di Biagio Balistreri
In una breve recensione del precedente libro di Gino Pantaleone, "Il Gigante controvento", documentatissima biografia di Michele Pantaleone, uomo che ha dedicato interamente la propria vita all'analisi storica e antropologica del fenomeno mafioso, avevo riportato le seguenti affermazioni:
«Un libro che ha tutte le caratteristiche del libro storico, ma non è scritto da uno storico. Nel senso che è un libro ricco di iconografia e di documentazione, nel quale ogni affermazione è rigorosamente corroborata da documenti, fotografie e citazioni; tuttavia l'Autore non è uno storico di professione, è uno scrittore e poeta, e questo si avverte nella forte passione civile e personale che traspare da ogni pagina […]. Ne è risultato, quindi, un libro storico che si legge tutto d'un fiato, con forte partecipazione del lettore. Una prosa al tempo stesso precisa e svelta, che spinge ad andare avanti. Un libro appassionato e quindi appassionante.»
Queste caratteristiche di viva partecipazione diretta mi sembrano ancora più accentuate in questo nuovo saggio di Gino Pantaleone, "Servi disobbedienti", nel quale, sempre con grande ricchezza di documentazione, l'Autore descrive i percorsi paralleli di due grandi intellettuali siciliani, Leonardo Sciascia e Michele Pantaleone, che per primi, a partire dall'inizio degli anni sessanta del secolo scorso, con chiarezza esemplare e quindi con coraggio, l'uno nella sua produzione principalmente letteraria, l'altro nella sua produzione saggistica, esplicitarono senza infingimenti le caratteristiche del fenomeno mafioso, e parallelamente, nel tempo, con accenti diversi ma con simile determinazione, stigmatizzarono anche il pericolo rappresentato dalla crescita della retorica dell'antimafia e dal suo utilizzo per finalità personali.
Il titolo, Servi disobbedienti, è una citazione da una splendida e difficile canzone di Fabizio De Andrè, Smisurata preghiera, dedicata a "chi viaggia in direzione ostinata e contraria", come appunto Pantaleone e Sciascia hanno fatto, "per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità di verità".
Il libro, come ho detto, ha la struttura di un saggio storico, ma ancor più che nella precedente opera il saggista, profondamente toccato dagli accadimenti che narra e documenta, compie spesso delle improvvise e vivaci irruzioni in prima persona nel testo, denunciando così la forte passione civile che lo ha animato e che sempre lo anima nel suo lavoro.
Esemplifichiamo queste affermazioni.
Riferendosi a personaggi ben noti e molto discussi, l'Autore scrive:
«… uno degli uomini che ha avuto queste caratteristiche peculiari, balzato alle cronache della storia della prima metà del '900, non frutto della fantasia di qualche autore ma esistito veramente, è il boss della mafia siciliana Calogero Vizzini di Villalba a cui, i più, hanno anteposto il don per distinguerlo dagli altri perché "uomo di rispetto".»
Ma dinanzi a questo particolare, Gino Pantaleone sembra non resistere ed interviene direttamente con una domanda stizzita:
«Mi sono da sempre chiesto: se lui fu di "rispetto" gli altri che uomini sono stati?»
Più avanti, l'Autore cita questa descrizione che di Giuseppe Genco Russo fornì il compianto giornalista Peppe Fava:
«Questa è la provincia di Genco Russo. Ponete mente all'uomo: quasi un contadino, triste, senza erudizione, senza forza legale, è stato più potente lui che lo Stato su un territorio di diecimila chilometri quadrati. […] sinistro e opimo. I personaggi invulnerabili, corazzati da cento amicizie, da mille alibi. […] reggeva il baldacchino per la festa del santo patrono.»
Ancora una volta, l'Autore interviene quasi violentemente in prima persona, osservando:
«Sarà una mia avversione innata, sarà che a quel tempo la si pensava diversamente, ma la descrizione di quest'individuo da parte di Fava mi crea soltanto disgusto.»
Ma dove gli interventi diretti di Gino Pantaleone diventano ancora più vibranti, è nella parte riguardante la collusione fra gli americani e la mafia in occasione dello sbarco in Sicilia durante la seconda guerra mondiale, la storia del famoso e discusso elenco di personaggi mafiosi da insignire da parte degli americani dell'incarico di sindaco dei diversi paesi dell'isola. Scrive infatti Pantaleone:
«Ancora più sporca fu l'operazione successiva - descritta perfettamente da Emanuele Macaluso - che utilizzò, durante l'avanzata, i poteri costituiti che in quel momento davano stabilità in Sicilia. Uomini che avrebbero potuto garantire l'ordine, li definisce Macaluso, antifascisti, di sicuro non certo statalisti, ma futuri separatisti che ambivano a costituire la quarantanovesima stella degli Stati Uniti. Gli americani ci hanno lasciato un lurido futuro… la mafia al potere!»
E aggiunge qualche pagina più avanti:
«La verità fu che, di sicuro, la mafia servì al Governo militare, e questo fece sì che la mafia in Sicilia si potesse riorganizzare con il crisma della legalità e della ufficialità mettendosi al passo e alla stessa altezza del potere. Ecco cosa ci hanno lasciato in eredità i nostri liberatori dal fascismo!»
Il tono acceso e appassionato di Gino Pantaleone, in particolare nelle sue incursioni in prima persona, fanno di questo libro ancora di più un'opera civile e segnatamente un'opera politica, nel senso più alto di questi due termini. Il lettore avverte e comprende come gli argomenti trattati siano eventi che toccano nel profondo la nostra pelle e la nostra carne, entrando nella nostra storia e nella nostra stessa vita.
Ho voluto soffermarmi su queste citazioni per sottolineare lo spirito con il quale il libro è stato scritto e con il quale credo dobbiamo accingerci a leggerlo, e volontariamente queste citazioni non riguardano strettamente i due personaggi protagonisti dell'opera.
Quando poi, ed è il corpo del libro, il nostro Autore racconta - con dovizia di particolari e spesso con arguzia - queste due vite che egli definisce parallele, i ritratti che ne scaturiscono sono estremamente chiari: due combattenti che non si sono mai risparmiati nell'esporsi e che hanno pagato questo impegno con il silenzio intorno a loro e con l'isolamento sospettoso, ma al contempo due persone, ancorché amiche, molto differenti fra loro.
Malgrado la prudenza che una vita come la sua, condotta senza esclusione di colpi, anche feroci, l'aveva necessariamente costretto ad adottare, Michele Pantaleone era persona aperta, pronta all'incontro, di profonda e vasta cultura, capace di manifestare forti simpatie ed entusiasmi. Parlare con lui, e non soltanto di mafia, ma in generale di cultura e di civiltà, era un vero godimento dell'intelletto.
Leonardo Sciascia era uomo di intelligenza sottile ed acuta come tutta la sua vasta opera ha dimostrato, ma era anche persona molto guardinga, oserei dire sospettosa, con una elaborazione intellettuale complessa che lo portava ad esprimere comunque opinioni che manifestassero un distacco, una distinzione rispetto a quelle degli altri. Tendeva a porre una certa distanza nei confronti dell'interlocutore, una distanza che poteva anche sottintendere la diffidenza.
Due uomini diversi, dunque, che la passione civile ha condotto a seguire percorsi paralleli che li hanno portati, l'uno, Pantaleone, a descrivere senza veli e con rigore le caratteristiche del fenomeno mafioso, e a combattere a viso aperto battaglie di denunzia e giudiziarie protratte per tutta la vita, naturalmente correndo anche molti rischi a livello personale; l'altro, Sciascia, a elaborare narrazioni letterarie che svelavano la realtà e che soprattutto erano capaci di preconizzare le successive trasformazioni e scorgere profeticamente il futuro. Non dimentichiamo che fu proprio Sciascia ad indicare il criterio privilegiato di indagine che si riassume nell'espressione "follow the money", criterio che tanto seguito pratico avrebbe avuto.
Ambedue con la precisa consapevolezza che un nemico di tal fatta è sempre e comunque intorno a noi. Questa sensazione di accerchiamento emerge chiaramente nell'articolato racconto di Gino Pantaleone, che lo vive con profondo disagio e un po' di malcelata rabbia.
A quest'ultimo proposito, è significativo un aneddoto narrato dal nostro Autore nel libro. Un aneddoto riguardante direttamente lui stesso, e che quindi rappresenta un'altra notevole incursione personale nel testo.
«Recentemente, partecipando ad una presentazione di un libro sulla storia della mafia, in un luogo prestigioso palermitano, nella mia innocenza storica, mi è capitato di incontrare un politico, conosciuto come personaggio autorevole, il quale, nel volergli comunicare l'uscita della mia novità editoriale sulla biografia dello scrittore di Villaba, con un sorrisino beffardo mi disse:
"Quando parlavi con Michele Pantaleone non sapevi se stavi parlando con uno scrittore antimafia o con un mafioso."
... come a volermi fare una battuta. A guardarlo ho provato per lui ribrezzo. Dall'espressione della mia faccia, però, penso lui l'abbia capito.
Nella stessa sede, prima del politico, avevo incontrato uno storico molto quotato a cui, sempre nella mia innocenza, annunciai di questa biografia di Michele Pantaleone. Questi, girandosi la testa e guardandomi in faccia molto severo e quasi indispettito, mi disse:
"prima voglio vedere cosa lei ha scritto di lui!"
Al termine dell'evento, dopo che gli autorevoli relatori ebbero detto ognuno la loro sul libro protagonista del pomeriggio, capii che quel luogo, che sino ad allora era stato per me il santuario della cultura, quello era proprio il luogo dove si annidavano i peggiori nemici dello scrittore di Mafia e politica.»
Appare quindi chiaro come il saggio Servi disobbedienti suoni anche come un forte avvertimento per il lettore: l'avvertimento che almeno in Sicilia - ma non soltanto, come le cronache recenti ci hanno ampiamente dimostrato - non si sa mai davvero chi sia il nostro interlocutore.
Per questa ragione Gino Pantaleone, quasi in chiusura del suo saggio, riassume l'insegnamento dei suoi due protagonisti in un messaggio squisitamente "politico", che indica la strada che deve essere percorsa, al contempo riunendo in un unico contesto i principali fenomeni distorsivi del vivere civile che da molto tempo affliggono l'Italia:
«Dobbiamo curare la formazione di una nuova cultura e di una coscienza antimafiosa seria che dovrà essere anche anticorruttiva e antitagentista.»
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