di Domenico Bonvegna
L'”Ottobre
rosso”, un Ottobre di sangue che non vale solo per la rivoluzione
bolscevica, ma anche per quella ungherese del 1956, e poi soprattutto, per noi
italiani, per la disfatta di Caporetto. La ricorrenza del
centenario della “disfatta” di Caporetto del 24 ottobre 1917 nella 1 guerra
mondiale, ha suscitato diverse manifestazioni e celebrazioni, ma anche molte
riflessioni sui media. La letteratura sulla 1 guerra mondiale è abbastanza vasta,
ma su un argomento si trova poco, mi riferisco alla posizione della Chiesa,
della Santa Sede, nei confronti del conflitto mondiale.
In quel tempo
essere cattolici più o meno militanti, ma soprattutto religiosi non era facile.
Da un lato c'era la difesa della Patria, dell'Italia, dall'altro, c'erano gli
Imperi centrali, l'Austria. Infine, c'era soprattutto il volto crudele della
guerra da combattere, l”inutile strage”, come l'ha ben definita
il Santo padre Benedetto XV. Governare la Chiesa non fu facile per il Papa e
per i vescovi. Benedetto XV, fu abbastanza chiaro, emise direttive chiare,
mantenere sempre una posizione neutrale, al di sopra delle parti.
Nell'approssimarsi
del centenario di Caporetto, ho preso visione dei 3 volumi: “I Vescovi
Veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918”, a cura del sacerdote Antonio
Scottà, Edizioni di Storia e Letteratura, (Roma 1991).
Complessivamente 1.507 pagine con diverse tavole illustrate. Si potrebbe
obiettare che si tratta di un tema specifico, sostanzialmente di interessare
per gli specialisti. Non è così, i vescovi veneti, proprio perché presenti sul
territorio, furono diretti testimoni,“per 41 mesi di una delle più terribili
guerre della storia”. Scrive nell'introduzione don Antonio Scottà:“La
possibilità, quindi, di rivedere quella tragedia, sulla base di una
documentazione immediata, viva, ha una notevole rilevanza storica, perché da
nessun'altra fonte sinora conosciuta come quella che qui viene riprodotta si ha
modo di comprendere che cosa abbia significato quella guerra per le popolazioni
del Veneto”.
Don Scottà ha
fatto un gran lavoro di ricerca, beneficiando dell'apertura nel 1985, degli Archivi
Vaticani, ha pubblicato le numerose lettere tra i vescovi veneti e la
Santa Sede, proprio nel periodo della guerra. L'antologia, copre un vuoto
storiografico. L'opera del sacerdote veneto,“è di grande spessore storico e
culturale”, scrive nella presentazione Gabriele De Rosa. Infatti per lo
storico del movimento cattolico,“Queste lettere costituiscono, anzitutto, una documentazione viva sulle vicende delle
terre venete più esposte nella guerra: una documentazione di prima mano del
ruolo primario, importantissimo svolto dal clero, dai parroci, dai cappellani,
dai vescovi, in aiuto delle popolazioni[...]”. All'inizio della guerra il
Veneto italiano copre 11 diocesi e risale più o meno al tempo della Repubblica
di Venezia. In questa raccolta di missive occupa un posto primario, il
vescovo di Padova, monsignor Luigi Pellizzo. In questo numero
rilevante di lettere, il vescovo rivela una straordinaria conoscenza degli
avvenimenti bellici e politici, e per l'influenza da lui esercitata sul clero e
sui fedeli durante il conflitto, in una delle diocesi più vaste e più
devastanti della guerra. In particolare sono utili dopo la disfatta di
Caporetto,“sembrano quasi un 'reportage' giornalistico per la loro
immediatezza e concretezza”. Ecco perché il Papa“era perfettamente
informato sull'accadere tumultuoso e catastrofico degli avvenimenti, meglio e
più tempestivamente dello stesso comando supremo italiano”. E proprio “in
quel momento l'espressione “inutile strage” - scrive Scottà - era
quanto di più realistico si poteva dire della guerra, perchè il continuarla
comportava, per tutte le parti, un rischio maggiore che quello di finirla in
qualsiasi modo”.
Le lettere di
monsignor Pellizzo, occupano gran parte del 1° volume, nel 2° e 3°, in ordine di pubblicazione, si prendono in
esame le lettere di monsignor Pietro La Fontaine, vescovo di Venezia.
Ferdinando Rodolfi, vescovo di Vicenza, Sante Bartolomeo Bacilieri, vescovo di
Verona, Andrea Giacinto Longhi, vescovo di Treviso, monsignor Francesco Isola,
vescovo di Concordia, Giosuè Cattarossi, vescovo di Feltre e Belluno. Poi
monsignor Rodolfo Caroli, Eugenio Beccegato, Anastasio Rossi, vescovo di Udine.
Infine Celestino Endrici, arcivescovo di Trento, dove era particolarmente
difficile mantenere imparzialità e neutralità, e monsignor Francesco Borgia
Sedej. Arcivescovo di Gorizia. Occorre precisare che la maggior parte di loro
essendo vescovi di confine, operanti nel territorio dove si svolgeva il
conflitto armato, si rivelavano patriottici e decisamente prudenti. Tranne
monsignor Isola che fu accusato di austricantismo, per questo nel 1918, subì
una violenta aggressione da parte dei soldati italiani, che spogliarono la
curia di ogni cosa.
Praticamente“dalle
lettere dei vescovi si ricava che la chiesa in Veneto abbia costituito una
specie di struttura parallela a quella dello Stato, robusta ed efficiente tanto
da assumere funzioni di supplenza sul piano amministrativo e in certa misura
anche politico, nei momenti cruciali della guerra”. Non è una esagerazione,
basta leggere le lettere, per constatare come il clero, ma anche i cattolici
stessi, non possono essere tacciati di non avere il senso dello Stato.
Praticamente la
guerra ha messo a nudo“la fragilità del sistema amministrativo italiano ed
in particolare l'inadeguatezza dei pubblici funzionari, sia sotto il profilo
tecnico e professionale che, sopratutto, sotto quello delle responsabilità
civili e morali”. Sono notorie le gravi carenze di coordinamento fra gli
enti locali ed il governo centrale; le divergenze fra il decisionismo dei
militari e la lentezza del parlamento. A tutto questo Scottà aggiunge anche
l'acuirsi delle differenze sociali a causa della guerra. Pare che nei momenti
più gravi, “sia in occasione degli sgomberi delle popolazioni, che
nell'imminenza del pericolo dell'invasione, la maggioranza ed in certi casi la
totalità dei cittadini di condizione agiata e degli impiegati dello stato, come
anche sindaci e consiglieri comunali, o non si curò affatto della popolazione o
fuggì verso posti più sicuri, con la pretesa di dare a quella fuga
un'attestazione di patriottismo”. Attenzione, la Chiesa cattolica,“con
la sua capillare organizzazione locale e con la dedizione incondizionata del
clero”, è stata l'unica ad essere
sempre presente sul territorio. “Il referente locale, rispetto
all'autorità civile e militare, divenne il parroco od il vescovo”.
Pertanto, è proprio a lui che “ci si rivolge per quelle esigenze
organizzative attinenti alla protezione, alla sicurezza, all'assistenza,
all'informazione e così via”. Non sono rari i casi in cui i parroci,
nominati o costretti a fungere da commissari prefettizi, sia dai comandi militari
italiani, sia da quelli austro-tedeschi durante l'anno di occupazione.
Sono i vescovi
che fanno conoscere alle autorità militari le preoccupazioni delle popolazioni,
sono essi che protestano per le insensate requisizioni e per gli atti di
saccheggio e devastazione perpetrati dalle truppe sbandate dopo Caporetto,
dimostrando, ancora una volta, di essere l'unica autorità pubblica affidabile.
Sono sempre i vescovi che si sono impegnati nella salvaguardia delle opere e
dei monumenti artistici e culturali, mettendo in salvo diverse opere e beni.
Inoltre dalle lettere dei vescovi emerge un grande impegno della Chiesa nei
confronti del dramma del profugato. Sia nello sgombero che
nell'accoglienza, ci sono sempre gli uomini di Chiesa in prima fila. Forti sono
le critiche dei vescovi nei confronti delle autorità sia militari che civili,
per l'approssimazione e la disorganizzazione con cui attuano tali operazioni. A
quanto sembra non è cambiato nulla ai nostri giorni.
Nonostante tutto
questo impegno della Chiesa, ci sono sempre le accuse di disfattismo, di
spionaggio, di collaborazione con il nemico o, vagamente, di austriacantismo.
Certo la Chiesa, la Santa Sede, all'inizio del conflitto, assunse una posizione
decisamente neutrale, ha raccomandato sia ai vescovi che ai parroci“la
massima cautela e prudenza nel parlare in pubblico ed in privato delle
questioni attinenti la vita politica e la guerra”.
Sono numerosi
i casi di singoli preti, religiosi incriminati, mandati in esilio perché
ritenuti anti patriottici. In materia di pubblica sicurezza ci sono
provvedimenti straordinari con divieti di pubbliche riunioni, processioni
civili e religiose. Il divieto anche di accompagnamento del viatico ed il
trasporto funebre. La stampa censurata completamente. La diffusione di notizie
durante la guerra, era attinenza soltanto del comando supremo militare.
Secondo Scottà,“vi
sono documentazioni che attestano l'intenzione di colpire sistematicamente il
clero”, sin dall'inizio della guerra,“pervengono alla Segreteria di
Stato informazioni su una premeditata offensiva promossa dalla massoneria
contro il clero ed in particolare contro i cappellani militari”. Esistono
circolari ministeriali inviati ai comandi militari “sulla sorveglianza nei
confronti del clero e dei religiosi per l'azione pacifista che, a giudizio del governo e dei comandi, tendeva
ad rallentare lo spirito di resistenza dei soldati e della popolazione; ma
dietro a detta azione si intravedeva una strumentalizzazione politica del
governo asburgico per le sue supposte aderenze presso la chiesa cattolica”.
Con il
decreto Sacchi dell'inizio Ottobre 1917, vari sacerdoti vennero incriminati.
Nei mesi susseguenti Caporetto,“si avverte chiaramente nelle lettere dei
vescovi il montare di quella 'insidiosa e raffinata campagna di calunnie e di
odio' orchestrata contro Benedetto XV ed in pari tempo l'inasprirsi della
'persecuzione' contro il clero ed i vescovi, allo scopo di 'coglierli in fallo,
di diffamarli, di trascinarli in giudizio'”.
Ritornando a
prima dell'inizio della sanguinosa guerra, il Papa si è sempre prodigato per
non farla scoppiare. A meno di un mese dell'entrata in guerra dell'Italia,
nell'intervista rilasciata da Benedetto XV al giornalista francese Louis
Latapie, pubblicata sul giornale“Liberté”, ed il giorno dopo, 22
giugno, in Italia sul “Corriere della Sera”, il papa illustra le ragioni
della neutralità della Santa Sede e di quella, vanamente auspicata, della
stessa Italia. L'intervista secondo Scottà, per il papa rappresenta la“necessità
di prendere le distanze dallo stato italiano e dissipare eventuali sospetti di
collusione morale o politica; l'esigenza di trovare nell'attenzione
dell'opinione pubblica europea un fattore di maggiore sicurezza; la possibilità
di muoversi con una propria libertà d'iniziativa che l'imparzialità o
neutralità legittimava”.
Anche
se l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti dell'Impero
Austro-Ungarico, non era ostile,
soprattutto sotto il pontificato di San Pio X, anzi non era un segreto che Papa
Sarto nutriva simpatie nei confronti dell'Austria, che praticamente era rimasta
l'unico grande Stato cattolico in Europa. Tuttavia,“Giacomo Della Chiesa –
ovvero Benedetto XV –
eredita dal suo predecessore una Santa Sede indiscutibilmente inclinata verso
la pace e la più assoluta e doverosa imparzialità. Lo stesso non si poteva dire
riguardo alla condotta di molti suoi membri, che palesemente si schieravano,
con esasperato patriottismo e senso nazionalistico, a favore di un intervento
italiano nel conflitto mondiale, per non parlare di veri e propri interventi di
«guerriglia» da parte del clero di alcune nazioni in guerra”.
(Caterina Ciriello, “Benedetto XV, la guerra e le posizioni dei vescovi
italiani”, Anuario de Historia de la Iglesia, Vol.23 enero-diciembre 2014,
Universidad de Navarra, Pamplona, Espana)
La
Ciriello tra i religiosi che inneggiano al patriottismo ricorda padre Agostino
Gemelli, allora medico e cappellano militare,“il quale manifestava in suoi
diversi scritti la sua profonda indole patriottica e la sua inclinazione all’intervento
italiano in guerra. Essa era tale da contraddire il suo sincero spirito
francescano e da attirarsi le ire del p. Generale dell’Ordine, Serafino Cimino,
il quale in una lettera molto confidenziale, lo rimproverò per un articolo da
lui pubblicato il 25 agosto 1915, cioè pochissimi mesi dopo l’entrata in guerra
italiana, facendogli presente non solo «la penosissima impressione fatta a
molte persone di altissima autorità e rettissimo sentire», ma pure il suo
personale sconcerto pregandolo in futuro di «essere molto più cauto nello
scrivere ed anche nel parlare” (Ibidem)
Inoltre
da ricordare,“Giovanni Semeria, barnabita, le cui prediche, più che di
sapore evangelico, rigurgitavano di acceso nazionalismo con grande piacere dei
politici italiani, ma con grave disappunto di Benedetto XV convinto del danno
causato da Semeria alla politica neutralista della Santa Sede”.(Ibidem)
Il 4 agosto poi
il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri, indirizza ai
nunzi apostolici, una lettera dove si tutela la Santa Sede la propria identità
spirituale e politica. In pratica,“l'imparzialità della Santa Sede, -
scrive Scottà - è un'esigenza che scaturisce dall'essenza stessa del
messaggio cristiano, incarnato nella figura di Gesù, principe della pace,
salvatore degli uomini. A ciò si aggiunga la convinzione che la guerra non
costituisse uno strumento valido per la risoluzione dei problemi degli stati e
della comunità internazionale: non sul piano degli ordinamenti interni dei
singoli paesi, non per la salvaguardia dei principi del diritto, non per le
aspirazioni nazionali e neppure per le istanze sociali rivendicate dal nuovo
protagonismo politico e civile delle masse operaie. Infine perché la guerra
avrebbe prodotto solo danni incalcolabili, e fra questi anche l'illusione
dell'eliminazione dell'avversario”.
Pertanto il Papa
poteva dichiarare senza tema di smentita, essendo lui Padre comune a tutti, “una
perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti”, “uno sforzo
continuo di fare a tutti il maggior bene che da noi si potesse,[...] senza
distinzione di nazionalità o di religione[...]”. Infine fare di tutto per
affrettare la “fine di questa calamità”, per arrivare a “una pace
giusta e duratura”.
La vigilanza
della Santa Sede sui vescovi e sul clero e costante, già prima della guerra, e
specialmente durante.“Mostra una certa tolleranza nei confronti di
attestazioni patriottiche, ma insofferenza per espressioni o discorsi dai toni nazionalistici”.
Il
26 maggio 1915 la Segreteria di Stato inviava a tutti i vescovi delle direttive
precise:“Allo scopo che tutti i Rev.mi
Vescovi italiani seguano una stessa linea di condotta nella situazione creata
dall’intervento dell’Italia nell’attuale conflitto, si indicano qui appresso
alcune norme, alle quali i vescovi medesimi, nelle presenti difficili
circostanze, avranno cura di uniformarsi: 1. Non devono pronunciarsi discorsi
in occasione della partenza o dell’arrivo di truppe, dei funerali per i caduti
in guerra o di simili avvenimenti e cerimonie pubbliche. 2. I Vescovi eviteranno
in ogni eventualità di farsi iniziatori di pubbliche manifestazioni.
Per ciò, poi, che concerne l’esporre la
bandiera nazionale, l’illuminare gli edifici
episcopali ecc... (nel caso che simili
manifestazioni divenissero generali in tutta la città) non è loro vietato di
farlo, ma si regoleranno secondo le circostanze, tenuto conto specialmente
delle ubicazioni degli edifici stessi, i quali in alcune città trovansi molto
in vista, in altre non lo sono. 3. Parimenti i Vescovi, ed in genere gli
ecclesiastici non si faranno promotori di funerali per i caduti, di funzioni
per rendimento di grazie ecc; ma se ne vengano richiesti, non si oppongano.
Abbiano, tuttavia, presente che i Te Deum solenni
debbono riservarsi per le vittorie decisive; come pure che a queste e simili
funzioni non è opportuno che intervenga il vescovo, se può astenersene senza
serio pericolo di gravi inconvenienti. 4. Quanto alla scelta della colletta
pro=pace, che sinora è stata recitata, è l’altra Tempore belli, da alcuni ora
proposta, è lasciato ai vescovi il determinarla per la rispettiva Diocesi”.
Comunque sia, secondo lo storico Giampaolo Romanato,“è stato molto
difficile per i vescovi e per la struttura ecclesiastica di base sottrarsi alle
sirene nazionalistiche senza venir meno all'obbligo della solidarietà verso i
combattenti, davanti alle continue richieste di benedizione delle truppe in
partenza, di funerali solenni, che portavano a un coinvolgimento sempre
maggiore della chiesa nel clima della guerra”.
Mentre per
quanto riguarda l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti delle
organizzazioni cattoliche, in particolare nei confronti dell'”Unione
Popolare fra i cattolici italiani”, che si era fatta contagiare
dall'interventismo e dalla “frenesia del maggio radioso”. A questo
proposito, il Papa interviene personalmente, è categoricamente sconfessa la
posizione dell'associazione. Non ci può essere nessuna approvazione della “guerra
che il popolo non vuole ad ogni costo”.
Concludo
utilizzando ancora il bel documentato studio su Benedetto XV, i vescovi e la
guerra della studiosa Caterina Ciriello, della Pontificia Università Urbaniana
di Roma.
“La crudezza
dell’evento bellico cambiò molte vite, insinuò sospetti, spaccò in due le
comunità, la società intera. L’intento del papa fu quello di limitare il più
possibile i danni della guerra ed assicurare ai fedeli la maggiore assistenza
possibile. Molti vescovi furono solo pastori impegnati a curare il proprio
gregge mettendo da parte i sentimenti patriottici; altri furono malvisti per la
loro ostinazione ed inflessibilità nella celebrazione delle esequie ai soldati
morti in guerra, causando non pochi problemi alla Santa Sede. Benedetto xv ebbe
a che fare con pastori spesso ingenui e con altri fin troppo scaltri; a tutti
però, da autentico padre – come si può vedere annotato nelle numerose lettere
inviate ai prelati – consigliava prudenza e saggezza, rinuncia e sacrificio per
il bene del popolo, dell’Italia e della Chiesa specialmente[...]”.
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