martedì 31 ottobre 2017

La chiesa di fronte all'”inutile strage” della guerra del 15-18.

di Domenico Bonvegna

L'”Ottobre rosso”, un Ottobre di sangue che non vale solo per la rivoluzione bolscevica, ma anche per quella ungherese del 1956, e poi soprattutto, per noi italiani, per la disfatta di Caporetto. La ricorrenza del centenario della “disfatta” di Caporetto del 24 ottobre 1917 nella 1 guerra mondiale, ha suscitato diverse manifestazioni e celebrazioni, ma anche molte riflessioni sui media. La letteratura sulla 1 guerra mondiale è abbastanza vasta, ma su un argomento si trova poco, mi riferisco alla posizione della Chiesa, della Santa Sede, nei confronti del conflitto mondiale.
In quel tempo essere cattolici più o meno militanti, ma soprattutto religiosi non era facile. Da un lato c'era la difesa della Patria, dell'Italia, dall'altro, c'erano gli Imperi centrali, l'Austria. Infine, c'era soprattutto il volto crudele della guerra da combattere, l”inutile strage”, come l'ha ben definita il Santo padre Benedetto XV. Governare la Chiesa non fu facile per il Papa e per i vescovi. Benedetto XV, fu abbastanza chiaro, emise direttive chiare, mantenere sempre una posizione neutrale, al di sopra delle parti.
Nell'approssimarsi del centenario di Caporetto, ho preso visione dei 3 volumi: “I Vescovi Veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918”, a cura del sacerdote Antonio Scottà, Edizioni di Storia e Letteratura, (Roma 1991). Complessivamente 1.507 pagine con diverse tavole illustrate. Si potrebbe obiettare che si tratta di un tema specifico, sostanzialmente di interessare per gli specialisti. Non è così, i vescovi veneti, proprio perché presenti sul territorio, furono diretti testimoni,“per 41 mesi di una delle più terribili guerre della storia”. Scrive nell'introduzione don Antonio Scottà:“La possibilità, quindi, di rivedere quella tragedia, sulla base di una documentazione immediata, viva, ha una notevole rilevanza storica, perché da nessun'altra fonte sinora conosciuta come quella che qui viene riprodotta si ha modo di comprendere che cosa abbia significato quella guerra per le popolazioni del Veneto”.
Don Scottà ha fatto un gran lavoro di ricerca, beneficiando dell'apertura nel 1985, degli Archivi Vaticani, ha pubblicato le numerose lettere tra i vescovi veneti e la Santa Sede, proprio nel periodo della guerra. L'antologia, copre un vuoto storiografico. L'opera del sacerdote veneto,“è di grande spessore storico e culturale”, scrive nella presentazione Gabriele De Rosa. Infatti per lo storico del movimento cattolico,“Queste lettere costituiscono, anzitutto,  una documentazione viva sulle vicende delle terre venete più esposte nella guerra: una documentazione di prima mano del ruolo primario, importantissimo svolto dal clero, dai parroci, dai cappellani, dai vescovi, in aiuto delle popolazioni[...]”. All'inizio della guerra il Veneto italiano copre 11 diocesi e risale più o meno al tempo della Repubblica di Venezia. In questa raccolta di missive occupa un posto primario, il vescovo di Padova, monsignor Luigi Pellizzo. In questo numero rilevante di lettere, il vescovo rivela una straordinaria conoscenza degli avvenimenti bellici e politici, e per l'influenza da lui esercitata sul clero e sui fedeli durante il conflitto, in una delle diocesi più vaste e più devastanti della guerra. In particolare sono utili dopo la disfatta di Caporetto,“sembrano quasi un 'reportage' giornalistico per la loro immediatezza e concretezza”. Ecco perché il Papa“era perfettamente informato sull'accadere tumultuoso e catastrofico degli avvenimenti, meglio e più tempestivamente dello stesso comando supremo italiano”. E proprio “in quel momento l'espressione “inutile strage” - scrive Scottà - era quanto di più realistico si poteva dire della guerra, perchè il continuarla comportava, per tutte le parti, un rischio maggiore che quello di finirla in qualsiasi modo”.
Le lettere di monsignor Pellizzo, occupano gran parte del 1° volume, nel 2° e 3°,  in ordine di pubblicazione, si prendono in esame le lettere di monsignor Pietro La Fontaine, vescovo di Venezia. Ferdinando Rodolfi, vescovo di Vicenza, Sante Bartolomeo Bacilieri, vescovo di Verona, Andrea Giacinto Longhi, vescovo di Treviso, monsignor Francesco Isola, vescovo di Concordia, Giosuè Cattarossi, vescovo di Feltre e Belluno. Poi monsignor Rodolfo Caroli, Eugenio Beccegato, Anastasio Rossi, vescovo di Udine. Infine Celestino Endrici, arcivescovo di Trento, dove era particolarmente difficile mantenere imparzialità e neutralità, e monsignor Francesco Borgia Sedej. Arcivescovo di Gorizia. Occorre precisare che la maggior parte di loro essendo vescovi di confine, operanti nel territorio dove si svolgeva il conflitto armato, si rivelavano patriottici e decisamente prudenti. Tranne monsignor Isola che fu accusato di austricantismo, per questo nel 1918, subì una violenta aggressione da parte dei soldati italiani, che spogliarono la curia di ogni cosa.
Praticamente“dalle lettere dei vescovi si ricava che la chiesa in Veneto abbia costituito una specie di struttura parallela a quella dello Stato, robusta ed efficiente tanto da assumere funzioni di supplenza sul piano amministrativo e in certa misura anche politico, nei momenti cruciali della guerra”. Non è una esagerazione, basta leggere le lettere, per constatare come il clero, ma anche i cattolici stessi, non possono essere tacciati di non avere il senso dello Stato.
Praticamente la guerra ha messo a nudo“la fragilità del sistema amministrativo italiano ed in particolare l'inadeguatezza dei pubblici funzionari, sia sotto il profilo tecnico e professionale che, sopratutto, sotto quello delle responsabilità civili e morali”. Sono notorie le gravi carenze di coordinamento fra gli enti locali ed il governo centrale; le divergenze fra il decisionismo dei militari e la lentezza del parlamento. A tutto questo Scottà aggiunge anche l'acuirsi delle differenze sociali a causa della guerra. Pare che nei momenti più gravi, “sia in occasione degli sgomberi delle popolazioni, che nell'imminenza del pericolo dell'invasione, la maggioranza ed in certi casi la totalità dei cittadini di condizione agiata e degli impiegati dello stato, come anche sindaci e consiglieri comunali, o non si curò affatto della popolazione o fuggì verso posti più sicuri, con la pretesa di dare a quella fuga un'attestazione di patriottismo”. Attenzione, la Chiesa cattolica,“con la sua capillare organizzazione locale e con la dedizione incondizionata del clero”,  è stata l'unica ad essere sempre presente sul territorio. “Il referente locale, rispetto all'autorità civile e militare, divenne il parroco od il vescovo”. Pertanto, è proprio a lui che “ci si rivolge per quelle esigenze organizzative attinenti alla protezione, alla sicurezza, all'assistenza, all'informazione e così via”. Non sono rari i casi in cui i parroci, nominati o costretti a fungere da commissari prefettizi, sia dai comandi militari italiani, sia da quelli austro-tedeschi durante l'anno di occupazione.
Sono i vescovi che fanno conoscere alle autorità militari le preoccupazioni delle popolazioni, sono essi che protestano per le insensate requisizioni e per gli atti di saccheggio e devastazione perpetrati dalle truppe sbandate dopo Caporetto, dimostrando, ancora una volta, di essere l'unica autorità pubblica affidabile. Sono sempre i vescovi che si sono impegnati nella salvaguardia delle opere e dei monumenti artistici e culturali, mettendo in salvo diverse opere e beni. Inoltre dalle lettere dei vescovi emerge un grande impegno della Chiesa nei confronti del dramma del profugato. Sia nello sgombero che nell'accoglienza, ci sono sempre gli uomini di Chiesa in prima fila. Forti sono le critiche dei vescovi nei confronti delle autorità sia militari che civili, per l'approssimazione e la disorganizzazione con cui attuano tali operazioni. A quanto sembra non è cambiato nulla ai nostri giorni.
Nonostante tutto questo impegno della Chiesa, ci sono sempre le accuse di disfattismo, di spionaggio, di collaborazione con il nemico o, vagamente, di austriacantismo. Certo la Chiesa, la Santa Sede, all'inizio del conflitto, assunse una posizione decisamente neutrale, ha raccomandato sia ai vescovi che ai parroci“la massima cautela e prudenza nel parlare in pubblico ed in privato delle questioni attinenti la vita politica e la guerra”.
Sono numerosi i casi di singoli preti, religiosi incriminati, mandati in esilio perché ritenuti anti patriottici. In materia di pubblica sicurezza ci sono provvedimenti straordinari con divieti di pubbliche riunioni, processioni civili e religiose. Il divieto anche di accompagnamento del viatico ed il trasporto funebre. La stampa censurata completamente. La diffusione di notizie durante la guerra, era attinenza soltanto del comando supremo militare.
Secondo Scottà,“vi sono documentazioni che attestano l'intenzione di colpire sistematicamente il clero”, sin dall'inizio della guerra,“pervengono alla Segreteria di Stato informazioni su una premeditata offensiva promossa dalla massoneria contro il clero ed in particolare contro i cappellani militari”. Esistono circolari ministeriali inviati ai comandi militari “sulla sorveglianza nei confronti del clero e dei religiosi per l'azione pacifista che,  a giudizio del governo e dei comandi, tendeva ad rallentare lo spirito di resistenza dei soldati e della popolazione; ma dietro a detta azione si intravedeva una strumentalizzazione politica del governo asburgico per le sue supposte aderenze presso la chiesa cattolica”.
Con il decreto Sacchi dell'inizio Ottobre 1917, vari sacerdoti vennero incriminati. Nei mesi susseguenti Caporetto,“si avverte chiaramente nelle lettere dei vescovi il montare di quella 'insidiosa e raffinata campagna di calunnie e di odio' orchestrata contro Benedetto XV ed in pari tempo l'inasprirsi della 'persecuzione' contro il clero ed i vescovi, allo scopo di 'coglierli in fallo, di diffamarli, di trascinarli in giudizio'”.
Ritornando a prima dell'inizio della sanguinosa guerra, il Papa si è sempre prodigato per non farla scoppiare. A meno di un mese dell'entrata in guerra dell'Italia, nell'intervista rilasciata da Benedetto XV al giornalista francese Louis Latapie, pubblicata sul giornale“Liberté”, ed il giorno dopo, 22 giugno, in Italia sul “Corriere della Sera”, il papa illustra le ragioni della neutralità della Santa Sede e di quella, vanamente auspicata, della stessa Italia. L'intervista secondo Scottà, per il papa rappresenta la“necessità di prendere le distanze dallo stato italiano e dissipare eventuali sospetti di collusione morale o politica; l'esigenza di trovare nell'attenzione dell'opinione pubblica europea un fattore di maggiore sicurezza; la possibilità di muoversi con una propria libertà d'iniziativa che l'imparzialità o neutralità legittimava”.
Anche se l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti dell'Impero Austro-Ungarico,  non era ostile, soprattutto sotto il pontificato di San Pio X, anzi non era un segreto che Papa Sarto nutriva simpatie nei confronti dell'Austria, che praticamente era rimasta l'unico grande Stato cattolico in Europa. Tuttavia,“Giacomo Della Chiesa – ovvero Benedetto XV – eredita dal suo predecessore una Santa Sede indiscutibilmente inclinata verso la pace e la più assoluta e doverosa imparzialità. Lo stesso non si poteva dire riguardo alla condotta di molti suoi membri, che palesemente si schieravano, con esasperato patriottismo e senso nazionalistico, a favore di un intervento italiano nel conflitto mondiale, per non parlare di veri e propri interventi di «guerriglia» da parte del clero di alcune nazioni in guerra”. (Caterina Ciriello, “Benedetto XV, la guerra e le posizioni dei vescovi italiani”, Anuario de Historia de la Iglesia, Vol.23 enero-diciembre 2014, Universidad de Navarra, Pamplona, Espana)
La Ciriello tra i religiosi che inneggiano al patriottismo ricorda padre Agostino Gemelli, allora medico e cappellano militare,“il quale manifestava in suoi diversi scritti la sua profonda indole patriottica e la sua inclinazione all’intervento italiano in guerra. Essa era tale da contraddire il suo sincero spirito francescano e da attirarsi le ire del p. Generale dell’Ordine, Serafino Cimino, il quale in una lettera molto confidenziale, lo rimproverò per un articolo da lui pubblicato il 25 agosto 1915, cioè pochissimi mesi dopo l’entrata in guerra italiana, facendogli presente non solo «la penosissima impressione fatta a molte persone di altissima autorità e rettissimo sentire», ma pure il suo personale sconcerto pregandolo in futuro di «essere molto più cauto nello scrivere ed anche nel parlare” (Ibidem)
Inoltre da ricordare,“Giovanni Semeria, barnabita, le cui prediche, più che di sapore evangelico, rigurgitavano di acceso nazionalismo con grande piacere dei politici italiani, ma con grave disappunto di Benedetto XV convinto del danno causato da Semeria alla politica neutralista della Santa Sede”.(Ibidem)
Il 4 agosto poi il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri, indirizza ai nunzi apostolici, una lettera dove si tutela la Santa Sede la propria identità spirituale e politica. In pratica,“l'imparzialità della Santa Sede, - scrive Scottà - è un'esigenza che scaturisce dall'essenza stessa del messaggio cristiano, incarnato nella figura di Gesù, principe della pace, salvatore degli uomini. A ciò si aggiunga la convinzione che la guerra non costituisse uno strumento valido per la risoluzione dei problemi degli stati e della comunità internazionale: non sul piano degli ordinamenti interni dei singoli paesi, non per la salvaguardia dei principi del diritto, non per le aspirazioni nazionali e neppure per le istanze sociali rivendicate dal nuovo protagonismo politico e civile delle masse operaie. Infine perché la guerra avrebbe prodotto solo danni incalcolabili, e fra questi anche l'illusione dell'eliminazione dell'avversario”.
Pertanto il Papa poteva dichiarare senza tema di smentita, essendo lui Padre comune a tutti, “una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti”, “uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da noi si potesse,[...] senza distinzione di nazionalità o di religione[...]”. Infine fare di tutto per affrettare la “fine di questa calamità”, per arrivare a “una pace giusta e duratura”.
La vigilanza della Santa Sede sui vescovi e sul clero e costante, già prima della guerra, e specialmente durante.“Mostra una certa tolleranza nei confronti di attestazioni patriottiche, ma insofferenza per espressioni o discorsi dai toni nazionalistici”.
Il 26 maggio 1915 la Segreteria di Stato inviava a tutti i vescovi delle direttive precise:“Allo scopo che tutti i Rev.mi Vescovi italiani seguano una stessa linea di condotta nella situazione creata dall’intervento dell’Italia nell’attuale conflitto, si indicano qui appresso alcune norme, alle quali i vescovi medesimi, nelle presenti difficili circostanze, avranno cura di uniformarsi: 1. Non devono pronunciarsi discorsi in occasione della partenza o dell’arrivo di truppe, dei funerali per i caduti in guerra o di simili avvenimenti e cerimonie pubbliche. 2. I Vescovi eviteranno in ogni eventualità di farsi iniziatori di pubbliche manifestazioni.
Per ciò, poi, che concerne l’esporre la bandiera nazionale, l’illuminare gli edifici
episcopali ecc... (nel caso che simili manifestazioni divenissero generali in tutta la città) non è loro vietato di farlo, ma si regoleranno secondo le circostanze, tenuto conto specialmente delle ubicazioni degli edifici stessi, i quali in alcune città trovansi molto in vista, in altre non lo sono. 3. Parimenti i Vescovi, ed in genere gli ecclesiastici non si faranno promotori di funerali per i caduti, di funzioni per rendimento di grazie ecc; ma se ne vengano richiesti, non si oppongano. Abbiano, tuttavia, presente che i Te Deum solenni debbono riservarsi per le vittorie decisive; come pure che a queste e simili funzioni non è opportuno che intervenga il vescovo, se può astenersene senza serio pericolo di gravi inconvenienti. 4. Quanto alla scelta della colletta pro=pace, che sinora è stata recitata, è l’altra Tempore belli, da alcuni ora proposta, è lasciato ai vescovi il determinarla per la rispettiva Diocesi”. Comunque sia, secondo lo storico Giampaolo Romanato,“è stato molto difficile per i vescovi e per la struttura ecclesiastica di base sottrarsi alle sirene nazionalistiche senza venir meno all'obbligo della solidarietà verso i combattenti, davanti alle continue richieste di benedizione delle truppe in partenza, di funerali solenni, che portavano a un coinvolgimento sempre maggiore della chiesa nel clima della guerra”.
Mentre per quanto riguarda l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti delle organizzazioni cattoliche, in particolare nei confronti dell'”Unione Popolare fra i cattolici italiani”, che si era fatta contagiare dall'interventismo e dalla “frenesia del maggio radioso”. A questo proposito, il Papa interviene personalmente, è categoricamente sconfessa la posizione dell'associazione. Non ci può essere nessuna approvazione della “guerra che il popolo non vuole ad ogni costo”.
Concludo utilizzando ancora il bel documentato studio su Benedetto XV, i vescovi e la guerra della studiosa Caterina Ciriello, della Pontificia Università Urbaniana di Roma.
“La crudezza dell’evento bellico cambiò molte vite, insinuò sospetti, spaccò in due le comunità, la società intera. L’intento del papa fu quello di limitare il più possibile i danni della guerra ed assicurare ai fedeli la maggiore assistenza possibile. Molti vescovi furono solo pastori impegnati a curare il proprio gregge mettendo da parte i sentimenti patriottici; altri furono malvisti per la loro ostinazione ed inflessibilità nella celebrazione delle esequie ai soldati morti in guerra, causando non pochi problemi alla Santa Sede. Benedetto xv ebbe a che fare con pastori spesso ingenui e con altri fin troppo scaltri; a tutti però, da autentico padre – come si può vedere annotato nelle numerose lettere inviate ai prelati – consigliava prudenza e saggezza, rinuncia e sacrificio per il bene del popolo, dell’Italia e della Chiesa specialmente[...]”.


venerdì 27 ottobre 2017

Maria Favarò, "Visione tra le ombre" (Ed. Thule)

di Ciro Spataro

Leggendo la raccolta “ VISIONE TRA LE OMBRE” di Maria Favarò ho subito compreso che per lei la poesia non è solo astrazione artistica, non è un momento passivo dell’esistenza, ma uno scavo psicologico, una ricerca continua in cui vediamo, poesia dopo poesia, come ogni parola è concreta ed al tempo stesso rivelatrice del pathos e della solitudine dell’io della poetessa. Maria Favarò si muove sicuramente sulle orme del filone della poesia postmontaliana e man mano che mi immergevo nel libro non ho potuto fare a meno di pensare alla lirica di Eugenio Montale “ Portami il girasole ch’io lo trapianti” e soprattutto i versi: “ tendono alla chiarità le cose oscure, si esauriscono i corpi in un fluire di tinte; queste in musiche. Svanire è dunque la ventura delle venture “. ( tratta da Ossi di Seppia).
L’originalità della raccolta di Maria Favarò sta proprio nel linguaggio asciutto, sintetico che mira all’essenziale. Quello che preme alla poetessa non è tanto l’effetto da raggiungere quanto la pregnanza di un significato per dire quel che ha dentro e comunicarlo, per manifestare uno stato d’animo certamente sofferto. Eppure c’è da ritenere, come dice Agostino d’Ippona, che la verità è dentro di noi, in interiore homine abitat veritas. È una poesia scevra di orpelli in cui conta soltanto l’essere e non l’apparire, basti pensare alla lirica” Diva” dove la prima donna ha soltanto la voglia di primeggiare, non comprende la vanità delle cose e la precarietà dell’esistenza: “la luce si affievolisce nella morte incombente, pallido sole, visione tra le ombre”.
Alla base di questa poesia c’è un vissuto di notevoli traumi a livello interiore in cui “ solitudini s’ infrangono”. Ma attenzione lo stesso pessimismo ha una caratura culturale e la lirica ” Lacrima” ne è un esempio meraviglioso: “ Impregnata dei tuoi umori scivoli, calda, salmastra sulle rughe della pelle. Cauterizzi nel dolore, segnando nel tempo, questo attimo già passato”.
Solo nel mare del silenzio si può sentire viva la verità che è in noi,  la Favarò lo afferma in modo deciso, e proprio nel silenzio ci si accorge del valore dell’amore come categoria essenziale della vita: “ Lascia che Eros ti riporti nel tuo ventre ad amore tornando”.
Nella lirica “Risurrezione” l’autrice vede consumare piano piano l’esistenza, ma invita a non autocommiserarsi, “in questo mio tramonto non piangere, lascio la vita nelle tue mani nell’attimo del suo fiorire”.
Appare evidente dalla raccolta come Maria Favarò nella sua poetica, senta l’antinomia vita morte e la fa sua sviluppandola in maniera davvero originale, perfettamente consapevole che “ inesorabile il tempo segna le strade”  ed è proprio per questa amara dimensione del tempo che Maria Favarò nella poesia “Identità” con versi bellissimi afferma come “ Vivendo sto già morendo”.
Il  lettore scorrendo il libro rimane colpito dalle liriche della Favarò, vive gli stati d’animo della poestessa che quasi disperatamente cerca una via che appaghi il suo essere e la sua umanità.
La conclusione è che bisogna aggrapparsi con forza alle illusioni perché ci aiutano sicuramente a vivere anche se spesso si corre il rischio che si trasformino in disillusioni, ma vale la pena di provare.
Diceva il grande scrittore americano Mark Twain: “ Non separarti dalle illusioni quando se ne saranno andate può darsi che tu ci sia ancora, ma avrai cessato di vivere”. Personalmente sono convinto che le piccole grandi illusioni ci fanno veramente vivere, sperare fino alla fine soprattutto quelle che ci fanno sognare ad occhi aperti tutti i giorni. Proprio come affermava Gaston Bachelard nella poetica della “reverie” . Il poeta è un sognatore di particolare sensibilità che crea giorno per giorno ad occhi aperti in quanto questa capacità immaginativa della “ reverie” anima il nostro futuro.

martedì 17 ottobre 2017

Silvio Giudice Grisafi, "Pensieri in cammino"

di Maria Elena Mignosi Picone

Nel presentare quest’opera di Silvio Giudice Grisafi, vorrei innanzi tutto prendere l’avvìo dalla considerazione del titolo, che non è soltanto “Pensieri” ma “Pensieri in cammino”. Per associazione di idee, il termine “Cammino” ci rinvia all’idea del progresso, e perciò della maturazione, dell’approfondimento, dei pensieri.
Avendo inoltre esaminato il percorso di studi del nostro scrittore, questo progresso lo riscontriamo anche lì. Infatti, egli, che ha compiuto moltissimi viaggi coi genitori per tutto il mondo, con un soggiorno anche in America, in un primo tempo rivolge l’interesse agli studi umanistici e si laurea in Lingue e Letterature straniere; in seguito avverte l’esigenza di riflettere sulle conoscenze acquisite nei viaggi, e sceglie allora una laurea proprio specifica della meditazione, la Filosofia. E qui notiamo l’allargamento degli interessi e l’approfondimento delle esperienze di vita. Vediamo anche qui un “Cammino”, un progresso. Una ascesi, potremmo dire.
Questo moto ascensionale lo possiamo rilevare anche a proposito di tanti altri argomenti che incontriamo nei suoi pensieri. E come la conoscenza si eleva a sapienza, conoscenza che non è la informazione o l’erudizione, aride e fredde, ma implica una affezione; ricordiamo che filosofia è amore della sapienza; così la sapienza a sua volta si eleva a saggezza. Perché c’è differenza. Si possono sapere tante cose, uno può essere un’arca di scienza, ma ciò non esclude che nella vita sia uno stolto. La saggezza è più della sapienza.
Ebbene è proprio la saggezza il nucleo di tutta l’opera. E’ la saggezza il fulcro attorno a cui ruotano tutti i pensieri, è il filo conduttore. Ed è proprio questa che dà unità a tutto il libro. E perciò tutti i pensieri di qui, che sono in numero di ben quattrocento, non suddivisi neanche per tematiche, e che quindi potrebbero apparire a prima vista dispersivi e senza nesso tra loro, invece non è così. Il legame è proprio la saggezza.
E ora andiamo al motivo ispiratore. Cosa può essere stato ad indurre Silvio Giudice Grisafi a scrivere questo libro? Con tutta probabilità, anzi quasi certezza, è qualcosa che fa scervellare un po’, chi più chi meno, tutti quanti, e cioè il senso della vita, il mistero dal quale siamo avvolti. Afferma: “..l’ansia del mistero ci spinge verso infiniti dubbi”. Perciò l’uomo si perde in un groviglio di ipotesi e di supposizioni: “L’uomo –dice- è un labirinto”; però aggiunge: “L’uomo è un labirinto… ma ricco di luce”.
E che cosa è la luce nell’uomo? Da buon filosofo risponde: “La ragione”. “Il labirinto della mente -scrive- può districarlo solo la ragione”, e ancora: “Bisogna accendere le luci della mente e dello spirito per scorgere le uscite al di là del labirinto”.
A questo punto osserva acutamente: “L’uomo ha la luce (minuscolo) se vede la Luce (maiuscolo)”. E aggiunge: “Lo splendore viene dalla luce, la luce viene dall’Eterno”. Allora di che luce si tratta? Com’è questa ragione? Certamente non può essere rivolta all’odio: “L’odio è qualcosa di veramente oscuro e micidiale”, “Tutte le guerre di questo mondo partono dalle follie che inaspettatamente diventano collettive”. Allora “Essere dei veri uomini significa assumere come compito il dettato della Ragione e condurlo nella letizia del fare nell’armonia dello Spirito con le azioni”. La ragione dunque non può essere che rivolta al bene, all’amore, che è il contrario dell’odio. Dice: “Se il saggio vuole agire lo farà solo a un fine di bene”, “Il saggio sa amare in ogni circostanza”, e conclude: “Saggezza e amore vanno di pari passo”. Il saggio poi non ha bisogno di parole, basta l’esempio: “L’esempio di uno stile di vita, sobrio e sincero, vale più di un trattato sul comportamento”. Inoltre lo scrittore si sofferma evidenziando nel saggio un elemento che lo caratterizza, che è il segno esteriore della sua amabilità. E cioè: “Al saggio appartiene il sorriso”. E continua: “Il sole è un astro che si rivela in quelle anime che spendono la vita sempre con un sorriso”. Tutto questo, che è amore, è secondo ragione. Noi siamo abituati a considerare il cuore e la ragione come due dimensioni contrapposte dove le ragioni del cuore si oppongono a quelle della ragione. Non è così. Infatti è ragionevole ciò che è amabile e viceversa: è amabile ciò che è ragionevole. Sono la stessa cosa. Altrimenti non si tratterebbe neanche di amore, sarebbe devastante e distruttivo. “Il mondo è stato creato per un misterioso volere divino che annuncia una concreta finalità di pace e di bene”.
 In questo contesto allora un ruolo fondamentale occupano le virtù che sono espressioni di bene, sono le varie sfaccettature dell’amore. Scrive: “Le virtù…essenziali valori nella realtà dell’uomo”. E’ la benevolenza in fondo che si sfaccetta in vario modo: l’ordine, la semplicità, la cura delle piccole cose, l’allegria, la laboriosità, e così via. “L’ordine è il biglietto da visita dell’identità dell’uomo, perché ne rivela la ragione”, “Senza ordine nella mente e nelle azioni non si costruisce nulla”; “Vivi lentamente e assapora ogni attimo, senza tralasciare le piccole cose”; “Si può tornare semplici sapendo che il mondo è complicato? Uno dei compiti della sapienza è ritrovare la semplicità”; “L’allegria è una componente che rinsalda il cuore”. E ancora l’amicizia, e su questa scia il dialogo, il pluralismo, il rispetto: “Tieni in considerazione l’amicizia come l’oro più prezioso che la vita possa offrirti in dono”; “Il saggio non ascolta solo per insegnare, ma anche per vivificare il sapere attraverso l’esercizio del dialogo”; “IL pluralismo delle idee è la ricchezza delle intelligenze a confronto”; “L’intelligenza sta nel rispettare l’altro, nell’attento ascolto delle sue ragioni che possono sempre contribuire alla crescita dell’animo”. E tutto questo è civiltà. Infatti “La civiltà consiste nel mettere a frutto le qualità superiori dell’uomo”, e ancora “La civiltà è l’espressione della cultura intelligente che rafforza l’essere a progredire”.
L’anelito al progresso, al miglioramento, ricorre spesso nei suoi pensieri e si fa sempre esortazione accorata, perché Silvio Giudice Grisafi non ammette pigrizia, rilassamento, approssimazione, anzi sprona a valorizzare le proprie risorse: “Se sai di possedere una qualità di valore, non tenertela per te; mettere il tuo talento al servizio del mondo, è un preciso dovere”. Sembra essere proprio questo il messaggio della sua opera, l’impronta che lascia nell’animo di chi legge i suoi pensieri. Egli afferma: “In ogni uomo vi è una pianta che continua a crescere, ma non tutti la dissetano e la nutrono”; infatti “Gli uomini a volte ignorano le stelle perché il loro sguardo è troppo ben piantato nel terreno”. E osserva amaramente: “ Il dramma dei nostri tempi è anche la mancanza di alti obiettivi da raggiungere”. Solo qualcuno aspira ad elevarsi e si rivolge verso l’alto cosicchè: “Il sublime affascina l’uomo”. Ma egli sprona tutti esprimendosi con queste belle parole: “Siamo luci che brillano per un attimo attraverso l’eternità cosmica e universale, ma quell’attimo è la nostra stessa esistenza…se non riusciamo a brillare , vivremo una vita invano”. E raccomanda: “Aziona lo spirito e… volerai”.
Dunque asserisce con piena convinzione: “La qualità della vita dipende dalle nostre decisioni”. “Tutti abbiamo un’anima, il libero arbitrio opera scelte e finalità esistenziali”. Perciò: “L’uomo non deve rimanere impassibile di fronte a certe situazioni, se agire può migliorarle”. E qui scende nella concretezza della vita quotidiana ma non escludendo neanche problemi di vasta portata, anche mondiali: “Tutti i problemi vanno via via risolti con l’ausilio della Ragione, altrimenti si rivelano nemici di sempre”. Ed ecco l’insistenza sulla ragione: ““Dove l’uomo faber lavora con misura seguendo la Ragione, lo spirito umano può fare miracoli”.
Ora il miglioramento, cui spinge il nostro scrittore, nel quale miglioramento, con grande apertura mentale, egli vuole coinvolgere tutta l’umanità perché, come asserisce: “Noi siamo un popolo, nel Globo: il popolo degli Umani”, comincia da se stessi, dal singolo: “Salva te stesso e salverai il mondo”. E tutto comincia dalla conoscenza di se stessi. E qui balza con piena evidenza l’animo del filosofo che si riallaccia al famoso motto del grande Socrate: (in greco) “Gnoti sè autòn”, che significa: “Conosci te stesso”. Sembrano riecheggiare le sue parole. Anche questo non è da tutti: “Vi sono persone che non cercano se stesse perché sono ancora troppo giovani. Altre perché già troppo vecchie. Vi sono quelli che non hanno interesse per se stessi, fondamentalmente non sanno ancora di esistere. Altri, invece, che non lo fanno più perché si sono trovati”. E per trovare se stessi indica una via che riecheggia questa volta un altro grande,della letteratura, della filosofia e della teologia, Sant’Agostino: “Cerca Dio e troverai te stesso”. Infatti il nostro scrittore sostiene: “La congiunzione dell’uomo con Dio è il sacro ritrovamento del Sé”. E conclude: “Non sottovalutare la saggezza: ella accompagna il cammino del pensiero nell’ottica di una speranza e di una salvezza”. E prorompe: “La saggezza è la vera salvezza”.
E saggezza inoltre è pace perché proviene da una decisione di bene, ne scaturisce come un frutto: “Se tutti ragionassimo davvero con la logica positiva della Ragione, non vi sarebbero più guerre”. E ancora: “La Pace è una dea che distende gli animi, alimentandosi dei pensieri elevati degli uomini”. E costata: “Il mondo ha sempre più bisogno di pace e …luce”.
La salvezza può provenire anche da un’altra fonte, l’arte, nella quale è inclusa la poesia. Scrive al proposito: “La poesia è il segno di un pensiero estetico che si libra nel divenire di un incanto”; “Ogni poesia è un appunto sulla bellezza nell’itinerario estetico del vivere umano. Il punto dove ritroviamo il cammino verso la vera salvezza”. Arte che , osserviamo noi, non è in contrasto con la filosofia, tant’è vero che si può essere filosofi e nel contempo letterati, come lo testimonia proprio lui, che è anche poeta e romanziere. Ha scritto una silloge poetica “Piccole dimore” e due opere di narrativa: “Romanzo americano” e “La storia di Jack”. E il punto d’incontro tra filosofia e letteratura è proprio la ragione. Scrive: “La fantasia è una componente istintiva della ragione”. Un fattore poi che accomuna filosofo e letterato è la predilezione per il silenzio. “Il silenzio è una delle virtù del filosofo attento”, e nello stesso tempo: “Il silenzio è l’azzurro sfondo della creatività”, “…in esso è lo spazio infinito della mente”.
Se in queste definizioni di poesia fa capolino sempre il filosofo, nei pensieri però si avverte anche l’animo poetico del nostro autore. E lo rivela nel gusto del silenzio, che già abbiamo visto, ma anche nell’assaporamento della solitudine, costruttiva evidentemente; ancora nella ammirazione della bellezza, del Creato, e infine ancora nel senso dell’infinito e dell’eterno. Osserva infatti: “I poeti hanno più voci delle persone comuni, perché la poesia rispecchia il mondo degli uomini nei misteri espressi delle loro solitudini”; ancora: “Fruire della bellezza con stupore sincero, denota una sensibilità d’animo che si trova sicuramente nei poeti”. In particolare la bellezza della natura: “Osservare le fronde degli alberi stando sdraiati sotto è uno dei massimi piaceri estetici della vita”; “Osservare la bellezza del Creato è rendere onore al Creatore”; ancora: “Tra luci ed ombre emergono sensazioni di infinito”, “L’eternità è discreta, soffia all’orecchio come un sussurro che si disperde nell’aria e ricorda l’infinito”.
Tanti suoi pensieri inoltre sono poesia, raggiungono la poeticità, come ad esempio: “Quando la neve imbianca i pendii delle colline, sotto si conserva la vita per rigenerarsi a primavera”, e altrove: “Ogni primavera è un nuovo Paradiso attraverso il sole Dio infonde la sua luce”, e infine: “L’amore ha il volto di un sussurro nella leggerezza della eternità”.
Abbiamo visto i punti di contatto tra filosofo e letterato ma ci sono anche evidentemente le divergenze. E’ lui stesso che le mette in rilievo: “Il reale incombe sempre sui sogni dell’artista mentre il filosofo osserva e pondera ogni cosa” poi “Mentre l’arte è universale l’estetica del linguaggio della filosofia è un’estetica per gli addetti ai lavori”.
A questo punto è bene soffermarci sullo stile di questi pensieri , che non è da filosofo, con linguaggio per competenti in materia, ma da letterato, accessibile a tutti. Uno stile colto ma senza ricercatezze; semplice, chiaro, colloquiale; è il linguaggio dell’esistenza. E qui vorrei mettere in risalto un aspetto della personalità di Silvio, Giudice Grisafi, che trapela attraverso le pagine di questo libro, e cioè la figura dell’educatore. Si percepisce la trasparenza cristallina delle sue intenzioni che altro non sono che quelle della promozione della crescita sia umana che intellettiva, di chi legge, come se avesse davanti una scolaresca. Questo trapela in sottofondo. Fa pensare quasi a un novello don Bosco. E per questo è necessario un requisito che sta a fondamento per un educatore, la dirittura intellettuale e morale, che egli dimostra di ben possedere. Tanti pensieri sono formulati alla maniera di consigli: “Se sai di non sapere taci e ascolta”; “Se imbocchi un sentiero dritto e felice, non lasciarlo, se pensi di deviarlo, tradiresti senza dubbio te stesso”.
Ora infine concludiamo con una immagine che mi suscita l’opera e l’autore che c’è dietro l’opera; questi pensieri sgorgano dalla sua penna con l’elevatezza dei paesaggi alpestri con i loro monti le cui cime si perdono nel cielo tra le nuvole e scorrono saltellanti con la freschezza degli zampilli di acqua di sorgente.

Un’ultima cosa vorrei aggiungere: questi pensieri non scaturiscono da stati d’animo soggettivi, non sono opinioni personali, non sfoghi dell’animo. Spesso oggi si trova in certi autori qualche espressione del genere: “L’uomo è una belva, la peggiore delle belve”. Questo dimostra che chi lo ha scritto si è nutrito solo di informazione, la fonte è la televisione. Questi invece sono pensieri che, come confida Silvio stesso, sono frutto di “studi lunghi e ponderati”; infatti qui troviamo che l’uomo è l’essere dotato, oltre che di anima sensitiva, anche di anima spirituale, e lo spirito è intelligenza e volontà; è dotato di libero arbitrio che nella scelta del bene diventa libertà. Questi sono concetti che noi ritroviamo in Tommaso D’Aquino che nella Summa Teologica ha sviscerato la verità in tutti i suoi aspetti. Sono pensieri frutto di conoscenza, di sapienza, di saggezza. Perciò non sono legati al momento, alla situazione contingente, cambiata la quale, se c’è pace allora l’uomo è un essere tranquillo; questi ultimi sono pensieri che, come dice Dante, sono “soffi di vento” (lo dice a proposito della fama, della gloria umana), “che or vien quinci or vien quindi e muta nome perché muta lato”, ma non hanno nessun valore duraturo, perenne, non trascendono il tempo. E non è questo il caso di Silvio Giudice Grisafi.

lunedì 16 ottobre 2017

Il missionario deve comunicare con coraggio la propria fede

di Domenico Bonvegna

Mercoledì scorso durante l'udienza generale, il Santo Padre Francesco nella sua catechesi, riferendosi alla festa di San Francesco e al mese di Ottobre dedicato alla Missione, ci ha invitati ad essere annunciatori di speranza e non di sventura. Tra i tanti compiti dei missionari è quello di poter rendere ragione della nostra fede, affrontando serenamente, senza alzare la voce, le critiche che vengono mosse alla Chiesa e ai cristiani.
L'invito ad essere missionari e quindi comunicatori vale per tutti, il papa emerito Benedetto XVI in una omelia in Scozia esortava: “faccio appello in particolare a voi, fedeli laici, affinchè, in conformità con la vostra vocazione e missione battesimale, non solo possiate essere esempio pubblico di fede, ma sappiate anche farvi avvocati nella sfera pubblica della promozione della sapienza e della visione del mondo che derivano dalla fede. Sulla stessa linea anche papa Francesco invita i cattolici ad andare incontro agli altri,“a dialogare anche con chi non la pensa come noi [...] senza paura e senza rinunciare alla nostra appartenenza”. E sempre con la sua chiarezza afferma“un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente la faccia da funerale”.
Esiste un libro di facile lettura, che vuole raggiungere lo scopo di difendere la fede gioiosamente e senza arroganza. Si tratta di “Come difendere la fede (senza alzare la voce)”, autore Austen Ivereigh, giornalista e scrittore inglese, co-fondatore del progetto “Catholic Voices”. Pubblicato da Lindau nel 2014. Il testo è stato curato da Martina Pastorelli, fondatrice di Catholic Voices Italia.
Il testo affronta tutti quei temi “sensibili”, o argomenti “nevralgici”, che solitamente si sentono nei dibatti televisivi o nelle semplici conversazioni. Nei nove capitoli si affronta la questione dell'aborto, l'eutanasia, l'omosessualità, l'Aids, la contraccezione, la procreazione assistita, gli abusi sessuali del clero, il matrimonio, il sacerdozio femminile, la politica dei cattolici. Il testo di Ivereigh rappresenta una specie di “prontuario efficace e comodo per riuscire a spiegarsi senza scontrarsi, difendere senza diffamare, riavviare il dialogo con umanità e buon senso: in ultima analisi per aprire i cuori e ispirare le menti”. Il testo contiene tanti consigli, per rappresentare in maniera rapida ed efficace la posizione cattolica,“un manuale pratico che insegna cosa dire (e come) quando si tratta dispiegare il punto di vista cattolico[...]”. Infatti il libro offre anche un metodo, uno strumento per una moderna apologetica, di come dire le cose,“bisogna essere veloci, convincenti e apparire 'umani', altrimenti si perdono sia l'interesse che la simpatia del prossimo”.
In pratica occorre mettere da parte l'aggressività, che si riformuli la critica e che ci si concentri sulla “intenzione positiva” dell'interlocutore.
Certo non è facile riuscire con serenità a spiegare le posizioni della Chiesa quando hai interlocutori che pregiudizialmente sono convinti che la Chiesa sia un'istituzione dogmatica, autoritaria, antidemocratica, ipocrita, repressiva e, in ultima analisi, disumana. Inoltre non è facile perché“le tematiche sono complesse e i titoli di giornale sono di una superficialità che spesso sfiora il grottesco. Per di più talvolta è dura capire quale sia effettivamente la posizione ufficiale”.
Nel primo capitolo, Ivereigh affronta, La Chiesa e la politica. Perché la Chiesa si intromette nella vita politica? Perché cerca di influenzare il voto cattolico? Che diritto ha di interferire nella legislazione degli Stati laici? Sono le solite domande poste dai vari interlocutori. Si può trovare nelle critiche alla Chiesa qualche  intenzione positiva come quella che a volte è guidata dal proprio tornaconto o da interessi di bottega e non dal bene comune. Perché la Chiesa per annunciare Dio, non dovrebbe ricorrere ai “mezzi di questo mondo”.“E' vero la Chiesa non è società per azioni. Ma non è nemmeno una struttura eterea, che fluttua sopra la terra. E' un'istituzione che è parte integrante del mondo e che cerca di plasmarlo avendo come riferimento un orizzonte trascendente”.
Tra le tante critiche rivolte alla Chiesa c'è quella di essere sostanzialmente una “istituzione di destra, che cerca di imporre le proprie idee obsolete agli Stati laici e a coloro che non aderiscono al cristianesimo”. La nostra risposta invece è quella che la Chiesa interviene, ogni volta che vengono negati i diritti e le libertà fondamentali della persona, e soprattutto quando si tratta di parlare a nome di chi non ha voce, sia del bambino ancora non nato, che dei cristiani perseguitati nel mondo. Tuttavia,“La Chiesa non è né di destra né di sinistra e non supporta nessuna fazione politica particolare, ma si batte per difendere il bene comune e i valori del Vangelo”. Inoltre, “sostiene la distinzione tra sfera politica e religiosa, appoggia quella che definisce 'secolarità positiva' e condanna da un lato il fondamentalismo religioso, dall'altro il secolarismo aggressivo che cerca di bandire la religione dalla vita pubblica”. Infine gli unici riferimenti politici della Chiesa sono quelli della Dottrina Sociale, che si adopera per il bene comune, la giustizia sociale e le autentiche libertà individuali e sociali.
Nei “messaggi chiave”, il libro ribadisce che la Chiesa interessandosi delle elezioni, “non vuole persuadere i cattolici a votare per qualcuno in particolare, ma vuole semplicemente ricordare loro i temi cui un cattolico dovrebbe fare riferimento, affinché ne chiedano conto ai candidati”.
Sull'omosessualità e contraccezione, anche qui, si constatano sempre le stesse domande: “Perché la Chiesa approva la pianificazione familiare ma non la contraccezione? E poi, “Se gli stessi cattolici usano metodi contraccettivi, ignorando l'insegnamento della Chiesa, perché dovrebbero stare ad ascoltarla tutti gli altri? Se Dio ha creato gli omosessuali perché mai non dovrebbe volere che abbiano delle relazioni di natura sessuale? Sono temi delicati, ammette l'autore del libro. “Di questi tempi sostenere che il sesso abbia uno scopo e un significato vuol dire andare controcorrente: è infatti opinione comune che, se consensuale, il sesso è sempre legittimo”.
Comunque sia tra le intenzioni positive che stanno dietro alle critiche mosse alla Chiesa in questa materia,“risiede nella preoccupazione per la felicità, il benessere e la dignità delle persone, e nella volontà di evitare atteggiamenti di disapprovazione e condanna”.
Il libro approfondisce l'argomento appoggiandosi ai testi del Magistero della Chiesa, in particolare all'Humanae Vitae di Paolo VI e poi ai testi del Concilio Vaticano II. Per quanto riguarda l'omosessualità, la Chiesa condanna qualsiasi discriminazione nei confronti delle persone omosessuali, ma nel contempo difende l'unicità del matrimonio.
Per quanto riguarda gli omosessuali, la Chiesa li accoglie:“tra di loro ci sono molti cattolici, anche praticanti, che vivono una vita improntata alla castità e alla fedeltà. La Chiesa condanna fermamente gli atti discriminatori e i pregiudizi nei loro confronti: la sua dottrina non dice affatto che gli omosessuali sono disordinati, ma sostiene che il sesso è 'ordinato' al rafforzamento del legame matrimoniale tra un uomo e una donna e alla procreazione, ed è per questo che le persone omosessuali – come del resto tutte quelle non sposate – sono chiamate alla castità, in quanto forma migliore di amore disinteressato”.
Infine i cattolici non sono contro i diritti degli omosessuali “ma sono contrari alle iniziative politiche che, ponendo esattamente sullo stesso piano ogni orientamento sessuale, non considerano gli altri interessi in gioco (in primis quelli dei bambini)”.
Al III° capitolo si cerca di proteggere il matrimonio, una istituzione sociale che viene prima dello Stato e della Chiesa. E qui si pongono le domande sfida a favore del matrimonio omosessuale. E' interesse della società e dello Stato difendere il matrimonio monogamico, tra un uomo e una donna, che il maggior numero dei bambini cresca con i propri genitori. Numerose ricerche dimostrano che i figli nati all'interno di un matrimonio coniugale, con un basso tasso di conflittualità,“corrono meno rischi di essere vittime di abusi fisici e sessuali, di soffrire di malattie mentali o di vivere in stato di indigenza; e anche meno probabile che, da adulti, facciano uso di droghe, commettano crimini, vengano penalizzati sul posto di lavoro o finiscano per divorziarsi”. Dev'essere chiaro che la Chiesa non vuole affatto imporre una concezione teologica del matrimonio, tanto è vero che ha sempre rispettato il matrimonio civile. Ma non può restare in silenzio quando osserva che l'interesse dei bambini e il bene comune della società vengono messi da parte con il falso pretesto di evitare le discriminazioni”.
Nel IV° capitolo su uguaglianza e libertà religiosa, Ivereigh tra le tente questioni, prende in esame la legge anti-omofobia e l'ideologia di genere; la legge prevede forti sanzioni penali di tipo detentivo e accessorio a chi diffonde, incita a commettere, o commette atti di discriminazione per motivi fondati sull'omofobia e la transfobia. Inoltre vieta ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'istigazione alla discriminazione o alla violenza per motivi fondati sull'omofobia e sulla transfobia. Certo qualsiasi violenza fisica o verbale nei confronti di chiunque è sempre esecrabile e va condannata esemplarmente, ma si sottolinea che non c'era nessuna necessità fare una nuova legge per combattere l'omofobia. Probabilmente si è voluto dare una valenza ideologica e simbolica che deve portare al matrimonio e all'adozione gay e infine con la legge si pretende di “rieducare” il popolo italiano, perché accetti un altro modo di vivere la sessualità.
Forse ancora non si ha la percezione della gravità della legge. Chiunque affermasse che il bambino per crescere ha bisogno di un papà e di una mamma, potrebbe essere accusato, denunciato, e quindi condannato per omofobia. Inoltre scrive Ivereigh “l'indeterminatezza dei termini 'omofobia' e 'transfobia' (non previsti dal nostro ordinamento giuridico) lascerebbero alla sensibilità del giudice la facoltà di distinguere tra un episodio discriminazione vero e proprio e l'espressione di una semplice opinione, riconducibile al pluralismo delle idee. Pertanto Ivereigh si chiede che cosa succede a una associazione, o a un singolo che decidesse di difendere pubblicamente le idee della sua associazione, che considera l'omosessualità un disordine e ritiene inaccettabile il matrimonio omosessuale. Come minimo verrebbe iscritto nel registro degli indagati.“Ci sono lobby che su questi temi vogliono lasciar parlare solo chi dà loro ragione, silenziando gli altri con metodi da regime totalitario”, ha scritto il sociologo Massimo Introvigne. Pertanto la doverosa condanna di chi aggredisce o insulta, come è capitato in questi giorni con il regista Sebastiano Riso, delle persone omosessuali, non può portare a tappare la bocca, accusandolo di omofobia, a chiunque, sulla base delle sue convinzioni religiose o filosofiche, senza insultare le persone omosessuali e anzi professando nei loro confronti rispetto e accoglienza, esprima però l'opinione che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e in nessun caso possono essere approvati.
A questo punto il testo spiega l'ideologia di genere, che sta alla base di questa legge. Una ideologia che mette in discussione la natura umana, cancellando i sessi, che diventano scelte individuali e soggettive. “Una volta negato il sesso biologico, l'uomo può scegliere il sesso culturale e ha il diritto naturale di cambiare le scelte entro i cinque sessi, quello gay, lesbico, bisessuale, transessuale ed eterosessuale (sintetizzati nell'acronimo LGBT)”. Come si può constatare si tratta di una vera e propria rivoluzione antropologica, con nefaste conseguenze nella sfera familiare, politico-legislativa, l'insegnamento, la comunicazione.
Nel V° capitolo, l'eutanasia e suicidio assistito, altro tema caldo, molto dibattuto. Le domande-sfida sono sempre le stesse:“Perché la Chiesa si oppone al diritto dell'individuo di scegliere il momento di morire?”. Oppure: “Che diritto ha la Chiesa di dire ai non credenti come morire?”. Partendo dal significato della sofferenza, Ivereigh spiega perché la Chiesa si oppone all'eutanasia e al suicido assistito.
Al VI° capitolo si affronta il delicato tema degli abusi sessuali del clero. Ivereigh come del resto altri studiosi cattolici, non fa sconti alla Chiesa. Effettivamente qui le buone intenzioni positive ci sono tutte: al primo posto, la protezione dei bambini dagli abusi, anche se poi certo giornalismo deforma i fatti, puntando il dito soltanto sulla Chiesa e non su altre istituzioni, dove effettivamente gli abusi sono troppi. Il libro fa riferimento a rigorose ricerche, come quelle del John Jay College, e soprattutto al grande impegno della Chiesa stessa per debellare questa piaga a cominciare da Papa Ratzinger. Ci sono troppi pregiudizi diffusi ad arte nella società, da un incalzante giornalismo, “secondo il quale il celibato sarebbe 'innaturale', portando implicitamente a concludere che i preti celibi abbiano bisogno di una 'valvola di sfogo'”. Eppure la stragrande maggioranza degli abusi sui minori viene fatta da persone sposate. Su questo tema c'è un accanimento mediatico nei confronti della Chiesa cattolica.
Naturalmente non possiamo mettere in evidenza tutti gli altri temi, interessante quello su cattolici e l'Aids, mi permetto di segnalarvelo, qui si vede il grande lavoro di prevenzione che stanno facendo in Africa tanti uomini di Chiesa e volontari per vincere questa epidemia. In tanti Paesi sono riusciti a ridurre drasticamente la malattia, senza bisogno di ricorrere a tecniche artificiali come il profilattico. I comportamenti improntati alla castità e alla fedeltà hanno portato a una notevole riduzione del tasso di contagio.

Infine il capitolo sulle donne e la Chiesa. Anche qui le questioni da chiarire sono tante. Il testo merita di essere letto e studiato, da tutti quelli che vogliono essere apostoli della carità, da quelli che intendono operare nella cultura, per consigliare i tanti dubbiosi. 

domenica 15 ottobre 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Gianandrea de Antonellis

Cento pagine di sentenze su aristocra­zia, cavalleria e nobiltà, tratte da opere di circa 200 autori, dai più antichi ai nostri contemporanei, selezionate da Tommaso Romano. Talvolta si tratta di riflessioni più lunghe ed approfondite, talaltra di semplici frasi che hanno il sapore dell’aforisma (viene segnalato l’autore, ma non l’opera e quindi non è immediatamente riscontrabile il conte­sto dal quale sono estratte). Non si tratta di una mera esaltazione (ve ne sono alcune particolarmente amare: «La nobiltà e i poveracci hanno molto in comune, ma non lo sanno» o «Ne­cessità abbassa nobiltà», quest’ultima di Giovanni Verga) e l’insieme delle considerazioni, tenendo conto dell’autorevolezza dei loro autori (filo­sofi, pensatori, scrittori di ogni epoca), fa riflettere sull’appiattimento dei co­stumi nella società attuale. Chiude il florilegio una gustosa pagina di Tom­maso Romano, assiso ad un tavolino dell’immaginario “Café de Maistre”, elegante “fortino intellettuale” in cui rinchiudersi per continuare a vivere nonostante la volgarità dilagante. Completa il testo un saggio di Amadeo-Martín Rey y Cabieses, Tres concep­tos de excelencia: Nobleza, Caballería, Aristocracia, che fa chiarezza nell’uso dei termini nobiltà ed aristocrazia, spesso utilizzati come sinonimi. La nobiltà (divisa in militare o di spada, ammini­strativa o di toga, finanziaria o di bor­sa), titolata o non, ha come unica fonte il Sovrano. L’aristocrazia è invece un termine legato all’uso del potere politi­co (ed economico). Quanto alla caval­leria, essa è legata agli altri due mondi e, in ambiente cristiano medioevale «il cavaliere cercava di raggiungere una serie di virtù e lottava per mantenerle e accrescerle» (p. 162). Dopo aver la­mentato la decadenza degli ideali ca­vallereschi e nel contempo l’aumento degli ordini equestri falsi, Ray y Cabie­ses conclude: «I tre concetti che ab­biamo considerato sono le tre facce di una stessa ed ipotetica medaglia. Sono concetti di eccellenza nel comporta­mento umano, forme di impostare la vita nelle quali dovrebbe primeggiare il rispetto alla parola data, la bontà e la generosità, il valore ed il coraggio, la sincerità ed il rispetto della verità... e tutto ciò unito alla modestia ed all’umiltà del cuore. Le élites devono esserlo più per quello che sono che per quello che appaiono o per la corpora­zione a cui appartengono. Solo un comportamento degno di essere defi­nito nobile e cavalleresco può fare onore a tale corporazione. Questa è la migliore aristocrazia, quella del potere e della bontà»



sabato 14 ottobre 2017

Tommaso Romano, "Attilio Mordini di Selva, L’ordine Costantiniano di S. Giorgio la regola di S. Basilio e altri scritti di Simbologia e Cavalleria (1960 - 1964)" (Ed. Thule)

di Gianandrea de Antonellis

La raccolta di scritti dello studioso fio­rentino Attilio Mordini (1923-1966), curata da
Tommaso Romano, com­prende tre saggi apparsi su «L’alfiere. Riv
ista tradiziona­lista napoletana», fondata e diretta da Silvio Vitale: L’Ordine Costantiniano, La re­gola Basiliana dell’Ordine Costantiniano e l’approfon­dito studio simbologico II Gi­glio, antico fiore dei Re. Ad essi si affianca l’articolo Carità Equestre (pubblicato inizialmente su «Ordo Pacis. Reme du Front equestre international) ed una aggiornata biblio­grafia delle monografie di Mordini e dei principali scritti sullo scrittore fio­ren­tino. Di particolare importanza il saggio sul­la regola dell’Ordine, derivata da quella dettata per i propri monaci nel IV secolo da San Basilio (330-379). Essa venne stabi­lita nel 456 da papa S. Leo­ne Magno, che confermò per l’istitu­zione cavalleresca la regola monacense, affratellando, anche nel mondo cristia­no, «le istituzioni del mo­nachesimo e della cavalleria» (p. 27). Ciò sottolinea «la natura canonica della Sacra Milizia e quindi la sua vocazione prevalente­mente religiosa» (come scrive Diego de Vargas Machuca nella prefazione). Quello di San Basilio è un semplice decalogo, che viene breve commentato da Mordini: 1) meditare quotidiana­mente sulla passione di Nostro Signo­re e quindi digiunare il venerdì; 2) combattere per la Fede cristiana; 3) di­fendere la Chiesa e i suoi ministri; 4) portare le armi solo contro i nemici della Chiesa e dell’Im­pero; 5) soppor­tare le ingiurie e vivere con modestia; 6) portare su di sé il simbolo della Croce (e maneggiare solo spade a forma di croce e non sciabole); 7) vendicare (spiritualmente) la morte di Cristo; 8) soccorrere le vedove, gli or­fani e i poveri; 9) obbedire ai superiori; 10) vivere castamente con la propria moglie. Per i Costantiniani è dunque previsto il matrimonio (a differenza dei Giovanniti e dei Templari): non c’è obbligo di castità assoluta, ma solo di castità matrimoniale. Ai nostri tempi, conclude l’autore, in cui non è pensa­bile una guerra santa, ma neppure un’obbedienza assoluta a un superiore (se non all’interno di un monastero), «se da un lato si può sostituire la spada con mitra, il cavaliere col motore, la catapulta col cannone, le castella con i Bunker, non si può sostituire — dall’altro — la carità con le previdenze sociali, l’unità del genere umano, senti­ta dalla naturale gerarchia del feudalesimo, con l’interesse comune e con la pianificazione collettiva; in una parola, non si può sostituire l’Impero nella sua gerarchia di persone vive, con l’ente anonimo e imperso­nale dello Stato che tutti e tutto opprime per il suo innatu­rale meccanismo burocratico» (p. 40). Dunque, «la Regola Basiliana, letta, ri­letta e meditata, è per il cavaliere testo di autentica formazione interiore, igie­ne spirituale a tenerlo ben fuori del mondo moderno con tutta l’anima sua. “Ove è il tuo tesoro — dice Gesù — là è il tuo cuore” (Mt 6,21); e se il cuore del cavaliere costantiniano sarà costan­temente sui precetti della Regola di San Basilio, su quei precetti formulati e scritti per uomini d’arme che vivevano in un mondo ancora degno di loro, sa­rà lontano dal mondo moderno e dalle moderne pompe di Satana (ben più insidiose di quelle antiche!), sarà lonta­no dal regno della Bestia, per vivere, nutrirsi e formarsi al Regno di Dio che ha dato il Suo Unigenito a redimerlo. Ed è appunto in hoc Signo, nel segno della Croce per la Redenzione univer­sale, che... in questo decalogo consiste — an­cora — tutta la virtù del milite cristiano e la salute per il conseguimento della patria eterna» (p. 40-41).


Gianandrea de Antonellis