sabato 28 gennaio 2017

Sandra Guddo, "Le Geôlier" (Ed. Vertigo)

di Maria Patrizia Allotta

 Così scrive Fëdor Michajlovič Dostoevskij: “L’amore è un tesoro così inestimabile che con esso puoi redimere tutto il mondo e riscattare non solo i tuoi peccati ma anche i peccati degli altri.” 
   Non sappiamo il parere di Sandra Guddo sul grande Autore russo, di certo possiamo affermare che circa l’amore e la redenzione la pensi esattamente come Lui.
     E lo dimostra con estrema semplicità nel testo dal titolo Le geôlier dove l’amore   - quello vero - oltre a redimere i peccati del protagonista riesce a generare una folata di speranza che, sfiorando i cuori di ogni singolo lettore, ben fa auspicare. 
   Non si tratta di ottimismo a buon mercato, né di vana illusione, o possibile  miraggio euforico. Nemmeno di abbaglio letterario o fallo romanzesco, oppure infingimento prosastico.
   Sembrerebbe piuttosto che la Scrittrice palermitana - già autrice, nel 2014, del suo primo libro dal titolo Tacco 12. Storie di ragazze di periferia (Hombre Edizioni) intraveda sinceramente - oltre la fragilità, la sofferenza, l’angoscia che pure offendono il genere umano al di là di ogni coordinata spazio-temporale - la possibile liberazione dal dolore, il pensabile riscatto esistenziale, la probabile salvezza dello spirito.   
    Infatti, nelle 168 pagine edite da Vertigo, il male - che pure è insistentemente presente nel testo e che certamente appartiene a molti personaggi i quali mostrando un vissuto psicologico particolarmente tormentato si muovono ora tra grettezze e volgarità, ora tra bassezze e trivialità, ora tra perfidia e crudeltà, raggiungendo lo svilimento della loro stessa entità e l’annullamento della propria essenza - sembra essere, paradossalmente, ontologicamente inesistente, ovvero, concepito da Sandra Guddo come nefasta assenza o privazione del bene, seguendo, forse, il grande insegnamento filosofico del doctor gratiae, Agostino D’Ippona, secondo il quale il “male di per sé non esiste. Altro non è se non la mancanza del bene”.  
   In effetti, mentre taluni personaggi del sopracitato testo, non avendo sperimentato i più alti valori esistenziali, rimangono a brancolare nel buio del peccato - “tra donne, fumo, alcol, droghe, gioco d’azzardo (…), mai stanchi dell’ebbrezza e dell’adrenalina che dà il rischio” - condividendo così l’assoluto male, altri invece, baciati dalla provvidenza divina, una volta identificato il vero bene si perdono in quella dimensione vitale luminosissima che solo l’autentico amore può donare.
   E’ ciò che capita, soprattutto, al protagonista, Cesare, “carceriere di se stesso”,  uomo ricco, colto, determinato e ambizioso, eppure “violento e deviato” capace di condotte bestiali per puro piacere il quale, tuttavia, nell’arco del tempo, si redime diventando “un uomo nuovo che è riuscito a perdonarsi attraverso la dolorosa via del pentimento che scaturisce soltanto quando si prende completa consapevolezza dei propri errori” e quando si trova “quella rete di salvataggio” data esclusivamente dall’autentico amore che la Nostra dipinge come una “ventata di area fresca per fugare i miasmi delle ferite infette e purulente; un gessetto colorato che traccia incantevoli arabeschi sul nero della lavagna”.   
    Ma non è tutto. La ricchezza del libro consiste nel fatto che l’Autrice di Le geôlier all’interno del significativo chiaroscuro dettato dal peccato e dalla redenzione, dall’odio e dall’amore, dal male e dal bene, dalla vita e dalla morte, con estrema disinvoltura inserisce - attraverso un linguaggio moderno e dinamico, immediato e semplice, sostanzialmente chiaro ma mai banale, lontano da costrutti baroccheggianti o effimere ridondanze - non soltanto un puntuale esame psicologico dei personaggi emblematicamente e simbolicamente indicativi del romanzo - dimostrando così ampie conoscenze in campo psichico e mentale - ma anche la trattazione di tematiche e problematiche relative a questioni sociologiche fortemente attuali e di grande interesse.
   La crisi economica che attanaglia le industrie, il commercio clandestino delle armi, le diatribe interregionali, l’emigrazione e l’emarginazione, la vecchiaia e l’abbandono, la droga e l’alcolismo, la povertà, la separazione, l’adozione, la prostituzione, la violenza fine a se stessa, sono tutte questioni presenti e affrontate però con mano delicata eppure efficace.
   Infatti, all’interno del testo, non assistiamo a nessuna trattazione sistematica e ad alcun sviluppo organico circa le questioni psico-sociali, meglio, senza mai scivolare nelle forzature letterarie inconcludenti o nelle furbizia degli infingimenti, l’Autrice con penna lieve - quasi sommessamente e in perfetto equilibrio sintattico-stilistico - dona ai suoi lettori spunti di riflessioni etico-morali secondo l’insegnamento socratico del ti estì che, appunto, insemina il dubbio per intraprendere il cammino della possibile verità, e del dialogo, unico mezzo inevitabile per combattere sia la pirandelliana “incomunicabilità” che il montaliano “mal di vivere” e per promuovere, alla maniera di Haidegger, “l’idea della progettualità e della speranza”.
   E all’interno del testo - sembrerebbe a chi adesso scrive - in effetti il miracolo del dialogo costruttivo che riconduce alla progettualità e, quindi, alla speranza, avviene appunto attraverso il trionfo dell’amore che inevitabilmente si rapporta con il celeste, con il sacro, con il divino.  Con il vero e con il bello.     
   All’interno del testo, infatti, l’amore e la fede danno vita, “all’infinita misericordia di Dio” che non soltanto “cancella le colpe, ma libera dalla disperazione e permette di uscire dall’angolo, facendo ritrovare il coraggio e la volontà di andare avanti”.
    Un libro straordinariamente ricco, dunque, dove spunti psicologici e sociologici s’intrecciano con riflessioni etiche ed estetiche, dando vita ad un unico tappeto musivo il cui messaggio conclusivo, alla maniera di Jacques Prévert sembrerebbe il seguente: “La nostra vita non è dietro a noi, né avanti, né adesso, è dentro”, pertanto “bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare il buon esempio”.
   E certamente Sandra Guddo con Le geôlier il buon esempio l’ha dato intonando, felicemente, un inno al bene e all’amore e un canto alla salvezza e alla redenzione.      

giovedì 26 gennaio 2017

Abbiamo bisogno di “italiani seri”, per rendere piu' umana la nostra societa'.

di Domenico Bonvegna

Nei precedenti interventi su San Leonardo Murialdo ho raccontato, avvalendomi dei contributi di don Pier Giuseppe Accornero e Massimo Introvigne, la straordinaria opera evangelizzatrice e sociale di questo eccezionale santo vissuto nell'Ottocento della Torino Sabauda. Ma come ho già avuto modo di scrivere non c'è stato solo Murialdo, ma tanti altri, alcuni canonizzati dalla Chiesa, altri no. In uno studio accurato, un sacerdote, ne conta almeno 90 tra santi, beati, venerabili e servi di Dio. Ma l'elenco addirittura si può allargare a quasi 200 “santi” di uomini e donne, di rilievo per la loro pietà e per il loro apostolato sociale. Per lo più laici e laiche, appartenenti a tutti gli strati sociali.
In questo intervento voglio focalizzare la mia attenzione sul sano realismo cristiano di questi santi che hanno profuso per risolvere i vari problemi, vissuti nello stesso periodo di san Murialdo, ed in particolare presento il beato Francesco Faà di Bruno.   
Le mie riflessioni fanno riferimento al bellissimo testo di Vittorio Messori, “Un italiano serio”. Il beato Faà di Bruno”, pubblicato da edizioni Paoline. Il libro alla sua presentazione al Meeting di Rimini, nel lontano 1990, fu oggetto di attacchi sconsiderati da parte dei vari pasdaram risorgimentisti, che senza averlo letto, si scagliarono contro Messori, perchè si era permesso di mettere in discussione l'epopea risorgimentale.
C'è un capitolo del libro dove Messori, riesce a spiegare bene ai lettori il senso dell'opera socializzatrice dei santi torinesi, è il capitolo VI°:“Un aiuto concreto”.
Qui partendo dalla parabola del “Buon samaritano”, Messori, spiega il comportamento di questi straordinari “italiani seri”.“Amare il nostro prossimo come noi stessi”, esortò Gesù a quelli che lo ascoltavano. Ma il dottore della legge, chiese capziosamente:“ma chi è il mio prossimo?”. Alla fine della parabola Gesù, invita il dottore della legge a fare come il samaritano:“Va, e anche tu fa lo stesso”. Certo il comportamento del samaritano, è scandaloso, “poco sociale, non risolutivo, al limite 'alienante' e diseducativo”, scrive Messori. “Stando a tutti i rivoluzionari e ai riformisti (e poi, in seguito, stando ai cattolici che 'vogliono andare a monte', che denunciano anch'essi, sdegnati, la 'carità alienante', i 'santi della beneficenza') quell''avere compassione', per essere autentico, efficace, deve necessariamente passare per le vie della politica”.
Dunque i santi torinesi, quegli “italiani seri”, come Cottolengo, Cafasso, Bosco, Murialdo, Faà di Bruno, quelli più conosciuti, ma tanti altri meno conosciuti, hanno obbedito a quell'antico, ma sempre attuale, comando: “Va, e anche tu fa lo stesso”. Tutti questi apostoli, secondo Messori,“passarono all'azione immediata prima di elaborare progetti che, in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati, dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati, delle serve schiavizzate”.
Certo questi santi hanno anche alzato la voce e denunciato lo scandalo di chi non faceva nulla per aiutare chi stava nel bisogno.“Ma, più che scrivere 'manifesti', distribuire volantini, creare una Nomenklatura di funzionari di partito e di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita stessa”. Messori, insiste nella polemica, questi santi non hanno fatto come gli ideologi che“discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in agonia”.
I nostri santi andavano giù pesante, probabilmente più dei cosiddetti riformisti laici o dei rivoluzionari atei del tempo. “I quali - scrive Messori- (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma, necessariamente, limitate nel tempo, in vita”. Mentre i vari don Murialdo, don Bosco, minacciavano sventure per l'eternità,“senza limite, né fine”. Sostanzialmente la passione per i poveri era identica ai vari rivoluzionari del tempo, ma differente la terapia. Si raccomandava ai ricchi di non riporre la speranza nelle ricchezze ma in Dio, di fare opere buone,“di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistare la vita vera”.
Ancora scrive Messori,“questi credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale vigore!) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via coercitiva, per via rivoluzionaria”. Sicuramente non erano favorevoli all'”esproprio proletario”, come auspicavano i comunisti. Invitavano sì a dare il superfluo ai poveri, ma doveva nascere, dalle ragioni della coscienza, del cuore. Tuttavia questi santi torinesi“intuivano che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come tutto ciò nasce dalla forza”.
In pratica, ormai dopo settant'anni di socialismo più o meno scientifico, abbiamo infinite prove del fallimento di certe terapie rivelatesi illusorie, rovinose e catastrofiche.
Vittorio Messori, grande giornalista e storico, non poteva scrivere meglio queste riflessioni, e insiste sulle varie utopie apparse nel mondo. I santi, in particolare, questi dell'Ottocento torinese, sono“seguaci di quel Gesù che 'sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo', membri di una Chiesa millenaria 'esperta in umanità', prevedevano che ogni rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria; anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e impoverendo ancor più i già poveri”.
Pertanto tutti erano convinti, che,“solo la rivoluzione interna (il cambiare la coscienza,l'aprire il cuore alla pietà, alla misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga, significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano, ripetendo sempre di 'non voler fare altro che la politica del Padre Nostro'.
Nella bimillenaria storia della Chiesa, nella tradizione cristiana, ci sono stati dei tentativi,“per anticipare già qui il mondo e l'uomo 'nuovi' promessici - scrive Messori -, ma si tratta di quei piccoli 'pezzi di umanità' che sono gli ordini e le congregazioni religiose”. Qui,“almeno nelle intenzioni, si tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui tutto sia in comune, in cui l'egoismo sia il più possibile vinto”. Naturalmente questa vita comunitaria è una scelta libera, non forzata, è una “chiamata”, una “vocazione”.
Invece,“le ideologie che perseguono l'utopia dell''uomo nuovo' e del 'mondo nuovo', del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale: volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento, finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la 'virtù' alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno stato oppressivo. Uno stato che assomiglia molto a quello del Daesh dell'Isis.
Thomas Eliot, premio Nobel per la letteratura, ammoniva gli uomini di non farsi illusioni nel“il pensare di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, 'un mondo così perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla necessità di essere buoni”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, ormai abbiamo chiaro, abbiamo visto e constato (ma non lo ricordiamo abbastanza) “come il bel sogno di creare il paradiso interra non con la rivoluzione innanzitutto dei cuori ma con quella della forza, si rovesci sempre, immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra”. Del resto lo sapeva bene quel santo Papa Giovanni XXIII: “mai ci saranno pace e giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro, nell'intimo di ogni uomo”.
Attenzione a quelli che vogliono rendere gli uomini felici, diceva Karl Popper,  perchè poi alla fine “non esistano a massacrarli per questo”. Tra tutte le idee, quella di “rendere perfetta l'umanità è di tutte la più pericolosa”
Peraltro la Chiesa esorta sempre a cambiare vita, alla conversione, ma sa anche che il peccato, l'egoismo, l'indifferenza, mai saranno del tutto eliminati, perchè l'uomo è ferito dal peccato originale. Pertanto la perfezione non è di questo mondo. Sono considerazioni che vengono fuori, ogni volta che ci affanniamo a sistemare ogni cosa su questa terra, come in questi giorni di gravi calamità naturali: il terremoto e l'abbondante nevicata, nel centro Italia.
Per quanto riguarda la poliedrica figura del beato Faà di Bruno, sono altrettanto significative le considerazioni di Messori su quest'uomo che si è dedicato anima e corpo ad alleviare i mali di migliaia di donne, domestiche di Torino, abbandonate al loro destino dai soprusi della casta liberale. Faà di Bruno fu ufficiale di Stato Maggiore e poi scienziato stimato in tutta Europa e umiliato, perché cristiano coerente, dalle autorità anticlericali massoniche di Torino. Anche il Faà di Bruno ha fatto tante cose per aiutare gli ultimi. La più importante è la Pia Opera di Santa Zita, creata nel malfamato Borgo San Donato, eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate, anziane. Al suo interno fonda una serie di opere, asili, scuole e laboratori per proteggere sempre le donne operaie, che in quel tempo erano molto numerose a Torino e spesso sfruttate dai ricchi borghesi liberali. A questo proposito Enzo Peserico, presentando il libro di Messori nel 1991 sulla rivista Cristianità (maggio-giugno 1991n.193-194) scriveva:“Si tratta di una vera e propria “città delle donne” a servizio della quale nel 1868 costruisce la chiesa di Nostra Signora del Suffragio e nel 1869 istituisce una congregazione di suore, le Minime di Nostra Signora del Suffragio. A queste seguiranno una serie impressionante di opere a favore del proletariato urbano, prodotto e insieme rifiuto del nascente potere liberal-massonico, preoccupato di rispondere alla carità cristiana con la retorica ideologica degli “uomini finti” la retorica che caratterizza Cuore, di Edmondo De Amicis, ma che sempre lesinò nel contribuire ad alleviare la miseria delle masse urbane diseredate”.
Nel suo operato non fece troppi discorsi sul proletariato, ma operò con realismo, preferì, scrive Messori,“battersi per far funzionare subito le mense popolari; non rimandò le serve lacere e sporche che bussavano alla sua porta[...]non elaborò  un progetto generale di riforma sanitaria, ma si diede da fare per costruire bagni pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro l'inquinamento,ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche[...]”.
Significativa la vicenda dell'orologio progettato dal beato sul campanile della Chiesa del Suffragio. Così“in attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema[...]”. Lo collocò a cinquanta metri di altezza così tutti gli ottantamila della città avevano avere l'ora esatta.
Questo semplice episodio, dimostra per Messori,“lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso”.
Anche il Faà di Bruno, vivrà fino in fondo, da protagonista, il lacerante“caso di coscienza del Risorgimento”, come è stato chiamato quello dei cattolici italiani, costretti a dividersi tra amore di patria e amore di una Chiesa perseguitata da quella patria medesima” (p. 182). Ma il nostro non indugia, si impegna in tutti i campi (dalla scienza all'arte) nella buona battaglia contro la Rivoluzione anticristiana.
Dunque, concludo con le parole del compianto Enzo Peserico sul beato Faà di Bruno, è stato “un cattolico integrale, una gloria per la Chiesa. Ma anche un cittadino esemplare”(p. 210): insomma, un“italiano serio“, capofila di quella schiera di santi ignoti che, costituendo il tesoro nascosto ma grandioso della storia degli italiani, ci rendono oggi partecipi di legami di terra e di sangue molto più reali e fecondi di quelli immaginati dalle caricature tricolori di oscuri “fratelli” d 'Italia, cari ormai soltanto ai loro nostalgici nipotini.

“Italiani seri” che non hanno bisogno di difesa, ma più urgentemente di trovare figli che ne rinnovino con la propria vita l'intelligenza e il cuore: perché, come suggerisce Vittorio Messori attraverso un'epigrafe al testo, tratta da Evagrio Pontico, monaco del secolo IV,“a una teoria si può rispondere con un'altra teoria. Ma chi mai potrà confutare una vita?”.

mercoledì 25 gennaio 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Manlio Corselli

In tempi di barbarie è davvero un atto di audacia inusitata, che – direi – rasenta addirittura la follia, il voler vergare e pronunciare elogi sulla distinzione. Ma siffatta decisione, lungi dall’essere atteggiamento di insana presunzione intellettuale, corrisponde al contrario alla volontà di un Autore, dall’animo sano e robusto, di scegliere di essere deliberatamente inattuale.
Infatti le considerazioni che Tommaso Romano svolge in questa sua ultima poderosa, ricca e preziosa opera non possono che essere intrinsecamente inattuali allorquando risuonano nel deserto popolato dagli ammiccanti ultimi uomini di nietzscheana memoria, i quali appaiono come deboli, tristi coscienze addormentate nel naufragio della modernità cullata da un nichilismo dolce e perfino sdolcinato.
In tempi di barbarie, perciò, tessere l’elogio della distinzione è un’impresa assai iperbolica che urta coloro che sono gioiosamente poveri di spirito e che scandalizza coloro che si nascondono dietro ciò che è il ‘civilmente e politicamente corretto’.
Questo elogio, invero, può apparire alquanto sgradevole sia sul fronte delle eguali aspirazioni di massa sia sul versante dei comportamenti diffusi della gente, ragion per cui esaltare il valore della distinzione produce un apparente, grave ed irrimediabile scandalo sociale.
Di conseguenza colui che propugna l’eccellenza della distinzione, e se ne fa carico di coerente testimonianza di esistenza, finisce per essere relegato nella perpetua solitudine, nonché per essere confinato in una situazione di isolamento quasi assoluto in un mondo come quello attuale che raggruma gli stili di vita di ognuno in una serie di schemi omologanti sulla scia dell’essere e dell’apparire sotto l’egida dell’egalité.
Dalla  Rivoluzione Francese in poi l’egalité si pone come l’unica ed imperiosa, ed imperativa legge del corso della storia che travolge tutti i residui distintivi che caratterizzano la varietà e la multiformità degli aspetti umani e culturali. L’egalité si propone come l’unico dio dei tempi moderni a cui sacrificare tutte le differenze grazie alle quali, invece, ognuno di noi si specifica come un individuo vivente unico ed irripetibile nella scena del mondo. Essa appare piuttosto come il trionfo attuale dell’uniformità. 
Il fatto è che l’eguaglianza paritaria, intesa come valore supremo e fondante della comunità civile, ha senso se rapportata all’eguaglianza sancita dagli ordinamenti giuridici dinanzi alla legge; diventa invece una mistificazione se sopravanza il valore della libertà inteso nel suo senso più radicale di affermazione di distinti progetti di vita individuali. Il valore della libertà, nel nostro caso, rappresenta il fertile humus da cui germoglia la santa riscossa contro la parificazione che tutto con-fonde nel buio della notte dell’indistinzione. Soltanto uno spirito libero e forte, perciò, può rivendicare il diritto alla distinzione. 
Sì, perché la distinzione è innanzi tutto educazione di giudizio e conformazione di coscienza che fa da base a comportamenti degni di fungere da exempla, ovvero a contegni personali di impronta onorevole. Allora, l’ethos della distinzione – suggerisce Guglielmo Bonanno di San Lorenzo – si mostra nel personale contegno che suscita in coloro che ci sono vicini e rivela segni di stimata considerazione e riconoscimenti di onorevoli apprezzamenti.
Tommaso Romano crede nella distinzione e combatte per la distinzione: <<chi gode di un animo nobile – proclama con la fierezza tipica del distinto studioso – non sopravviverà inebetito nel nichilismo e nella sciatteria>> nei quali è pur vero che si rotolano i tempi moderni nell’ebbrezza di contaminarsi col nulla e col brutto. E in questo rotolare tutto decade e niente si salva.
Eppure, per il nostro Autore, negli apocalittici tempi del presente, invero intrisi pur essi di “pioggia di zolfo e di piombo”, la vocazione alle “idee chiare e distinte” è speranza di salvezza per quelle anime che dantescamente si stagliano “sdegnose e solitarie” sull’estremo orizzonte della distanza come un faro di nobile ed intrepido coraggio di contrasto nei confronti dell’ignobile viltà del conformismo dilagante.
Sentiamo la mancanza, oggi, di tante figure giganteggianti che, come l’antico Sordello da Goito, sappiano professare e testimoniare la vera dignità della vita, l’autentica severità della coerenza, la limpida condotta dell’uomo onesto e di gentile aspetto, dell’uomo, ovvero, che impronta a decoro e a virtù i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie gesta. 
In questo senso una vita decorosa è tale quando sa ostentare il decoro morale e gli obblighi di comportamento sociale che da esso derivano. La vita decorosa, dunque, rifugge dall’esibizione degli inutili orpelli e delle effimere decorazioni, per adornarsi invece delle insegne che danno lustro agli austeri e buoni costumi della rettitudine, sicché è legittimo dire, senza tema di smentite, che un uomo decorato da una vita decorosa è un uomo non solo distinto ma anche dotato di un certo ‘saper fare’.
Tommaso Romano, nel delineare le tante situazioni della distinzione, assume come principio di discorso l’esortazione del nostro sommo Dante Alighieri per la quale ‘non fummo fatti per viver come bruti ma per seguire virtute e canoscenza’. Il che – tradotto in altri termini – è un invito a rifuggire il volgo e le volgarità che rendono miserevole e miserabile la concezione di vita grossolana di una umanità che ha in spregio la coltivazione della sapienza, della saggezza e della bellezza. L’uomo incolto e selvaggio infatti non è altro che l’uomo della barbarie ritornata, l’abitante delle moderne selve oscure.
Dinanzi a quest’uomo, tuttavia, si apre una speranza di salvezza. Infatti, la prospettazione di uno stile di vita di superiore civiltà, che proprio le risorse ideali (e non altre) della Tradizione possono offrirgli per insegnargli l’arte del buon vivere, quella del buon gusto e, non per ultimo, quella del misurato comportamento, rappresenta una spinta di palingenesi, una molla di decoroso riscatto dalla supina volgarità che insozza interiormente ed esteriormente.
La Tradizione, nella riflessione di Tommaso Romano, diventa quindi la chiave di volta del riposizionamento della distinzione (nei suoi due aspetti di individuale e di collettiva) nel mos maiorum e nel more nobilium
L’uomo distinto non nasce, ma discende da una genealogia forgiata dalla sostanza immateriale di valori mai rinnegati, custoditi nel patrimonio delle generazioni che ci hanno preceduto, trasmessi nella loro integralità e confermati da una personale esperienza di esistenza.
Sotto questo punto di vista, la persona distinta non solo fa proprio il costume dei Padri ma anche lo arricchisce nel corso della propria vita individuale perseverando in nobilitate.
Vivere nobilmente, allora, non significa vivere in una maniera vetustamente fuori dal mondo sociale che ci circonda, cioè in una antiquaria separatezza. Vivere nobilmente, invece, significa condurre uno stile sociale all’insegna della gravitas ed impregnato dall’onore di fedeltà ai supremi principi morali.
L’intendimento di Romano, dunque, è quello di far piazza pulita dei consueti anacronistici significati che definiscono il concetto e lo status della nobiltà. <<Nel vetusto vocabolario araldico-genealogico-nobiliare è contemplata una definizione di qualità che possiamo prendere volentieri in prestito: lo stato more nobilium, lo stato in cui, cioè, si vive nobilmente, anche a prescindere dal pubblico riconoscimento della nobiltà; (…) vale a dire che anche il nobilitante vivere e sentire può creare le premesse di una discendenza improntata a tali valori>>.
Affermando ciò, Tommaso Romano cita, a conferma della propria tesi, l’autorevole pensiero di Dante Alighieri per il quale – come è stato già ricordato – <<la stirpe non fa le singolari persone nobili, ma le singolari persone fanno nobile la stirpe>>. Di conseguenza, nel tempo presente la nobiltà, nella visione del nostro Autore, <<non può essere oggi che quella dello Spirito degno del passato, oppure che è pronto a generare una novella Tradizione>>.
In un’epoca in cui si è affievolito il principio di legittimazione nobiliare e nella quale i titolari della fons honorum sembrano centellinare, se non quasi addirittura rinunziare all’esercizio del potere nobilitante, si  corre il rischio di decretare la definitiva scomparsa delle gerarchie tradizionali che hanno caratterizzato millenariamente la civiltà europea e l’ordinato, armonioso sistema del jus publicum europeum.
Un esito del genere sarebbe una vera e propria catastrofe per l’identità culturale del Vecchio Continente e suonerebbe come colpa grave per coloro che per ignavia, o per colpevole rinunzia delle loro prerogative sovrane, lasciassero scomparire corpi e istituti nobiliari la cui ragione di diritto è sancita dalla voluntas regis di Principi che sono a capo di Dinastie comunque non debellate.
Le elitès giocano sempre un ruolo di guida in ogni epoca storica; la loro scomparsa, o la loro sostituzione, determinano mutamenti non irrilevanti negli assetti sociali e politici consolidati. Le elitès sono perciò indispensabili per gli antichi e nuovi regimi. Ma, avverte Romano, c’è una grande differenza fra quelle che dominano le scene di oggi e quelle che governavano nell’Antico regime. Le elitès di oggi non sono altro che delle oligarchie monopolizzatrici, cioè gruppi di potere, invece quelle di ieri esprimevano uomini dotati socialmente e pubblicamente delle migliori qualità, gli eccellenti che si distinguevano per essere, insomma, riconosciuti come autentici aristocratici.
Agli aristocratici, e non ai portatori degli interessi demo-plutocratici, si rivolge Tommaso Romano per invocare una nuova renovatio imperii. Su questo punto egli è abbastanza chiaro e perentorio. <<Che siano il denaro, la potenza sociale o le ‘cordate’ amicale e/o clientelari a decidere, questo lo riteniamo, invece, non consono al valore nobilitante e, in ultima istanza, ininfluente in termine morali e spirituali per un autentico riconoscimento di aristocrazia, vero sigillo di una conseguita nobiltà integrale>>.
L’aristocrazia, pertanto, è uno stato d’elezione che non deve nulla alla democrazia, anche se non è confliggente con essa in quanto si riferisce allo status dell’uomo coltivato e distinto. In questo senso appaiono illuminanti i pensieri di un grande filosofo italiano, Benedetto Croce, quando afferma che <<non si dice cosa peregrina se si dice che gli uomini che pensano e che operano profondamente sono pochi e che perciò le sorti della società umana sono legate a quelle di un’aristocrazia. E neppure si dice ormai alcunché di peregrino aggiungendo che non si deve pensare con ciò alle vecchie aristocrazie chiuse, a quelle del sangue e dell’eredità (…), ma ad aristocrazie sempre aperte, in continuo rinnovamento, i cui componenti, compiuta l’opera loro, muoiono o tornano nelle file, sopravvivendo all’ufficio esercitato>>.
Il messaggio che proviene dalla lezione crociana viene fatto proprio da Tommaso Romano perché è per lui chiaro che il modello archetipico greco dell’aristocrazia non può che essere aperto alle trasformazioni sociali di coloro che, adulti nella formazione, aspirano a testimoniare costumi migliori offrendo, da migliori, un servizio più elevato all’intero corpo sociale.
L’aristocrazia viene, così, ad assumere un carattere di attrazione sociale dinamico che non corrisponde a rivendicazioni premiali ma che risponde all’esigenza di garentire la feconda vitalità di rigenerazione di quel corpo sociale di cui si è detto poco sopra. Innervare elementi di aristocrazia nel tessuto sociale può contribuire, per Tommaso Romano, a rafforzare alcuni profili di etica pubblica che sembrano essere destinati al loro inesorabile nichilistico tramonto.  
Il nostro autore non appoggia il suo auspicio su romantici vagheggiamenti o su estetizzanti nostalgie, ma ne addita con concretezza un possibile percorso di attuazione. Le nuove o rinnovate aristocrazie prendono forma attraverso la ricezione e la permanenza nelle istituzioni cavalleresche. Gli Ordini cavallereschi, con i loro Statuti e le loro Regole religiose, possono costituire infatti, per Tommaso Romano, una scuola d’onore, di fede, di lealtà e di dignità, in guisa che coloro che vi sono accolti possano essere educati alla vera, integrale nobiltà, cioè alla magnanimità dell’animo, all’umiltà delle pratiche di edificazione spirituale, all’impegno di dedizione caritativa, ai carismi di una missione che possiamo riassumere nella formula dei Cavalieri di Malta come tuitio fidei et obsequium pauperum.
Sì, perché non c’è nulla di più bello ed onorevole che dedicare la propria vita alla difesa della fede e al servizio di coloro che sono infermi nel corpo e – come dice con bella e ispirata immagine il Santo Padre – ‘feriti nella loro anima’. La Cavalleria, perciò, educa alla libertà perché è spada spirituale della misericordia di Dio, del suo afflato caritativo verso quei soggetti che la Tradizione ha individuato fin dal Medio Evo come i più bisognosi di protezione amorevole: le vedove, gli orfani, i poveri.
Nei presenti tempi di barbarie, acuita anche dalle perverse conseguenze di una selvaggia e disumana globalizzazione che produce finanche nuove forme di schiavitù umana, spetta alla milizia cristiana cavalleresca l’onere di avvolgere col manto della pietà i fratelli che portano i segni del Cristo sofferente.
Con le professioni, per esempio, dei voti di obbedienza e di povertà la milizia cristiana cavalleresca testimonia una vitalità della natura dell’istituzione il cui ruolo non può che essere quello, nella post-modernità, di nobilitare in senso più alto la ‘città terrena’, restaurandone i segni del Bene Comune e la Giustizia della solidarietà umana. Si tratta, invero, di affrontare la sfida della secolarizzazione e profondere le migliori energie per riconsacrare un mondo sempre più profano, sempre più incline a dissolutezze paganeggianti.
Portatori della luce della Tradizione, spetterà ai sodalizi cavallereschi illuminare con la bellezza della fede e della verità rivelata il futuro degli stili di vita dell’umanità pellegrina in questa terra. Desidero, perciò, concludere rivolgendo alla tua illustre persona, Tommaso, questo elogio della distinzione che hai voluto dedicare all’Aristocrazia, alla Cavalleria e alla Nobiltà, intravedendo in Te un distinto amico dell’Onore e della perenne Parola di salvezza

lunedì 23 gennaio 2017

Sandra Guddo, "Le Geôlier" (Ed. Vertigo)

di Ida Rampolla del Tindaro


   Di solito, quando presento un libro, parto dal titolo, che riassume il significato dell’opera e le più riposte intenzioni dell’autore. In questo caso, il titolo francese  è per me particolarmente significativo e gradito, in quanto sono stata , al liceo Umberto l’insegnante di francese di Sandra Guddo che si è ispirata, per questo titolo, Le geôlier che significa, com’è noto, il carceriere, a una famosa lirica di Prévert e  quindi a un autore della letteratura francese, cantore soprattutto della malinconia delle periferie e degli ambienti popolari, in versi che riproducono fedelmente la realtà con accenti di un realismo amaro e delicato ma improntati sempre a un profondo amore per i diseredati e gli oppressi.
    Il  romanzo di Sandra Guddo  è ricchissimo di simboli  ed  ha parecchie chiavi di lettura, tutte abilmente condotte e intrecciate fra loro: ma voglio  cominciare proprio da quella   legata a Prévert, la cui lirica contiene, in nuce, il significato e l’ispirazione dell’opera, anche se l’Autrice, naturalmente, vi ha aggiunto tanti altri elementi tratti  dalla realtà contemporanea e da problemi storici,sociali e umani della nostra epoca, da lei particolarmente sentiti.  
    La lirica di Prévert comincia con due  versi su cui vorrei soffermarmi: “ où vas-tu, beau geôlier,avec cette clé tachée de sang” ( dove vai,  bel carceriere, con quella chiave macchiata di sangue.. )
   Il riferimento all’andare verso qualche parte indica una meta, una ricerca, una direzione da raggiungere, che solo l’interrogato può chiarire. Quanto all’ appellativo  “ bel carceriere”, l’aggettivo bel suggerisce altre considerazioni. Un carceriere è, per  tradizione, un personaggio poco simpatico, se non odioso: è colui che  impedisce la libertà, che è uno dei più grandi doni dell’uomo, anche se la impedisce in nome della legge che i detenuti hanno trasgredito. La sua severità non è dunque frutto di un atteggiamento personale  ma dell’obbedienza a un dovere. Ciò non toglie che la sua funzione sia poco amata e poco gradita da parte di coloro che ne subiscono le conseguenze.  Anche nella letteratura, i carcerieri sono stati di solito rappresentati in modo sgradevole.
L’idea che comunemente ci si fa di questa attività   quindi non è certo legata alla bellezza né fisica  né spirituale. Ma nel romanzo il carceriere è anche un prigioniero, chiuso nella cerchia dei suoi vizi e delle sue depravazioni: le due funzioni si fondono.  La prigione è quella che l’uomo stesso crea intorno a sé e dalla quale aspira a fuggire per raggiungere la libertà più importante, quella spirituale.
   Questo dimostra la complessità del romanzo, in cui l’indagine psicologica si unisce a tematiche e problematiche di carattere morale.    
  Il “ bel ” carceriere della lirica   rappresenta l’antitesi, tante volte presente nella poesia di Prevert, tra dolcezza e violenza: appare come una vittima ma anche come un colpevole, esattamente come il protagonista del romanzo.  Nella lirica egli risponde alle domande che gli sono rivolte dal poeta rivelando le sue colpe verso la donna amata  ma manifestando,  nello stesso tempo, un atteggiamento nei suoi riguardi che è, in un certo senso, una riposta al  terribile fenomeno dei nostri tempi, il femminicidio., dovuto a un malinteso senso del possesso, che porta l’uomo a considerare la donna una sua proprietà alla quale non è riconosciuto il diritto alla libertà di decisione. Ecco perché il romanzo può essere anche considerato una rappresentazione  di alcuni aspetti della condizione femminile del nostro tempo
   A differenza degli autori dei femminicidi, il carceriere  della chanson du geôlier  invece vuole che la donna sia libera anche di dimenticarlo e perfino, se lo desidera,  di andarsene con  un altro uomo : egli conserverà sempre di lei uno struggente ricordo. 
   Sono versi dolcissimi  espressione di un autentico sentimento ma anche di un profondo rimorso  per il male compiuto, rappresentato da quella chiave macchiata di sangue, altro simbolo che troveremo nel romanzo.
  E’ un simbolo che troviamo anche nel colore rosso della figura rappresentata in copertina, che si riferisce a un’immagine   che ha colpito in modo particolare il protagonista durante una visita a una mostra di fotografie.  rappresentante un polipo che tenta la fuga da uno scolapasta rosso  sangue, per sottrarsi  a una morte orribile, quella di essere gettato vivo nell’acqua  bollente.
   Le immagini della mostra sono in bianco e nero: spiccano solo il color rosso dello scolapasta e il rosso di un’altra foto, in cui si vede il drappo colorato che scivola da una sedia per espandersi sul pavimento come una macchia di sangue che si allarga . Questa simbologia del rosso e del sangue che troviamo anche nella chiave del carceriere, contribuisce ad accentuare l’ intensa  drammaticità della vicenda.
 Quanto al simbolo della chiave, che serve per chiudere ma anche per aprire ed ha dunque due  funzioni antitetiche, che troveremo anche nel romanzo, occorre fare anche un rapido cenno alla disposizione grafica dei versi di Prevert, che risentono spesso di quella poesia visiva rappresentata dai Calligrammi in cui la collocazione dei versi riproduce un’immagine: e nella chanson du geôlier è stata vista l’immagine del buco di una serratura, che attende la chiave perché la porta sia aperta.
    Prevert, in tutta la sua poesia, condanna gli sfruttatori e gli oppressori e , con la sua vena satirica e polemica, si ribella contro la violenza anche se ha accenti di grande dolcezza verso i poveri e i diseredati e anche se rappresenta come pochi gli aspetti  della vita quotidiana, con una vena popolaresca  e una apparente sfrontatezza che mascherano  la profonda  delicatezza e tenerezza interiore.
    Il protagonista dell’opera è dunque un carceriere dalla chiave macchiata di sangue che  lentamente e faticosamente, tra debolezze e rimorsi, compirà il suo cammino di redenzione.
   E’ un uomo d’affari dei nostri giorni, edonista, cinico,  spregiudicato, donnaiolo, amante della trasgressione. Ha però geniali intuizioni, che rivelano, nell’autrice del libro, una sorprendente conoscenza del mondo industriale, delle leggi economiche, e delle esigenze e strategie della produzione e della promozione commerciale.
   E’ da sottolineare anche l’abilità con cui   l’autrice, una donna,  rappresenta la mentalità  prettamente maschile del protagonista,   un uomo di mezza età che  nell’opera parla in prima persona   rivelando, con sottili introspezioni,  tutte le sue caratteristiche e debolezze
  Il romanzo è infatti  un autentico diario, che ha  tutta l’immediatezza e l’autenticità della confessione.
  Il protagonista  stesso riconosce di essere vittima di una forma assurda di violenza contro le donne e si considera un essere spregevole, un pervertito. Sa di giocare con la vita altrui e cerca di giustificarsi davanti al tribunale della sua coscienza adducendo attenuanti e argomentazioni fallaci. Riconosce però anche di essere preda di una  sorta di follia masochistica , che lo porta a infliggersi ferite non fisiche che lo fanno soffrire.
 Anche questo rivela l’abilità di scandagliare tutte le pieghe dell’anima,  un’abilità di cui  la scrittrice aveva già dato  prova  nel precedente volume di racconti, Tacco Dodici, ispirato alla vita di ragazze si borgata, protagoniste di esperienze difficili ,vittime spesso di soprusi e violenze, alla ricerca di un riscatto e di un’affermazione  all’insegna della libertà soprattutto interiore, descritte in pagine che non cedono mai ad effetti drammatici o di sapore veristico ma sono improntate sempre a una sorvegliata misura.
  Il protagonista del romanzo Cesare Molinari,  dietro un’esistenza apparentemente appagata di ricco uomo d’affari , anche se non gli mancano le preoccupazioni finanziarie,   nasconde un rimorso che gli rode l’anima.
  La sua personalità è delineata nei suoi vari aspetti.  Ha degli interessi politici, che ci offrono lo spunto anche per parlare di un’altra caratteristica di questo libro, la rappresentazione acuta e precisa della realtà  storica e sociale contemporanea. La vicenda si svolge nel nord est d’Italia e descrive un movimento separatista che studia nuove strategie di lotta contro il potere centrale, auspicando  una maggiore autonomia della regione. attraverso la creazione di una repubblica indipendente guidata dalla Serenissima, della quale il protagonista,  che è in parte di origini venete, rievoca con legittimo orgoglio e  con mirabile sintesi,  meriti e pregi, anche se non ammette il concetto di razza veneta.
   E non manca un’abile descrizione di una società segreta, la Dama Blu,  chiamata così con evidente allusione alla Serenissima, ma  che fa pensare a quelle trame  occulte che tanta parte hanno avuto in alcune vicende storiche del recente passato.
 Con altrettanta profondità è descritta la società opulenta e in fondo marcia dei ricconi del  nord  che appaiono, nelle loro feste mondane,  un serraglio variegato e variopinto, una vera e propria fiera delle vanità. Proprio in questo fastoso e spregevole scenario matura il dramma di cui il romanzo descrive tutte le conseguenze, attraverso i segreti tormenti e rimorsi del protagonista, che, a differenza dal bel carceriere, aveva voluto possedere ad ogni costo con la forza  la donna amata  provocandole, nello stupro,  anche un trauma cranico e uno stato di coma. Si tratta di una giovane donna per la quale  prova una passione che egli stesso definisce sottile e perversa ma che è fonte, per lui, di un autentico dramma interiore  e che rivela una coscienza inquieta capace di analizzarsi con spietata lucidità
  Dietro le vicende umane con i loro risvolti storici e sociali  sempre acutamente individuati c’è infatti, nel romanzo, uno studio psicologico dei vari momenti vissuti dal protagonista, che passa dal disprezzo di sé all’angoscia e al sentimento di colpa.  Proprio questo gli fa continuamente pensare di essere come il carceriere dalla chiave macchiata di sangue. Il suo tormento interiore trova poi  il suo sbocco in un incontro con un frate  grazie al quale riesce finalmente a scoprire  in sé un uomo  nuovo capace di emergere dalle ceneri della distruzione  .
  La conoscenza col frate  avviene grazie a una donna, Ginevra, anche lei vittima di un passato di colpe e di trasgressioni che fanno pensare a quella gioventù bruciata così efficacemente descritta in Tacco dodici.  Anche Ginevra era uscita dal tunnel della droga grazie al frate, in un centro sociale di riabilitazione. 
    Ma nel romanzo è anche acutamente delineata la contrapposizione di abitudini e mentalità tra Nord e Sud, attraverso gli atteggiamenti razzisti dei separatisti veneti, ma anche attraverso la rappresentazione di un arguto personaggio, il cameriere napoletano Gennaro, espressione del sano buon senso popolare, dell’umorismo  e di quel calore e quell’umanità che caratterizzano l’anima partenopea. Napoli, con la sua forte carica di passionalità, ha una  grande valenza nella trama del romanzo; è a Napoli che il protagonista riscopre valori dimenticati, quelli della famiglia e della paternità e scopre la forza e il significato dell’amore per il prossimo.    
    L’industriale del nord e il popolano del sud si intendono perfettamente  in nome dei valori umani  di cui entrambi, sia pure in maniera diversa, avvertono il bisogno.
  Anche dal punto di vista caratteriale i personaggi sono dunque abilmente ed acutamente descritti, in un affresco umano vario e multiforme  dalle molteplici sfaccettature, come la vita stessa, in cui sono messi a fuoco i problemi, le contraddizioni e i dubbi del nostro tempo, con l’implicita denuncia dei falsi  miti., attraverso la descrizione dei loro effetti negativi. .
 Lo stile è incalzante, gli avvenimenti si susseguono concatenandosi tra loro con arte consumata. Il romanzo è in realtà un giallo,  che utilizza tutte le tecniche del  thriller  volte a tener desta l’attenzione e la curiosità . L’autrice sviluppa l’intreccio con particolari accortezze e con maturità espressiva, descrivendo ambienti e personaggi con efficacia e incisività, dimostrando come il giallo possa contenere anche l’introspezione psicologica, l’analisi sociologica e lo studio di carattere, ma soprattutto la segreta interiorità dell’uomo e la sua i intima istanza di redenzione. La particolare analisi dei fenomeni politici, economici  ed etici  e del malessere esistenziale del protagonista, consapevole delle sue colpe e della sua vita sregolata che non lo appaga,  dà  una particolare  profondità a una vicenda  in cui  l’autoanalisi si fonde con l’azione e in cui  l’eterno conflitto tra il bene e il male è reso in tutta la sua drammaticità.
   Il romanzo rappresenta dunque   il fatale conflitto tra individuo, colpa e società e le fallaci emozioni della droga e del vizio, che imprigionano l’uomo. Da qui il riferimento al carceriere e alla chiave liberatoria. C’è dunque il cammino dai falsi valori ai valori  genuini, indicato dalle due opere profondamente legate fra loro, Tacco 12 e Le Geôlier, che indicano entrambe la strada verso la fede e la speranza.
  Tutto questo è espresso con sicuro intuito psicologico, con sincero  impegno morale,  con una rappresentazione forte e stringente, con un’analisi a volte impietosa.
Economia, sociologia, psicologia e storia si fondono in una trama avvincente in cui, sotto le apparenze del giallo, è rappresentata tutta la  complessità  della condizione umana alla ricerca della salvezza.

mercoledì 18 gennaio 2017

Marzio Vittorio Barcellona, "La via del dragone" (Ed. Europa edizioni)

di Guglielmo Peralta

L'invito di Marzio Vittorio Barcellona a presentare il suo romanzo mi è giunto in un momento "felice" dal punto di vista creativo e di particolare distensione, avendo io, di recente, pubblicato un saggio di estetica, che mi ha così tanto impegnato mentalmente, fisicamente e spiritualmente che, una volta portato a compimento e pubblicato, mi sono sentito come un guerriero in riposo dopo la lunga lotta fatta con le armi della parola, della concentrazione, della riflessione e della meditazione. Una grande curiosità, inoltre, ha suscitato in me il titolo del romanzo: "La via del Dragone" che richiama in parte il titolo del mio saggio: "La via dello stupore". Ho pensato che l'incontro con quest'opera di Marzio non fosse casuale, che non fosse una pura coincidenza, ma piuttosto un invito a riprendere la mia ricerca, a rimettermi in cammino verso la fonte della meraviglia come se la mia "avventura" poetica non fosse terminata e io fossi chiamato ad accogliere la ricca e straordinaria esperienza di Massimo Adorni, il protagonista del romanzo, affinché, inebriato di bellezza, potessi scalare insieme con lui il ripido versante della montagna della Conoscenza e godere, dalla più alta vetta, di una maggiore elevazione spirituale.
                  Un mistero è nelle cose che, inaspettatamente, ci vengono incontro e ci esplodono dentro con    il loro carico d'inediti significati annunciando un'epifania, una serie di rivelazioni che ci portano a una riconsiderazione del nostro essere più profondo e della nostra vita. Un po' così è stato per me questo romanzo, questo Personaggio-Guerriero, portato dal destino e dal karma ad eccellere nelle arti marziali: nell'uso del corpo bene addestrato, dell'arco, dei bastoni, dei bokken, della spada, mediante un lungo faticoso esercizio, propedeutico, preliminare alla formazione e alla "durezza" di uno spirito combattivo, in lotta con sé stesso, in grado di educere, di trarre fuori il meglio di sé, di dotarsi dell'autocontrollo, di conformarsi alle regole dell'ottuplice sentiero dettate dal Buddha ai suoi discepoli: la retta visione, la retta intenzione, la retta parola, la retta azione, il retto modo di vivere, il retto sforzo, la retta presenza mentale, la retta concentrazione per il raggiungimento della perfetta conoscenza, del perfetto risveglio. Come questo Guerriero-Sognatore è il Poeta, il quale eccelle nella scelta delle parole illuminate dalla luce buona delle idee, delle figure retoriche, dei sogni, che nutrono la realtà e nei quali abita una verità che s'intrattiene con l'essere profondo, il quale pure attende di risvegliarsi. Come il Poeta è questo "Drago Luminoso", che della potenza e della calma fa le sue migliori virtù, le quali lo guideranno in un percorso di crescita e di conoscenza, in un viaggio difficile, pericoloso e personalissimo. La lotta, il sogno, l'armonia, la pace, la verità, la saggezza sono il suo "Do", e sono la  "Via" del Poeta. Ed è questa Via che giustifica il parallelismo tra il Poeta e il Dragone. Entrambi sono una "palestra mentale", dove la lotta con i "fantasmi" interiori - le idee/immagini che il Poeta cattura e trasferisce a fatica nelle parole; le illusioni, le ansie, le lusinghe, le tentazioni, di cui il Dragone deve liberare la mente - prepara, rispettivamente, all'evento dell'opera e all'azione orientata a modificare il karma per giungere alla catarsi, alla purificazione. Massimo è un poeta del sentimento che reagisce alle avversità e alla cattiveria facendo prevalere il lato umano, rendendo manifesto il suo ideale di bellezza. C'è poesia nel romanzo. E non la contraddice il nome dell'autore, che molta ne elargisce al lettore. Infatti, se, da un lato, a Marzio Vittorio si attaglia la locuzione "Nomen omen" in quanto i due nomi evocano un destino di lotte marziali tutte vittoriose, un destino che si concretizza in Massimo, alter ego dell'autore; dall'altro lato, la frase latina si carica del significato simbolico che il Guerriero assume con l'appellativo di "Dragone". Nella cultura orientale il Drago non è una figura negativa; è simbolo di saggezza, di perseveranza; è uno spirito-guida, un guerriero che protegge. Ma il simbolo, qui, deve farsi Via per la consapevolezza, per la realizzazione del sé, per il cambiamento; deve farsi carne, azione, vita, pienezza dell'essere, Verità, Conoscenza. Affinché ciò sia possibile, Massimo, il Guerriero, deve liberare la mente dai pensieri negativi, da ogni paura, dai legami terreni mediante le tecniche di rilassamento, di concentrazione, di meditazione, ma anche educando il corpo, temprandolo con la severa disciplina del karaTe-Do, delle mani nude, cui fin da piccolo lo ha istruito il nonno; una disciplina che - scrive il nostro autore - "imponeva considerazione per gli altri, protezione per i deboli, accettazione e rispetto per le leggi della società ed omaggio all'antico codice d'onore: il Bushi Do, la Via del Guerriero". Una mente libera corrisponde ad una maggiore pace interiore. Ancora adolescente Massimo amava passeggiare per il bosco, ascoltare la natura, percepirne l'armonia, la spiritualità; sedeva in meditazione sul "tappeto di aghi di pino" o "su di una roccia con la sola compagnia del suo cane". E così, con la mente libera, si abbandonava a contemplare la vastità dell'universo e a riceverne l'energia lasciando che il suo spirito si unisse all'Assoluto. La natura, dunque, è anch'essa protagonista del romanzo e da sempre ispira i poeti segnando con la sua bellezza la via, che sulle tracce del divino conduce allo stupore e al godimento estetico. Essa è presente fin dall'incipit e accompagna il nostro Personaggio nel corso della sua vita. È lo stesso amore che nutre Siddharta, fondamentale per il suo cammino verso l'illuminazione. Al pari di Siddharta, protagonista del bellissimo romanzo breve di Hermann Hesse, il viaggio di Massimo è una ricerca e un'iniziazione alla Bellezza e la natura è la sua prima maestra. Il suo contatto, infatti, è fonte di saggezza e ispirazione e lo aiuta a comprendere la Via, ad essere uomo, ad ascoltare col proprio Essere Interiore per sentirsi parte del Tutto, del creato. Per essere - per dirla con Rilke - "spazio interiore del mondo" e abitare il proprio essere. E qui non possiamo non ricordare la lezione di Heidegger, il quale attribuisce a ich bin (io sono) il significato di io abito, che trae da buan (abitare), l'antica radice di bauen (costruire). Essere, dunque, è abitare; ed è l'atto fondamentale per ordinare e organizzare al meglio la propria vita in armonia con l'ambiente, con il mondo, con tutti gli esseri senzienti. Un sentimento precoce, di delicatezza e bontà lega Massimo alla natura che percepisce dotata di anima. All'età di sei anni "aveva immaginato l'essere che viveva in ogni pianta come un essere senziente desideroso di cure, amore ed amicizia". Dunque, egli obbediva, senza averne consapevolezza, al primo dei cinque ordini morali della dottrina buddista, da seguire per risanare tutte le piaghe del mondo moderno, e l'ordine è di evitare di fare volontariamente del male a qualsiasi essere senziente.
       Tutto questo è poesia. Massimo cresce con quest'animo poetico, sensibile, ma la sua poesia deve fare i conti con la sofferenza fisica e psicologica e con il karma ereditato da una vita passata, la quale gli si rivela progressivamente in un sogno misterioso e ricorrente, che lo metterà in cammino alla ricerca della verità, per acquistare consapevolezza della propria colpa e del proprio destino, per rinascere, per rigenerarsi, per guarire e salvarsi. Scrive, a tale proposito, il nostro autore: "Ad ognuno di noi è dato, nella vita, di percorrere uno specifico cammino ed assolvere ad un preciso compito, verso il quale siamo indirizzati fin dalla fanciullezza (...) Certe volte smarriamo il cammino, traviati dal lato oscuro che è in ognuno di noi, così che la meta diventa difficile da raggiungere. Altre volte ancora, occorrono più esistenze anche solo per comprendere lo scopo del viaggio che siamo stati chiamati a compiere". C'è, in queste parole, il fulcro del romanzo e della dottrina del buddhismo. Tutta la vicenda del nostro Personaggio è incardinata sul mistero, il quale, mentre per gli occidentali è qualcosa che non appartiene alla loro vita, che non agisce direttamente sulla loro psiche, ma è solo una domanda senza risposta sul senso universale dell'esistenza, per i buddisti, invece, è il "lato oscuro" che è in loro; un tarlo che rode la mente; che abita e governa la vita di ogni individuo; fonte di malessere psicofisico, di preoccupazione, di ansia. È questo intimo mistero che muove Massimo alla ricerca della verità segreta; che fa di lui un MingLong, un "Drago Luminoso", pronto a rischiarare quell' "oscurità" che gli impedisce di abitare il proprio "essere" e diventare padrone della propria vita. A questo volge il cammino, alla comprensione, che sola può sciogliere il nodo karmico contratto nella vita precedente. Ed è questa vita che lo chiama, che gli chiede in sogno di riscattarla e di risvegliarsi.  
          Dal nome ci rendiamo conto che il Protagonista del romanzo è un italiano. E in Italia prende avvio ed è ambientata per buona parte la vicenda, che si sviluppa anche in Giappone, in Cina e in Corea. Sorprende che un tema del genere, intriso di cultura buddista e Zen, aderisca così bene al nostro Personaggio fino a occuparne l'anima e la mente, quasi egli fosse nativo di quelle terre e radicato nella dottrina e nella tradizione orientali. Siamo abituati a vedere agire samurai e Guerrieri- Dragoni in romanzi, quali, ad esempio, "Young Samurai - La via del Guerriero", di Chris Bradford;  in film ambientati in Giappone e aventi come protagonisti eroi locali, e a seguire storie del Buddha e d'iniziazione ascetica tipiche della cultura indiana. Perciò ci incuriosisce, almeno inizialmente, questo Guerriero italiano; nutriamo qualche perplessità sul fatto che la cultura orientale possa fare presa su una mentalità e su un'anima occidentale. Infatti, lo stesso autore dichiara che Massimo, il quale, oltre alle arti marziali, ha abbracciato la medicina orientale di cui pratica i sistemi terapeutici, all'inizio della seconda settimana di lezioni "si scontrava già con le peggiori tare della mentalità occidentale: la diffidenza, la pigrizia fisica e mentale, l'abulia, l'indifferenza, lo scetticismo, la critica continua verso gli altri, l'invidia, la smania di possesso e l'insicurezza economica; atteggiamenti inculcati, fin da bambini, dalle cattive dottrine della società del consumismo in cui viviamo". Inoltre, per quanto riguarda le arti marziali, Massimo si sentirà inadeguato a seguire una disciplina per la quale potrà essere criticato non solo dagli orientali, ma soprattutto dagli occidentali che non potranno mai capirlo e che - come dirà il Maestro Namikashi - lo considerano "uno stolto che ha sprecato la propria esistenza". Massimo è un puro "folle". Egli arriverà ad avvertire "la grande spiritualità" dei luoghi della natura e proverà amore "per tutto ciò che incontra, per le rocce, per gli alberi e le creature che in essi dimorano, per gli animali e perfino per gli uomini accecati dai propri bisogni". Il suo è un amore cosmico, francescano. E qui s'incontrano l'etica occidentale e quella orientale: segno che la religione del cuore non conosce confini ma abbraccia l'intero universo. Egli è simile a Parsifal alla ricerca del Graal: la sacra coppa, cui attingere la Conoscenza Suprema, la profonda consapevolezza di sé. E la ricerca è per lui il "Do", la Via del Dragone, riservata a pochissimi eletti come lui. Il suo Graal è il potere latente, il Ki, l'Energia interiore che imita l'Energia dell'Universo e armonizza la mente e il corpo.
        Rimasto orfano, all'età di tre anni, di entrambi i genitori, morti in un incidente d'auto dove egli è rimasto miracolosamente illeso, è stato educato dai nonni ai valori dello spirito, e crescendo ha mantenuto il candore dell'innocenza. Tuttavia, egli è figlio del nostro tempo, della civiltà tecnologica, di una società malata di potere, di fanatismo religioso, di bullismo, dedita al possesso e al consumismo, votata agli eccessi e alle trasgressioni, incurante di osservare quei cinque ordini morali della dottrina buddista cui egli era stato educato e che imponevano, oltre al rispetto e all'amore verso tutti gli esseri senzienti, di "annullare l'illusione del possesso, rispettando le proprietà altrui, ed essere disposti alla generosità, di evitare i comportamenti morbosi connessi ai desideri, quello sessuale prima di tutti, evitare di criticare gli altri, di esprimere giudizi negativi  controllando la parola scritta e pronunciata che può uccidere, può essere più tagliente di una lama, e, infine, alimentarsi in maniera sana, evitando alcol, sostanze inebrianti, tossiche, tabacco, droghe". Anche per un puro, come Massimo, non mancano, dunque, le tentazioni, il rischio della caduta nel vortice dei paradisi artificiali e delle seduzioni, anche tecnologiche, in cui la vita è diventata maestra alla cattiva scuola degli uomini, succubi e schiavi dei loro stessi marchingegni infernali.
        Nel suo viaggio non è solo. Gli è fedele compagno l'amico Yuici, giapponese, nipote del Maestro Nakata, dal quale Massimo apprende i primi rudimenti delle Arti Marziali. Successivamente frequenta la Scuola Tao Shu, dell'arte del combattimento, con la guida del Maestro Namikashi e impara a diventare forte allenando anche l'anima. Contemporaneamente alle lezioni di lotta segue gli studi di medicina orientale diventando esperto nelle tecniche di riflessologia, nello Shiatsu, nell'agopuntura, in omeopatia. Egli, dunque, oltre alla passione per le arti marziali nutre un grande interesse per la medicina non convenzionale, basata sui principi naturali, perché crede nella forza guaritrice della natura. A Massimo sta a cuore la guarigione, l'aiuto che può dare agli altri alleviando le sofferenze del corpo. Da buon guerriero della luce egli ricerca incessantemente l'amore di qualcuno. E l'amore si presenta nella figura di Caterina, sua compagna di liceo, che ritroverà dopo averla persa di vista e finirà per sposare dopo che ella si sarà separata dal marito, e con la quale avrà due figli. Tanti altri personaggi popolano questo romanzo, molti dei quali sono antagonisti, nemici e lottatori che il nostro Guerriero affronterà in occasioni diverse e in tornei uscendone sempre vittorioso.
        Non stiamo qui a svelare il finale, cui si arriva dopo una serie di sorprese e colpi di scena. Fin dal prologo, l'autore ci porta nel cuore della vicenda, a un antefatto che dà avvio alla narrazione, la quale procede "velatamente", con un'aria di mistero che è trasversale a tutto il romanzo, dove quell'evento passato diventa motivo dominante e racconto, nella forma del sogno, dentro il più vasto racconto della vita presente e reale di Massimo Adorni. Si tratta, lo abbiamo accennato all'inizio, della rivelazione di una vita precedente che getta Massimo nell'angoscia, lo turba profondamente presentandosi come qualcosa che si sottrae alla sua comprensione e che egli non desidera e non accetta. In quel sogno egli avverte qualcosa di familiare; intuisce che le visioni che lo agitano scaturiscono dal profondo della sua anima e, infine, ha la netta sensazione di essere stato chiamato per completare "qualcosa che era cominciato quattro secoli prima, in una vita passata". È chiaro che siamo in presenza di una reincarnazione, in linea con la dottrina filosofica del buddhismo e che la vita di Massimo, lungi dall'essere contingente, è necessariamente destinata e condizionata da un'esistenza precedente non esente dai processi del karma, per la cui risoluzione necessita una nuova vita. Massimo è il risvegliato - nel senso qui di essere rinato - che però deve acquistare consapevolezza del proprio compito, deve fare  luce dentro le tenebre in cui ha smarrito il contatto con sé stesso. E se «La Via della luce appare oscura» - come afferma l'antico filosofo cinese Laozi (o Lao Tse) -  egli deve agire e fare le sue scelte conformi al proprio modo di essere, perché - scrive Barcellona in epigrafe - «sono le azioni compiute e le scelte fatte, a fare un uomo». E di un uomo - aggiungo con Paulo Coelho - un "guerriero della luce", il quale deve avere «il coraggio di guardare le ombre della propria anima» sapendo che «l'Universo intero trama a favore di ciò che desideriamo».[1] Anche qui c'è poesia. D'altra parte, il "viaggio" di Massimo Adorni è la grande metafora della ricerca interiore, volta ad approdare alla Conoscenza suprema, a raggiungere e realizzare il benessere psicofisico, l'armonia tra la mente e il corpo legata ai ritmi naturali, a liberare dalla sofferenza e porre termine al samsāra, al ciclo delle rinascite, per risvegliarsi a una nuova condizione esistenziale che trascenda i confini dell'io e trovi pace  e compiutezza nel legame con gli altri e con l'universo. La Via del Dragone è la Via della Poesia, che mette d'accordo tutte le religioni e tutti gli ateismi e dà senso e valore alla vita. Ed è la grande Bellezza di quell'unico spazio interiore del mondo che lega interno ed esterno, che abbraccia tutti gli esseri senzienti e non senzienti e che - per dirla con Rilke - è anche la nostra interiorità, sì che possiamo percepire il volo degli uccelli dentro di noi e vedere crescere in noi l'albero che sta fuori. Nella bellezza c'è tutto lo stupore di cui dobbiamo riempirci la mente e gli occhi. Un tale ammaestramento troviamo già nelle prime pagine del libro, e sono parole che esaltano la natura, nella poesia del "sogno" che fa da prologo: "Non lasciare che la noia della fatica chiuda la tua mente alle meraviglie che incontriamo". Insomma, il romanzo, nonostante le sue quattrocento pagine, molte delle quali sono teatro di lotte di Karate, di combattimenti e duelli, anche violenti, con tanto di bokken, spada, pugnale, scorre con grande leggerezza arricchito da sontuose descrizioni di paesaggi che sembrano immersi in una luce magica, tanto sono idealizzati, spiritualizzati, animati. Gli alberi, soprattutto, sono figure emblematiche della vita naturale e hanno una funzione epifanica, il potere di suscitare in Massimo ricordi e riflessioni e d'invitarlo alla meditazione. Un solenne silenzio sovrasta e ammanta i luoghi e i personaggi di primo piano (Massimo, Yuici, Caterina, i Maestri Nakata e Namikashi) perché una segreta saggezza custodisce e ispira la natura e una voce interiore parla nei dialoghi.
          Marzio Vittorio Barcellona si rivela un maestro nel caratterizzare i suoi personaggi la cui descrizione si fa specchio della loro anima rivelandone la personalità, le inclinazioni, i turbamenti, la lotta interiore, le delusioni, le aspettative, le passioni, la generosità. Egli, inoltre, fornisce una ricca terminologia, relativa agli ambiti specifici delle discipline buddista e Zen, che consente un approccio linguistico, semantico e cognitivo a queste filosofie sollecitandone l'interesse e lo studio. E ancora, il romanzo ci riserva pagine che potrebbero costituire un manuale della salute fisica e mentale da promuovere e tutelare mediante la medicina non convenzionale, naturale. Barcellona ci "istruisce", ampiamente, sui sistemi terapeutici dell'omeopatia, che, come abbiamo visto, vengono insegnati e praticati da Massimo, il quale fonderà una nuova "Scuola di Medicina Orientale" insieme con i suoi amici e Caterina nel grande villaggio che accoglierà anche le abitazioni della sua famiglia, di quella di Yuici, del Maestro Namikashi e del Dottor Chang Zong Feng.
          Quando la vicenda sembra volgere alla fine lasciando prevedere il riposo del guerriero, il quale avverte "per la prima volta attorno a sé l'amore di una vera famiglia", l'autore ci riserva l'ultimo colpo di scena, che ci tiene in grande suspense, facendoci vivere quella spannung, quel momento di massima tensione, tipica dei migliori racconti di magia, cui segue lo scioglimento finale. E qui concludo senza nulla svelare per non togliere il piacere della lettura.


[1] Paulo Coelho, Manuale del guerriero della luce

Pier Giuseppe Accornero, "Pioniere" (ed. Paoline)

di Domenico Bonvegna

Ci sono tanti motivi per leggere un libro, tra questi c'è sicuramente quello di poter arricchire le proprie conoscenze, i propri studi. Ma leggere il “Pioniere. Leonardo Murialdo tra i giovani e mondo operaio, di Pier Giuseppe Accornero, edizioni Paoline (1992), non è solo questione di conoscenza, ma rappresenta un testo che può essere utile a chi opera nel sociale, nel campo educativo. Il testo sul grande santo torinese dà ottime risposte all'emergenza educativa che rimane, anche se lo ignoriamo, la questione delle questioni.
Accornero, sacerdote torinese presenta in soli 300 pagine la poliedrica figura di San Leonardo Murialdo, vissuto in pieno Ottocento nella capitale sabauda sotto il Regno di Sardegna, nella società borghese liberale e massonica.
Dalla tavola cronologica, il lettore percepisce la straordinarietà delle opere che il santo ha compiuto in tutta la sua vita. Fu un pioniere in moltissimi campi della religiosità popolare, della formazione dei giovani, della sociologia cristiana e questo per un sacerdote rappresenta la normalità. Ma Murialdo, fu anche un pioniere nel sociale: fu promotore dell'apostolato sociale, difensore della classe lavoratrice, animatore della stampa cattolica e fondatore di un istituto religioso, la congregazione di San Giuseppe.
Murialdo“è il più torinese, e anche il più moderno – per nascita, mentalità, temperamento, formazione e realizzazioni - fra i santi e i beati che nella prima capitale d'Italia hanno vissuto e lavorato”. Esiste una copiosa letteratura sui tanti sacerdoti, laici e vescovi che hanno ben operato in quel periodo a Torino. A questo proposito, il compianto monsignor Franco Peradotto, vicario episcopale e generale, e per una vita direttore de “La Voce del popolo” ha scritto che si può parlare di una vera e propria“santità torinese del secolo scorso”, una santità “contagiosa”.
Scrive Peradotto,“le provocazioni della santità torinese, a partire da quella dei preti, ma non solo quella, hanno sempre ispirato nuovi modelli. Basti pensare alla spiritualità del clero diocesano che ha avuto un indelebile punto di riferimento in don Giuseppe Cafasso; agli innumerevoli 'cottolengo' che accolgono malati, poveri diseredati, non solo in Italia ma anche in Europa e in altri continenti; agli oratori maschili e femminili che si rifanno a don Bosco; alle scuole professionali di matrice cattolica che si ispirano alle esperienze del Murialdo. Quella torinese è una santità non solo clericale ma anche laicale”.
Per monsignor Peradotto il motto paolino e poi cottolenghino: “Charitas Christi urget nos”, vale per tutti questi santi. Inoltre il vicario episcopale sottolinea la straordinaria e feconda attività che non nasce a tavolino, nei centri studi, o nei laboratori sociologici,“ma è la traduzione concreta dell'evangelico 'farsi prossimo', presentato da Gesù. Sono profondi osservatori e scrutatori della città. Creano supplenze e integrazioni. Provocano profeticamente, con gesti e scelte che soltanto chi ha Dio con sé, e ci crede, è capace di compiere”.
Questi santi secondo Peradotto,“camminano con i tempi e scuotono lentezze e ritardi. Sono riformatori sociali alla loro maniera: intuitivi più che programmatori. Guardano persone e cose come Cristo e vanno avanti. E' una santità per modelli, proponibile e credibile, perchè costruita sui fatti e non sulle parole, con un pragmatismo tutto torinese, fatto spesso di energia apostolica e di dolcezza evangelica”.
Non poteva essere descritta meglio questa vera scuola di santità, che ha visto tra i principali protagonisti giganti come Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco e Leonardo Murialdo.
In un ben documentato articolo apparso su Cristianità, ha trattato l'argomento anche il professore Massimo Introvigne,“Nasce e si sviluppa in Piemonte e nella Savoia una ricca cultura cattolica, un'autentica cultura della Contro-Rivoluzione, la cui storia, in gran parte, non è ancora stata scritta”. (M. Introvigne, San Murialdo (1828-1900), n.44, dicembre 1978, Cristianità). Una scuola che secondo il sociologo torinese si contrappone a quel filone rivoluzionario del Piemonte riformista ed eretico, giansenista e gallicano e successivamente a quella “scuola di Torino” che va da Gobetti a Gramsci”.
Padre Antonio Rosso, in uno studio accurato,“Piemonte santo”, conta non meno di 90 tra santi e beati, venerabili e servi di Dio. In questa schiera vi sono rappresentati tutti gli strati sociali della popolazione: due regine, un principe e una principessa; 12 laici di cui 4 coniugati, e tra questi laici il campione più affascinante e simpatico è Pier Giorgio Frassati. Seguono poi nei “super registri” del paradiso, cardinali, vescovi, parroci, religiosi e religiose. Inoltre, a questi bisogna aggiungere, un secondo elenco di uomini e donne di spicco per la loro pietà e per il loro apostolato sociale: si tratta di oltre 200 “santi” in gran parte laici e laiche.
Questa straordinaria ricchezza umana e cristiana, innervata di industriosità e di eroismo, l'ha capita al volo, e non poteva essere così, il grande Giovanni Paolo II. Infatti nelle due visite a Torino, papa Wojtyla, ha fatto esplicito riferimento all''anima di Torino”, alle dimensioni spirituali a misura d'uomo, aperta ai valori del bello, del bene, del vero”. Parlando ai torinesi, il papa si esprimeva: “Mi viene incontro l'anima cristiana, cattolica di Torino, di cui sono testimonianza la diffusione del messaggio evangelico nella città e nelle valli, la straordinaria fioritura delle abbazie medievali, la tradizione di un'ordinata vita parrocchiale”. E poi non poteva mancare il riferimento chiaro alla Torino che ha dato al mondo le figure come il Cottolengo, Cafasso, don Bosco, Murialdo, Maria Mazzarello.
Accornero sottolinea nel suo libro che nei nove discorsi che ha fatto il papa polacco, spesso ha citato Leonardo Murialdo per l'apporto che ha offerto nel campo della promozione umana, dell'educazione dei giovani, della difesa degli apprendisti, della valorizzazione del laicato, dell'impulso al movimento sociale dei cattolici italiani.
“Torino è stata all'avanguardia della formazione professionale della gioventù che è andata di pari passo con quella religiosa e morale[...]”. Giovanni Paolo II si lascia andare a una riflessione spontanea ma calzante:“Perchè tanti santi qui a Torino?” Che cosa significa questo ai nostri giorni? “Che cosa vuol dire la presenza di san Giovanni Bosco, san Giuseppe Cafasso, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, san Leonardo Murialdo e tutti gli altri santi e sante a Torino? Vuol dire una sola cosa: la divina chiamata alla conversione”. In pratica per Giovanni Paolo II questa esplosione di santità significava un riferimento efficace per una nuova evangelizzazione e un ulteriore arricchimento di santità.
Accornero nel testo racconta meticolosamente la straordinaria figura di san Murialdo, sottolineando, in particolare, la sua“scelta preferenziale per i poveri”, facendosi  povero, lui che proveniva da una famiglia borghese e ricca. Una scelta che peraltro hanno condiviso le altre figure esemplari contemporanee a lui.
Leonardo Murialdo, Giovanni Bosco, Giovanni Cocco, sono i tre grandi, “capofila di una rivoluzione che cantano fuori dal coro”, tutti e tre intuiscono, più degli altri, i problemi della città, della nuova realtà urbana, in particolare,“i drammi dei giovani, ai quali si dedicano anima e corpo, per favorire in loro una trasformazione da ragazzi abbandonati, discoli, dequalificati in lavoratori professionalmente attivi, capaci di inserirsi positivamente nel movimento dello sviluppo, in cittadini onesti e in bravi cristiani”. I problemi si ripetono. Attorno a loro gravitano decine di sacerdoti, collaboratori laici e benefattori.
Nasceva una nuova classe di sacerdoti che dimenticando la loro provenienza si sentivano affratellati nel comune lavoro di educazione popolare negli oratori o nelle opere congiunte come l'assistenza durante il lavoro, nelle malattie o nelle carceri.
A questo proposito don Pietro Stella, il maggior storico di don Bosco, osserva: “ la loro è una risposta civile e religiosa al tempo stessa. Con i loro oratori, i corsi di avviamento professionale, le scuole, i collegi, le tipografie, tutti e tre, seppure con personalità, sensibilità e stili spiccatamente diversi – si aggiudicano il titolo di 'benefattori della cultura popolare'”.
Continua.