venerdì 23 giugno 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Il fecondo e competente Autore nella Premessa, puntualizza come scrivere e pubblicare “un libro come questo è sempre un rischio e un azzardo” e più avanti, evidenziandone lo scopo, aggiunge: «L’obiettivo del testo è indicare ciò che è considerato inattuale e scorretto rispetto ai tempi che viviamo, propriamente per sottolineare la sempre permanente concezione di Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, intesi come segno e consapevolezza di Stile, per una risvegliata coscienza d’affinamento e qualificazione del soggetto, di Distinzione appunto, rispetto a tutto ciò che è, invece, conforme, standardizzato, massificato nel singolo e nel processo abbrutente informe come drammaticamente avviene nella società del nostro tempo». Dobbiamo riconoscere quanto non abbia torto e, allo stesso tempo, sappia cogliere quasi tutti gli aspetti antropologici e sociologici che osserviamo ogni giorno, rispetto ad una società che idealizza e strumentalizza sempre di più valori e concetti che, continuano invece ad adagiarla, per non dire a seppellirla, in una forma di narcotizzazione totale e generale.  
Sono cambiati i tempi o gli uomini? Verrebbe da chiedersi! La modesta conclusione sarebbe quella di affermare umilmente: tutti e due! Eppure pare strano e controverso come l’uomo moderno, quello del secolo Ventunesimo, che dimostra di aver raggiunto vette inspiegabili, abbia modificato profondamente il senso di giudizio, quello obiettivo di considerare ancora ciò che è valore, quello che è merito e quanto possa esistere di negativo dentro se stesso e nei confronti degli altri. Sembrerebbe che i parametri di giudizio e di raffronto siano scomparsi; annullati in un qualunquismo che viene paventato per uguaglianza che non si avvicina per niente al senso di fratellanza e dove tutto dovrebbe essere posto sopra una bilancia che pende inesorabilmente da una parte e verso l’altra senza alcuna ragione, senza nessuna motivazione o ponderazione interiore. Verrebbe da pensare che l’uomo in generale sia sottoposto ad una narcotizzazione costante che lo rende sopito, adagiato e demotivato a risvegliarsi da un sonno che, a lungo andare, potrebbe annientarlo.
Scrive Publio Ovidio Nasone – (43 a. C. -18ca d. C.) – poeta latino, letterato di successo nato a Sulmona (AQ): «Laudamus veteres, sed nostris utimur annis, / Mos tamen est aeque dignus uterque coli», lodiamo pure gli uomini del passato, ma viviamo ugualmente la vita dei nostri giorni; tanto i costumi antichi come quelli moderni sono ugualmente degni di rispetto ma non dobbiamo però dimenticarci degli insegnamenti che da questi ci provengono. In mezzo a tanti ammaestramenti avremmo bisogno di riscoprirne non solamente il valore ma anche saperne e discernere il reale merito, che il più delle volte sfugge, lasciando spazio sì a quelli nuovi ma se sappiamo crearne alcuni attuali, dovremmo rivalutare anche quelli trasmessici da un passato che invece cerchiamo di abbandonare come non fosse mai esistito o, peggio ancora, facendo del revisionismo inutile, che talvolta sembra più ispirato da preconcetti, demagogie o per paura di sembrare obsoleti. Il nostro stimato Autore si è posto sicuramente non soltanto questi interrogativi e li ha sviscerati, presentandoli con una chiarezza disarmante e, allo stesso tempo, cogliendone quegli aspetti che si vorrebbero far passare per superati; per non dire da cancellare dalla mente dell’uomo razionale e pensante.
Se “la dignità è di tutti e per tutti”, prosegue Tommaso Romano, dobbiamo inequivocabilmente «Tornare all’equilibrio e all’equità vera, alla sostanzialità del linguaggio, come ha insegnato Attilio Mordini, sono fonti necessarie per ristabilire e ridare qualità e organicità al corpo sociale, rivalutando, vivificandole, le naturali gerarchie dalla dimensione asfittica che viviamo, piuttosto che isterilire del tutto, in una prospettiva virtuosa di miglioramento, realmente aperta, facendoci uscire, se solo lo si decidesse, dall’uniforme e non divenendo pedine forse inconsapevoli, strumenti di “élite” oligarchiche e dirigiste che impongono e orientano gusti, opinioni, costumi, mode, oltre che l’economia, la politica e lo stesso diritto, in nome di una astratta e falsa libertà». Ci trova totalmente d’accordo, il carissimo Tommaso, senza essere eccessivamente retorici e tantomeno pedanti.
Il volume corposamente sostanziato nella parte del Florilegio, trova culmine e riscontro nel Saggio di Amadeo-Martin Rey y Cabieses. Avvalendosi della elevata forma stilistica ed espressiva che, da sempre, contraddistingue il nostro Autore siciliano, si completa nella elegante e suggestiva veste editoriale, in parte in bianco e nero, nell’altra a colori, dove fra diversi Enti e Associazioni che hanno concesso il Patrocinio Morale, figura anche il simbolo della nostra antica Accademia Collegio e un mio breve pensiero sull’argomento.

Vogliamo rassicurare il carissimo amico Tommaso Romano che il paventato rischio non solamente ha fatto perdere efficacia all’azzardo paventato, ma ha abbattuto tutti quegli assurdi preconcetti che, riuscendo a essere camuffati da attualità, rendono l’uomo dei nostri tempi sempre più schiavo di se stesso e di quel voler essere diverso, scadendo invece in qualunquismo che sembrerebbe più deleterio che produttore di progresso e cultura. Quindi, per terminare con parole semplici: ottimo lavoro! Ci auguriamo, ora, che possa contribuire a rifare l’uomo dei nostri tempi.

Nazzareno Brandini, "Commentario al libro per i Cavalieri del Tempio" (Ed. Cantagalli)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Questo testo, di qualche anno fa, si prende il giusto arbitrio di esaminare in modo fondamentale il Liber ad Miles Templi De Laude Novae Militiae (Libro per i Cavalieri del Tempio, Elogio della Nuova Cavalleria) di san Bernardo di Clairvaux e lo fa attingendo alle fonti storiche, ai testi letterari del tempo; presentandoci una esperta interpretazione che solamente l’Autore avrebbe saputo affrontare in modo preciso e con metodologia straordinariamente scientifica.
Per conoscenza diretta e per lunghi studi personali, possiamo affermare che abbiamo, ripetutamente, avuto l’opportunità di leggere ed esaminare una notevole quantità di testi inerenti all’argomento in oggetto e confermare che, alcuni, oltre ad essere ripetitivi ne hanno anche dato una interpretazione talvolta sommaria, inconcludente e tanto meno accessibile ad una razionalità moderna che domanda invece chiarezza e lungimiranza; qualità e caratteristiche che, il Brandini ha saputo non solamente cogliere e sviluppare in modo adeguato, ma offrendone la giusta dimensione che richiede un testo non sempre di facile lettura e tanto meno di oggettiva rielaborazione.
«Se l’intento di san Bernardo era quello di offrire alla Nuova Cavalleria cristiana il vero modello di nobilitazione dell’umana natura che è la Sequela Christi, vissuta nell’unificazione dello spirito monastico e cavalleresco nella propria interiorità, dobbiamo riconoscere che tale forma di vita e di realizzazione umana e spirituale appartiene ai beni più nobili e preziosi della Chiesa.
A tutti coloro che vivono lo spirito della vera Cavalleria cristiana sono affidati, ieri come oggi, la difesa e la tutela delle inestimabili ricchezze spirituali e culturali del popolo cristiano, come Bernardo di Chiaravalle ha cura di precisare nel capitolo terzo del Libro per i Cavalieri del Tempio: “Affinché i beni celesti non vengano affatto pregiudicati, ma garantiti dalla gloria temporale che circonda la città terrena, a condizione che in essa noi sappiamo riconoscere l’immagine di quella che nei cieli è la nostra madre” »; come ha fortemente evidenziato il Padre Abate dom Michael John (Christopher M.) Zielinski O.S.B. Oliv., offrendoci, in tal senso, un chiaro metodo di lettura di un testo risalente al secolo XII.
Presentare o recensire uno scritto non equivale a spiegarlo completamente ma dovrebbe servire a stimolarne una lettura, attraverso gli aspetti principali e profondi che, il critico ne sa cogliere, istillando nel lettore quella giusta e attenta curiosità che si chiama fame di sapere, voglia di approfondire, ma anche di assaporare le opinioni altrui per poi rielaborarle mettendole a confronto con le proprie. Dobbiamo dire che, Nazzareno Brandini, grazie alle sue particolari e precipue qualità ha saputo cogliere ed analizzare quegli aspetti che ci si attenderebbe da un volume come questo, proprio perché, lui stesso, si è calato nel contesto storico, nell’animo e nella mente del personaggio estensore; cogliendone tutto quello che non avevano fatto altri, seppur valenti scrittori, che hanno affrontato la genesi e lo sviluppo di un fenomeno culturale divenuto, al tempo stesso, antropologico e paradigmatico di un fenomeno che, allo stato attuale, viene giudicato sostanzialmente desueto, per non dire superato.
«Ciò che, con l’intento esortatorio del libro, viene prospettato da Bernardo di Chiaravalle, esula dalle descrizioni contenute, costituendo il risultato in termini di realizzazione umana e spirituale che può essere scritto esclusivamente con la propria vita e l’esemplarità delle proprie azioni. In tal senso il Libro per i Cavalieri del Tempio è stato concepito e ha tutte le caratteristiche di un percorso formativo e di iniziazione spirituale a livelli superiori di realizzazione di sé. – scrive l’Autore nell’Introduzione e prosegue – La formazione monastica e cavalleresca, concepita dall’Abate di Chiaravalle per la Nuova Cavalleria rappresentata dalla Milizia del Tempio, è sostanzialmente finalizzata all’emergere e al consolidarsi di una particolare configurazione della coscienza individuale, come realtà interiore capace di produrre nell’individuo quell’autonomia spirituale che lo porta ad incarnare invisibilmente nella propria vita quel principio superiore che ne è la fonte».
Ed è in questo fondamentale concetto che si denota quel deciso e radicale cambio di concezione che si aveva prima di san Bernardo e che andò allargandosi e diffondendosi nei tempi successivi. Se prima il movimento, o lo spirito della cavalleria, affondava le radici nel servizio, nell’eroicità delle gesta, nella conquista di uno status sociale, da ora in poi sarebbe dovuto diventare una vocazione e una forma mentis, totalmente spirituale, che se, unita al valore personale, alla valenza, all’abilità e alle qualità di ognuno, avrebbe dovuto permettere di vivere una dimensione completamente elevata e radicata totalmente in quel concetto che, il santo abate, esprimeva come personale vocazione, dalla quale “un vero e leale” cavaliere non avrebbe potuto prescindere.
Si apriva così una concettualizzazione nuova, innovativa che avrebbe dovuto sfociare in quel processo di civilizzazione e di sviluppo, umanistico e culturale, introducendo il “barbaro medievale” attraverso quel Rinascimento che avrebbe abbracciato tutte le energie ingegnose insite nell’esistenza dell’uomo, creato ad immagine divina.
È verso questa consapevolezza che l’Autore conduce il lettore e lo fa con quella sagacia e quella finezza culturale di uno che sa scavare profondamente nell’intimo umano e lo conduce, non solamente alla conoscenza di se stesso, ma realizzandosi e a rapportarsi giustamente con i propri simili.
Una lettura nuova, attuale, profonda, pregnante che permette di assaporare un testo tuttora quasi disatteso o letto in modo controverso, non sempre chiaro, mentre questo Autore ci riconduce nell’alveo di una concezione, seppur umanizzata, incanalandola verso una ontologia raziocinante e profondamente stimolante; senza fargli perdere quell’attrattiva che, ogni ognuno di noi, dovrebbe sempre ricercare.


mercoledì 21 giugno 2017

Anche Falcone seguiva l'indagine sui finanziamenti del Pcus ai partiti comunisti fratelli

di Domenico Bonvegna

Ogni anno in occasione dell'anniversario della “strage di Capaci” che comportò l'uccisione del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta, si assiste alle solite ripetitive ritualità, perlopiù monopolizzate dai professionisti dell'antimafia. Nel profluvio dei discorsi nessuno però ricorda tra i tanti commenti che,"tra la fine di maggio e i primi di giugno Falcone sarebbe dovuto venire a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’estero dei soldi del Pcus". Notizia riportata dallo stesso Il Corriere della Sera del 27 maggio 1992. E tanto meno questi professionisti dell'antimafia se ne guardano bene dall'accennare al recente documentato libro-inchiesta, “Il viaggio di Falcone a Mosca”, scritto da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov, con i contributi di Carlo Nordio e Maurizio Tortorella, edito da Mondadori nel 2015. Il testo tratta dell'inchiesta internazionale che Giovanni Falcone aveva iniziato a seguire sulle tracce dell'”Oro di Mosca”: rubli e dollari versati segretamente al Pci per un valore di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991.
Infatti, pochi giorni dopo Falcone sarebbe dovuto volare a Mosca per incontrare Valentin Stepankov. Questi era stato nominato l’anno prima, a poco più di quarant’anni, procuratore generale della neonata Repubblica russa, e aveva subito cominciato a indagare sui fondi che il Pcus aveva inviato all’estero. Qualche mese prima Stepankov era stato a Roma, dove aveva incontrato Falcone; ne erano nate una stima e un inizio di collaborazione, che appunto avrebbe dovuto proseguire con un viaggio di Falcone a Mosca in giugno. Ma quel viaggio non ci fu, e all’indomani dell’attentato Stepankov “disse che gli attentatori, tra l’altro, avevano raggiunto ‘l’obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca”. Francesco Bigazzi che è autore insieme a Valerio Riva, dell'”Oro da Mosca” (1999), con questa nuova pubblicazione ritorna su quegli avvenimenti, pubblicando una serie di colloqui con Stepankov e stralci delle inchieste che il procuratore svolse sugli autori del fallito golpe del 1991 che condusse alla fine dell’Urss, sulla misteriosa serie di suicidi che ne seguirono e sugli inquietanti risvolti finanziari della vicenda.
 Dalle carte emerge in primo luogo come i finanziamenti ai partiti fratelli fossero una parte integrante della politica sovietica, al punto che lo stesso Gorbaciov può tranquillamente dichiarare che “Le modalità e i meccanismi con cui si costituiva il Fondo di assistenza internazionale ai partiti e alle organizzazioni operaie e di sinistra mi sono ignoti. A mio parere, tutto si basava sulle informazioni degli esperti di questioni internazionali”.
Nel libro Stepankov racconta con precisione i fatti che riguardano l'inchiesta sulla trasmissione di denaro del Pcus ai partiti fratelli comunisti, e ai movimenti di sinistra stranieri, che avevano avuto inizio a partire dal 1922.
Stepankov racconta con precisione la sua collaborazione con il giudice Falcone, “Stepankov sarà sempre grato - scrive Bigazzi - al giudice Falcone, come ama chiamarlo, per essere stato il primo, e più convinto, magistrato occidentale deciso a collaborare con gli inquirenti dell'appena nata Federazione Russa”. In poco tempo il livello di fiducia arrivò al punto che per la prima volta nella storia dell'Urss,“la Procura generale osa violare gli archivi più segreti del mondo non solo per trovare materiale utile alle proprie inchieste[...]”, ma anche da“consegnare alla procura di un Paese che, fino al giorno prima, si trovava dall'altra parte della cortina di ferro”. C'era tanto materiale che Stepankov voleva affidare personalmente a Falcone, e che dopo la sua morte consegnò ai magistrati romani. Peraltro lo stesso Stepankov, per tenere vivo il ricordo del giudice Falcone, ha pubblicato, una parte cospicua del materiale raccolto, in due libri:“Il complotto del Cremlino” e “GKCP. 73 ore che hanno cambiato il mondo”. Questo materiale è di grande interesse, ha costituito la base per una corretta interpretazione“della complessa problematica legata all''oro di Mosca'. Un meccanismo intricato, dominato da intrighi e spie, Kgb e Pcus”, che Stepankov e i suoi colleghi riescono a sbrogliare. “Si può dire, senza esagerare,  che il giudice Falcone lo abbia aiutato a guardare con occhi diversi una questione che in Russia nessuno aveva mai osato affrontare”.
Del resto Bigazzi sottolinea come in nessun altro Paese al mondo era esistito un Partito comunista come quello dell'Urss.“Il Pcus era una struttura sovrastatale, viveva secondo le proprie leggi e non era sottoposto a nessun controllo dall'esterno, inoltre questa sua posizione eccezionale era ribadita nella Costituzione”. Era una condizione eccezionale e privilegiata, mai vista prima, e proprio per questo risiedono le cause di tutte le difficoltà dell'inchiesta. Naturalmente i capi e i funzionari del Pcus, non si piegano al pentimento o alle confessioni, anzi spesso negano di aver versato soldi del partito ai partiti fratelli.
Bigazzi ci tiene a precisare che “una delle caratteristiche più paradossali del Partito comunista sovietico era la sua irriducibile tendenza all'illegalità. Infatti, “Pur essendo 'dirigente e direttivo', detenendo ogni immaginabile e inimmaginabile diritto, il partito preferiva sbrigare i propri affari in gran segreto, e durante tutto il lungo periodo in cui governò incontrastato non uscì sostanzialmente mai allo scoperto. Peraltro, “Le diciture SEGRETO e SEGRETISSIMO precedevano la maggior parte della documentazione di partito”.
Naturalmente anche le finanze erano rigorosamente coperte dal segreto, soprattutto quelle riguardanti il conto n.1 della Vnesheconombank. Nella sezione internazionale del Comitato centrale del Pcus, erano pochi dipendenti a conoscere il conto secretato e quasi tutti i documenti che lo riguardavano erano scritti a mano, le dattilografe non potevano essere ammesse a segreti tanto importanti. E quelli che hanno ricevuto negli ultimi dieci anni un consistente aiuto materiale da parte del Fondo sono stati i partiti comunisti di Francia, Stati Uniti, Italia, Finlandia, Portogallo, Cile e Israele, mentre in quantità minore sono stati finanziati più di novanta partiti in tutti i continenti. “Mandate qualcuno a prendere il tabacco”, i sovietici, lo chiamavano così, con un linguaggio convenuto, il denaro per i partiti comunisti stranieri. Una somma complessiva affluita nelle casse dei partiti di oltre 200 milioni di dollari Usa.
Dopo la morte di Falcone, Valentin Stepankov consegnò ai giudici romani il dossier che riguardava tutte le malefatte dei dirigenti del Pcus e dell'Urss: Un quadro completo che interessa tutti i partiti comunisti del mondo. Una parte riguarda anche il Pci.
Secondo Bigazzi il Pci è senza dubbio il partito comunista occidentale che ha maggiormente beneficiato dell'”assistenza fraterna” del Pcus. “Eppure questi finanziamenti, che potremmo definire 'effettuati alla luce del sole', sono di gran lunga inferiori a quelli che il partito comunista italiano, tramite numerose società di comodo, per non parlare delle cooperative rosse, è riuscito a intascare attraverso operazioni ritenute illegali dagli inquirenti russi”. Nel libro vengono pubblicati documenti che spiegano con estrema chiarezza i meccanismi usati dai dirigenti comunisti italiani per alcune di queste operazioni.
A preoccupare sia Stepankov che Falcone era quell'”economia invisibile”, che avevano creato i vertici finanziari del Pcus, prima di implodere. Risulta chiaramente come alla vigilia della dissoluzione dell’Urss il flusso di denaro all’estero diventi un modo per costruire una via di scampo dai cambiamenti che si profilano. Occorre, recita infatti una nota del Comitato centrale del Pcus del 23 agosto 1990, classificata come “SEGRETISSIMO”, “preparare proposte circa la creazione di strutture economiche nuove, ‘intermediarie’ (fondazioni, associazioni, ecc.), che con un minimo di legami ‘visibili’ con il Comitato centrale del Pcus possano diventare centri di formazione di un’economia del partito ‘invisibile’”. Che cosa c’entra tutto questo con Falcone? Bigazzi lo dice con le parole di un articolo pubblicato il 5 giugno del 1992 nientemeno che da Repubblica: “I rubli che lasciavano l’Urss arrivavano anche alle cosche siciliane. Ecco perché, dicono, se ne interessava anche Falcone”. Ed ecco perché – stavolta è Giulio Andreotti intervistato da Bruno Vespa – “l’attentato a Falcone fu organizzato in modo così spettacolare che, né prima né dopo, la mafia da sola fece niente di simile”.
Il testo racconta dei 1746 suicidi eccellenti dei vertici dell'ex Pcus, registrate in soli 3 mesi.“La grande maggioranza dei suicidi riguarda personaggi che avevano avuto a che fare, ricoprendo talora posizioni di grandissimo rilievo, con quelle immense ricchezze del partito di cui si sono perse le tracce e che forse nessuno è mai riuscito davvero a quantificare”. Al primo posto ci sono gli ultimi due tesorieri del Pcus, Nikolaj Krucina e Georgij Pavlov, entrambi si gettarono nel vuoto dalla finestra di casa. A questo proposito è interessante la “Nota” con misure urgenti di Krucina, redatta a dieci mesi dalla caduta del Muro di Berlino. Come organizzare le attività commerciali del partito all'interno e all'estero. Società miste, concepite per far fuggire capitali dalla Russia e farli scomparire oltreconfine, le famose Joint-venture.“Una vera e propria bibbia dei fondi neri”.
In appendice al libro si trovano due contributi, uno del vicedirettore di Panorama, Maurizio Tortorella e l'altro di Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia. Il primo si sofferma sulla montagna di denaro spedita in quarant'anni al Pci fino al suo scioglimento. Si tratta di quasi 1000 miliardi di lire. L'Italia era una destinazione privilegiata del fondo del Pcus, pesava per il 55 per cento dei versamenti. Certo molti hanno negato di questi finanziamenti, ma Martelli, l'ex Guardasigilli in un convegno romano di presentazione del libro “Oro da Mosca”, conferma che Falcone era coinvolto nell'indagine tra Italia e Russia e peraltro secondo il quotidiano russo, “Novye Izvestia”, Falcone era stato invitato a coordinare le indagine dal presidente Francesco Cossiga in persona.
Il 6 giugno sul “Corriere della Sera”, si racconta che perfino le campagne dei comunisti italiani per i referendum sull'aborto e sul divorzio furono pagate dai sovietici.
Carlo Nordio nel suo contributo si occupa della cosiddetta “questione morale”, della cosiddetta “superiorità morale” del Pci, sopravvissuto a Tangentopoli. Secondo Nordio “i democristiani avrebbero avuto molti argomenti per rispedire al mittente le bizzarre argomentazioni della questione morale”, magari “per zittire i moralismi berlingueriani” .Gli ineffabili eredi di De Gasperi secondo Nordio, erano terrorizzati dalla scoperta di analoghi finanziamenti americani.
Concludo con una mia riflessione personale: la fine di Giovanni Falcone, per certi versi mi ricorda quella di Ippolito Nievo, il tesoriere dei garibaldini, che possedeva tutti i registri, i libri-paga della cosiddetta “Spedizione dei Mille” in Sicilia. Nievo era depositario nonché conoscente di numerosi fatti scomodi e segreti di cui era meglio non sapere. Quelle carte compromettenti per qualcuno non dovevano arrivare a Torino e all'estero. E' chiaro che nelle carte emergeva tra tanto altro, il coinvolgimento della spedizione garibaldina del governo Cavour e soprattutto dell'Inghilterra. Pertanto Nievo richiamato dal generale Acerbi, urgentemente a Torino, si imbarcò a Palermo sul piroscafo “Ercole”, che stranamente naufragò nelle acque di fronte alla Calabria. Certo la Storia non si ripete mai identica, ma talvolta qualche analogia si riscontra. 


martedì 20 giugno 2017

Guglielmo Peralta, "La via dello stupore" (Ed. Thule)

 di Franco Di Carlo


La vita e il pensiero del mistico si fondano non solo sulla "visione" estatica e catartica, sulla contemplazione profetica ed anche ascetica, ma anche sull'azione concreta, su atti e fatti reali che avvengono in tempi e spazi precisi della natura e della società: opere, dunque, comportamenti (e perciò di rilevanza etico-esistenziale), che accadono in luoghi e giorni determinati, inseribili ed inseriti nella quotidianità "activa" del vivere e dell'agire, individuale e sociale.                               L'afflato mistico-visionario che permea le pagine di questo intenso e vitalissimo saggio teorico-critico-filosofico di Guglielmo Peralta, fa sì che la sua anima di scrittore, teorico, poeta e di uomo, sia in continua tensione (metafisica e insieme "naturale") verso l' "Unione", e l'Unità l'Unificazione, l' "Identificazione" con l'Assoluto (della Bellezza e della Poesia), che non gli impedisce, però, di distaccarsi progressivamente dalla Conoscenza, sia sensibile sia razionale, caratteristica della Logica classica e canonica, aristotelica, perdendosi nel Tutto e nel Mistero, nel Mistero del Progetto e nel Progetto del Mistero: ma che lo fa restare fermo e saldo nella sua dimensione, certamente religiosa, dello stupito e sorprendente Cantore del Sogno - (della Poesia) - della Realtà, di quella che egli definisce SOALTÀ. Cantore, anche dantesco, della sua "Mirabile Visione". Il Sogno e la Poesia fanno parte di uno spazio espressivo integrale che è la Realtà e la Bellezza, nella loro totale interezza e Verità. Peralta dunque supera, per mezzo della carica analogica e dell'invenzione metaforica della Parola (poetica), l'eterno contrasto tra Vita e Sogno, non nella dialettica sintetica né nell'ossimoro permanente, ma in una dualità non dicotomica, priva di antinomie, che conduce, quindi, alla loro sostanziale equivalente speculare Unità.   
La Poesia e la Bellezza si collocano così al centro del discorso critico, teorico e filosofico-poetico di Peralta, in una dimensione integralmente "sacra", che è quella della meraviglia e dello Stupore, la stessa che sentirono i primi, frammentari, poeti pensatori dei primordi di fronte al Mondo Naturale e Umano, e al mistero della loro conoscenza: una dimensione, quindi, tra sogno e realtà, unica via da percorrere per giungere alla Contemplazione e alla Visione della Verità, il cui S-Guardo (divino e umano insieme), dà e genera forza est-etica alla vita, alle opere dell'uomo e all'Energia Creativa e Attiva. La Via dello Stupore è la via della Conoscenza e della scoperta della Verità, dell'Illusione e dell'utopico Principio-Speranza: la Via è quella leopardiana e di Hölderlin, del Pensiero Poetante: l'aristotelico principio di non-contraddizione è definitivamente demolito e superato in quello dell'Unione-Identificazione di Essere e Nulla, Sogno e Realtà, Poesia e Bellezza, Spirito e Materia, Umano e Divino. Esiste soltanto il Presente Infinito,Voce dell'Essere, Parola del Principio e Principio della Parola, Canto Iniziale della "Trasfigurazione" e del "Trasumanar" e della sua Organizzazione, della Verità e del Bene-Bellezza.                                                                                           La Soaltà, ci suggerisce Peralta, conduce e guida verso il Mondo attraverso la Voce, appunto sacra e illuminante, dell'Immaginazione e del Silenzio, fa Vedere Guardare e Ascoltare, chiamati dalla Parola Nuova, Rivelazione e Rap-present-azione (teatrale e scenica), epifanica, della Sublimità del Vero, del suo Spazio Sacro, est-etico: la sua Forma è ideale (non in senso platonico), Soale e ci fa scoprire le Forme e l'Essere delle Cose e della Realtà, la loro Luce e Origine, e non il loro effimero e fallace apparire. L'In-finito, per Peralta, rientra nella Realtà di una dimensione dello s-guardo ammirato e sorpreso, proprio dell'Immaginazione Creativa e dell'Atto Poetico di Conoscenza, come ci propone l'ultimo Heidegger, interprete di Hölderlin e Trakl. Al di là dell'interpretazione freudiana, Peralta ci indica una teoria del Sogno non vinto dalla Realtà (anche quella dell'Inconscio) e di una Realtà non trascesa dal Sogno, ma di un Sogno che dà vita e evidenza alla Realtà e la rap-presenta per mezzo del suo S-Guardo creativo, positivo e intuitivo, della SOALTÀ, fenomeno che conferisce Verità alla Realtà, le toglie le effimere apparenze umbratili, che divengono Realtà consistenti, e noetiche.
Ecco quindi che la "Sognagione" è la "piantagione" e la "stagione" dei sogni, il loro Spazio e il loro Tempo, Luogo e Idea dell'Infinito: la Divina Bellezza è il Tempo e il Luogo Archetipico della Parola Poetica, del Canto ideale e del Verbo Universale della Poesia, la sua Immagine "kalosferica". Il Poeta è il "traduttore" della Bellezza nella sua attività creativa ed espressiva, nella sua operazione di Stile, la Poesia come Azione e Atto anche pragmatico e concreto, non solo contemplativo e pieno di  am-mirazione e di "stupore", la cui "Via" (del "cuore") è scelta dalla "ragione che riflette con la luce della Bellezza": la ragione si trasforma in "ideale" ed è "reale", e viceversa, è insomma "soale", facendo venir meno ogni distinzione tra reale, ideale e razionale, e tra Io e Non-Io. Il sogno diviene così, per Peralta, "un'idea reale" e la Poesia è un Evento unico e assoluto, nutrito dall' "albero della visione", dallo s-guardo  che si fa sogno, idea, e produce la Parola della Poesia, la volontà e l'Azione dell' "inventio", la rappresentazione lucente della Bellezza del Creato. Bellezza Verità e Bene sono corrispondenti al senso e al sentire est-etico, conoscitivo ed espressivo.                
L'apparato lessicale e la scelta stilistica di carattere filosofico-poetico, sono ricchi, inventivi, intuitivi, creativi e innovativi, originali e singolari, ed esprimono un forte e variegato, intenso e limpido, profondo mondo interiore, poetico e di conoscenze, di sentimenti: la sua cultura e il suo cuore di poeta, di filosofo e di critico, sono sicuramente e assolutamente personalissimi, ma sono anche l'effetto delle sue vaste competenze e capacità di analisi, di sintesi, di invenzione: le sue parole sono "astroparole", parole-stelle, parole-pianeta e parole-cometa, e  perciò nuove, diverse, particolari: espressione, rispettivamente, di luce propria, riflessa, nuova. Ma le sue principali e fondamentali essenziali parole sono quelle "cometa", quelle che fanno ammirare e rappresentare una Luce Nuova. L'espressione, perciò, è varia e polivalente, spesso analogica e metaforica: ora concentrata e semplificata, asciutta, leggera, ora più complessa e pluristratificata, raziocinante (per analogismi), ora terrestre ora celeste e pura, lirica: una prosa, insomma, poetico-filosofica che fa pensare a Leopardi come "phare" preferenziale, ma anche ai grandi poeti-filosofi del Romanticismo, ai testi biblici, alla filosofia tomista, e al magnifico "La vita è sogno" di Calderòn de la Barca, per la compresenza di simbolismo astratto e concrezione realistica e del ruolo, primario e vincente, positivo, dell'Azione Umana rispetto al Destino.      
Le letture di Guglielmo Peralta sono, quindi, molteplici e di diversa origine e approfondimento ma, finalmente, si può affermare con certezza che la sua poetica e la sua opera sono e restano il frutto di una sensibilità fluida e creativa, assolutamente originale nel pur non vasto panorama storico-letterario della prosa-poetica, non solo italiana. L'analisi di Peralta, in realtà, è mossa e condotta e sempre accompagnata da quel "sentimento" o coinvolgimento e speculazione, che definirei "en-tusiasmo": Peralta, infatti, ricerca la Verità del Mistero, non solo nel potere del Sapere, ma anche e sopra tutto nel "nostro cielo interiore", dimora, abitazione, Regno (del Segreto) della trasfigurazione della Bellezza e della Poesia (e nel loro Sentiero, linguistico ed espressivo), dove e quando Dio è dentro di noi, nella nostra carne e nella nostra anima. Come per Hölderlin, la Poesia è quindi una "Vocazione", una "Chiamata Divina", una Luce, un Sogno, una Visione nella notte, nel tempo "sacrilego" della Tecnica e del Consumo, del camaleontico e aggressivo, oppressivo, omologante Potere del nuovo "TurboCapitalismo". La funzione della letteratura e della filosofia, in questa dispersa distrutta situazione, non può che essere, come ci suggerisce e fa capire Guglielmo Peralta, quella di ridurre e addirittura eliminare tutte le scorie e i residui, i frantumi della cronaca e della storia attraverso la via della Poesia e della Bellezza, un percorso non-mimetico né di rispecchiamento, ma di una nuova invenzione, una nuova e diversa creazione

lunedì 19 giugno 2017

Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei Cieli" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Giuseppe Bagnasco

Ed ecco trovarci ancora a leggere i pensieri di quell’Anacoreta occulto che ormai con animo ascetico guarda il disfacimento della società da quel luogo che nato come Eremo è diventato il suo Regno dei Cieli . Il poemetto, edizione all’Insegna dell’Ippogrifo, San Cipirello 2017, dopo l’ecclesiale introduzione di Salvatore Lo Bue, si apre al lettore d’impeto, nemmeno il tempo di una iniziale intitolazione, come verosimilmente accaduto, sgorgando quasi di getto dalle inesauribili vene filosofiche e pseudo razionali di quel Sovrano che risponde al nome di Tommaso Romano.
       L’Autore, districandosi tra i ricordi del Tempo dorato che fu e le odierne-antiche strade di Montevergini e Albergheria fino a quelle di Borgo e Serradifalco, finisce per  rifugiarsi quasi come un clandestino nel suo “Tempio” da dove, con volitiva e sofferta insularità, medita e dispensa con sorniona ironia, il suo dettato chiedendosi verso chi possa essere indirizzato quel flusso di pensiero veritativo che scaturisce imperterrito dal suo spirito liberante. E ironicamente, passo-passo esamina tutti i fallimenti registrati dal nostro Occidente nell’arco di duemila anni, siano essi appartenenti al dettato cristiano, a cominciare da quell’ Ama il prossimo tuo, a finire a quello laico-sociale dove le rivoluzioni storiche che dovevano affrancare l’uomo, sono alla fine approdate di fatto nelle mani di oligarchi senza bandiera i quali, incapaci di meritare onori ma pronti a chiedere miserie civettuole ,  servendosi di ipocrite parole quali democrazia e libertà, hanno dato spazio solo all’unico vero dio, il vero sovrano: il Denaro.
   Il Nostro, dentro il suo Regno dei Cieli, dove il plurale sta ad indicare tutte le sfaccettature del suo poliedrico pensiero, circondato e confortato laicamente da infinite rappresentazioni d’arte esistenti nel suo Regno-Museo, segno inequivocabile di distinzione, e dove comunque non fa difetto una Cappella di meditazione, curata con religiosa devozione, ecco dunque l’Anacoreta occulto trarre le sue amare  considerazioni conclusive ma non esaustive come un greco-filosofo  di  stampo platonico-hegeliano con cui l’Ammiraglio dalla sua Torre si identifica.
   Tra le tante osservazioni che il poemetto dispensa, Tommaso Romano sofferma il suo sguardo sulla relatività della cultura dell’Occidente cristiano chiedendosi cosa oggi ci consegna non il progresso, encomiabile nella misura del suo apporto all’umanità, ma il progressismo che avanza senza un limes. Un limes che apre le porte dell’Europa cristiana ai “barbari”che premono ai suoi confini. Assistiamo, giusto per richiamare un dato storico, alla seconda caduta dell’Impero Romano d’Occidente, solo che qui si tratta di tutto l’Occidente cristiano. Ed è in questa falla aperta che si infiltra l’ateismo e cerca di prendere piede l’Islamismo. Questa volta non un’invasione dal confine Reno-Danubiano ma dall’Africa islamica.
    Ne viene fuori un deserto abitato da avvoltoi senza Dio  dove il Verbo di Cristo si è sprecato senza che nemmeno fosse ascoltato, quasi una scelta obbligata  tra la Verità e il Vuoto. Un mondo dove oggi la parola civiltà  risuona  vuota e dove la primigenia “polis” si è smarrita nei bui vicoli ciechi al cui confronto i maltrattati “secoli bui” appaiono rifulgere di luce propria.  Unico appiglio per i pochi liberi viandanti l’avere tra i propri  il valore della distinzione. Una macchia oggi imperdonabile bollata dai massimalisti come eresia rispetto l’Egalitè o quell’egualitarismo strisciante, quello certamente eretico per il nichilismo che intrinsecamente racchiude, apportatore di un vento tanto subdolo quanto proditorio. Un vento che ha spento tutte le candele della saggezza, compresa quella della coscienza individuale fagocitata in quella  collettiva che il Durkheim fa nascere da una socializzazione meccanica e che perfino identificata con Dio. Si salva solo una candela. Ed è quella che il “sofologo” Romano mette, a ben proposito, sulla copertina del suo poemetto, opera dell’olandese Gerrit Dou, e posta emblematicamente tra una clessidra e un mappamondo (il tempo che passa e il mondo che scorre) a far luce su un libro che un anonimo astronomo consulta.
   E’ la rappresentazione plastica dello studio di un volume, probabilmente un testo sui “massimi sistemi” di Galileo, visto che il dipinto data 23 anni dopo la morte del grande artista-astronomo. E non sfugge al riguardo il fatto che l’eminente scienziato, davanti ai giudici del Tribunale della Santa Inquisizione, dovette abiurare i suoi studi sull’eliocentrismo, subendo  a distanza di 350 anni una parziale riparazione ad opera del papa polacco Giovanni Paolo II che annullerà formalmente il vergognoso processo visto che anche  il suo connazionale Copernico  circa un secolo prima del Galilei aveva formulato la medesima teoria. Ed è proprio la semiotica di quella candela, che in metafora esprime la luce della conoscenza, a dare  un secolo dopo il nome a quel movimento politico, sociale e filosofico a cui fu dato il nome di Illuminismo e al Settecento il Secolo dei lumi. Si può ascrivere a quel periodo il tempo in cui Cristo fu sfrattato dai Suoi altari. Sfratto ancora continuato fino ad oggi dai topi infetti, come li chiama l’Autore, che si adoperano per svuotare il significato del Suo Verbo presentandosi quali sedicenti rivelatori di verità occultate.
   Di fronte a tanta desolazione, il Cantore di Verità si ritrae in un silenzio ascetico consapevole che il tacere è la sola composta difesa da opporre.  Ma non l’ultima, giacchè di conserva c’è ancora un verbo da materializzare: resistere. Resistere quindi con paziente sopportazione forti soltanto di ciò che siamo e di ciò che noi sapremo essere e questo  per sopravvivere finchè possibile.
   Leggendo Nel mio Regno dei Cieli  non c’è bisogno di orpelli agiografici per identificarsi in questi pensieri veritativi. Questa del poeta-filosofo Tommaso Romano, signore del “ Muffoletto del Beato”, non è solo un’accorata denuncia ma una sorta di “grido di dolore” di sabauda memoria, che si leva contro l’eretica secolarizzazione della società e nella fattispecie contro quella TV- spazzatura, che penetra serpeggiando dentro la sacralità delle famiglie per apportarvi la cultura quantizzata del non-essere e del nulla. Egli pertanto si rivolge ai pochi appestati dalla fedeltà sempiterna perché si difendano dai coccodrilli ipocriti che coniano falsi concetti manipolando uomini a cui propinano favole sul nuovo concetto di felicità. Felicità raggiungibile con l’alienazione dell’anima e la vendita del corpo, per uomini che, secondo il Lo Bue, “ sono perduti senza perdizione nel vuoto regno del niente”.  Un niente, aggiungiamo noi, fatto di promesse non mantenute, di sogni ceduti all’oscuro viatico del materialismo, di momenti di vita sorretta da errori per compiacere l’Io adulatore, di pentimenti tardivi e mai veri. Un niente dove regna solo il silenzio fatto di nulla. Un vuoto assoluto senza luce né suoni e per i quali, aggiunge Romano, il Dio non solo non c’è mai stato ma neppure ha dato e creato.
    Il poemetto di appena 99 copie numerate, fatta salva la presentazione, si compone di dodici pagine, giusto dodici come il numero dei discepoli di Gesù, e si presenta a verso volutamente libero per consentirne la particolare struttura di rottura di ogni schema prefissato la cui articolazione appare come scomposta ma organicamente unitaria. Esso non contiene massime, non addita un codice comportamentale, né alcunché che possa richiamare il “Discorso della Montagna” con intenti etico-educativi, ma afferma negando, giacchè la negazione è l’affermazione dell’esistenza. In fondo è un elogio alla meditazione e un tentativo per svegliare gli animi, per riflettere come invertire una cultura di vita oggi quantizzata . Sostituire pertanto alla “massa” del corpo la ricerca dello spirito attraverso un viaggio interiorizzato alla riscoperta dell’anima, di quell’anima che è un credo di principi si da guidare il suo ritorno all’uomo. Solo così  l’uomo-individuo può impossessarsi nuovamente di sé stesso con una ritrovata coscienza che lo conduca verso una seconda via che lo allontani dal baratro del progressismo esasperato che con sempre nuove invenzioni vuole liberare l’uomo dalla sua natura e sostituirsi al Creatore. Negli intendimenti di Tommaso Romano, nello specifico dissacratore-costruttore, si può pertanto cogliere una speranza , quella speranza, mai tardiva e inutile, di restituire la parola all’uomo “meccanico” e all’intera famiglia del mondo cristiano attraverso il pensiero veritativo  della parola di un Maetre à penser, quale è Romano, che a buon diritto si annovera tra gli  umili servitori della Verità.         

da: "Il Settimanale di Bagheria", n. 745, 2 Luglio 2017

domenica 18 giugno 2017

Il misticismo dei matematici

di Fabrizio Cannone
ultimo libro di Francesco Agnoli è un testo così inattuale, da essere sempre attuale (cf. Il misticismo deimatematiciDa Pitagora al computer, Cantagalli, Siena, 2017, pp. 146, euro 12).
Quando Laura Boldrini ed Emma Bonino fanno le loro sparate femministe ed avverse alla famiglia tradizionale, di impostazione biblico-patriarcale… Quando i magnati dell’UE, non raramente membri di potentissime logge, vanno avanti nella logica dell’oscurantismo laicista, volendo sempre più imporre censura ai cristiani e al contempo offrire spazi pubblici agli islamici…
Quando si discute di pensiero unico e della profezia realizzata di George Orwell, e anziché cambiare strada, si vuol installare una doxa uguale per tutti, a base di pseudo-diritti LGBT, famiglie transgender, fecondazione artificiale, poligamia, droga libera e gratuita per tutti, diritto al suicidio di stato eccetera eccetera… Il nemico, seppur tacitato per ragioni di comodo, è sempre e anzitutto il cristianesimo, la sua storia, la sua dottrina, il suo nucleo intangibile di verità atemporali, e finanche i suoi simboli e le sue nobili radici.
E il fatto cristiano, in questi 17 pesantissimi anni del III millennio, come previde papa Woytjla, è stato ed è combattuto come nell’arcaico e oggi neo-dominante positivismo comtiano, sempre in nome della scienza (cfr. Auguste Compte, Catechismo positivista, 1852). Anzi della Scienza, pseudo-divinità adorata dagli uni e dagli altri, e soprattutto usata e abusata, quasi violentata per far prevalere una visione ideologica e artificiale della realtà, della politica e della cultura, sulle altre, specie su quelle più legate alla tradizione cristiana ed europea.
Il nostro studioso cattolico, nato a Bologna nel 1974, offre qui una sintesi degli studi che da due decenni lo hanno portato non solo a ristabilire la verità circa la non-incompatibilità tra (vera) fede e (autentica) scienza, tra ragione e religione, tra vero progresso e sano amore della tradizione (in tale ottica si veda il suo recente saggio Filosofiareligione e politica in Albert Einstein, ESD, 2016). Ma altresì offre degli schizzi efficacissimi sulla vita e il pensiero di alcuni immensi scienziati europei, specialmente versati nelle matematiche, per mostrare quanto costoro, non furono in nulla atei, laicisti alla Odifreddi o chiusi alla trascendenza e al divino.
Di più. Da Keplero a Cartesio, da Pascal a Leibniz, da Cantor a Gödel, i veri mostri sacri del numero furono dei credenti appassionati e appassionanti, e a volte dei quasi-mistici, e lo furono proprio in quanto matematici e profondi conoscitori della realtà fisica-materiale dell’universo.
I celebri Teoremi sull’incompletezza di Gödel, tanto per fare un esempio, saggiamente trattati da Agnoli (alle pagine 83-94) nella loro valenza matematico-metafisica, significano per l’appunto che esistono verità assolutamente certe, eppure empiricamente indimostrabili. La certezza che rubare o mentire sia male, e che amare il prossimo o difendere la patria sia bene, non solo non è dimostrabile ora, con gli strumenti che abbiamo al presente. Ma sarà certamente indimostrabile anche in futuro. L’etica infatti non si dimostra, né il valore e la bellezza dell’arte, della letteratura o dell’amore. L’uomo però, conosce di conoscere, e sa anche, paradossalmente, che la sua ragione ha dei limiti invalicabili. Non siamo Dio che sa tutto e tutto può dimostrare, e neppure la bestia che non sa nulla, e che non sa di non sapere… La nostra conoscenza, astrattiva e meta-empirica, ci insegna che non si può e non si deve dubitare di tutto, anche se di tutto sappiamo solo qualcosa.
Un tempo si asseriva come un dogma che la scienza avrebbe capito tutto, spiegato tutto e risolto tutto, e questo fu lo scientismo ottocentesco che tanto male fece alla scienza e alla civiltà umana come tale (con ricadute sull’eugenetica per esempio). Oggi si dice, al contrario, che di nulla possiamo essere certi, e che ogni conquista scientifica e conoscitiva sarebbe sempre parziale e revocabile, e si tratterebbe solo di proporre modelli… (Salvo imporli poi agli increduli). Ma allora a che giova la ricerca?
La via media, tipicamente aristotelica e tomista, fatta propria da Agnoli, ma anche consapevolmente o meno, da epistemologi realisti come Giovanni Reale (Cfr. Saggezza antica, Milano, 1995), mons. Antonio Livi (con Le leggi del pensiero, Roma, 2016) e in parte dallo stesso Popper, ammette l’esistenza della realtà e della sua conoscibilità, seppur in modo frammentario, lacunoso e a volte fallibile. Resta che di molte cose, ovvero virtualmente di tutte, possiamo e dobbiamo parlare, e perfino dobbiamo arrovellarci sui misteri dell’universo, di Dio e dei valori assiologici non commensurabili e non falsificabili.
Ma dobbiamo farlo in modo analogico e prudente, tenendo conto dei principi primi dell’essere e del realismo, altrimenti detti del senso comune.
Agnoli dimostra, proprio attraverso “il misticismo dei matematici” che la scienza non sta mai contro la tradizione, l’etica e la religione, e in tal senso Einstein ebbe ragione nel dichiarare che un tempo verrà in cui gli autentici scienziati saranno le persone più religiose del mondo. Poiché sapranno che al di là dei limiti della conoscenza e della non-conoscenza, esiste la certezza di un ordine trascendente, intuibile da tutti, esauribile da nessuno.
da: www.libertaepersona.org

Dio è meritocratico. L’ultimo libro di Gotti Tedeschi

E’ appena uscito l’ultimo libro di Ettore Gotti Tedeschi. Si tratta di un testo profondo, in cui il banchiere cattolico che Benedetto XVI chiamò a sistemare lo Ior, e che fu, proprio per questo, assassinato da mani “amiche”, unisce vita e dottrina, riflettendo sulla fede, la sua influenza sulla vita concreta e sui tempi attuali.
Riportiamo una paginetta quasi inziale:

sabato 17 giugno 2017

“Il grande Gatsby”: quando a mancare è semplicemente la vita

di Luca Fumagalli
Poche storie si appiccicano come vestiti infradiciati. Raramente il lettore chiude un bel romanzo con addosso la sensazione di sporco, come se quello che si è appena completato, più che un libro, sia stato in realtà una sorta di scandaloso viaggio nel proprio io.
Il grande Gatsby (1925) è così. Scritto da quel geniaccio americano di Francis Scott Fitzgerald, un cattolico dalla vita sfortunata, il racconto è diventato un classico della letteratura occidentale, emblema delle angosce collettive di un’umanità in rovina.
Long Island, estate del 1922. Nick Carraway giunge sulla costa orientale con lo scopo di far fortuna nel mondo della speculazione finanziaria. La sua vita, sino a quel momento priva di particolari scossoni, viene sconvolta dall’incontro con Jay Gatsby, l’eccentrico vicino di casa, un affascinante e ricco trentenne dal passato misterioso. Ogni sera Gatsby organizza presso la sua immensa dimora feste danzanti a base di alcol e jazz a cui partecipano decine e decine di invitati. È l’uomo più noto e chiacchierato della città. In breve tempo Nick diventa suo confidente e scopre così che l’amico, al di là delle apparenze, è profondamente infelice e porta nel cuore un pesante fardello: l’amore impossibile per una donna che non ha mai dimenticato. Nick cercherà in tutti i modi di aiutare Gatsby, ma il destino sembra avere in serbo per quest’ultimo un progetto molto diverso. Intorno a loro, nel frattempo, si dipanano le vicende sentimentali di sodali quali lo stolto e arrogante Tom Buchanan, sua moglie Daisy e la frivola golfista Jordan Baker.
Scott Fitzgerald confeziona un libretto agile, di poche pagine, ma tutt’altro che frivolo. La sintassi tesse delicati florilegi che giocano sovente sull’allusione. Più che descrivere direttamente, con schietta nudità, l’autore preferisce sfiorare i contorni degli oggetti, facendoli intravedere per sottrazione, dettagliando piuttosto quello che sta loro intorno. Nei capitoli compaiono assaggi di prosa robusta intervallati da variazioni moderne alla Ronald Firbank, riscontrabili soprattutto nell’aggettivazione opulenta e nei lunghi elenchi. Da Henry James è mutuata invece la tecnica di far raccontare la storia a Nick, il coprotagonista. Il punto di vista soggettivo toglie ogni sensazione di certezza e di onniscienza.
Il grande Gatsby, infarcito da Scott Fitzgerald di rimandi autobiografici, è una sorta di canto del cingo dell’epoca del jazz, anni felici in cui gli Stati Uniti divennero sinonimo di riscatto sociale, dove la vita pareva risolversi in risate e balli spensierati. Il sogno americano, iniziato con lo sbarco dei pellegrini del Mayflower, stava andando lentamente a inabissarsi, e all’orizzonte si potevano scorgere i segnali di declini e cadute (a parafrasare il titolo del primo romanzo di Evelyn Waugh, la cui poetica vanta parecchi punti di contatto con quella di Scott Fitzgerald). La crisi del ’29 in effetti annichilì nel giro di qualche mese quella fantasmagoria di cartapesta, tutta lustrini e coriandoli, e gettò sul freddo marciapiede esistenze che parevano destinante all’olimpo della gloria.
Ne Il grande Gatsby, allo stesso modo, la calura estiva delle prime pagine anticipa la pioggia battente dell’autunno nel finale, e il baccano della mondanità è solo il prologo di una storia di lacrime e solitudine. Gli anni ’20 si trasformano poco a poco nel correlativo oggettivo dell’anima di Scott Fitzgerald che, con il suo romanzo più famoso, consegna a chi legge una sorta di diario spirituale, un invito a sgombrare la mente dai tanti palliativi che la stordiscono – soldi, donne, potere ecc. – per tornare a guardare la realtà con il cuore gonfio di attesa, alla ricerca di quella meraviglia che sola può soddisfare l’uomo, di quel mistero adeguato a chi anela l’infinito. Dietro le facce sorridenti che sfilano lungo le strade della Grande Mela si cela il vuoto, il baratro della solitudine, vite spezzate dall’abiezione, in balia degli eventi e, soprattutto, incapaci di amare.

da: www.radiospada.org

giovedì 15 giugno 2017

L'autoritarismo del dittatore illuminato: Antonio Oliveira Salazar

di Domenico Bonvegna

Le poche informazioni che ho avuto su Antonio Oliveira Salazar risalgono agli anni della mia giovinezza. La figura dell'esponente politico portoghese mi ha sempre affascinato, purtroppo però non esiste una bibliografia adeguata in lingua italiana. Anzi sono pochissimi i testi che riguardano lo statista lusitano. Qualche anno fa, con i pochi elementi che avevo, ho tentato di presentare sui giornali dove collaboro, il politico portoghese. Oggi ho qualche elemento in più, addirittura un libro che ho appena finito di leggere. Si tratta di un interessante studio sulla storia contemporanea del Portogallo e di Salazar, scritto da Mircea Eliade, professore rumeno, tra i più importanti studiosi di storia delle religioni. Il titolo: “Salazar e la rivoluzione in Portogallo”, pubblicato dalle Edizioni Bietti di Milano (2013).
Salazar è una figura poco conosciuta, eppure ha governato il Portogallo per una quarantina d'anni. Dalla stragrande maggioranza dei critici, degli storici, viene liquidato come un dittatore clerico-fascista, che perlopiù ha imitato le varie dittature nazionalfasciste del Novecento. Invece la verità non è proprio questa, anche se certamente è stato un dittatore che ha sospeso i diritti democratici, tuttavia merita essere conosciuto e soprattutto studiato.
 Il curatore dell'opera, Horia Corneliu Cicortas, nell'appendice al libro di Eliade, scrive:“I lettori italiani hanno così l'opportunità di conoscere un'opera dedicata a un personaggio storico che, soprattutto (ma non solo) in un periodo come quello che stiamo attraversando, di crisi economico-finanziaria, smarrimento politico e incertezza internazionale, può rivelarsi ancora – mutatis mutandis – di una certa attualità”. Pertanto osservando il miserando quadro politico italiano sarei tentato di fare l'apologia del dittatore portoghese. Tra l'altro, lo studio di Eliade, scritto nel 1942, non mi sembra che abbia intenti celebrativi dello statista. Tuttavia come per ogni figura o esponente politico del passato, vale anche per Salazar, occorre sempre giudicare tenendo conto del momento storico in cui è vissuto. Nonostante tutto Salazar è un uomo del Novecento, il secolo delle “ideologie assassine”, come lo definì Robert Conquest.
Ripeto prima di emettere giudizi sul professore Antonio Oliveira Salazar, bisogna studiarlo attentamente. Al momento in Italia è stato pubblicato pochissimo materiale, in rete si trova poco, tutte le pubblicazioni sono in portoghese. Per chi è interessato, ho scoperto un sito internet, naturalmente in portoghese. (oliveirasalazar.org).
Mircea Eliade, visse in Portogallo, tra il 1941 e il 1945, in questo periodo ha dedicato un libro al dittatore. Si tratta di un saggio storico-critico, documentato e interessante, che ricostruisce l’intricata storia portoghese, specie a livelli socio-politico, praticamente dal ‘700 al ‘900, mostrando la peculiarità della cultura politica lusitana e restituendo, dopo anni di damnatio memoriae, la meritata fama ad uno dei più grandi politici cattolici del XX secolo.
E' un testo non solo per specialisti o appassionati della storia di una nazione tutto sommato “periferica”, ma di un libro che potrebbe dare qualche contributo in merito alla formazione politica del militante cattolico italiano di oggi.
Salazar nasce nel 1889, da una famiglia modesta, diventa seminarista per ben otto anni, studente di giurisprudenza e poi docente universitario di Economia, politica e finanza all'università di Coimbra. Una città che amerà sempre, dove“aveva trovato la geografia ideale per il suo spirito”. Qui Salazar da studente e da professore, amava “tutto il silenzio delle biblioteche e la solennità della Città Universitaria, le passeggiate solitarie, nei parchi e nelle valli, dove poteva continuare in stato di quiete le conversazioni con se stesso[...]”. In questa città medievale,“romantica e rivoluzionaria a un tempo, Salazar incontra l'impulso verso le cose che durano: la Chiesa, la gloria del Portogallo e le opere del pensiero. Chiamato a ricoprire prima il ministro delle Finanze, dopo quello del capo del Governo portoghese.“Tutte le informazioni biografiche a nostra disposizione – scrive Eliade - parlano d’un bambino modello, dotato di quelle virtù tanto più antipatiche quanto più precoci, come mitezza e temperanza – è il figlio ideale e l’amico esemplare” (p. 128). E tale resterà sempre: un esempio di integrità morale senza falla e senza infingimenti.
Salazar scelse di vivere come un monaco nel mondo, facendosi servitore di Dio e del suo popolo, senza demagogia e senza esibizionismi, tutto dedito alla causa della sua rivoluzione: una rivoluzione spirituale, e quindi, logicamente, anche politica.
Mircea Eliade fin dall’introduzione si pone la domanda: “E’ storicamente realizzabile una rivoluzione che abbia come protagonisti uomini che credono, anzitutto, nel primato dello spirituale?” (p. 11). Inoltre,“Come è stato possibile arrivare a una forma cristiana di totalitarismo, in cui lo Stato non confisca la vita di coloro che lo costituiscono ma fa sì che la persona umana (la persona – non l’individuo) conservi tutti i suoi diritti naturali?” (pp. 11-12). Sono proprie queste  fondamentali domande che hanno spinto Eliade ad occuparsi dello statista portoghese.
Per Salazar l'educazione e la formazione degli uomini sono troppo importanti per essere trascurate.“Era persuaso che il problema nazionale - come in Francia, Italia e Spagna – fosse una questione di educazione […] e che, di conseguenza, poco avrebbe contato il cambio dei governi o dei regimi, se non avessimo cercato, in primo luogo, di cambiare le persone. Avevamo bisogno di persone, dovevamo educarle”. La questione educativa della gioventù, è stato un tema sempre presente nell'uomo politico Salazar. Attraverso la volontà e la cultura, bisogna cambiare l'uomo. Si possono fare tutte le possibili riforme, ma prima di tutto è “l'essere umano a dover essere riplasmato. E questo è compito dell'educazione”.
Salazar crede nella possibilità di cambiare l'uomo attraverso una formazione laica, avviata in famiglia e portata a compimento dalla scuola.“L'uomo ha un'intelligenza, che va guidata dalla verità; ha una volontà, che va indirizzata al bene; ha uno scopo, che dev'essere vigoroso e sano...A poco serve la scienza, se non aiuta l'uomo a diventare migliore”. Sono dei principi universali di una straordinaria attualità. Salazar confida nella superiorità dei genitori nell'educazione dei figli e proprio dalla collaborazione tra genitori e insegnanti,“uscirà la patria di domani, il Portogallo che, spero in Dio, sarà più vigoroso e forte, intelligente e istruito, virtuoso e buono!”. Salazar era convinto che “con la sola politica non si possa trovare una soluzione ai grandi problemi che ci coinvolgono[...]  Persuaso che la soluzione si trovasse nel profondo d'ognuno di noi piuttosto che nel colore politico dei ministri”. Salazar nel 1921, partecipò per la prima volta ad una seduta parlamentare, e capì subito l'inutilità di questa istituzione politica,“l'irrimediabile precarietà del regime democratico-parlamentare”. Gli bastò un solo giorno per comprendere il processo di disgregazione del regime politico portoghese. Eliade descrive molto bene la situazione politica di quel tempo, del resto quasi metà del volume si dilunga sullo spettacolo degradante della politica portoghese:“I governi cadono ogni tre anni oppure ogni tre settimane, a stento se ne tiene il conto[...] dappertutto si possono scorgere i segni della decomposizione: la corruzione dei politici, gli abusi dei dirigenti, l'incidenza dell'amministrazione, la rovina economica e finanziaria del Paese, la degradazione della stampa, la sterilità della cultura. La gente non sa più a chi riporre la propria fiducia, le proprie speranze”. Sembra di descrivere la nostra società italiana.
In pratica dal 1911 al 1926 il Portogallo ha visto succedersi otto capi di Stato q quarantatré governi. Mentre dal 1926, fino al 42, un solo capo di Stato, il presidente Carmona e solo cinque esecutivi. Pochi Paesi possono vantare una simile stabilità.
Naturalmente questo stato di “salute” della società portoghese porta allo scoppio di colpi di Stato da parte dell'esercito, così si giunge al 28 maggio 1926, quando i generali si rivolgono al popolo portoghese, per liberarli da una minoranza corrotta e tirannica, che ha umiliato la nazione portoghese. Si forma un triunvirato e a sorpresa si nomina il Dr. Oliveira Salazar a ricoprire il ruolo di ministro delle finanze.
Successivamente il generale Carmona si impone come unico responsabile del governo del Paese, che si rivolge di nuovo a Salazar per risolvere la grave crisi economica del Portogallo, investendolo questa volta di pieni poteri. Intanto la dittatura militare negli ambienti politici europei non era ben vista. Si è pensato di aiutare economicamente il Portogallo, ma le condizioni economiche della Società delle Nazioni, limitavano troppo la sua sovranità, pertanto il governo preannuncia un programma governativo rivoluzionario, dove“ciascuno deve cercare di realizzare il possibile in casa propria,incominciando a mettere ordine nella propria vita e nella propria famiglia e sacrificando poco -un'ora di sonno, un giorno di vacanza, uno spettacolo, un pasto, eccetera”.
Salazar rinchiuso nel suo ufficio, si era preso l'impegno di riequilibrare il bilancio in un solo anno, un miracolo a cui difficilmente si poteva credere. Scrive Eliade:“La rivoluzione di Salazar era tanto più difficile da comprendere in quanto d'una sorprendente semplicità; questo perchè gli interessavano anzitutto le cose piccole e ben fatte”. Il dittatore era convinto di aver “combattuto per una politica del buon senso contro quei piani, talmente grandiosi e vasti, da farci disperdere tutta l'energia solo per ammirarli, senza più lasciarci la forza di realizzarli”. La cosa più urgente del momento era di risparmiare.“Non facciamoci illusioni. La riduzione dei servizi pubblici e delle spese porta con sé restrizioni alla vita privata e, di conseguenza, sofferenze”. Così chiede di essere lasciato in pace,“piegato su tabelle numeriche, sforzandosi giorno e notte di ridurre, equilibrare e risparmiare”. Non incontra nessuno,“si rifiuta di partecipare alle cerimonie ufficiali o ai banchetti diplomatici, ossessionato da un solo pensiero: il pareggio del bilancio. 'Stiamo chiacchierando troppo!' . Aveva detto due mesi fa ai lavoratori. Certo per un filosofo cattolico, che crede in quei valori, che più volte ha ribadito, nel primato della spiritualità e della forza creatrice dello spirito,“costretto a iniziare la propria rivoluzione raddrizzando il bilancio d'un Paese sull'orlo del baratro e risanandone a fatica le finanze. Eppure – scrive Eliade – anche con questa attività, apparentemente così terrena e materiale, mantiene la propria tecnica spirituale: l'equilibrio del bilancio non è solo l'impresa d'un esperto finanziario ma è allo stesso tempo l'opera d'un moralista, d'un filosofo e d'un praticante cristiano”.
Salazar ha fatto un “lavoro serio”, rispetto ai vari demagoghi e incompetenti che hanno distrutto il Portogallo. Il suo bilancio “non è il risultato di combinazioni artificiose”. Non si può continuare “con bilanci truccati e riforme fittizie”. Si dal primo momento è sincero con il popolo. Anche se è sgradevole, occorre mettere subito il Paese di fronte alla verità.“Le persone devono capire di trovarsi sull'orlo del precipizio: la salvezza può provenire solo da loro stesse, può essere perseguita con mezzi semplici[...]”. Salazar non sta creando niente di nuovo, ma a poco a poco si intravede il suo ruolo guida della nazione e di vero capo del regime nato dalla rivoluzione del 28 maggio. In un solo anno e mezzo, ha fatto solo tre discorsi, intanto, “il miracolo in cui nessuno credeva si è compiuto. Per la prima volta dal 1913, il bilancio del Portogallo non è più in passivo. Anzi, il budget del biennio 1928-1929 redatto da Salazar si conclude con un eccedente di 1.567.000 escudos, rispetto al deficit di 388.667.00”.
Ecco perché a proposito della crisi economica che attanagliava l'Europa negli anni 30 il grande storico delle civiltà e pensatore svizzero Gonzague de Reynold, poteva scrivere:“Il Portogallo, grazie alla dittatura del grande cristiano Salazar è il solo Stato del globo, il cui bilancio, si chiude, in questi ultimi anni, con un'eccedenza di entrate e con le tasse più leggere d'Europa” (Gonzague de Reynold, La casa Europa,D'Ettoris Editori, Crotone, 2015)
Ma Salazar non ha scelto di collaborare con la dittatura militare per ridurre soltanto il deficit, anche perché essa si sarebbe potuta mantenere con la forza per altre sei, dodici mesi, poi tutto sarebbe crollato. Il professore, il tecnico Salazar auspicava sopratutto una rivoluzione nazionale,“perché i deficit erano dovuti non soltanto a una detestabile amministrazione, ma anche a una falsa visione del mondo e della vita”. Certamente il risanamento del bilancio dello Stato era urgente, però per Salazar, non finiva lì:“a nulla sarebbe valso un pareggiamento se la gente avesse continuato a credere nei vecchi miti liberali di ricchezza, produzione, individuo, eccetera”.
Nel 1930 parlerà dei Principi fondamentali della rivoluzione politica. Tra essi, il cardine è la tutela della famiglia, la quale, contro l’individuo esaltato “dal liberalismo politico del XIX secolo”, è la vera “cellula sociale irriducibile, nucleo originario del villaggio, della città e quindi della nazione” (p. 223). “Vogliamo costruire lo Stato sociale e corporativo in stretta corrispondenza con la costituzione naturale della società. Le famiglie, i villaggi, le città e le corporazioni nella quali si trovano tutti i cittadini, con le loro libertà giuridiche fondamentali, sono organismi costitutivi della nazione e, in quanto tali, devono intervenire direttamente nella formazione dei corpi supremi dello Stato” (p. 223)
Secondo il dittatore,“solo un’autentica e fertile vita spirituale è in grado di garantire l’ordine politico, l’equilibrio sociale e il progresso economico”. Sono parole da meditare e da affiancare a queste non meno attuali: E’ la crisi morale, prima ancora di quella materiale, a rendere infelice il mondo” (pp. 229-230).
Salazar non ha timore di menzionare Dio e la fede in un discorso politico, “egli è un filosofo che crede in Dio”. Non aveva la vocazione del dittatore capace d'incitare e costringere le masse, non aveva la voce da tribuno, “era un professore emigrato nella politica”, non ha mai tradito la propria vocazione d'istruire, accudire ed educare gli altri. Non ha mai abdicato alla serietà e all'onestà dell'insegnante. Peraltro secondo Eliade,“le sue idee politiche non avevano nulla di straordinario; molte di esse erano già state formulate in passato, alcune applicate in altri Paesi”. Ha sempre anteposto a tutto i valori a cui credeva: Dio, il primato dello spirito, il Portogallo e la famiglia. Fu un dittatore senza volerlo per Eliade. Sempre con calma e fermezza, “Sapeva ciò che voleva e dove stava andando”. Secondo Eliade, Salazar, “Da cristiano, buon portoghese e professore, ha inteso edificare la rivoluzione nazionale sulle stesse fondamenta da cui era partito quando era stato chiamato a salvare il bilancio del paese: il primato della spiritualità cristiana, della tradizione latina lusitana”.
La nuova Costituzione portoghese del 1938, reca l'impronta dello spirito di Salazar, vi si trovano tutti i principi che avevano ispirato la dottrina sociale del cattolicesimo moderno. “Le fonti della nuova Costituzione portoghese sono l'enciclica Divini Redemptoris di Pio XI. La Carta del lavoro italiana ma, soprattutto, la Quadragesimo Anno del maggio 1931”. L'ispirazione cattolica non significa che Salazar ha costruito uno Stato confessionale, naturalmente mantiene la libertà nei confronti della Chiesa romano-cattolica. Del resto Salazar voleva mantenersi libero anche dai suoi vecchi compagni di lotta, che invitava a rinunciare all'organizzazione politica e partitica. “Non accetta di lasciarsi condurre da alcun dogma che non sia quello della nazione”. Cercava di mantenersi sempre al di sopra delle parti per non compromettere l'unità nazionale.
Nel momento in cui lo Stato non è più considerato una “totalità di individui”[...] i partiti non possono più sussistere e la lotta di classe si conclude”. Pertanto, “a fondamento dello Stato va la famiglia e solo chi sia capofamiglia gode di diritti politici; solo chi ha cura d'un focolare domestico è considerato capace di scegliere i rappresentanti nelle Camere Corporative o nell'Assemblea Nazionale”. Nell'organizzazione dello Stato, Salazar, attribuisce alla famiglia un'importanza determinante. E' l'apologia della famiglia, uno dei leitmotiv dei discorsi di Salazar.
La maggioranza dei portoghesi è con Salazar, anche perchè sono troppo evidenti le opere materiali e sociali. Ma questa maggioranza deve essere educata, convinta, deve essere trasformata moralmente. Dev'essere sradicata da quella mentalità democratico-liberale e principalmente massonica. Ecco che Salazar procede a mettere al bando nel 1935 la massoneria.
Concludo. Salazar visse nella semplicità e morì povero, conducendo un'esistenza fuori dal comune. Le sue ricchezze furono i suoi ideali. 
Amico intimo del cardinale arcivescovo di Lisbona (con cui visse da studente) e di suor Lucia di Fatima (la quale lo stimava molto), non ostentò mai la sua profonda religiosità, ma si servì della dottrina cattolica e delle massime del Vangelo per essere un buon servitore dei cittadini, specie dei poveri, dei semplici e dei marginali.

Insegna a tutti noi che è sempre possibile, malgrado l’odio e la potenza dei nemici, “la passione calma di compiere il proprio dovere, vivere verticalmente, accettare con serenità il proprio destino, senza chiedere ricompense” (p. 237)
A me sembra che“Salazar ha tentato di salvare il Portogallo attraverso una rivoluzione cristiana, vale a dire attraverso una rivoluzione che partisse dalle cose piccole e ben fatte – e ci è riuscito”.

mercoledì 7 giugno 2017

Prefazione di Salvatore Lo Bue al Volume di Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei Cieli" (Ed. All'insegna dell'Ippogrifo)

di  Salvatore Lo Bue

No, non è la terra desolata la terra del poemetto di Tommaso Romano. Aprile, in essa, non è il più crudele dei mesi, nessuno gioca a carte col destino né la morte trascorre vittoriosa tra i versi e le vite. Nessun Phlebas ha posto in questi incruenti, vuoti, adiposi giorni del primo decennio del nuovo millennio: il nulla si è riassorbito, non pretende una più o meno evidente origine: è, semplicemente, diventato niente, un niente da cui niente è e niente deve diventare.
Siamo diventati gli uomini vuoti, gli uomini impagliati cantati da Eliot, quelli “che poggiano l’un l’altro/ la testa piena di paglia”: tutte figure “senza forma”, tutti ombre “senza colore”, paralizzati dalla energia mai spesa, nei gesti privi di movimento.   
Gli uomini che non hanno occhi, che si svegliano soli, vivi “nell’altro regno della morte” che è l’anima senza sangue e il corpo senza spirito, perduti senza perdizione nel vuoto regno del niente.
E niente accade se non la vuota negazione in questa terra ormai più neanche desolata, perché anche la desolazione l’ha lasciata, e la tentazione stessa si è ritratta perché neanche degni di essere tentati sono gli uomini impagliati. Perché sempre “Tra l’idea/ e la realtà/ tra il gesto/ e l’atto/ cade l’Ombra. Tra la concezione/ e la creazione/ tra l’emozione/ e la responsione/ cade l’Ombra. Tra il desiderio/ e lo spasmo/ tra la potenza/ e l’esistenza/ tra l’essenza e la discendenza/ cade l’Ombra.”
Tommaso Romano punta il suo sguardo radicalmente nostalgico su questo nostro mondo nientificato. La sua nost-algìa è dolore del ritorno, rimpianto più che disincanto, desiderio di fuga più che viaggio. Il poeta sa, e ne rivela il dramma insipiente, che “è questo il modo in cui il mondo finisce/ non con uno schianto ma con un piagnisteo”, ma il piagnisteo evita, con una visione concreta, minimale, visibile del suo disagio originario. Orami il tempo è passato, a grandi passi si annuncia il tramonto e tutto si stempera nella piena consapevolezza della cenere che il tempo ha deposto, ma nella umiltà del poeta è compresa la sua fragile ma mai arresa denuncia dell’ideale perduto.

“Ora che il tempo
ti ha distaccato
da tutto
guardi e vivi quasi
da greco filosofo”
così fra strade
antiche e nuove
Montevergini, Albergheria,
Borgo e Serradifalco.
Ma quale greco e quale filosofo
volete che sia,
utile a voi, forse,
per incensare le vostre miserie
le pseudoscienze delle vostre frustrazioni
la “poesia” del vostro smarrimento
dell’incapacità a essere
se non la pagina in cui desiderate
onori immeritati
pagine di comparaggio
di miserie civettuole
sterco del maligno
che chiamate errore
e che amate trastullare
come un orpello bello
per la vostra miseria
infinita.
Sì, ha vinto il banale, “tutto ciò che ci incatena” prima dell’orizzonte, la speranze del mutamento, perché non è facile fondare “dentro di sé/ prima che in altri/ la libertà”. Ha perduto il cuore dell’uomo nell’universo mercificato, che contrabbanda democrazia e acquista tirannia, che ha rifiutato la tecnica, perché “tutto è relativo ormai/ e tutto è nulla annunciato/ nel deserto dei cuori”: Dio stesso è stato frantumato come l'antico Dioniso dalla specie titanica, perché sono tornati gli antichi Titani, i Giganti della montagna, i segreti Dominatori di una terra che hanno preteso senza vita e senza poesia. E che per primo hanno fatto fuori, perché unico ostacolo ai disegni del Male, il Salvatore, il Cristo dell’Amore, il Logos del principio, con la complicità dei mortali che adorano solo il denaro.

O Cristo,
sei venuto per nulla
profeta fra tanti
forse un po’ petulante
nella adagiata livellata consuetudine altrui.
O Cristo,
non t’immischiare
finché non ti sfrattano del tutto
per un minareto
o un teatro delle beffe
o un comizio
o per far prosperare topi infetti.
T’hanno sfrattato, infatti,
caro il mio Signore,
non conti nulla
- e forse è bene così -
non mischiarti
e lascia a pochi
e il sangue e il corpo,
pochi appestati
fedeli al sempre.

Così prende nuovo vigore, nel poemetto di Tommaso Romano, la profezia terribile della Leggenda del grande inquisitore di Fedor Dostoewskji. Se intollerabile è il peso della libertà (e Cristo è la Libertà) allora è necessario deporre il Messia ai piedi degli altari falsi e bugiardi, affidarlo alle cure di tutte le chiese perché possa essere anestetizzato, ridotto, umiliato, nuovamente deriso. Perché, in fondo, “Dio/ non solo non c’è mai stato/ ma neppure ha dato e creato/ men che meno nella rivoluzione/ di sé”; e nella trasmissione delle età, che cosa sono quelle antiche storie di salvezza se non “favole imbelli/ per bimbi di una volta/ con giglio e marsina”? E ogni pensiero libero è eresia, ogni libertà un oltraggio nella terra non più desolata abitata dal niente, perduta l’anima, dimenticata la legge, oltraggiato il cuore. Hanno vinto i Giganti della montagna, ha vinto il potere illuminista, l’idea di progresso ha perduto la strada dell’ideale, ha dimenticato il nome del cielo. Dai pontefici “nuovissimi” ai “nuovi potenti che odiano il genere umano” così sottilmente parlando per suo favore ma in verità spegnendo con cura la luce di ogni anima viva che resiste ma che prima o poi si spegnerà, tutto si perde, tutto diventa inutile, vacuo, disperante, mortale. Quale mondo ci attende ora che tutto come sempre continua, ora che niente si ferma e precipita nell’abisso orrendo dell’oblio? Perché niente vale, non c’è più futuro e niente vale la pena.

Non vale pena alcuna
la testimonianza
non si quantizza, non rende
strano il testimone isolato
cantore di Verità,
ma la verità non esiste
quando lo capirai veramente, siamo seri,
l’apocalisse è soltanto un testo letterario
pensa piuttosto a tesaurizzare
il resto si vedrà
se vuoi non perdere
il preziosissimo tempo passato a pensare,
dopo vedremo
non si può
favoleggiare
il futuro
dato che forse la morte
presto s’annullerà,
stiamo alacremente lavorando al fine
tutto s’allunga
non si sa per qual fato,
intanto, lavorare
per l’ingranaggio infallibile
non pensarti mai
lavora
produci sempre più,
la stanchezza non esiste
se non per gli eletti
gli unti del dio terreno massimo,

In questo mondo dominato dalla assenza del Logos e dalla potenza di una vuota Comunicazione che niente comunica e tutto decide e impone che cosa resta allora? Morire? Arrendersi? Resistere? Illudersi? Credere? Fuggire? La terra degli uomini vuoti è potente perché niente più della vuotezza concede spazi al Male. Ma al poeta che resta?
La Parola non muta, la bellezza è luce e verità. L’anima del poeta è già salva fin dal principio. Ma occorre un riparo, uno spazio in cui la Luce possa essere custodita, in cui la Vita appaia nello stesso tempo ma in tutti i tempi diversi che la con pongono.  
Occorre una stanza del cuore, che sappia reagire all’oltraggio di una società senza scopo, alla invidia degli uomini vuoti, dove attingere l’olio che alimenti la lampada del cuore, dove essere e ritrovarsi intatto come in principio, come quando la sorgente ha cominciato a scorrere e l’acqua della nostra anima era pura, trasparente, appena battezzata dalla speranza. Perché la salvezza è anche un luogo e il regno dei cieli possiamo costruircelo sulla terra, se racconta delle stelle fisse di tutta una vita, delle irrinunciabili essenze che governano ogni bene e la felicità.
Tommaso Romano ha costruito la Casa della Poesia, il suo piccolo regno dei cieli nella sua casa-studio-sacrario di Palermo.
Egli, il Des Esseintes senza disperazione e senza turbamento, traducendo perfettamente senza deviazioni ideologiche la poetica decadente, a saputo trasformare in poesia la sua vita, in arte il suo tempo, in casa la sua anima. Entrando nel tempio sacro della sua unicità, ha reso unico il suo transeunte presente in un presente senza tempo che sintetizza la storia come memoria esperita e mai perduta, che si rinnova in oggi oggetto, quadro, disegno, pittura, scultura che accorcia i tempi e sfiora l’eterno. Il miracolo di questa casa che è il regno dei cieli che ha saputo creare sulla terra d’esordio e d’attesa della sua vita è lo stesso miracolo di questo poemetto che sintetizza, come fosse già scritto da tempo e ora emerso, la storia di un’anima.
Non sono piccole cose, di certo non di pessimo gusto. Non vive Gozzano in questo spazio ideale, platonico, della casa del poeta. Vive l’Idea. Che l’Arte sia più della vita, oltre la vita, prima della vita, come l’Idea nella pianura della verità è eternamente “prima” della cosa in cui si incarna. Che la poesia possa essere una costruzione di memorie non solo trascritte su foglio, ma raccolte sulla strada del mondo, sul cammino a volte doloroso della memoria. Si, il tempo si è fermato dove ha preso dimora la Memoria. E presto il Viandante-Poesia la raggiungerà e abiteranno per sempre insieme, nella stanza miracolosa.
Qui, nel regno dei cieli di Tommaso Romano, “l’esilio delle cose ha una Patria, l'eletto spazio sacro perdona tutto ma non il banale. Qui il mondo si perde, gli uomini restano, per Dio è disposto un altare. Se la sua casa è il Tempio di Tommaso Romano, egli ne è l’altare maggiore, la luce del cero pasquale che non si spegne.
La casa del poeta, il suo regno dei cieli, è l’Unico composto, l’organismo della memoria e della vita vivente nei frammenti raccolti: oggetti-frammenti, kairòi pindarici, elementi di quell’intero dissipante che è il trascorrere delle acque del tempo qui fermate per sempre.
Ma tutto passa.
Ahi, misera passasti.
Nerina è la Vita. Il soffio. Il divenire travolgente. E come un sogno fu la tua vita... E come un sogno è la nostra vita. Così, alla fine il Grido... “Non bruciate le carte,/ non bruciate questo mosaico,/ non smembratelo,/ non disperdetelo/ è amato come perfezione possibile/ s’accresce come Graal d’anima mia/ ... Pietoso grido di chi sa che ha un destino di morte... Ma che di chi non sa che il regno dei cieli non muore mai. E il tuo regno dei cieli lo hai reso eterno, Tommaso, mio amico, in questa invocazione mistica, di cui “resteranno le parole”, perché questo “poemetto d’Ottobre, inattuale” è una al vento, al Vento che dove vuole spira, e ogni cosa che tocca eterna.