.
Innumerevoli e impossibili a elencarsi sono i riconoscimenti che ha ricevuto, le cariche e i premi di grande prestigio, gli apprezzamenti non solo in Sicilia ma anche in campo nazionale.
Ma quel che rimane indelebile in chi la conosce è la sua amabilità, la sua naturalezza, il suo sorriso.

martedì 26 maggio 2015

Mario Bozzi Sentieri - Filippo Corridoni Sindacalismo e interventismo. Patria e lavoro - ed. Libri del Borghese

Quale può essere oggi il senso di una “rilettura” di Filippo Corridoni ? Che cosa andare a cercare e a tentare di cogliere in un’esperienza umana e politica, che affonda le sue radici nei primi anni del Novecento e che inevitabilmente subì le suggestioni del Secolo precedente ? Quale il suo reale interesse, fuori da ogni logica meramente celebrativa ?
Al di là degli aspetti contingenti, figure “alla Corridoni” hanno riassunto in sé percorsi generazionali, culturali e sociali di grande valore simbolico, i quali vanno colti ed analizzati in quanto espressione inquieta, dietro i riferimenti di scuola, di una rinnovata volontà post ideologica.
In questo percorso, giocato, sulle piazze e sui luoghi di lavoro, nelle elaborazioni teoriche e nelle assise sindacali, per dare rappresentanza non solo ai ceti popolari, difendendone i legittimi interessi, quanto soprattutto per dare loro una “nuova coscienza”, necessaria per una più ampia assunzione di responsabilità, Corridoni ebbe un ruolo del tutto particolare di organizzatore ed “agitatore” sindacale, di avanguardia ideale e di rivoluzionario coerente, al centro di una stagione complessa e cruciale per l’intera Europa e quindi per il mondo, di cui allora il Vecchio Continente era il centro.
Di quella stagione Corridoni fu certamente uno dei protagonisti principali , per la capacità che ebbe di incarnare, fino alla morte in guerra, nel 1915, l’itinerario umano e politico di un’intera generazione di sindacalisti rivoluzionari e di rivoluzionari in senso stretto, che, in pochi anni, “brucia” esperienze, ideologie, rendite di posizione, vecchi miti e consolidate appartenenze, giungendo, lungo la via del “revisionismo sovversivo”, sui crinali del bellicismo rivoluzionario, per poi superarne i confini.
Proprio perché si colloca all’interno di questi tortuosi percorsi ideali, Corridoni non è un personaggio “facile”. La sua figura sfugge infatti alle scontate e rassicuranti schematizzazioni ideologiche, mentre la sua breve esistenza, appena ventotto anni, brilla per intensità.
In lui pensiero ed azione vengono coniugate non solo sul terreno della dottrina sindacale ma diventano esempio, vissuto quotidiano, per poi farsi, dopo la sua morte, mito condiviso. E’ perciò al Corridoni non solo “teorico” né esclusivamente “pratico” che bisogna guardare per recuperarne l’interezza, coniugando simultaneamente le intense vicende della sua vita ed i suoi contributi di riflessione nell’ambito del sindacalismo rivoluzionario, cercando di guardare dietro un’idea di socialismo che nascondeva ben altre ragioni e passioni rispetto ad una mera declinazione ideologica, e che già faceva prefigurare, sotto l’incalzare degli eventi, nuove alleanze e sintesi spregiudicate.
In questo ambito che tipo di “lettura” è ipotizzabile per cogliere e definire la figura di Corridoni ? E’ sufficiente prendere atto del suo itinerario dottrinario e “pratico”, limitandosi magari a sottolinearne l’apparente contraddittorietà o è possibile, in questo percorso umano ed intellettuale, individuare il filo coerente in grado di unire e collegare esperienze difformi ed alterne ? E che cosa accomuna il Corridoni delle origini, sindacalista e antimilitarista, con quello del 1915, interventista e “patriota” ?
Capire Corridoni, recuperando alla memoria e all’indagine storica la sua vicenda umana e politica significa dare a queste domande e alla sua figura un valore emblematico, utile per la comprensione dei grandi rivolgimenti epocali di cui fu parzialmente partecipe, a cavallo tra XIX e XX Secolo. Significa coglierne l’essenza in rapporto ai travagliati percorsi, umani ed intellettuali, del primo socialismo italiano. Significa soprattutto collocarlo entro quella nebulosa politica e culturale che fu il sindacalismo rivoluzionario, diviso tra internazionalismo e nazione, tra pacifismo ed interventismo, tra lotta di classe e partecipazione.
Questo libro vuole essere un invito a ritrovare, con rinnovata consapevolezza, la figura di Corridoni nella complessità delle vicende e nell’agitarsi, spesso contraddittorio, ma sempre appassionato, delle idee, che segnarono la sua esistenza ed un’epoca intera.
Non dunque una biografia, cronologicamente ordinata, ma il tentativo di riannodare gli sfilacciati brandelli di una serie di suggestioni ideologiche e morali che segnarono Corridoni ed una generazione irrequieta, ansiosa di trovare uno sbocco alle proprie passioni ideali.
L’ambizione è di ridare a Corridoni il giusto spazio in uno dei momenti cruciali della Storia italiana, uscendo finalmente fuori dalla facile agiografia e dalle interpretazioni di parte, per andare all’essenza del suo complesso cammino politico-sindacale, evidenziandone chiavi di lettura inusuali ed inaspettate.

lunedì 25 maggio 2015

Sandra Vita Guddo Spatola, Tacco Dodici- Storie di ragazze di Periferia (Hombre Ed).

di Francesca Luzzio

Numerosa è la letteratura che narra di adolescenti e di scuola, basta citare solo qualche opera e qualche autore: La classe di F.Bègaudeau, Domani niente scuola di A. Bayani, Un misero di Chetan Blagat, La mia unica amica di Eliana Bouchard, Il secondo momento migliore di Valentina Camerini, Liceali,raccolta narrativa e lirica della scrivente, ma nessuno ha focalizzato come SANDRA GUDDU le ragazze di periferia. Anzi, la specificità di “Tacco dodici”, consiste proprio in questo: fare emergere la periferia e il contesto sociale che lo anima. La scrittrice, grazie alla sua abilità narrativa, ma anche e soprattutto alla sua umanità, alla sua conoscenza della psicologia e delle problematiche adolescenziali, essendo anche psicopedagogista, riesce a dare corpo ed anima all’ esperienza acquisita e vissuta nelle scuole dei quartieri maggiormente a rischio di Palermo. Da qui la possibilità di trasformare in letteratura storie vere di “ragazze di periferia”, come recita il sottotitolo della raccolta. E periferiche sono le scuole, nucleo focale da cui s’irradiano le vicende vissute dalle protagoniste, in un contesto ambientale e socio-economico pieno di violenza, d’ipocrisie e di pregiudizi. Tante ragazze quindi, tante storie, ma non sono solo loro ad emergere nel contesto narrativo, infatti un ruolo rilevante è riservato anche ai genitori ed ai professori, insomma intorno alle ragazze-protagoniste ci sono anche le principali istituzioni alle quali è affidata la crescita culturale ed umana dei giovani: la famiglia e la scuola. Molte sono le considerazioni da farsi, ma anzitutto non possiamo non considerare la crisi della famiglia che di fatto genera insicurezza nei ragazzi che, bisognosi di modelli, quali i genitori dovrebbero essere , e di consigli, di fatto sempre più spesso trovano dietro di loro il vuoto, l’assenza di salde figure che, prendendoli per mano, l’inseriscano progressivamente in un sano percorso di vita. Di fronte a tale realtà, non tutti gli adolescenti hanno la forza di reagire, come invece, ad esempio, è capace di fare la protagonista del racconto “La treccia spezzata” che di fronte ad un padre indifferente nei suoi confronti, ad una madre che, separata dal marito, riceve a casa i suoi numerosi amanti, raduna dentro un trolley i suoi pochi vestiti e va a vivere con i nonni. Una visione in genere positiva è data dell’altra istituzione fondamentale nell’educazione delle nuove generazioni: la scuola. In questa sicuramente non manca la presenza di atti di bullismo, di spacciatori di droga, di qualche insegnante piena di astio, magari per motivi comprensibili, ma certo non giustificabili nei confronti degli allievi, come l’insegnante del racconto Petticoat lane, Michela, che in seguito all’amarezza e alle delusioni della sua vita, consapevole di aver perso la sua gioventù senza realizzare i suoi sogni, rivedeva nelle sue allieve e in Sofia in particolare “se stessa, come era ai tempi del liceo...” e “quando entrava in classe ”sprigionava ”la belva che si era insediata dentro di lei”. Ma la prof.essa Michela, che fra l’altro alla fine si ravvede,”scioglie”, come dice la nostra scrittrice”quel sasso che le bloccava lo stomaco”, è un’eccezione, così come removibili ed eliminabili sono il bullismo e la droga, considerati come mali tipici dei nostra attuale realtà, ma curabili, grazie alla presenza d’ insegnanti consapevoli del proprio ruolo e perciò seri ma non severi, pronti ad insegnare, a fare della letteratura vita vissuta, ma anche ad imparare dagli studenti, dal loro mondo, quale l’evolversi dei tempi e lo scadere dei valori umani e sociali, lo ha reso oggi. Dunque docenti umani, affettuosi, comprensivi, che magari non dicono ai loro alunni, come il maestro Perboni del libro Cuore, “ voi dovete essere i miei figliuoli”, ma sicuramente pronti ad aiutare le ragazze di periferia e ad entrare in sintonia con loro e a confrontarsi con i loro problemi e, proprio per questo, anche autocritici, come l’insegnante del racconto “ Non solo fumo”, dove la prof che accompagna gli allievi del quinto anno ad uno stage professionale ad Amsterdam ad un certo punto comincia a pensare che” in fondo non mi ero mai interessata a loro e che con ogni probabilità, ero io quella non adeguata alla scuola e non al contrario” e, proprio per questo, capace di entrare in sintonia con il sentire giovanile, con i loro problemi e alla fine proprio per questo disponibile ad aiutare gli studenti. Il colore rosso delle scarpe dell’immagine di copertina e il titolo della raccolta “Tacco dodici” ci collega circolarmente all’ultimo racconto, dove l’alunna Sofia indossa un paio di scarpe rosse, tacco dodici, che ricordano alla prof.essa Michela, quelle che gli regalò il suo ragazzo,Piter, in occasione del primo ed ultimo Natale che trascorsero insieme. Ma a parte la circolarità che può evincersi tra l’ultimo racconto con il titolo e l’immagine di copertina, quest’ ultima sicuramente vuole alludere alla violenza contro le donne, che oggi caratterizza, ahimè, non solo le periferie cittadine, ma ogni luogo ed ogni strato sociale. Come Elina Chauvet attraverso la sua installazione di 33 scarpe rosse a Juàrez, ha voluto denunziare l’alto tasso di femminicidi che avvenivano in questa città del Messico, facendo sì che le scarpe rosse divenissero simbolo della violenza contro le donne, anche sandra Guddu vuole denunziare tale fenomeno e lo fa attraverso i suoi racconti che danno veste letteraria a storie vere nei quali la violenza contro le donne in varie forme è ampiamente diffusa e praticata, basta citare, ad esempio, il racconto “Le opportunità tradite” dove si narra dello stupro di Giada, oppure il racconto Cannella, dove Layla, rifugiata politica proveniente dallo Sri Lanka, muore insieme con il suo fidanzato a causa di un incidente con la moto, quasi certamente architettato dal fratello che non le perdona il suo desiderio di vivere in libertà, contravvenendo alle regole della sua gente e della sua cultura d’origine. “ - Io, - afferma la mamma di Titti, la sua amica del cuore,- sono andata alla polizia..., ma mi hanno confermato che la moto è andata completamente distrutta e che, anche se fosse stata manomessa ,non c’è alcuna possibilità di dimostrarlo. – Dolore e rabbia, mescolate ad un sentimento d’impotenza s’impossessarono di Titti che come inebetita continuava a fissare le onde che si rincorrevano per poi infrangersi dolcemente sulla sabbia,quando ebbe l’impressione di vederla uscire dall’acqua e venirle incontro sorridente. Avvertì anche il profumo inconfondibile di Layla che sapeva di cannella”. Né sono solo quelli progressivamente citati i temi trattati, infatti la raccolta è un coloratissimo mosaico dove le tessere di vario colore rappresentano la maggior parte delle problematiche che caratterizzano il mondo giovanile attuale: la legalità, l’interculturalità, l’accettazione del proprio io e del diverso da sé, la sessualità, che non a caso, considerata l’età delle protagoniste, ha un ruolo preponderante in vari racconti, sono alcuni degli altri temi presenti nei racconti. Dal punto di vista estetico-formale, innanzi tutto è opportuno rilevare che i racconti presentano titoli che ripropongono parole o sintagmi-chiave del contenuto degli stessi; per quanto riguarda la dimensione temporale, la scrittrice tende spesso a creare, attraverso i numerosi dialoghi, l’uguaglianza tra tempo reale e tempo del racconto; d’altronde considerato che la professoressa Guddu ci narra storie vere, non possiamo non inserirle nell’ambito del contesto letterario realista, molto in auge anche nella produzione narrativa di oggi e, come è tipico di tali scrittori, anche lei tende a creare il massimo di aderenza tra tempo reale e tempo narrativo al fine di fotografare la realtà nei suoi particolari, a scopo, può dirsi quasi documentario. I fatti in genere sono narrati in ordine cronologico, ma non mancano analessi, ossia flashback, regressioni nel passato, come, ad esempio, nel già citato racconto Petticoat Lane, quando la prof. Michela rievoca il suo passato e prolessi, ossia anticipazioni, come nell’incipit del racconto Cannella dove viene descritta la paura di Layla per gli esami di maturità, al punto da non ricordare più il contenuto della sua tesina sulla Globalizzazione, ma di fatto gli esami avranno luogo molto più avanti nella narrazione. La dimensione spaziale è data dalle scuole e dai quartieri periferici dove esse sono ubicate, senza essere comunque particolarmente descritte, se non quando l’ambiente assume un ruolo specifico nello svolgersi dell’azione, come nel racconto “Dimensione sodoma”: “Stella...passava la maggior parte del suo tempo nella sua cameretta che si trovava al secondo piano di una palazzina di loro proprietà,accanto alla stanza della zia, mentre al primo piano al quale si accedeva attraverso la scala interna, c’era una comoda cucina, una sala da pranzo con salotto, la cameretta della bambina piccola e la loro camera matrimoniale. A piano terra c’era il garage che veniva utilizzato anche come cantina e ripostiglio”. La narratrice è in genere in posizione eterodiegetica, infatti tende a descrivere dall’esterno gli eventi, ma non mancano i racconti in cui la voce narrante è coprotagonista delle vicende narrate e, in tal caso, dalla posizione eterodiegetica si passa a quella omodiegetica, come ad esempio nei racconti “La donna struzzo” e “Rapsodia” , non solum sed etiam: autrice, narratrice e professori coprotagonisti nei vari racconti coincidono quasi sempre, perché negli insegnanti è riposta in linea di massima tutta la saggezza, tutta la competenza professionale e, soprattutto tutta l’ umanità della professoressa Guddu che ha insegnato- imparando. Le tecniche narrative spaziano dal discorso diretto del cui ruolo prevalente si è già detto, all’indiretto, all’indiretto libero o al monologo interiore. Fedele alla poetica verghiana, la scrittrice nella volontà di riproporre la realtà così com’è adopera un lessico comune, una sintassi lineare, insomma tende a riprodurre il parlato e a tal fine non manca anche sparsa qua e là qualche frase in dialetto siciliano o qualche parola tipica del gergo giovanile.

Franco Ferrarotti - Idee e società (Solfanelli)


Questo libro contiene i contributi dell'Autore al settimanale del quotidiano «Paese-Sera libri», il primo supplemento culturale in Italia ideato da Gianfranco Corsini. Esso costituisce - è lecito sperare - un aiuto alla formazione di una memoria storica del nostro recente passato. In un'epoca in cui, grazie anche agli aggeggi elettronici, la memoria, affidata al file, va scomparendo e viene meno l'interesse per l'antefatto, che è però essenziale per capire il presente e progettare eventualmente l'avvenire, questo libro potrà risultare utile anche come elemento di costruzione di una coscienza collettiva e di una lucidità condivisa.
     Il quotidiano «Paese-Sera», giornale democratico di sinistra, celebre per le sue campagne per i diritti civili, in particolare per il divorzio, ha cessato da alcuni anni le pubblicazioni, ma il suo orientamento e gli ideali, di cui si era fatto eloquente portavoce, continuano ad essere traguardi importanti per il rinnovamento democratico della società italiana di oggi. Questa società, infatti, benché dotata di una democrazia formalmente ineccepibile, continua ad essere bloccata, profondamente diseguale dal punto di vista del reddito, radicalmente spezzata fra Nord e Sud e quindi più che mai bisognosa di rafforzare la propria coesione e una condivisa coscienza nazionale nel quadro europeo.

mercoledì 20 maggio 2015

Luigi Taparelli d'Azeglio, "La libertà tirannia" (ediz. Solfanelli)

La "Civiltà Cattolica" contro il Risorgimento: se nei primi numeri della rivista il principale strumento di battaglia era costituito dalla letteratura, con la trilogia di romanzi politici di padre Antonio Bresciani incentrati sui moti del 1848 (L'Ebreo di Verona, La Repubblica romana, Lionello o le società segrete), dieci anni più tardi, nel 1860, padre Taparelli dimostrò una particolare ampiezza di vedute non limitandosi alla critica del presente, ma inserendo la difesa dell'ordine tradizionale in un discorso politologico ben più ampio.
     I suoi interventi, veri e propri saggi di "patologia storica", trascendono gli avvenimenti per esaminare i principi messi in discussione dalla politica di aggressione del Piemonte.
     Addirittura, nel saggio che dà il nome alla raccolta, prefigura addirittura il "Grande Fratello", affermando, sulla scorta di Donoso Cortés, che ormai lo Stato può utilizzare i mezzi moderni per opprimere i suoi sudditi, dopo aver abolito la religione ed averla sostituita con il centralismo amministrativo: infatti tramite due nuove invenzioni, il telegrafo e le navi a vapore, può essere avvertito di ogni pur minima sommossa in qualsiasi parte del territorio e farvi rapidamente giungere truppe. E dal controllo di ogni pensiero dissidente alla sua repressione, il passo sarà breve.

lunedì 18 maggio 2015

In un volume i numeri della rivista Soaltà

A distanza di sette anni dalla pubblicazione dell'ultimo numero della rivista semestrale "della Soaltà"  è oggi possibile disporre dei nove numeri monografici riuniti in un'unica ed elegante raccolta di 260 pagine. La rivista è stata ideata, curata e edita, in proprio, dal poeta Guglielmo Peralta che ha anche coniato il neologismo dal quale essa ha assunto il nome. Dalla Soaltà, da questa parola nuova è scaturita un'originale visione del mondo, che si è sviluppata e chiarita nel tempo assumendo i caratteri di una teoria etica ed estetica. Nel primo numero della rivista, uscito nel dicembre del 2004, vengono presentati la Soaltà e il suo "manifesto della poesia e del teatro". Gli altri numeri monografici sono dedicati alla figura del Poeta, alla Realtà virtuale, all'Affinità (autori a confronto), a Beckett e Buzzati, ai Miti, a Don Chisciotte, alle Cose. La rivista è impreziosita dai disegni di Franco Lo Cascio, Gery Scalzo, Giovanna Ugolini. Vi hanno scritto: Franca Alaimo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Tullia Bartolini, Beniamino Biondi, Rossella Cerniglia, Daniele D'Agostino, Gabriela Fantato, Benedetto Galifi, Mario Inglese, Francesca Luzzio, Valerio Magrelli, Danilo Mandolini, Daniela Monreale, Bent Parodi, Guglielmo Peralta, Carmelo Pirrera, Ida Rampolla del Tindaro, Paolo Ruffilli, Caterina Ruta, Elena Saviano, Gery Scalzo, Marcello Scurria, Eugenia Storti, Simona Tocci, Liliana Ugolini, Lucio Zinna. È stata presentata nel 2005 a Palermo, a Palazzo Branciforte, da Tommaso Romano; a Firenze, nel 2007, presso il Caffè storico letterario "Le Giubbe Rosse" con interventi di Anna Maria Guidi, Daniela Monreale, Guglielmo Peralta, Simona Tocci; a Capo d'Orlando, nel 2008, presso Villa Piccolo, con interventi di Bent Parodi e Guglielmo Peralta.
È possibile richiedere e prenotare la raccolta "della Soaltà", comprendente i nove numeri della rivista, il cui costo è di euro 10, all'indirizzo: per.elmo@libero.it

Chi volesse, inoltre, avere maggiori informazioni sulla Soaltà e sulla Rivista può trovarle cliccando sul link: pergugli.blogspot.com

Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico

di Fabio Trevisan

“Credo al vecchio dogma mistico secondo cui ciò che l’Uomo ha fatto, l’Uomo può rifare”.
Con questa frase tratta dal lungimirante saggio: “Il profilo della ragionevolezza” del 1926, Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) intendeva porre l’accento su un indispensabile ritorno al passato in cui l’Uomo di ogni tempo poteva ricollegarsi. Lo faceva soprattutto in riferimento alla conservazione della libertà e della piccola proprietà contro i due sistemi, capitalistici e comunisti, che nella falsa contrapposizione attanagliavano le legittime aspirazioni umane: “I miei critici credono ad un dogma ancora più mistico: quello secondo cui l’Uomo non è assolutamente in grado di rifare ciò che ha già fatto…per questa via non si arriva da nessuna parte, se non a una perdita sempre maggiore di proprietà, inghiottita da un sistema ugualmente impersonale e inumano, sia che lo si chiami comunismo o capitalismo. Se non possiamo tornare indietro, non sembra che valga la pena andare avanti”.
Per il grande pensatore londinese il concetto di “proprietà”, soprattutto “piccola” e da contrapporsi al latifondismo, era un autentico punto d’onore che aveva a che fare strettamente con la dignità umana. Egli propugnava con le lettere maiuscole un Risveglio della Fede, un Risveglio del Cattolicesimo: “Non fanno che dirci che questa o quella tradizione è finita per sempre, che questo o quel mestiere o credo è finito per sempre. Ci definiscono reazionari se parliamo di un Risveglio della Fede”. Da buon cattolico, Chesterton sosteneva il Risveglio attraverso la ragione e la tradizione, ovvero la sanità dell’uomo: “Desideriamo sinceramente che si valuti con serietà se non sia possibile realizzare la transizione illuminati dalla ragione e dalla tradizione”. Il profilo della ragionevolezza e della sanità era imprescindibile da certi collegamenti con le antiche tradizioni riguardanti la terra, il focolare domestico e l’altare.
Dinanzi al proliferare di grandi catene industriali e di grandi magazzini, a quei tempi agli albori, Chesterton prospettava quasi un secolo fa il fallimento completo: “Credo che il grande negozio sia un pessimo negozio. Lo ritengo pessimo in senso morale e commerciale. Credo che quegli empori giganteschi non solo siano volgari e insolenti, ma anche incompetenti e sgradevoli e nego che la loro vasta organizzazione sia efficiente”. Si chiedeva quindi: “Cosa fare?” per preservare quelle ultime tradizioni di proprietà e libertà e si aggrappava al senso religioso atavico: “Come i Lari di un tempo, questa religione della casa o ciò che ne rimane, si oppone alla disciplina distruttiva del capitalismo industriale”. Nel rammentare che la proprietà, in linea con i principi della Dottrina sociale della Chiesa, è un deposito affidatoci dalla Provvidenza per il bene degli altri oltre che per il nostro, egli ammoniva di non dimenticare il giorno del Giudizio in cui avremmo dovuto render conto dell’uso fatto di questo deposito. Auspicava quindi una società che sapesse far rivivere quelle corporazioni di arti e mestieri medievali, delle quali Leone XIII aveva rimpianto nella Rerum novarum.
La corretta distribuzione della proprietà e della responsabilità personale e sociale erano indicate da Chesterton con l’immagine dell’arco architettonico: “Il principio dell’arco è umano, applicabile a tutta l’umanità e da essa utilizzabile. Qual è il principio dell’arco? Secondo il principio dell’arco, unendo in un certo modo delle pietre di forma particolare, la loro stessa tendenza a cadere impedirà che cadano. E sebbene la mia immagine sia solo un esempio, in larga misura vale anche per il successo di un’equa distribuzione della proprietà. A sorreggere l’arco è l’uguaglianza della pressione che le singole pietre esercitano l’una sull’altra. L’uguaglianza è al tempo stesso mutuo soccorso e mutuo impedimento”. Il corpo sociale, riassunto nell’arco architettonico, impediva così che le legittime disuguaglianze provocassero ingiustizie anti cristiane come la proletarizzazione o l’inadeguato arricchimento di pochi. Il profilo della sanità pensato da Chesterton era in un quadro organico cattolico e le sue provocazioni intelligenti rimangono ancora in attesa di una risposta ragionevole.
da: http://www.riscossacristiana.it/

“Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel alle origini della biologia e della genetica”

Per rendere disponibile al maggior numero di persone i contenuti del libro “Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel alle origini della biologia e della genetica”, si è scelto di renderlo disponibile gratuitamente.
Due grandi uomini di scienza ma anche due uomini di fede e due sacerdoti: questa, in breve, la storia di Lazzaro Spallanzani “il principe dei biologi” – e di Gregor Mendel – il monaco giardiniere, appassionato di meteorologia, di apicoltura, padre della genetica. Compito del libro che si va a proporre è ricostruire la loro vita, le loro radici, il contesto storico in cui vissero, l’ambiente in cui operarono, per fornire un ritratto a tutto tondo, affascinante e curioso al tempo stesso.
Dopo aver pubblicato nei giorni scorsi alcuni brani del libro “Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel. Alle origini della Biologia e della Genetica“, per mettere a disposizione di tutti il racconto di come questi due grandi personaggi della storia delle Scienze naturali operarono, i due autori, Francesco Agnoli ed Enzo Pennetta, hanno deciso di rendere disponibile gratuitamente il testo integrale in versione PDF il cui download potrà essere liberamente effettuato al seguente link: Lazzaro Spallanzani e Gregor Mendel
da:"http://www.libertaepersona.org

Se un uomo cade … Le opere e i giorni di “Baron Corvo”


di Luca Fumagalli

Per i vicoli della Venezia di inizio ‘900, magistralmente descritta da Thomas Mann in uno dei suoi migliori romanzi, si aggirava uno strano inglese sulla cinquantina che, per abiti e portamento, pareva la personificazione della città stessa. Nei vestiti, eleganti nel taglio ma ormai logori e sdruciti, vi era il segno di un’antica gloria che aveva ormai lasciato il passo alla trascuratezza. Sigaretta tra le labbra, occhiali, fronte alta che denunciava una calvizie incipiente, si atteggiava a dandy facoltoso anche se, in realtà, nelle sue tasche non vi era il becco di un quattrino. Si diceva fosse uno scrittore, ma nessuno, nemmeno i membri della colonia britannica della laguna, aveva mai letto un suo libro. Viveva d’espedienti, e i pochi soldi che generosamente gli venivano prestati li spendeva con una velocità tale che la notte, il più delle volte, doveva rinunciare al confortevole materasso di una stanza d’albergo per trascorrerla in una sudicia gondola. La solitudine e la tristezza, lo sapeva bene, presto lo avrebbero condotto alla morte.
Per scalfire una biografia paradossale e a tratti impenetrabile come quella di Frederick William Rolfe (1860-1913) occorre partire da una domanda piuttosto radicale: come porsi nei confronti di un peccatore recidivo, di uno che ha fatto di tutta la sua esistenza un clamoroso sbaglio? Perché la vita di Rolfe - noto soprattutto con lo pseudonimo letterario di “Baron Corvo” - si compendia in una tragedia dell’abiezione e del sublime, uno spettacolo di umana fragilità ambientato tra le quinte del sincero affetto per la Chiesa cattolica e dei bassi istinti carnali.
Rolfe non abbandonò mai quella fede a cui si era convertito all’età di ventisei anni e che gli costò diverse incomprensioni in famiglia. Forse, almeno all’inizio, fu solo un’infatuazione superficiale, determinata dall’amore per la lingua latina e per le belle liturgie cattoliche che già avevano commosso artisti coevi del calibro di Joris Karl Huysmans, Francis Thompson, Ernest Dowson, Lionel Johnson e molti altri; ben presto, però, il fragile sentimento degli esordi si trasformò in un’ accettazione completa e irrinunciabile del Cristo. Così scriveva al fratello Herbert in una lettera datata 15 marzo 1905: «Nonostante tutto, se non fossi cattolico non sarei niente».
D’altro canto, i suoi comportamenti pubblici suscitarono a più riprese riprovazioni e scandalo. Omosessuale e pederasta, condiva gli eccessi con un carattere difficile, naturalmente portato all’ostinazione, all’ingratitudine e all’arroganza. Ebbe diversi amici, ma nessuno di questi gli fu accanto per molto tempo. Riuscì persino a inimicarsi un carattere mite e cordiale come quello di R. H. Benson, con cui aveva in progetto di scrivere una biografia di San Tommaso Becket, per non parlare poi dei numerosi benefattori che non videro mai ricambiata la loro generosità se non con insulti e vili attacchi. Quando tentò di diventare sacerdote - il che accadde immediatamente dopo la conversione - dovette subire l’onta dell’allontanamento sia dal seminario di Oscott che dal Collegio scozzese a Roma. Naturalmente Rolfe lesse il fatto come un affronto personale, un’ingiustizia perpetrata ai danni di un debole novizio che, in realtà, dovette apparire ai superiori piuttosto bizzarro, troppo estetizzante e inabile a uno studio serio e costante.
La stessa passione disordinata che ne caratterizzò la condotta morale, si ritrova anche nella sua carriera di artista. Prima tentò la via della pittura, poi quella della fotografia - sperimentando anche nuove soluzioni con obiettivi di sua invenzione e giochi cromatici inediti - e, infine, approdò alla letteratura. Esordì come collaboratore della rivista «Yellow Book», il periodico del decadentismo inglese, con alcune novelle, poi raccolte e pubblicate nel 1898 con il titolo I racconti di Toto. Scrisse altre opere che, come la precedente, furono accolte da uno scarso successo di pubblico; solitamente la loro pubblicazione era accompagnata da sfuriate e nuovi litigi con editori e collaboratori. Se l’Adriano VII (1904), utopia di un Papa inglese che rivoluzione la Chiesa rinunciando al potere temporale ed eliminando la peste del socialismo, godette di qualche fortuna, Don Tarquinio (1905) passò completamente sotto silenzio.
Costantemente in viaggio tra l’Inghilterra, la Scozia e l’Italia, senza un’occupazione stabile e quasi del tutto privo di sostegni economici, Rolfe si ridusse a mendicare, depresso e sfiduciato. A nulla valsero i goffi tentativi di riacquistare una credibilità sociale ormai in frantumi: fu ben misero, ad esempio, quando tentò senza alcun pudore di spacciare lo pseudonimo di Baron Corvo come un autentico titolo nobiliare pontificio. Solo e disprezzato da tutti si trascinò fino alla morte che avvenne a Venezia un anno prima dello scoppio della Grande guerra.
Scrittore di reale e multiforme talento, dotato di una prosa di rara incisività, i momenti migliori della sua produzione letteraria rimangono due testi molto diversi tra loro come Cronache di casa Borgia (1901) e La ricerca e il desiderio del tutto (pubblicato postumo nel 1934). Accumunati da un istinto marcatamente autobiografico, quasi una sorta di confessione in limine mortis, costituiscono le testimonianze più preziose per comprendere quelle contraddizioni belluine che si agitavano nel cuore dell’autore.
Il primo testo, un’appassionata difesa della famiglia Borgia, è un saggio storico elegante e raffinato che non disdegna passaggi gradevolmente eruditi, mentre il secondo è un romanzo dalle forti implicazioni filosofiche - il titolo è un’allusione al mito platonico della metà perduta - in cui nel protagonista, Nicholas Crabbe, si assommano gli stessi difetti dell’autore. I personaggi delle sue opere, come Rodrigo, Lucrezia e Cesare, sono uomini labili e fragili, per nulla alieni alla malizia e al peccato. Ma, per quanto riprovevoli ed esecrabili, Rolfe si rifiuta di condannarli apertamente. Ribaltando la logica del mondo, lo scrittore chiama in causa la contraddizione della Croce invocando per tutti, e anche per lui, la speranza del perdono e della riconciliazione. Come recitava Oscar Wilde in un suo celeberrimo aforisma: «La Chiesa cattolica è per i santi e per i peccatori, mentre per le persone rispettabili è sufficiente quella anglicana».
Come porsi nei confronti di un peccatore? Abbracciandolo e non giudicandolo, avrebbe risposto Baron Corvo. Questo non significa ignorare i peccati o girare la testa dall’altra parte ogni volta che qualcuno commette un errore, al contrario, si tratta di guardare l’uomo con la stessa compassione e misericordia con cui Cristo accoglieva gli ultimi. Perché tutti sono colpevoli, nessuno escluso, e Rolfe si è congedato da un mondo tanto amato quanto odiato donando al lettore questa segreta certezza.
da: "Radio Spada"

venerdì 15 maggio 2015

Memoria dei Diaspri: Giovanni Matta e Tommaso Romano


L' itinerario spirituale e cosmico di Tommaso Romano nel libro di Maria Patrizia Allotta

di Guglielmo Peralta

         Certo, per conoscere a fondo un uomo bisogna guardarlo «dentro». E non basta la sua biografia, specie se si tratta di una persona dalla "complessa formazione culturale", dalla natura e dalle qualità singolari, caratteristiche, originali e, perciò, sfuggente "a qualsiasi classificazione". Bisogna disporre di una  buona "vista", di capacità d'osservazione e, soprattutto, avere una vicinanza amicale e intellettuale con la persona in questione, saperne gli interessi e condividerli per potere vantare una conoscenza approfondita e disegnarne un ritratto il più somigliante possibile. Di quest'uomo, che risponde al nome di Tommaso Romano, Maria Patrizia Allotta, sua ritrovata amica d'infanzia e ora collega di scuola, nonché di penna, si è data il difficile compito di "comporre" l'universo spirituale e "contemplattivo"  e custodirlo come un tesoro tra le pagine di uno scrigno intitolato: "Nel buio aspettando l’alba, speranza che non muore": titolo beckettiano che, rimandando a Godot, sembra riflettere l'attuale crisi culturale e morale in cui è sprofondata la società mondiale, a seguito della dissipazione dei valori, che ha finito per prosciugare il senso dell'esistenza creando il vuoto e il deserto nell'anima dell'uomo. Tuttavia, il "tesoro" e lo "scrigno" lasciano intravedere la possibilità che il "buio" sia dissolto e l'attesa colmata dalla speranza dell'alba, da quel "futuro eventuale", che è silloge poetica di Romano e promessa di felicità, sempre differita. È possibile in queste pagine, scelte con oculatezza dall'Allotta, attraversare i quarant'anni di attività creativa dell'Autore. Sono lacerti, frammenti, schegge, tessere tratte dal suo Pensiero composito, che trova organicità e unità nel suo "intrinseco valore" etico ed estetico, nello Streben, nel suo tendere alla Bellezza e all'Assoluto, che è  ricerca della verità e consapevolezza di essere parte dell'infinito Mosaico del Cosmo e, dunque, riflesso e  "specchio della (sua) Luce".  Le tante tessere che costituiscono questo Pensiero complesso - frutto delle intuizioni, delle illuminazioni, degli studi, degli interessi, degli incontri e delle relazioni interpersonali, delle esperienze e conoscenze acquisite nel tempo - danno la misura mai colma di un cammino, che, per il Nostro, è "Il fare della bellezza" (titolo di un'altra delle sue opere, che ne dà testimonianza) e compongono un vastissimo mosaico, del quale l'insieme delle "schegge", sapientemente scelte dalla curatrice, costituisce, a sua volta, un'organica sintesi musiva. Tutta l'opera di Romano, nella quale hanno un posto di rilievo i dodici volumi del Mosaicosmo che rappresentano, come sottolinea l'Allotta, "il corpus dottrinale e pedagogico del suo pensiero", è uno scrigno che mostra il suo tesoro, colmo di una grande spiritualità che è "Luce del pensiero", di un pensiero che "si racconta" attraverso la parola e che non è "solo la biografia degli atti che si manifestano nel reale, ma anche tutto ciò che è proprio del percorso interiore". E in questa interiorità ha guardato l'Allotta, alla quale va riconosciuto il merito di avere colto e assemblato i tratti salienti e rivelatori delle opere di Tommaso Romano per disegnarne il "volto", per dare ai lettori un ritratto dell'uomo e della sua anima il più somigliante possibile, il più vicino al «vero». Poesia e vita sono un binomio inscindibile e costitutivo della natura di questo Autore, del suo essere uomo e persona autentica, senza maschere, senza veli. Esse sono il vero, la felice sintesi: il mosaicosmo, dove vita e poesia sono l'unità perfetta, l'essere cosmico dell'uomo nella Poesia della Natura, dell'universo. Senza tenere conto di questa simbiosi, il ritratto di Romano sarebbe impossibile; il mosaico della sua opera un puzzle irrealizzabile, perché mancherebbe della tessera fondamentale, della Poesia che è la radice, l'Origine stessa della vita.
           Ha fatto bene la curatrice a dare spazio ai testi dell'Autore limitandosi solo ad introdurli in un Proemio, con un titolo che coglie e dice il senso dell'intero vissuto di Romano e, cioè, la sua vita in interazione con la scrittura. Perché lasciando parlare i testi si dà la possibilità al lettore di stabilire con l'autore un legame più diretto, un "dialogo", un "circolo ermeneutico", tramite il quale si manifesta la vita spirituale di cui il testo è in-tessuto, e il lettore, ponendosi in devoto ascolto, può cogliere il nesso tra vita, espressione e ‘comprensione’. Di questo nexus il Nostro dà piena testimonianza con le sue opere, che egli vive scrivendo e scrive vivendo. Perché la scrittura "è soccorso vitale, terapia dell'anima in compassione solitaria, nel tempo della vita" e apre alla comprensione dell'essere proprio e del mondo. La "cura" dell'Allotta si coglie anche nella scelta dei titoli dei capitoli che, insieme con i versi posti in apertura e a conclusione di ciascun capitolo, fanno da segnavia, tracciano il cammino speculativo di Romano. Ogni titolo fissa un passaggio cruciale, esprime una centralità, indica una tappa essenziale del pensiero romaniano lasciandone indovinare il più vasto sviluppo. Sono delle perle di saggezza, delle epifanie che "rivelano", che suggeriscono  una "metodologia" dell'esistenza, gli "strumenti del mutamento e della rigenerazione", le vie del sapere, che si snodano nel tempo della povertà e del deserto e annunciano il "Magistero dello Spirito", ovvero, "una pedagogia della coscienza", fondata sull'arte e sulla bellezza che possono dare "senso e verità al nostro agire". Abitare l'essere, "rifugiarsi negli eremi del proprio spazio privato (...) e in quelli della natura" praticandovi la contemplazione, significa mettersi in cammino sulle tracce del sacro per ritrovare "la dimensione spirituale e cosmica, il tassello musivo che è la nostra esistenza". Ma, bisogna fare presto, sembra  avvertire Romano. Urge la sfida per fermare il deserto che avanza. In questo "tempo di barbarie" non si può attendere Godot!....Occorre subito opporsi al non senso, che dilaga nell'ordinaria follia quotidiana del mondo; lottare contro l'abisso in cui ogni giorno precipitiamo e che è il vuoto della coscienza, la perdita dei valori, per riscoprire e ristabilire "il senso del senso (...) in ogni cosa, fatto, evento, persona". Occorre porre fine all'attesa e celebrare, oggi, "l'epifania del Sacro", "l'Eterno che è in noi / (...) perché il futuro è sempre eventuale". 

da: www.lionspalermodeivespri.it

"Etica Economica", Filosofia teologia sociologia

di Arthur Fridolin Utz

 La tesi di fondo del libro di Arthur Fridolin Utz 'Etica economica*, San Paolo è che questa non possa essere divisa da un'etica individuale. Utz è un domenicano che fa
parte della scuola tedesca dell'economia sociale di mercato, e questo libro recentemente tradotto è tratto dalla ponderosa opera 'Etica sociale* articolata in cinque libri. In un passaggio significativo del libro Utz sostiene che la borsa costituisce un prezioso servizio all'economia di mercato quando gli investimenti non sono semplici speculazioni e manipolazioni individuali. Che sia l'etica individuale alla base di ogni processo economico, conviene ripeterlo tutte le volte che si perde di vista il fondamento etico del discorso finanziario e la lettura di questo libro sollecita a riflettere sulla necessità del legame tra etica sociale-economica ed etica individuale. Pena anomalie e crisi che seguono tutte le volte che esplodono le cosiddette 'bolle speculative' del mercato. L'autore considera il problema delle grandi disuguaglianze sociali e fa la critica di uno Stato ipocrita e dissoluto che non solo copre grottescamente con un velo statistico queste diseguaglianze ma le mantiene cosi favorendo l'impoverimento nazionale. L'autore sostiene che al valore della ricchezza, vada aggiunto anche il fattore della qualità della vita. Ed è proprio la qualità della vita che si deve misurare e quantificare al punto da costituire una variabile algebrica nei calcoli economici. Così il mercato in questa dimensione si ridefinisce nella capacità di produrre non solo ricchezza ma di soddisfare anche valori e attese etiche. Un orientamento etico si ispira a principi che pongono e spostano l'attenzione sulle conseguenze non economiche degli atti e delle azioni economiche. Così l'economia etica non ritiene legittimo l'arricchimento basato esclusivamente sul possesso e sul commercio di denaro. Il tasso di interesse si ridefinisce come misura di efficienza nell'utilizzo del risparmio, come misura dell'impegno volto a salvaguardare le risorse messe a disposizione dai risparmiatori oltre che a farle fruttare in progetti vitali e socialmente utili. Di conseguenza il tasso di interesse deve rispecchiare il giusto equilibrio tra le attese dei beneficiari e quelle del risparmiatore etico sulla base di valutazioni economiche, sociali, etiche. Una economia quella eticamente fondata che coglie nel credito, in tutte le sue manifestazioni, un elemento dei diritti umani dalla parte dei più svantaggiati socialmente. Così la finanza etica esclude per principio rapporti con quelle attività economiche che ostacolano lo sviluppo umano e contribuiscono a violare i diritti fondamentali della persona e a ledere l'ambiente. In sintesi a dequalificare la qualità della vita attraverso l'attuazione di progetti di dubbia qualità morale.
da: "7  Giorni su 7", 10 maggio 2015

"La Profezia di Fatima. Sulla nuova Roma", il nuovo libro di Arai Daniele

Di Arai Daniele
Arai Daniele non è uno scrittore di mestiere, ma un comandante d'aviazione civile. Nato a San Paolo il 13 maggio 1934, al sole di mezzogiorno di una Domenica, come la prima apparizione di Fatima, ha studiato nel Collegio San Luigi dei Gesuiti. Tra gli studi all’Università di Fisica e l'aviazione ha seguito questa carriera per ragioni contingenti, che lo ha condotto da giovane dal Brasile ai cieli di tutto il mondo.

Ma il pilota, assorbito dal veloce progresso tecnologico che la professione richiedeva e i contatti mondani che il mondo offriva, si allontanava dalle questioni spirituali di sempre finché, nello scontro con la dura realtà della vita e della morte, come padre di famiglia, si sentì richiamato alla Chiesa della sua giovinezza. Lì, tuttavia, ha trovato un porto desolato da devastazioni descritte dai profeti.
Nella difficoltà di trovare un ritorno sicuro, prese la direzione luminosa di Fatima. Questo è il percorso che segue da allora, scrutando il suo profetico messaggio di pace e di salvezza, tralasciato per oscuri disegni. Lo segue, moltiplicando scritti, conferenze in vari paesi e lingue. Ha collaborato con la rivista «Permanência» di Gustavo Corção a Rio, col «sì sì no no» di Don Putti e «Chiesa Viva» de Don Villa, e «Roma» di Buenos Aires. Ma considera la sua missione principale quella di aver collaborato strettamente con i Vescovi Antônio de Castro Mayer e Marcel Lefebvre.
Oltre ai molti scritti di natura religiosa e storica, Daniele ha pubblicato in portoghese il libro «Entre Fátima e o Abismo», (Ed. Excelsior, 1988, SP), presentato da S. E. R. Mons. Castro Mayer, con un’importante dichiarazione sulla natura di Fatima. Il libro fu portato a Suor Lucia da una nipote, letto e trovato giusto, anche se polemico, come citato in una delle sue lettere. Inoltre ha pubblicato in italiano, «L'Eclisse del pensiero Cattolico», Ed. Europa, Roma, 1996 e, in francese, «L'Esprit désolant de Vaticano II», presentato da Malachi Martin, Ed. Delacroix, Dinard, 1997. Altri lavori, tradotti anche in inglese, attendono pubblicazione.
L’Autore ha una casa di pietra con Cappella ad Aljustrel, Fatima, appartenuta alla sorella di Lucia, dove vive e lavora per continuare ad essere presente in prima persona agli eventi riportati in questo libro, perché Fatima, in vista della sua richiesta di Consacrazione della Russia e della promessa per un periodo di pace nel mondo, è appena all’inizio.
Di seguito un piccolo "assaggio" di «La profezia di Fatima. Sulla nuova Roma», di prossima pubblicazione per le Edizioni Radio Spada:
Ma al Papa era stato affidato un prezioso aiuto a Fatima che, se fosse stato accolto, avrebbe potuto cambiare le cose. Non è andato così e a tutto ciò si è estesa la decadenza spirituale nel seno della stessa Chiesa.
L’incomprensione di un aiuto straordinario in questioni di fede si è tramutata poi anche in incomprensione delle giuste soluzioni nelle questioni di politica, come si è visto riguardo a Papa Benedetto XV, e come si vedrà riguardo ai due successori. E tutto per arrivare col tempo a una «gerarchia» capace di una nuova attitudine indegna di fronte al "Messaggio di Fatima", come quando Giovanni XXIII ha osato “censurarla” e dopo, fallito il tentativo di “sopprimere” l'intero "Terzo Segreto", Giovanni Paolo II è giunto ad asservirlo, non solo alla sospetta "perestrojka", esaltata nel discorso del 30.6.1988, ma con la sua pubblicazione poi, al culto della sua stessa persona.

mercoledì 13 maggio 2015

Kondratij Fëdorovic Rylèev - Voinaròvskij, Un eroe della libertà ucraina - (Edizioni Solfanelli)

Il Voinaròvskij di Rilèev è una sorta di scatola cinese. 
     All'interno si scoprono ideali, cammini e incroci di vita, personaggi e popoli, oppressi e oppressori. Voinaròvskij trascina le sua pietosa odissea shakespeariana durante il suo esilio in Siberia, un deserto di geografia e di anime, dove incontra lo scienziato tedesco Miller con il quale si confida.
     Ne scaturisce un affresco di sentimenti e commozioni: la prepotente nostalgia per la patria, l'Ucraina, oppressa dalla Russia zarista; il tragico e possente ritratto dello zio Mazeppa, atamano ucraino, che cerca di scuotere il suo popolo dal giogo di Pietro il Grande; le dolcissime memorie familiari dipinte come scene d'interni; soprattutto il respiro profondo della libertà e di qualsiasi sacrificio per conquistarla.

Maria Teresa Santalucia Scibona "Le rotte del vento" (Raffaelli editore)

di Marcello Falletti di Villafalletto

 L’Autore, con questo nuovo volume, ci offre circa venti liriche della sua recente produzione, affidandone i pensieri alle molteplici direzioni del vento; affinché possano giungere nell’intimo sentire di quanti sanno cogliere la cogente percettibilità che nasce dall’espressione poetica..
     Canti, fortemente espressivi, straordinari che colpiscono, inevitabilmente, chi è concretamente affine a quello che scrive Maria Teresa; anzi, più che mai, prova, coraggiosamente, sulla sua pelle, trasformandolo e trasmettendolo con evidente energia lirica.
     Il testo, interamente, attraversato dalla «finitezza e fragilità /in un corpo abitato /da un dolore tagliente /sino alle midolla …», avvertite soltanto da chi ha affinato percettibilità alla condivisione del vissuto quotidiano; vivendo la precarietà della costante debolezza che, per dirla con San Paolo, «ci fa sentire forti quando siamo più deboli!». Nel terrestre passaggio /dai contorni imprecisi, / niente è come si vorrebbe., ma la traballante barca “sfasciata” continua a solcare, imperterrita, queste strette e angosciose rotte della vita che, dentro, continuano a mantenerci desti, permettendoci di apprezzarne il vero senso.
     Elevata poesia! Certamente il meglio della Sua vasta produzione, dove la maturità esplode ad ogni verso, concentrandosi in suoni tangibili, visibili, immediatamente catturati dalla sensibilità e predisposizione di chi sa coglierne l’elevata simbologia; ammantata da una profonda ricerca escatologica che continua, costantemente ad essere, il quotidiano del vero poeta che, invece, dovrebbe esserlo per tutti gli esseri razionali.
     Prigioniera e reclusa /in una lunga notte /geme lo spirito indocile. /Il dolore mi aggredisce, /scortica la carne /con unghie di tigre. /Esclusa dalla vita /intravedo un timido bagliore, /uno spiraglio di luce. /Memore del conforto, /supplico che tale rugiada /non evapori e sempre /sia fonte di letizia.
     Il malcelato pessimismo leopardiano, dettato da un legittimo compromesso esistenziale, in Maria Teresa viene sublimato dalla speranza trascendente della quale è pervasa e da cui riceve forza, costantemente rigenerante, fino a diventare zampillante sorgente alla quale attingere, non solo forza stimolante per la quotidianità, ma linfa creatrice, efficacie che la colloca nell’empireo dei maggiori. Anche se loro stessi, ai nostri giorni, rischiano di essere ricordati, esclusivamente, dai pochi che gli sono rimasti fedeli e appassionati estimatori!
     Non sempre il tormento interiore partorisce sofferte parole, opprimenti pensieri; bensì edulcorate aspettative che, non possono mai rimanere soltanto illusioni o effimere chimere poetiche, ma rinvigorenti certezze che trovano riparo sia nel verso scritto, sia nella mente che l’intende: Quando il sonno cala sull’umano /giaciglio, e con lieti sogni riscatta /i crucci del quotidiano, /la luna assonna sbadiglia. /La rosa vermiglia, /per il giorno sepolto, /invoca sdegnosa, il chiarore /rosato del mattino. …
     È qui la profondità del pensiero poetico della Scibona. Lasciando affiorare quell’enorme scintilla, che diviene forza vulcanica, espressiva del verso; permettendo di lasciarsi leggere, afferrare, meditare anche da coloro i quali non hanno voglia di addentrarsi, forzatamente, nei meandri, non sempre facili, della percezione che, per delicatezza, riservatezza o indolenza, sovente ottenebra anche il più semplice degli uomini.
     Grazie, amabile Maria Teresa, di averci proiettato, ancora una volta, verso di te; sintonizzandoci sulle stesse lunghezze d’onda che credevamo di aver smarrito e grazie per aver incluso in questa importante silloge anche Il gabbiano peregrino che ai voluto dedicare a me “tuo amabile fratellino”.
      A tutti gli estimatori della poesia di Maria Teresa Santalucia Scibona, ma anche a tutti quelli che non la conoscono personalmente, consigliamo di addentrarci dentro questo affascinante viaggio, attraverso le inesplorate rotte di un vento che, delicatamente irruente, con la sua straordinaria dolcezza, certamente può ritemprarci, rinnovarci, donandoci serenità e pace.

lunedì 11 maggio 2015

Uomini onesti e dignitosi nei racconti di Guareschi


di Giovanni Lugaresi

Non parliamo di una novità libraria, ma di una raccolta di racconti del grande scrittore della Bassa, ricca di storie che fanno la Storia, e sulle quali il lettore, se lo vorrà, potrà a lungo (e proficuamente) riflettere.

Anni fa, in una intervista, Sergio Romano affermò che spesso la storia la si legge meglio attraverso la letteratura, come a dire: meglio i romanzieri che gli studiosi di professione. Nulla di più vero in tanti casi, in primis quello di Giovannino Guareschi, attraverso i cui racconti (molti dei quali ispirati appunto dalla realtà) si può leggere la storia. Ma non soltanto scorrendo le sue pagine scritte, perché anche nelle sue vignette e nei disegni ce n’è di storia da apprendere, anche di lati tragici della nostra vicenda nazionale.
Quel che qui però interessa è la pagina scritta: di ieri e di ieri l’altro, anche perché spesso appare di una attualità straordinaria, e sconcertante.
E’ il caso di un racconto dal titolo apparentemente… amorfo: “Il cittadino Demei”, che contiene invece una anticipazione del fenomeno (sempre attuale) dei perseguitati dal fisco, diversi dei quali come è noto si sono tolti la vita.
Il Demei, cittadino e imprenditore onesto di cui scrive Guareschi, è malato e viene colto da un malore poco dopo la visita della Tributaria che ha posto i sigilli a tutti mobili dell’ufficio, compreso l’armadio nel quale sono custodite le medicine che l’uomo assume.
In breve: basterebbe rompere quel sigillo per recuperare la pastiglia salvavita, ma il Demei appartiene a una categoria di uomini per i quali la dignità, l’onestà personali e professionali camminano in coppia. Così: il professionista onesto, che non ha nulla da nascondere, e il cittadino rispettosissimo dell’autorità dello Stato (ancorché Stato infame!), che convivono nella persona del Demei, vengono a costituire un unicum che non ha tempo: è di ieri, di oggi, lo sarà di domani.
Perché accanto ai malandrini furbastri che lo Stato lo fregano, ci sono quelli che, pur dallo Stato ingiustamente perseguitati, ugualmente ne riconoscono l’autorità e ne osservano le leggi.
Naturalmente, nel racconto di Guareschi ci sono rappresentanti dello Stato (quelli della Tributaria), freddi e cinici, i quali agiscono prevenuti, con il presupposto cioè (ed è fenomeno pure dei nostri tempi) che ogni imprenditore sia disonesto e perciò vada castigato…
E’ storia di ieri, come si diceva. Ed è storia di tutti i tempi, supponiamo, che riusciamo a leggere, a capire, proprio attraverso la letteratura.

Ancora. In un altro racconto guareschiano: “La notte dei miracoli (Una favola di Natale)”, il lettore rivive il dramma della disoccupazione del dopoguerra, segnatamente riferito a un giovane tornato dall’internamento nei lager nazisti e per il quale non c’è un minimo di comprensione da parte della famiglia della moglie, emblematica di un certo mondo borghese al quale nulla interessa del cristiano Dio Uno e Trino, per sentirsi invece cinicamente ed egoisticamente ed esclusivamente legato al “dio quattrino”.
Ci sono altre storie, e c’è altra storia, nei racconti di Giovannino Guareschi, come torniamo a constatare sfogliando le pagine di un volume che i figli Alberto e Carlotta hanno messo insieme per la serie Opere II, uscito per i tipi dell’editore Rizzoli: “I racconti di nonno Baffi” (pagine 735; Euro 32,00 – con una nota di Guido Conti).
Tre sono le parti nelle quali si articola il volume: “Piccolo mondo borghese”, raccolta in ordine cronologico di tutti i racconti del “Decimo clandestino” (1982) e di “Noi del Boscaccio” (1983); poi, “Baffo racconta”; infine “La calda estate del pestifero”. Racconti e favole, appartenenti alla ricca produzione letteraria di Guareschi, la cui validità di scrittore si tocca con mano, al di là e al di sopra della saga di Don Camillo.
C’è un “piccolo mondo borghese” fatto di quotidianità di gente modesta, della piccola borghesia, appunto, i cui valori sono quelli dall’autore mai smentiti, fra i quali quel decoro formale emblematico di una interiore dignità e di una onestà a prova della vita, come nel racconto citato, che insieme all’altro fa parte, appunto, di questo volume. Le cui pagine, come del resto tutte quelle dello scrittore della Bassa, ci fanno ora sorridere ora immalinconire, e a volte fan venire un magone così!
Alla fine ne esce, per dirla con Guido Conti, “il ritratto di un mondo affollato di gente piegata dal dolore e dalla vita però mai vinta, che attraversa il difficile dopoguerra, la ricostruzione e un futuro di speranze e di lotte nel pieno del boom economico…”.
Storie, insomma, che fanno la Storia, e sulle quali il lettore, se lo vorrà, potrà a lungo (e proficuamente) riflettere.

Riscossa Cristiana, 8 maggio 2015