mercoledì 31 maggio 2017

Guglielmo Peralta, "La via dello stupore" (Ed. Thule)

di Franca Alaimo

La via dello stupore di Guglielmo Peralta è un vero e proprio trattato articolato in 22 brevi capitoli a cui vanno aggiunti un glossario dei neologismi più usati dall’autore, e un’interessante riflessione conclusiva: Perché il tempo della povertà nonostante i poeti. 
In ogni capitolo l’autore sviluppa un aspetto di quel sistema etico-estetico-filosofico identificabile con il neologismo “Soaltà”, le cui radici vanno ricercate fin dalle sue prime pubblicazioni. Una così lunga fedeltà testimonia la coerenza di un pensiero che, dopo essersi confrontato con le più importanti correnti filosofiche, si è, nel corso del tempo, sviluppato ed arricchito fino a costruire una teoria organica, caratterizzata da riflessioni del tutto originali e dall’invenzione di una serie di neologismi (Peralta tende, di fatto, ad una lingua propria) che vanno letti anche quali densissime figurazioni poetiche.
Infatti, quando il filosofo è anche un poeta, come nel caso di Peralta, alla sistemazione razionale del pensiero si sovrappone la tendenza ad includere elementi e figurazioni dettati da quell’intelligenza emotiva e fantastica che, nella filosofia greca, diede origine a miti e favole, come quelli a cui ricorre il più immaginifico dei filosofi greci: Platone.  
Il trattato di Peralta attesta anche una forte esigenza di costruire nessi di significato fra i molti neologismi del suo vocabolario, con l’intento di ridurre distanze e trasformare la lingua in una tramatura fluida, che attesti l’inscindibilità dell’etica dall’estetica, della scienza dalla poesia, della ragione dall’emozione secondo una consequenzialità spesso imprevedibile, ma del tutto obbediente ad un criterio personale d’inclusività, a fronte dei compartimenti stagni a cui da tempo si è avviato il sapere umano.
Fatta questa premessa, è difficile dire più di quanto si sia già detto a proposito della Soaltà di Peralta, innanzitutto perché l’autore, che è il primo e più sapiente commentatore di se stesso, fornisce al lettore tutti gli strumenti necessari, compreso il glossario, per facilitargliene la comprensione; e poi perché già in molti si sono occupati di essa, fra i quali Barberi Squarotti (recentemente scomparso), la Monroy, e ancora, Scurria, Sasso, Zinna, e, recentemente, Donati, Lo Bue, Tommaso Romano, e, infine, Balbis, che nella prefazione ha citato anche me.
Ebbi, infatti, a scrivere una introduzione alla breve raccolta di poesie dell’amico Peralta: Sognagione, edita dalla casa editrice palermitana ‘The Lamp’. Mi scuserò, allora, se citerò qua e là me stessa, ma credo di non sapere trovare parole migliori per veicolare certe idee maturate a proposito della soaltà peraltiana e, in particolare, della sua terminologia (che ne è uno degli aspetti più intriganti). Volere spiegare quest’ultima, come scrivo in quella prefazione, sulla base della scienza dell’etimologia, sarebbe inutile e fuorviante, poiché essa si basa, invece, “su una rete di relazioni analogiche, di sovrapposizioni concettuali, di accorpamenti di parole o di scissioni al loro interno, e, perfino, su una sorta di procedimento sillogistico operato sui significanti, da cui germinano nuovi e sorprendenti significati”.
Nel glossario inserito ne La via dello stupore, l’autore, inoltre, separa i neologismi, cioè le parole nuove, da lui stesso inventate, e le parole gravide, quelle che, pur rimanendo inalterate, assumono altri significati; come, per fare un esempio, ‘bisogno’ che, ad opera di un trattino interno, diventa ‘bi-sogno’, indicando (cito Peralta) «l’origine dei sogni positivi, cioè delle idee che generano, a loro volta, le cose che servono alla vita dell’uomo, quelle che ne soddisfano le esigenze epifaniche, i bisogni indispensabili, necessari». Mentre leggevo questo incredibile glossario, mi è sembrato di potere assegnare le parole a tre aree semantiche: la terra, il cielo, l’interiorità; infatti, molte hanno a che fare con l’azione del coltivare, seminare e raccogliere frutti, tant’è che nel mezzo di questo recuperato eden svetta, dentro lo splendore della lux, l'albero soale; altre si ispirano alla terminologia astronomica come ‘astroparole’, ‘cielificazione’, ‘cielogramma’, ‘cosmosomatica’; e, infine, tutte trovano accoglienza nello spazio interiore, detto ‘antropografico’, perché  esso è quello «della creatività, dove vengono osservati e coltivati i fatti o fenomeni creativi, i quali costituiscono il sentire dell’uomo in relazione al suo habitat spirituale».
Sempre a proposito dei neologismi, nel corso della recentissima presentazione tenutasi nel mese d’aprile 2017 presso i locali della libreria Mondadori, ho annotato questa illuminante dichiarazione di Peralta: “sommare due parole equivale a crearne una terza attraverso un legame speciale d’amore”. A proposito sempre dei neologismi Antonio Martorana scrive che essi “rendono specularmente il mundus imaginalis dell’Autore, che è come dire la sua psiche, stando alla massima fissata da Jung: l’immagine è psiche”.
Sarebbe ancora più errato parlare di sperimentalismo, poiché la coniazione di parole e l’ingravidazione di senso di altre testimoniano una necessità di rinominazione del mondo allo scopo di purificarlo attraverso la novità dei suoni “rotondi”, come scrive Peralta.
Insomma, la terminologia peraltiana non è una “macchinosa costruzione”, come qualcuno potrebbe pensare: essa, infatti, (e continuo a citarmi) coincide con una “accensione spirituale ed una vibratilità percettiva che volta per volta investono l’atto creativo” avente come valori fondanti quelli più alti dello Spirito umano; “altrimenti non si spiegherebbe la qualità di un lessico che attinge ampiamente a quello evangelico”, instaurando una sorta di parallelismo “fra la funzione messianica del Cristo e quella del Poeta”, entrambi votati alla purificazione “della tragedia del mondo”.
Non per nulla le epigrafi scelte dall’autore sono rispettivamente di un poeta, Hölderlin, e di un papa, Karol Wojtiyla (anche lui scrittore di versi ed autore di una lettera indirizzata agli artisti): il primo esalta la missione del poeta come colui che deve cercare “quanto vi è di più alto e perfetto”, il secondo ricorda ad ogni uomo la necessità di approdare alla visione attraverso l’interpretazione dei segni e a “ciò che gravita dentro/e che matura come frutto nella parola”.
Dunque, Peralta sacralizza il poeta e la poesia, affidando loro la palingenesi universale, nel convincimento che sarà la Bellezza a salvare il mondo, così come affermò Dostoevskji. Non per nulla Salvatore Lo Bue ha parlato di misticismo peraltiano in nome di un sogno verbale pantocratore.
Per tornare alla Soaltà, all’interno dei capitoli che compongono La via dello stupore, si possono leggere varie definizioni della stessa, ma la più interessante a me sembra essere questa: «La soaltà che nella luce estiva si palesa, è la visione che accoglie il mondo nella sua unione di sogno e realtà correggendo la conoscenza difettiva che abbiamo di essa a causa dell’occhio».
Questo difetto dell’occhio sembra, infatti, essere il male più diffuso nella società contemporanea: nel capitolo conclusivo de La via dello stupore, Peralta definisce il mondo in cui viviamo  «assurdo e irrazionale, sempre più povero perché privo di questi sogni reali, ossia dei valori e delle virtù trasformati in sogni impossibili per la loro assenza» e l’umanità «arida e nuda», svilita dall’odio, dal crimine e dall’egoismo.
Eppure Peralta crede fermamente che il mondo potrà cambiare grazie all’accoglimento da parte di tutti gli uomini della Bellezza, ‘oggettiva e aperta alla vista di tutti’, anche se ‘non tutti ne avvertono l’essenzialità’. Ancora una volta vengono accostate la figura del Poeta e quella di Cristo: «Non è forse – si chiede Peralta ‒ il Poeta l’emulo di Cristo?» Come Cristo, infatti, somma perfezione, non fu compreso dagli uomini e crocifisso, allo stesso modo, nel mondo contemporaneo così povero, «la Poesia ha il suo calvario e la sua croce e gli uomini sono la sua crocifissione e il suo sepolcro».
La conclusione del capitolo ha toni commossi: si ha l’impressione che Peralta assuma il piglio solenne e ispirato di un profeta che si appella a tutti gli uomini, affinché imparino a riscoprire il valore della Bellezza, dell’Anima, della Poesia: questo ‘universo di carta’ ‒ ed è una sua definizione molto bella ‒ capace di ‘rendere il mondo più confortevole’.
Non credo che La Soaltà di Peralta possa essere facilmente condivisa, intanto per questa tracimazione di idealità e sogno a cui l’uomo contemporaneo è poco avvezzo, e poi per l’arditezza del linguaggio, che viene piegato a dire altro, investito anch’esso da una visionarietà etica non solo dello sguardo, ma anche dell’udito.
Certo è che si tratta di un edificio di concetti e punti di vista assolutamente singolari, sebbene tragga spunto, come ricorda Giannino Balbis che ha firmato la presentazione de La via dello stupore, dalla mistica cristiana, da Leopardi, Novalis, Pascoli, Dostoevskji, Todorov, e, ancora, Dante, Tommaso e tanti altri; a dimostrazione che Peralta non è un sognatore d’azzardo, ma un uomo di cultura che ha tratto un suo frutto particolare dalla lettura di tanti grandi scrittori e pensatori del passato e del presente.
Di primo acchito questa complessa visione di Peralta potrebbe essere giudicata non attuale in rapporto, specie se messa in rapporto con la ‘liquidità’ di cui parla Bauman per definire la realtà in cui viviamo; eppure, come osserva il già citato prefatore Balbis, la soaltà peraltiana, se accolta, porrebbe rimedio al carattere di provvisorietà che ha ormai assunto il valore estetico e porrebbe rimedio «a quel che lamenta Eco a riguardo del ruolo educativo un tempo esercitato da genitori e insegnanti e oggi tragicamente delegato ai mass media e all’industria culturale (…) la soaltà ha il crisma della palingenesi: è teoria estetica, ma anche filosofia di vita, proposta di un nuovo e salvifico galateo degli occhi, della mente, del cuore, nuova mirabile visione del mondo».
Mi piace concludere questo intervento con un pensiero del poeta cretese Nikos Kazantzakis, che mi sembra molto prossimo allo sguardo e alla terminologia peraltiani. Egli dice così: “credendo con passione in qualcosa che ancora non esiste, lo creiamo; l’inesistente è ciò che non desideriamo abbastanza, ciò che non abbiamo irrigato a sufficienza con il nostro sangue, così che possa prendere forza e varcare la soglia oscura dell’inesistenza”.


martedì 30 maggio 2017

Tommaso Romano, "L'Apocalisse e la Gloria" (Ed. Thule - Spiritualità & Letteratura)

di Arturo Donati



Con la sintetica e intensa ricognizione problematica sul senso del viatico terrestre e degli atteggiamenti conseguenti al continuo depauperamento della visione del mondo, Tommaso Romano ci offre una matura riflessione ricca di spunti che contribuiscono ad aprire feritoie sul velo dei luoghi comuni del giudizio.
Infatti il giudizio corrente sulla crisi è sovente ammantato di catastrofismo e di superficiale accondiscendenza sia alle insorgenze reazionarie che al grave progressismo antropologico, sovente dimentico della inviolabilità unitaria della cifra umana.
Gli orientamenti prevalenti dell’immaginario sociale a noi più vicino, in ultima analisi confermano e rimarcano ulteriormente la deprivazione spirituale del nostro tempo che meriterebbe una complessa ed ampia indagine. Infatti In premessa l’autore presenta la sua raccolta di saggi brevi come un semplice contributo per la valutazione critica dei fenomeni antropologici oggi evidenti. Ne “L’Apocalisse e la gloria” Tommaso Romano sviluppa così una disamina argomentativa scevra di qualsiasi perentorietà fuori misura e senza tentare scorciatoie rimarca e perimetra tratti essenziali della dimensione della crisi alla cui consapevolezza nessuno dovrebbe sottrarsi.
Nonostante la brevità dei testi, realizza egregiamente il suo proposito con la chiarezza dell’onestà intellettuale che contraddistingue l’utopista che ha seguito davvero un percorso di conversione personale che lo ha condotto dalle iniziali sfere dell’idealità mai tradita a quelle del sacro custodito dalla Parola.
In primo luogo il tempo presente è caratterizzato dalla frequente elusione intenzionale della responsabilità individuale che viene facilmente derubricata dagli assiomi del giusto vivere. Tale deriva, gravida di deleteri effetti, sempre più evidenti, andrebbe ricondotta alla diretta conseguenza del rifiuto ideologico di qualsiasi teleologia. Rifiuto che mira a escludere ogni fede in un ordine superiore che possa inficiare l’ideologia dominante della socialità astratta che trova facile rispondenza nella vulgata dei luoghi comuni.
Invece secondo ogni spiritualista la socialità astratta essendo priva di qualsiasi cultura dell’essenza, è destinata ad essere prima o poi confusa se non barattata con l’aspirazione al dominio degli eventi quotidiani, quindi con il potere. Tommaso Romano riesce anche a far notare quanto sia negata dal laicismo autoreferenziale la necessità di un’analisi ponderata della tipologia della crisi attuale che è riconducibile principalmente alla visione antispecista dell’uomo.
Allora oggi più che in alti tempi urge e necessita pacatezza e coraggioso equilibrio nel giudizio. Tale preoccupazione è dettata dal discernimento cristiano. Infatti anche se il senso della decadenza degli autentici contenuti di relazione, senza i quali l’uomo non può definirsi tale, è certamente palese di contro la semplicistica valutazione etica su basi relativistiche dell’agire è perdente. La critica, quando avulsa da qualsiasi fondamento dottrinario e ancor più gravemente se insidiata dal comparativo etologico, non genera giudizi piuttosto generalizzazioni anche gravi.
Giudizi acritici che paradossalmente ledono la dimensione spirituale dell’uomo che proprio l’indignazione per il suo offuscamento intenderebbe al contrario proteggere. Secondo Tommaso Romano la saggezza, anche se esercitabili
e in forme limitate o in oasirelazionaali ristrette, può e deve ritornare ad essere un traguardo possibile Ogni tempo infatti offre allo spiritualista la possibilità di accedere ai linguaggi del profondo e di riedificare un senso dell’uomo. Senso da recuperare nella prassi storica, nella vita concreta e contraddittoria per quanto e nonostante il quotidiano induca i più alla rassegnata “lettura orizzontale” del valore simbolico degli eventi. Tommaso Romano si fa forte della lezione fondamentale di Romano Guardini che ha presentito la necessità antropologica di nutrirsi dei segni del divino che donano la possibilità di scoprire come ogni età della vita, che al contempo è sensibilità, utopia, potenza e caduta, di fatto sia teatro dell’incarnazione della spiritualità che sopravvive ai declini e ai ritorni. Una ciclicità che è storica in quanto spirituale così come per Vico, appropriatamente più volte richiamato nello scritto, è spirituale perché storica. Una storicità che non dissipa totalmente i doni dello spirito perchè mai lo potrebbe. Per il Nostro la lezione vichiana rassicura sulla riproposizione della possibilità di ricondurre al singolo la prodigiosa riscoperta del sacro dono della vita. L’uomo nuovo di Tommaso Romano, adombrato nelle brevi pagine che lasciano il segno, si configura come un fiero frammento dell’infinità cosmica.
Per quanto disorientato, l’individuo può maggiormente resistere se la sua forza nasce dalla critica del formalismo dell’agire quando avulso dalla fiducia nella presenza dello spirito. Il divino ci guida comunque e nonostante tutto in ogni istante dello scenario terrestre anche quando appare il tempo in cui “tutto finisce”. Leggere nei segni della fine non il fallimento delle illusioni quanto la prossimità della Parusia che riconcilia l’essere e la vita, la giustizia e l’amore. E’in questa prospettiva che va operata una rivendicazione dei valori non ideologica nè tantomeno nostalgica, in forza della saggezza e dei sodalizi ancora possibili. La critica di Tommaso Romano è e resta costruttiva poiché consente il recupero della preoccupazione per l’uomo pur nella lapidaria invariabilità del giudizio morale di fondo che ove necessario va espresso senza sè e senza ma e ricondotto alla finalità dell’esistenza.
Essa non è completamente tutelata né dalla legge convenzionale né da quella naturale piuttosto dal valore cosmico della presenza umana all’interno delle teofanie dell’essere. Per il cristiano problematico ma non problematicista, l’uomo è, e deve sforzarsi di restare, in prima istanza il custode individuale della legge dell’amore. Certamente non del processo amorevole del fondamento delle intenzioni che possono essere per ingenuità o malafede tradite e subordinate a esigenze materiali ammantate di falsa etica relativistica. Non a caso con chiarezza il Nostro precisa che: “L’unicità dell’uomo nel cosmo è frutto di uno statuto tutto proprio dato da Dio … L’anima individuale fa parte dello spirito cosmico…”
Romano riesce in forza di tale assioma a distinguere la rassegnazione ad accettare i limiti oggettivi del nostro operare, dal grave declino della visione del mondo verso l’accomodamento minimalista spacciato ideologicamente per principio di realtà. Per altro verso l’ipocrisia contemporanea si manifesta con le gravi alterazioni dei linguaggi.
In primis quello liturgico e quello della sfera del diritto, debolezze che assimilano gli accomodamenti imposti da un’etica di basso profilo all’ideologia maggioritaria spacciata per solidarietà sociale. Il nostro tempo registra infatti l’insorgenza di una nuova figura cara all’immaginario sociale, quella dei buoni e dei moralizzatori di professione. Per Romano le distorsioni vanno denunciate con chiarezza senza indire crociate riequilibratici di una impossibile verità assoluta la cui difesa ad oltranza e ad ogni costo, in ultima analisi risulterebbe gravemente lesiva della stessa sfera valoriale che si intenderebbe salvaguardare.
Tommaso Romano ricorre ancora una volta, al suo cristocentrismo spirituale in chiave cosmico-teleologica per proporre una semplice ma non semplicistica metodologia di analisi della pochezza umana al fine di rivendicare l’eterna possibilità concessaci dal Santo spirito di ritrovare comunque vie d’uscita significative alle condizioni che ci affliggono. Un ristoro della libertà, una luce per orientarci negli spazi ristretti dell’agire asfittico delle coscienze anestetizzate dal quotidiano amorfo (perché modale quindi senza stile) e sempre più de spiritualizzato.
Fondamentale a questo punto la rivendicazione delle possibilità reattive ed esemplari insite nella risorsa individuale e nel sodalizio delle coniugazioni umane vincolate dall’invisibile trama che si tesse con l’ascolto della Parola. Con l’ausilio della riflessione senza censura che aspira non al giudizio ma alla saggezza che è sostanzialmente giustizia nel rispetto primario della vita. Non a caso alcune afferenze alla lezione profonda e problematica del miglior Evola echeggiano in alcuni tratti dell’analisi di Romano che rifiuta il “vago sentimentalismo consolatorio”.
Altrettanto condivisibile, a parere dello scrivente, il ridimensionamento delle aspettative ingenerate dal Concilio Ecumenico Vaticano II e delle estemporanee critiche reattive allo stesso, fermo restando il bisogno del Nostro di criticare i processi di secolarizzazione eccessivi senza sminuire del tutto la stessa funzione della Chiesa Cattolica. Essa resta comunque responsabile di mancanza di chiarezza e di non dipanare le compiacenze verso un “cristismo” opinato a misura delle esigenze dell’immaginario contemporaneo che divinizza le virtù non subordinandole alla Verità Assoluta. Verità che se posta al centro dell’anelito umano restituisce ascendenza divina a tutte le qualità vertiginose che sono e restano segno della possibilità di tensione verso le altezze anche al tempo della fine.
Una fine della condizione terrestre e di tutti i criteri di relazione umana tentati o codificati, che non siano da leggere come il definitivo declino della coniugazione antropologica di natura e spirito, piuttosto in chiave di primi albori della Parusia, di propedeutica all’Apocalisse che è rivelazione della piena volontà divina. La stessa che ci ha imposto di esistere per scoprire nel nostro piccolo, a prescindere da qualsiasi livello di secolarizzazione, l’amorevole e misterica cifra di appartenenza all’entropia spirituale dell’Eterno.
Soltanto l’Eterno ci impone il coraggio di rifiutare “l’umanizzazione presunta”, massificata e massificante al sevizio dei poteri e delle tentazioni terrestri che esaltano una vaga libertà senza spirito, quindi il nulla, per negare la trascendenza.

Pur se fortemente distratti dalla visione cui siamo stati destinati è possibile a tutti uno scatto di coscienza quale ultima salvaguardia, alla fine dei tempi, prima che il vincolo tra l’umano e il divino che siamo chiamati a scoprire possa essere sciupato: “Badate a voi stessi perché….quel giorno non vi venga addosso all’improvviso come un laccio”. (Luca 21. 31,34)

da: "Rassegna Siciliana di Storia e Cultura", n. 41 - 42, 2017

domenica 28 maggio 2017

Teresa Riccobono, "Sulla porta" (Ed. Drepanum)

di Maria Elena Mignosi Picone

Prendendo in esame la silloge poetica di Teresa Riccobono, che è con questa alla sua prima pubblicazione, rimaniamo immediatamente colpiti dalla immagine della copertina e dal titolo, che ci lasciano un po’ perplessi per quel vago senso di mistero che suscitano. Vi sono raffigurate una porta, che è chiusa, e una sedia, che è vuota, e il titolo è “Sulla porta”. Il tutto richiama vagamente una scena teatrale. Scarna, nuda, ma densa di significato. Ed è questo che andremo ad interpretare,  prendendo l’avvio proprio da qui perché, come capita per tutti i libri, è nella copertina che si trova la chiave di volta dell’intera opera.
Cominciando a sfogliare la silloge, ci imbattiamo subito in una poesia proprio dal titolo “Sulla porta”,  dalla quale evidentemente l’autrice ha desunto quello del libro. Essa ha inizio così: “Risalire / le scale del tempo / rientrare piano / …e sedersi sulla porta”. La poetessa inoltre vi accenna a “sogni d’infinito”, a “Ideali”, e chiude il componimento con queste parole: “…e ora, nei rari ritorni, / ora che è mio / il segreto delle radici / …ora, qui, soltanto / le ombre vacillano / al margine del pianto”. Ora subito balzano dai precedenti versi due elementi: le radici e i sogni.
Altre poesie insistono su un altro elemento che ha attinenza con i sogni, e cioè l’attesa. Ben due di queste portano il  titolo, “Attesa” e “Lunga attesa”. E spesso questa parola ricorre nei suoi versi: “Il cielo d’ognuno è qui, / in questa attesa, / in una strada curva / che arriva improvvisa / sotto l’arco del sogno”, o anche “Le tue mani, padre, / tiepide nicchie / dove potevo custodire i miei sogni /… e tu mi rispondi con un canto inaspettato, / che ripaga / mille anni d’attesa”.
Potremmo a questo punto azzardare una ipotesi: potrebbe la porta  rappresentare il passato e la sedia invece il futuro?
Però ci chiediamo: “Perché la porta è chiusa e la sedia è vuota?”. Chiusura e vuoto sono due fattori che esprimono negatività la quale richiama alla mente il pensiero, dalla connotazione altrettanto negativa, in genere,  sul tempo, di Sant’Agostino.  Il grande santo affermava che il passato non è più, il futuro non è ancora, e che dunque solo il presente esiste. In effetti in concreto è così: noi viviamo solo il momento attuale. Il passato si vagheggia nei ricordi, e il futuro nei sogni; ricordi che si ammantano di varie sfumature come la nostalgia o il rimpianto, e sogni che si accarezzano con la speranza di realizzarli ma che non sempre hanno buon esito perché, come  dice la nostra poetessa, “il tragitto di vita è brullo” ed essi talora “vanno per altre strade”.
Rimane solo di stare sulla porta. E’ qui che fluisce la nostra esistenza.  L’essere umano in fondo vive come sospeso tra passato e futuro e piantato proprio sulla porta. Nel presente. Questa posizione però non  è statica ma dinamica. Per comprendere questo concetto basti pensare al moto del pianeta per cui, pur stando fermi, in fondo ci si sta muovendo. Eh sì, perché, anche là, sulla porta, in ogni attimo, il futuro si fa presente e il presente passato.
Si avverte infatti in questa opera  di Teresa Riccobono, nell’apparente stasi (la porta chiusa, la sedia vuota) un dinamismo sotterraneo a livello sia materiale che spirituale, il quale si articola sia nel movimento del fluire del tempo (anche dei vari momenti della giornata), sia nella moltitudine dei ricordi, dei sogni, e in una vivacità di animo fervido e impaziente; così invece di dire “di sera” o di notte” la poetessa dice: “…saliva maliardo , / il canto salmastro della sera”, o “lentamente smemora la luce /…sale la sera emanando mestizia” o ancora “…giunge a piedi scalzi il silenzio della notte”, dove i verbi salire e giungere esprimono movimento; inoltre nella poesia “Altalena” leggiamo: “Un dolce cigolio / i miei piedini tesi / a scavalcare il mondo / e mio padre mi spingeva / a volare lungo la strada / di ginestre incantate / fin sopra il cancello / che tagliava lo sguardo / verso il mare “.  In “Anelito” scrive: “Ragazzina guardo il mare / languido d’azzurro / dietro la finestra di un pomeriggio domenicale, / …tolgo le scarpe / e tento di spiccare il volo, /…Quando le ali, quando?”
 Gli ardenti sogni, da fanciulla, certamente,  sono stati il preludio alla realizzazione della sua vita da adulta. E se oggi Teresa Riccobono ha raggiunto la posizione di docente nel liceo psicopedagogico ed è anche madre di famiglia, lo deve proprio a questi. Giovanissima infatti intraprende questo cammino: “…mio padre mi saluta con un cenno, / il liceo in città, / le supplenze sui monti, / l’amore che ti travolge e ti sorprende / e poi l’impegno, vivevo il mio tempo, / un tempo bello ed inquieto”. Oggi inoltre è poetessa e scrive in lingua e in dialetto; ha ricevuto lusinghieri apprezzamenti e importanti premi. Tutto questo come frutto della sua attività. I sogni comportano però oltre che ardore, anche un certa inquietudine, non si sa quel che accadrà. Non se ne ha la certezza.
Una poesia che sembra molto significativa nell’esprimere il senso di inquietudine che è propria del futuro-presente, del futuro che trasmuta in presente, cioè quella perplessità di fronte all’ignoto, al mistero, è la poesia “Oleandri” dove troviamo: “Oleandri in fila / nel sole / ai bordi del vuoto” , immagine che rievoca la siepe della poesia “L’infinito” di Giacomo Leopardi. E la nostra continua: “…i fiori e lo spazio / confine tra mare e cielo / e voi, oleandri della terra, / e un quesito sparito / per sapere / se lì c’è la fine”.
Ma se dal futuro, dai sogni, realizzati o meno, scaturisce in certo modo  il presente, anche il passato incide nel costruirlo. Così persone e luoghi balzano nella mente dell’autrice al ricordo del passato, della sua vita d’infanzia: “Le tue mani, padre, / tiepide nicchie / dove potevo / custodire i miei sogni”; “Mia madre non amava il Carnevale, / il chiasso vuoto la infastidiva”; “…eri Sara, la zia prediletta, / e noi, piccoli, i figli che non avesti”; ma anche la “…casa natale, / risveglio lento di campane / al canto dei galli /…passeggiate lungo i sentieri, / cadenzate dal bastone del nonno / e dai suoi racconti”; e il suo caro albero: “…vecchio ulivo / piantato dai miei padri, /…Tra gli squarci profondi  / trovo i graffiti dei miei anni / passati all’ombra dei tuoi silenzi”.
Dunque nella vita di Teresa Riccobono confluisce il passato nei  ricordi dell’infanzia della quale rimane in lei specialmente il senso della purezza: “Tornerò a te, / amato paese / della mia infanzia, / tornerò / alla fonte Mancusa / a bere nell’incavo roccioso, / cercando antiche purezze / di acque limpide di vena” e nella infanzia ha assaporato  il gusto della quiete, come  nella poesia “Al vecchio ulivo”: “Ora nella quieta oscurità / la voce del vento / si perde tra le case strette / e le bianche pietre del fiume, / inerme aspetto / di farmi ancora consolare / dalla tua pace antica”. La poetessa rifugge dalla frenesia della fretta: “…mi resta ancora / questo rispetto per la notte / e il vivere lento”.
Teresa Riccobono, nativa di Palermo, originaria dell’Albergheria, nutre amore profondo per la sua città, pur riconoscendone le  pecche: “Sto dietro la finestra / di questo inverno / a guardare da quassù  / la città amata, / immobile, chiusa / dietro portoni giganti, / che negano agli occhi / scatole miracolose di giardini”; Palermo “regina sonnolenta /…aquila morente”.
La Sicilia, l’Italia, l’Isola Tiberina, Ventotene e inoltre Parigi, riaffiorano nei ricordi di soggiorni, gite e viaggi, fatti nel corso degli anni.
Insiste certo particolarmente sulla sua terra, la Sicilia, mettendone in risalto le bellezze paesaggistiche: “D’estate mi porto alla torre, / …mi lascio dietro il chiasso vacanziero /…Seguo il sentiero di agavi e ginestre /…D’improvviso s’apre l’azzurro delle tue acque / …e l’occhio appagato spazia / fra il bianco delle case e le strade del porto, / spazia fin dove tu, mare, ti unisci al cielo”. Spesso ritorna insistente il mare con l’azzurro delle sue acque. E  anche il suo colore, il blu. “Aspettando il blu”, “i primordi del blu”.
Un altro elemento del paesaggio siciliano, questa volta però non della natura, che ricorre è la testimonianza di antiche civiltà, specialmente quella greca, nelle rovine archeologiche. E di certi luoghi rievoca pure il mito che li avvolge.”…scivola la barca sul fiume / sfiorando i papiri e /…avvolta nel lume del sogno / ritorna la voce di Ciane / che invano l’amica tentò di strappare / a Pluto divino, / preso d’amore”.
A questo punto viene spontaneo un accostamento, con un pittore però, precisamente coll’artista messinese Salvatore Caputo i cui dipinti hanno una caratteristica dominante: il blu che avvolge il paesaggio siciliano su cui si stagliano i ruderi della civiltà greca. Sono quadri meravigliosi, molto suggestivi, che trasportano in un’atmosfera di incanto.
Il suo spirito poetico  Teresa Riccobono lo manifesta nella capacità di incanto e di stupore: “…e adagio si rientrava / con l’ampia borsa / pesante di conchiglie, / di trepide attese, / di stupori senza fiato”; “Mi riposerò all’ombra del bosco / ammirando l’incanto / del vallone / finchè giungerà / la mia pace”; “…in silenzio aspetto, / pieni gli occhi di stupore”; “la veglia d’incanto”. Sono infatti incanto e stupore quegli stati d’animo che preludono allo sgorgare della poesia, in un animo sensibile. E la nostra autrice li ha manifestati sin da piccola.
Nella poesia “ L’ombra del tempo” scrive: “Triste ci si accorge  / dello sbiadir dei fiori, / d’amori e di memorie, / e il cuore rassegnato tace, / resta ancor questo stupore / che mi fa guardare il mare”
Ora possiamo osservare come  la poetessa metta in rilievo l’aspetto dolceamaro sia del mare che del tempo. A proposito del mare si esprime così: “Tu motore di civiltà, / tu, scrigno generoso, mi riporti le greche melodie, i richiami dei marinai / e le luci delle lampare che continuano / languide il disegno delle stelle”, e confida: “Ti amo quando calmo ti distendi, / quando come un cavaliere baci la terra, / ti amo quando ti culli fra spume di perle”, ma aggiunge: “La tua potenza mi spaventa, / mi spaventi quando scateni le tue forze / e impietoso trascini tra i neri vortici i miseri legni e le ultime speranze”. Dolceamaro anche il tempo: “Stillano i giorni il loro amaro miele”; “è prato di nuvole il tempo” che trascorre con la sua “luce fredda”, con il suo “canto cieco” e “Passano veloci gli anni, come i treni, saettando su binari levigati dal tempo”. Il trascorrere del tempo è lampante nella crescita dei figli: “…e penso ai nostri figli /  che dormivano al seno /…e ora son uomini e donne / e vanno per il mondo”. Allora potremmo identificare il tempo col fiume al quale la poetessa si rivolge con soavi accenti: “Dolce mio fiume / d’acque lunari, /…hai portato con te sorrisi e pianti”, nella poesia “C’è ancora tempo per il mare”.
Tempo e mare sono sempre in movimento, il tempo nel fluire dei giorni e delle stagioni. E scorre incessantemente. Si sente quasi riecheggiare il famoso detto del filosofo greco Eraclito: “panta rei”, “tutto scorre”.
Il passato, pur evanescente, però ogni essere umano lo porta dentro di sé. Ed è su questo che costruisce il suo presente. Rimangono le tracce, sono le radici. E sono queste che danno linfa e producono fiori e frutti. Così Teresa Riccobono porta impressa in sé dei suoi luoghi di origine, della sua amata Sicilia, la solarità. E inoltre l’anelito alla limpidezza, alla quiete, nello stupore e nell’incanto.
Ella riversa in quest’opera la sua vita e risalta indubbiamente come la protagonista perché tutto ruota intorno a lei. Però c’è, occulto e recondito un altro, diciamo, personaggio, che fa da co-protagonista. Dietro le quinte. E’ il tempo. Il suo scorrere, come il fiume, serpeggia nei versi, e allora Teresa Riccobono ci appare come la pianista che trae dalle note dello spartito la musica, perché le note delle sue parole generano una musica, ma una musica speciale, la musica del tempo. Come lo sciacquio del mare. 

sabato 27 maggio 2017

ET – ET. Un libro su Vittorio Messori. Nel tempo triste della confusa chiesa dell’aut – aut.

di Marco Tosatti

Esce un libro su Vittorio Messori, che intende proporre una serie di “ipotesi” intorno all’importanza dell’attività̀ intellettuale di un maestro nel campo dell’apologetica Cattolica. E’ un libro, agile, di facile lettura, ripercorre queste “ipotesi”, vie all’annuncio Cattolico suggerite da Messori ha suggerito di percorre nel corso di una ormai quarantennale attività̀.
Aurelio Porfiri, autore dell’opera, racconta: “Quando ho accennato a Vittorio Messori la mia intenzione di scrivere un libro che lo riguardava, va detto per onestà, sono stato cortesemente dissuaso dal farlo. Questo, non per sfiducia o altro, ma per quel profondo senso di riservatezza che c’è in Messori e per la paura che l’attenzione possa essere spostata su di lui, quando invece egli stesso ha speso tutta la sua vita perché́ l’attenzione fosse per il Cristo (ed anche per Maria, sua Madre, per la quale solo abbastanza tardi ha scoperto una devozione tale da dedicarle libri impegnativi). Ho dovuto rassicurarlo, gli ho spiegato che non era un libro biografico in senso stretto, ma un libro in cui, attraverso il suo lavoro di scrittore, si cercava di fare luce sul mestiere dell’apologeta, del giornalista, sull’essere cattolico a cavallo di due secoli. Spero si sia convinto delle mie buone intenzioni. Comunque, il risultato è questo libro, scritto materialmente in Hong Kong durante 10 intensi giorni, ma pensato concettualmente nell’arco di una intera vita, la mia, vita in cui i libri di Messori hanno avuto una grande importanza”.
E’ un testo che vuole presentare Messori a chi (ma è difficile trovarlo) non lo conosce; ma è soprattutto un testo utile per ricordare, in questi tempi in cui c’è chi rimprovera a Gesù di non aver usato registratori, alcuni concetti di base per non fare una caduta libera in un mare di banalità assolutizzate.
Porfiri mi ha chiesto di scrivere una prefazione. L’ho fatto con piacere, e ve la offro qui, consigliando la lettura del libro, e dell’intervista inedita che lo accompagna. E’ stata una salutare boccata di aria fresca, in questi tempi pieni di miasmi…


(Et‐et. Ipotesi su Vittorio Messori. Prefazione di Marco Tosatti. Hong Kong: Chorabooks. EBook (formato Kindle) Euro 8.99 ISBN 9789887725909

Cartaceo Euro 15.08 ISBN 978‐9887725916)

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Deve essere veramente grande – e giustificata – l’ammirazione che Aurelio Porfiri ha per Vittorio Messori, per scrivere un libro su di lui; per ringraziarlo di essere stato lo strumento geniale di un percorso spirituale che non si è più fermato. Aurelio Porfiri è un uomo pieno poliedrico, sempre spumeggiante di iniziative di ogni genere; per cui scrivere un libro per dimostrare gratitudine e ammirazione va da sé. Tutto questo per dire che ci sono sicuramente moltie, ma davvero molte altre persone che libri non ne scrivono, però nutrono gli stessi sentimenti nei confronti di Vittorio Messori. E a ragione. Perché siamo di fronte a uno degli apologeti – e uso questa parola nel senso più nobile del termine, per fargli un complimento – più importanti dei nostri tempi. Non pensiate che esageri se mi vengono in mente nomi come quello di Chesterton, Clive Staple Lewis, Charles Peguy, per non citarne che alcuni.
Tutti protagonisti della grande sfida che da oltre due secoli impegna il mondo, anzi il Mondo e la Chiesa; e che in ultima analisi consiste nella domanda di sempre: si può ancora credere, e perché, e a che cosa?
La risposta di Messori è in positivo: sì, si può credere. Non solo: credere è la cosa più razionale che l’uomo di oggi possa fare, e credere a questa storia incredibile che ha origine nella Palestina romana di duemila anni fa.
Leggere il bel libro di Aurelio Porfiri non è solo gradevole ma utile e necessario. Perché ricorda tutte le razionali, fondate storicamente, puntigliosamente controllate battaglie per ricostituire la verità storica contro un paio di secoli – e un pezzetto di quello che stiamo vivendo almeno – di diffamazione, denigrazione e pura e semplice menzogna nei confronti dei cattolici, e della Chiesa cattolica. Perché gli attacchi sono sempre gli stessi, ripetuti in base alla propaganda, a cui quello che dice la Chiesa da’ fastidio anche e ancora oggi, come accadeva nel ‘700, nell’800 e nel ‘900.
Vittorio Messori ovviamente lo conosco da molti anni. E’ di qualche anno più anziano di me (sono nato nel 1947) e le nostre strade si sono incrociate più volte. La prima fu nel 1981, e allora per me era solo un nome. Il vaticanista della Stampa, Lamberto Furno, decise di lasciare, e andare a lavorare con Antonio Ghirelli in un giornale che non ebbe lunga vita. Si pose il problema della successione. Il vicedirettore della Stampa, Giovanni Trovati, con il suo fiuto usuale, voleva Vittorio Messori, autore di “Ipotesi su Gesù”, in quel posto. Il direttore, Giorgio Fattori, per motivi che non ho mai saputo, optò per il sottoscritto. E possiamo dire che questa scelta non so se sia stata fortunata per Vittorio, ma per i suoi lettori sì; perché gli ha consentito di dedicarsi quasi totalmente alla produzione editoriale, senza restare invischiato nella quotidianità dell’informazione, eccitante ed affascinante, ma sicuramente dispersiva.
Da allora ci siamo trovati – non fisicamente, ma spiritualmente sì – molte volte. In storie che hanno alcune caratteristiche comuni: entrambi ci siamo ritrovati cristiani da radici e vite certo ben lontane da madre Chiesa.
Il lavoro che Vittorio ha compiuto da allora – siamo negli anni ’70 – lo colloca egli stesso nel libro in una prospettiva storica: “È una storia che comincia da lontano. A partire dal Settecento, l’Illuminismo si propose soprattutto un obiettivo: sostituire la religione con la politica e la cultura. Intesa, quest’ultima, nel senso restrittivo, accademico. Non a caso, quella culturale divenne una vera e propria religione, con i professori (e, in genere, gli intellettuali) come nuovi sacerdoti che sostituissero i preti. Significativo l’uso del termine cattedra (il docente come cattedratico), soprattutto universitaria: non dimentichiamo che «cattedra» – da cui «cattedrale» – era il luogo dal quale il vescovo insegnava. Ora, il magistero passava ai professori. Alla devozione si sostituiva l’erudizione; al seminario il collegio universitario; al breviario il manuale; alla summa teologica quella enciclopedia delle scienze e delle tecniche che non a caso fu lo strumento cui subito gli illuministi misero mano”.
Da allora l’agenda non è cambiata: e Vittorio si è messo all’opera, e ancora lavora, per dimostrare che è un’agenda fasulla, e che credere, razionalmente, laicamente, senza rinunciare al proprio cervello è molto meno bigotto dell’alternativa. E dal momento che come scrittore è brillante, e la sua logica è stringente, ci riesce anche, e bene.
Siamo nel centenario delle apparizioni di Fatima, e non si può non citare quello che Vittorio dice di questo fenomeno straordinario,, ponendolo a fianco di un’altra mariofania, quella di Lourdes. “Ma l’atmosfera di Lourdes è pacata, serena. L’atmosfera di Fatima è invece drammatica, è gravida di segreti, gravida anche di eventi spettacolari, come il sole che si mette a roteare. È anche una apparizione inquietante: addirittura Maria spaventa i bambini, facendo vedere loro l’inferno. E quindi l’atmosfera a Fatima è diversa, è un’atmosfera apocalittica, escatologica, mentre quella di Lourdes è un’atmosfera serena… A Fatima
invece Maria conforta nel disastro già in corso, perché le ideologie del mondo si stavano davvero scatenando, appare in piena prima guerra mondiale. Perché durante la prima guerra mondiale? Perché questa guerra è stata quella dell’ideologia nazionalista dopo la quale arriverà, l’ideologia marxista. Il ventesimo secolo è stato chiamato il secolo delle idee omicide”.
A Vittorio sono grato, oltre che per la sua amicizia, per avermi insegnato tanto tempo fa come la Chiesa cattolica romana debba essere quella dell’et-et, e non quella dell’aut-aut. In essa sono convissute sempre anime differenti, e la saggezza dei Pontefici passati è stata quella di capirlo, riconoscerlo e accettarlo. Anche nella scelta degli uomini. Una prassi che nell’attualità che viviamo ci sembra trascurata; e infatti mai come in questo momento storico si percepiscono divisioni e fratture nella Chiesa.
Il libro di Porfiri termina con un’intervista molto familiare, cuore a cuore. E su un punto dobbiamo eccepire. Eccolo: “Lascio ad altri il giocare a fare i giovanilisti, sforzandosi di rimuovere quell’anagrafe che in realtà è implacabile. In fondo, l’11 febbraio 2013 – non a caso, credo, nella ricorrenza di Nostra Signora di Lourdes – in quel giorno in cui Joseph Ratzinger ha rinunciato al suo mandato di Pontefice, ho sentito che il mio tempo era finito. E’ finito soprattutto perché i miei Papi sono stati Giovanni Paolo II e, poi, Benedetto XVI. Adesso tocca ad altri misurarsi con altri pontificati”.
Eh no, Vittorio. Questa non te la facciamo passare. Un po’ di civetteria va bene, rientra nel personaggio che sei, ma è troppo presto per dire: “Oggi si fanno grandi preparativi per un qualunque viaggio turistico e ci si dimentica di prepararsi per il Viaggio per eccellenza, quello che ha per meta nientemeno che l’eternità”. Preparati come vuoi, ma non in silenzio; e per favore, non tirare i remi in barca. In una Chiesa in cui ci si tirano in testa gli aut-aut ogni cinque minuti c’è proprio bisogno che la tua penna ci ricordi ancora, e di frequente, la ricchezza dell’et-et, lo splendore e la grandezza che ciò ha significato per Roma. C’è più che mai bisogno di te, e della tua razionalità, quella che ha convinto così tante persone che credere è la cosa più logica, nel momento in cui il Preposito Generale della Compagnia di Gesù afferma che non sappiamo bene che cosa Gesù ha detto perché non c’erano registratori…(Parentesi: ma voi impegnereste la vostra vita sotto il Nome di Qualcuno che non si sa che cosa abbia detto realmente?). E tu vorresti calare le vele proprio ora? Ma ti pare?

Massimo Gandolfini, Stefano Lorenzetto, "L'Italia del Family day" (Ed. Marsilio)

di Domenico Bonvegna

L'altra sera presso il centro culturale Rosetum di Milano in occasione della presentazione del libro “La famiglia in Italia. Dal Divorzio al Gender” (Sugarco) di Invernizzi e Cerrelli, è intervenuto anche il professore Massimo Gandolfini, presidente del comitato “Difendiamo i nostri figli”. In poche battute si è capito di che pasta è fatto il medico bresciano, che da alcuni anni sta guidando la battaglia culturale a favore della famiglia in Italia. Ascoltando il suo caloroso intervento mi viene spontaneo accostarlo a quegli uomini dal“Codice cavalleresco”, che Roberto Marchesini descrive nel suo ottimo libretto. Oppure a quegli “Italiani seri”, che Vittorio Messori, evocava in un libro, riferendosi al beato Fa' di Bruno. Tuttavia per chi vuole conoscere meglio Gandolfini deve leggere, “L'Italia del family Day”, (Marsilio Editori, 2016) scritto dallo stesso Gandolfini insieme al giornalista Stefano Lorenzetto.
Massimo Gandolfini, ama talmente la famiglia che ha adottato ben sette figli perchè non ne poteva averne di suoi. Ha organizzato il Family Day del 20 giugno 2015 e del 30 gennaio del 2016 al circo Massimo a Roma.
Il professore quando parla è molto chiaro e preciso. In questo libro racconta la sua vita, pur provenendo da una famiglia cattolicissima, militava nei Cristiani per il socialismo. Professava la teologia della liberazione. I suoi riferimenti spirituali e politici erano in personaggi particolari come dom Franzoni ed altri compagni preti di sinistra. Successivamente cambiò vita, dopo aver incontrato il Cammino neocatecumenale, facendogli intraprendere un itinerario di fede che si è rivelato fondamentale per la sua vita. “Questo percorso di fede non è estraneo alla scelta di campo compiuta dal leader del Family day, discendente da una nobile famiglia che da almeno mezzo millennio si batte per questo, per mantenere intatto il depositum fidei, il patrimonio della verità e dei precetti morali insegnati da Gesù”. Nell'introduzione Lorenzetto scrive che la figura del condottiero è stata sempre presente nel suo casato. Pare che la compagnia di cavalleria di Castel Goffredo fosse comandata dal capitano Domenico Gandolfini.
Gandolfini è un chirurgo, specialista in neurochirurgia e psichiatria e dirige il Dipartimento di neuroscienze e chirurgia testa-collo dell'Ospedale Poliambulanza di Brescia. Fa un lavoro difficile e impegnativo, come quello di “scoperchiare un cranio”. A volte deve rimanere concentrato anche per 18 ore, in piedi, senza mangiare e dormire.“Non è preso dal panico quando mette le mani sulle meningi? Domanda Lorenzetto e lui risponde: “Adesso aprire la testa è diventata una cosa normale. Ma le prime volte mi ponevo tutti gli angosciosi dubbi[...] Mi dicevo: sto manipolando l'organo fondamentale di questa persona, dal quale dipendono la sua vita, le sue relazioni affettive, la sua attività professionale, la sua cultura”. Praticamente il professore Gandolfini compie da cinque a sette interventi a settimana. Nella sua carriera ne ha fatti all'incirca 15.000.
Seguendo le informazioni di Lorenzetto, apprendiamo che Gandolfini è anche docente di neurochirurgia all'Università Cattolica di Roma, ha scritto diversi studi e pubblicazioni scientifiche e partecipa come relatore a centinaia di congressi, convegni, conferenze all'anno. Non basta, è anche presidente dell'Associazione medici cattolici lombardi; vicepresidente nazionale dell'associazione Scienza & vita. Inoltre da vent'anni è consultore della Congregazione delle cause dei santi. Per conto del Vaticano, il perito neurochirurgo ha esaminato con freddezza scientifica tra i tanti, i miracoli attribuiti a Madre Teresa di Calcutta, e a Giovanni Paolo II.
Comunque da questo ricco curriculum secondo Lorenzetto,“si capisce meglio perchè il marito, il padre, il medico Gandolfini si sia imbarcato in questa temeraria impresa del Family day. C'è di mezzo qualcosa che ha a che fare con la nobiltà vera, quella d'animo. Nessun tornaconto personale. Nessun calcolo delle convenienze. Nessuna fregola di vanagloria. Solo un inderogabile dovere di coscienza lo ha obbligato a raccogliere una bandiera dalla polvere e a mettersi alla guida di un'altra Italia, popolosa o deserta che sia, di sicura scarsamente rappresentata dal parlamento e dai mass media”.
A questo proposito è veramente significativa l'esperienza dei coniugi Gandolfini che riguarda l'adozione dei sette di bambini trovati in giro per il mondo. Hanno raccontato, le difficoltà, le peripezie, gli ostacoli, che con la pazienza e l'aiuto di Dio hanno sempre superato.
Tutti si chiedono e gli chiedono se questa Italia del Family Day diventerà un partito, ci sono i precedenti storici dell'insuccesso della lista di scopo“Aborto? No grazie”, che il giornalista Giuliano Ferrara, in un esempio di sconsiderata generosità, presentò per la Camera alle elezioni del 2008, ottenendo la miseria di 135.578 voti”. Certo la questione della rappresentanza politica dei cattolici, dei difensori della famiglia naturale e cristiana è un argomento aperto, che prima o poi bisognerà affrontare. Della questione se ne é occupato Alfredo Mantovano esponente di rilievo di Alleanza Cattolica con una intervista su Formiche.net  (“Come andare oltre il Family Day”, 2.2.17).
Nel dialogo con leader del comitato “Difendiamo i nostri figli”, il testo affronta tutti i temi scottanti inerenti alla “buona battaglia”, culturale, sociale e politica che occorre combattere sulla famiglia di oggi. Si passa dall'aspetto dell'organizzazione dei Family Day, al ribadire che cos'è la famiglia naturale, l'omosessualità, il matrimonio omosessuale, le adozioni gay, l'utero in affitto, infine l'ideologia del gender.
Il medico bresciano racconta i vari passaggi organizzativi dei raduni a Roma, chi ha aderito e chi no. Chi riteneva inutile e controproducenti le manifestazioni di piazza, come il Forum delle famiglie, Comunione e Liberazione.
Il rapporto con la politica, in particolare con il Pd di Renzi è abbastanza conflittuale, “Il nostro premier prende ordini da Barak Obama”, che è al servizio dei padroni del mondo, che non sono certo i governi. Gandolfini fa riferimento a oltre 200 aziende americane, tutte insieme, hanno chiesto e ottenuto da Obama nel 2013, l'abolizione del marriage act, la legge federale che, definisce il matrimonio esclusivamente come unione tra uomo e donna. Tra questi colossi c'è Google, Apple, Microsoft, Facebook, Amazon, Ebay, Intel, Pfizer e tanti altri. Multinazionali in grado di orientare l'opinione pubblica e determinare le sorti dei governi.
Comunque sia il comitato è apartitico, aconfessionale e non ha fini di lucro e si propone attraverso convegni, manifestazioni, dibattiti ad “affermare, promuovere, diffondere e difendere nella loro interezza”, quei principi enunciati nel manifesto in difesa della famiglia naturale e dei figli. “Una famiglia debole significa una società debole”. Gandolfini nella destrutturazione della famiglia, da credente, vede lo zampino del diavolo, che è per sua natura divisore, il separatore. “Il diavolo è l'antagonista della verità. Infatti oggi vengono attaccate le verità più elementari”. Del resto “una società debole, formata da figli con orientamenti sessuali incerti e mutevoli. È altissimamente condizionabile da qualsiasi imput proveniente dall'esterno”. Avremo un mondo di figli che non hanno genitori, ne avranno quattro, cinque, non avranno nessun riferimento, cercheranno ragioni della loro esistenza nella cultura corrente, nel consumismo, nei prodotti, nell'Iphone o l'Ipad.
Per il professore Gandolfini,“siamo diventati una somma di individui, non siamo più una somma di persone in relazione”. Siamo soli con Facebook, con Twitter, con Google, con i social network che sostanzialmente propagandano e sostengono l'ideologia gender.
Gandolfini ci tiene a precisare che la sua battaglia culturale non è contro le persone, ma contro le idee, “la nostra cultura ci obbliga a combattere le idee sbagliate, non gli uomini che le rappresentano”. La campagna culturale di Gandolfini è di ordine educativo e formativo e proseguirà per dare voce a chi non ha voce.
Praticamente le associazioni Lgbt rappresentano una minoranza esigua nel nostro Paese, eppure l'arroganza di Renzi ha fatto in modo di trattarli come “maggioranza”, infischiandosene della aspettative della vera maggioranza degli italiani. Qualcuno ha scritto che siamo ormai alla dittatura dell'ideologia gender, del nuovo marxismo.
Nel libro Gandolfini riporta del suo colloquio con Papa Francesco, che gli ha ribadito di andare avanti nella battaglia, nella missione a favore della famiglia e dei figli. Il Papa gli ha parlato della pericolosità della “colonizzazione del gender” nella cultura e nella scuola.
Chiaramente il movimento, il comitato non ha bisogno di “vescovi piloti”, bensì di “vescovi pastori”, che indichino con chiarezza la via della verità. Del resto,“spetta ai laici, illuminati da una coscienza ben formata, compiere scelte sociopolitiche coerenti e idonee, mentre spetta ai pastori non fare politica, ma indicare i grandi valori e i principi del messaggio cristiano, necessari per costruire una società più giusta, libera, pacifica, orientata al bene[...]”. Questo è stato il pensiero espresso dal Santo Padre Francesco.
Il presidente del Comitato difendiamo i nostri figli, fa riferimento alla scelta di Adinolfi e Amato di fare il partito, “Il popolo della famiglia”. E' una loro scelta personale che non si può condividere, anche perchè è molto difficile che il popolo del Family Day, possa trasformarsi in un partito. Non siamo al tempo di De Gasperi o del banchiere Giuseppe Antonio Tovini o del medico Luigi Gedda, il fondatore dei Comitati Civici.
Gandolfini ama precisare che i suoi discorsi hanno pochissimo di confessionale, “saranno soltanto ispirati alla ragione e alla scienza”. E' particolarmente abituato all'incomprensione, anche alle aggressioni, di chi non accetta l'ovvietà, la verità delle cose. Il professore utilizza spesso l'esempio della mela, che non può trasformarsi in pera. Di fronte all'evidenza,“cessa ogni contesa, ritirati da costui, perché ormai le sue capacità razionali si sono indurite come pietre”.
Tuttavia il professore non ha paura di testimoniare la verità sulla famiglia, è pronto di andare anche in prigione. “Bisogna essere testimoni della verità, sempre, a qualunque costo. Non si possono fare sconti alla verità”. Bisogna essere meno intransigenti, meno aggressivi, bisogna cercare il dialogo? Tommaso Moro e San Giovani Battista ci rimisero la testa per non cedere al volere dei loro re.
Si può discutere sulla manovra economica, sulle pensioni, sull'alta velocità, ma sui valori fondamentali della società non è possibile nessun accomodamento. Anche se usciremo battuti, perdenti, almeno possiamo dire come San Paolo, rinchiuso nel carcere Mamertino e avviato verso il martirio: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”.

mercoledì 17 maggio 2017

Lo studio il gesto piu' rivoluzionario che possiamo compiere.

di Domenico Bonvegna

Volete ribellarvi al mondo del conformismo becero, del politicamente corretto, allora dovete dedicarvi allo studio. Lo scrive Paola Mastrocola, nel suo “La passione ribelle”, Editori Laterza (2017), un libro controcorrente e provocatoriamente scandaloso. Del resto la professoressa di Torino ci ha abituato a questo genere di scrittura.“Chi studia è sempre un ribelle”, è uno che sta dall'altra parte, rispetto al mondo che corre sempre e non si ferma mai.“Chi studia si ferma e sta: così si rende eversivo e contrario”. Lo studioso, forse è uno scontento di sé, ma anche del mondo. Ma chi studia non fugge dal mondo, “è solo una ribellione silenziosa e, oggi più che mai, invisibile”. “La Passione ribelle” è un libro dedicato “a tutti i ribelli invisibili”, che studiano libri. Pertanto è dedicato anche al sottoscritto che legge e che più o meno si sente ribelle contro questo “mondo” di oggi che non ci piace.
La tesi che percorre il libro è che lo studio è sparito dalle nostre vite. Nessuno studia più.“Lo studio sa di muffa, è passato, è vecchiume”, scrive la Mastrocola. Già la parola suscita, malessere, un'avversione. Appena sentiamo la parola “studio”, immaginiamo un anziano professore seduto a un tavolo di biblioteca, occhiali a metà naso, cordicella penzola. Oggi chi osa proporre di studiare per risolvere qualche problema che magari affligge la società di oggi, significa voler perdere in partenza, significa volersi male.
Per la Mastrocola, la parola “studio”, è sparita dai giornali, dalle tivù, dai governi, perfino dalle scuole.“Sentiamo mai l'ospite di un talk show pronunciare frasi del tipo: 'Aspetti mi lasci studiare bene l'argomento, poi le risponderò'? O lo speaker del telegiornale: 'Oggi il Ministro ha rifiutato le interviste perché doveva studiare'?
Addirittura anche a scuola non si parla di studio.“In trent'anni di pseudoriformismo scolastico, in cui più o meno ogni ministro che si è succeduto ci ha messo del suo per riformare una scuola che di fatto non è mai stata riformata, non ho mai sentito la parola 'studio'”. E' stata una parola tabù, per i vari saggi che presiedono le varie pseudo riforme.
Il testo di Mastrocola a tratti appare oltre che provocante anche per certi versi irriguardoso. Studiare significa incrinare oscurare la nostra gioia di vivere. “Lo studio ci sottrae a tutto quel che ci affascina. E' mettersi i tappi nelle orecchie davanti alle Sirene”. Lo studio, “è Leopardi che perde la giovinezza, si rovina la salute e rimane come un cane”. Del resto non abbiamo mai sentito qualcuno che, alla domanda: “Cosa ti piace fare nella vita?” risponda: “Studiare”?
Capita spesso sentire persone importanti, affermate, che hanno conquistato un posto di riguardo, proprio perchè hanno studiato tanto, intervistate amino parlare soltanto dei loro insuccessi. Raccontano che andavano malissimo a scuola, magari non aggiungono che hanno rifiutato la scuola perché li incasellava, in un'arida routine, ma non era lo studio che rifiutavano in quanto tale. Sembra che oggi a noi ci piace sentire che i grandi hanno odiato lo studio, questo ci conforta.
La Mastrocola emette a getto continuo frasi provocatorie:“Chi studia è uno sfigato”. Studiare può provocare malattie come la depressione e soprattutto la scoliosi.“Già, chi studia sta seduto, chino, contratto, rannicchiato, fermo”. E soprattutto, “è solo in una stanza”. La professoressa accenna alla figura del secchione, sempre odiato a scuola. Se poi prende nove, deve far finta che sia capitato per caso, che non l'ha preso perchè ha studiato. E' capitato. Esibire la cultura, mostrare quanto sai, non va mai bene. Non bisogna mai passare per studiosi.
Fino a pochi anni fa si ammiravano le persone i professori, gli studiosi. Esisteva la figura dello studioso che passava le giornate in biblioteca a leggere e a scrivere, pensare, consultare enciclopedie, riviste. Trovavi gente che aveva letto per intero opere letterarie. Oggi mostrare la cultura non va più, non si fa. Se a una cena tra amici, viene fuori“che stai leggendo il Filostrato di Boccaccio o le rime del Chiabrera, tutti penserebbero: 'Poveretto, che vita grigia!”.
Oggi secondo Mastrocola, rende di più esibire l'ignoranza. E' un vantaggio sociale. Il non sapere e il non studiare ci dà un fascino aggiunto,“una certa patina di rozzezza che sa subito di istinti primordiale, naturalezza ferina, autenticità”.
Concludendo il I capitolo, Mastrocola sentenzia: “Studiare nel nostro immaginario, vuol dire non vivere”. Qualche anno fa lo scrittore veneto Ferdinando Camon scriveva che “chi non legge non vive”, anche lui tendenzialmente criticava chi aveva ormai accettato la tesi del non studio. Praticamente, Mastrocola continuando con frasi sarcastiche, scrive:“studia chi non ha una vita. Chi non sa vivere, chi vive in un mondo suo, astratto e lontano”. Addirittura: “C'è qualcosa di malato in chi studia”. Anzi se continui a studiare, rimani solo, nessuno ti cerca, nessuno ti ama. Infatti Leopardi non andava alle feste. La stessa Mastrocola si confessa che da quando frequentava le scuole Medie, si era messa in testa che sarebbe diventata come Leopardi, gobba.
I sacrifici per lo studio non ci piacciono, quelli per lo sport si. Infatti,“nello sport non solo tolleriamo, ma anche ammiriamo, la fatica, lo sforzo, l'impegno. Troviamo naturale e bellissimo che un atleta passi le sue giornate ad allenarsi e che i suoi allenamenti siano sfinenti al limite dell'umano”. Ci sono ragazzi che amano perdutamente i loro allenatori, i loro mister, che li fanno lavorare con una disciplina ferrea, con severità e inflessibilità. “Invece se un insegnante oggi è severo, intransigente e direttivo, se osa assegnare molti compiti magari difficili e dà voti troppo bassi, fa orrore, e viene osteggiato”.
Allora che cosa non va nello studio? “Chi studia - scrive Mastrocola - ci sembra uno che rinuncia a vivere, che si astiene. Qualcosa tra il monaco buddista, l'asceta che si ciba di radici in cima a un monte, il fachiro che si stende sul suo tappetino irto di chiodi puntuti, la suora di clausura che, prendendo i voti, chiude definitivamente con i piaceri goderecci della vita”. Chi pratica sport o fa musica ottengono risultati concreti, oggettivi, che si tradurranno in qualcosa di pubblico che lo gratificherà: salirà sul podio, sarà intervistato dai giornali, in tivù. Chi studia invece, cosa studia a fare? Dove vuole arrivare? Chi studia non ottiene visibilità, tranne alcune eccezioni.“Chi studia non appare da nessuna parte, non acquista notorietà, non fa audience”.
Poi,“l'insegnante severo invece è un nemico, è uno che non ci porta da nessuna parte[...]”.
La prof torinese dedica un capitolo del libro al suo percorso scolastico. Racconta come studiava e che cosa studiava. C'era la Gerusalemme liberata, la Divina Commedia, i poemi omerici, si leggeva opere antiche e “nessun insegnante aveva paura che non li capissimo”. E poi L'Iliade, che bisognava “tradurla” per capirla, riscriverla parola per parola. Noi oggi pensiamo che i ragazzi di tredici anni non ce la fanno a leggere i classici. Inoltre, da studentessa, riassumeva i libri, li leggeva e li sunteggiava per punti su fogli. Tutto annotato, circolettato, sottolineato, con freccette e diversi segnetti. Del resto è quello che faccio anch'io leggendo i libri. Addirittura a volte ha riscritto i libri;“noi riscrivevamo i libri”. Era il nostro metodo, allora non esisteva il concetto di “metodo di studio”: “ce lo siamo inventato noi adesso che nessuno studia più”. In pratica confessa la Mastrocola: “riscrivendo parti corpose di un libro, quel libro mi si sarebbe incollato alla mente”.
Paola Mastrocola è convinta di avere le prove della sparizione dello studio dalle nostre vite. Anche se non sembra, perchè pare che mai come oggi ci sia tanto interessamento perché cresca la percentuale dei diplomati e laureati, migliorare i risultati dei test internazionali. Ci occupiamo di scegliere la scuola migliore per i nostri figli, li supportiamo con lezioni private, andiamo a parlare con gli insegnanti, facciamo ricorsi infiniti al TAR e tanto altro. Tutto questo per la nostra professoressa è solo scena, a nessuno interessa veramente studiare.
A questo punto la prof torinese riporta sei prove a sostegno della sua tesi.
Gli adulti sono i primi a non studiare più. E parte dalla critica letteraria che non c'è più. Altra prova sono gli insegnanti che non studiano, ed è un vero paradosso. Proprio loro che dovrebbero nutrirsi dello studio. Anche se lo volessero non possono farlo, invece di rintanarsi a studiare in biblioteca devono fare riunioni e commissioni e occuparsi di offerte formative. Devono preparare griglie di valutazione, test, giudizi, verbali e poi l'Invalsi e tante altre centomila faccende. Si smette di lavorare per riunirsi. Gli insegnanti oggi hanno a che fare moltissimo con macchine fotocopiatrici, lavagne interattive e burocrazia, pochissimo con i libri. “Infatti non è raro trovare, tra di noi, gente che non legge neanche un libro. E un insegnante che non legge libri mi sembra, come posso dire?, un pesce a cui non piace nuotare. Che tristezza”.
Sostanzialmente agli insegnanti non viene chiesto di leggere e studiare.“Non viene in mente proprio a nessuno di chieder loro una cosa simile, per il semplice fatto che a nessuno importa che un insegnante studi o non studi, legga o non legga, scriva o non scriva”. Ai preside interessa solo che la macchina organizzativa (non certo quella culturale!) funzioni. Ma non importa neanche alle famiglie; a loro interessa che i loro figli siano promossi e non vengano disturbati con compiti eccessivi, con brutti voti e rimproveri. Infine non importa agli allievi, che hanno ben altro per la testa.
Piuttosto,“agli insegnanti si chiede solo di esserci, il maggior numero di ore possibili; di non creare problemi all'utenza e quindi alla direzione”.
La terza prova riguarda i politici, definiti spettacolanti e qui si sfonda una porta aperta. I politici non studiano. Si fa fatica trovarne qualcuno che studi. Le varie riforme della scuola ne sono un esempio.“Il tutto affidato perlopiù ai burocrati dei ministeri, che traducono i voleri dei politici in proposte o norme di legge incomprensibili e indecifrabili”. Certamente“lo studio non abita nei Palazzi del Potere”. Il loro preziosissimo tempo lo passano andando in tivù. Per sciorinare le loro formule rituali a vuoto. Nel mondo politico, tutti sottostanno ad una legge universale: “se non ti esibisci non esisti”. Qui, “tutto è essenzialmente spettacolo”, difficilmente c'è posto per gli studiosi. I giornalisti sui giornali, fanno il riassunto, si pubblica soltanto uno stralcio, quello che c'è scritto nel retro-copertina, non fanno come le mie presentazioni, dove si vede che ho letto il libro.
Poi ci sono i ricercatori universitari, che dovrebbero essere quelli che di mestiere ricercano, cioè studiano. Non è più così, perché adesso sono impiegati a insegnare, a tenere sempre più corsi, diventa una specie di assistente. Oggi devono cercare di pubblicare il maggior numero di articoli sulle riviste, per fare carriera. Servono punteggi, firme, articoli sulle riviste giuste, essere citati più volte possibile. Quindi più amici hai nel mondo accademico meglio è. Così per il critico letterario inglese, Terry Eagleton, siamo alla fine dell'università, alla sua lenta morte.
La quinta prova. La biblioteca. Non è più quella di una volta. In mancanza di aule-studio, centinaia di studenti affollano i tavoli delle biblioteche. E' un bell'impatto visivo, verrebbe da pensare che non si è mai studiato così tanto. Invece gli studenti non fanno altro che andare in giro, a chiacchierare, a bere il caffè, sono studenti itineranti. Per la verità l'ho notato anch'io in quegli anni quando lavoravo nella biblioteca di architettura al Politecnico di Milano.
In pratica la Mastrocola ormai vede stravolto anche il ruolo della biblioteca. Non si ha più voglia di andare a recuperare il sapere affondato nei libri, e così diventano relitti inabissati per sempre. Forse un domani andremo nelle biblioteche come si va tra i ruderi romani e greci.
Infine ci sono gli studenti e qui è chiarissimo che lo studio è sparito. E' facile sostenerlo. Peraltro Mastrocola, ha già scritto un libro (“Togliamo il disturbo”, edizioni Guanda) per raccontare il non studio degli studenti. Manca il desiderio di studio, di sforzo, di impegno. Come sta capitando per il matrimonio, i giovani non hanno più questo desiderio di sposarsi.
Ormai la scuola non è più il luogo dove si va per studiare. Si va per altro. Piuttosto si va a scuola per stare insieme, fare amicizia, ormai per certi versi “è l'unico posto dove andare”. Gli studenti quando ritornano a casa non studiano, piuttosto sono perennemente connessi, hanno altro da fare.
Tuttavia un mondo dove non si studia più è peggiore di un mondo dove si studia. Chi sostiene queste tesi è un pessimista un nostalgico. E' uno che pensa che il mondo è in declino. Oggi ci sono tre parole aborrite: nostalgia, pessimismo, declino. La Mastrocola non ha paura di passare per nostalgica o per pessimista. Oggi tutti dobbiamo dire che le cose vanno bene. C'è una guerra contro il pessimismo. In verità i pessimisti guardano in faccia la realtà, sono realisti. Ma oggi non piace guardare in faccia la realtà. “Dobbiamo tutti dire che andiamo benissimo e viviamo in un mondo meraviglioso, perennemente in progresso, e avviato verso un futuro vincente”. Praticamente “c'è una massa di imbonitori di piazza, di fronte allo sfascio, inneggia a una speranza senza limiti, a una fiducia ad oltranza nelle nostre capacità di risorgere”. Intanto ci nutriamo di autolodi, autostimoli, autoiniezioni continue, di pozioni magiche rigeneranti ed energizzanti”, basta leggere i giornali o aprire la tivù.
La Mastrocola è fortemente critica nei confronti di quelli che dicono “si è vero stiamo perdendo qualcosa” con i nuovi mezzi tecnologici, con la rete, con internet, ma chissà quanto e cosa guadagneremo nel futuro.
Ci ripetono come un mantra,“questa rivoluzione antropologica non ci deve far paura, non è stato così con la scrittura e la stampa?”Pertanto se ,“Perdiamo A ma guadagniamo B. E se non avessimo perso A non avremmo guadagnato B. Quindi siamo comunque a cavallo. E' come dire: abbiamo perso le gambe, ma impareremo a camminare sulle braccia”. La Mastrocola rifiuta questi parallelismi, non possiamo ragionare come la mamma, che cerca sempre di giustificare i propri figli. Una società, un Paese non può sempre autoconsolare. Stiamo perdendo qualcosa di grande, non tutto nella vita ci viene sostituito, riparato.
Attenzione non denigriamo i pessimisti. Nessuno è più idealista speranzoso di loro, nessuno ama il mondo come loro. Lo amano talmente che ogni tanto si permettono di dire che lo vedono bruttino e che lo vorrebbero migliorare.
Invece mi guarderei bene dagli ottimisti a senso unico, questi possono farci del male. Quelli che dicono“basta tirarci su le maniche, dare un colpo di reni, fare uno scatto, credere in noi stessi, pensare positivo..e giù a valanga con questa tiritera di formule-pomate autolenitive”. Ci siamo stancati di tirarci su le maniche. Sono messaggi pericolosi.
Per quanto riguarda il declino, anche questo è evidente. Le civiltà nascono, si consolidano e poi muoiono. Anche se il mondo forse decade da quando è nato. Viviamo un periodo di decadenza, siamo in crisi, ma siamo stati sempre in crisi, basta leggere qualche poeta o pensatore di quarant'anni fa.
Ritornando allo studio, sono in troppi a pensare che si può fare a meno di studiare: ormai c'è internet.“Le informazioni e le conoscenze che ci occorrono stanno ormai fuori di noi (è l'esternalizzazione) e sono continuamente facilmente disponibili a tutti. Basta fare un clic”. Certo è molto comodo internet, è un progresso, soprattutto per chi ha studiato,“cioè per chi, come quelli della mia generazione, ha accumulato un discreto patrimonio personale di conoscenze su cui sempre fare affidamento e può tranquillamente abbandonarsi alle dolci navigazioni destrutturate internettiane”. Mentre per i nativi digitali, non conoscendo altro, pensano che può bastare la rete.
Nonostante la crisi è indubbio che viviamo un certo benessere edonistico.“Viviamo costantemente intrattenuti, interrelati e connessi. Comodi e beati”. Praticamente passiamo la gran parte del nostro tempo libero a intrattenerci, con i nostri gadget tecnologici, che adoriamo. E la crisi che stiamo vivendo, per certi versi favorisce questa società dell'intrattenimento.
Stiamo vivendo il tempo della finzione, per la Mastrocola. Si affermano solennemente certe cose, ma poi si trasgrediscono facilmente. C'è un rilassamento collettivo, è più evidente a scuola. A scuola, invece di fare scuola, abbiamo fatto altro. Niente ortografia, grammatica, tabelline, poesie a memoria, fiumi, capitali, niente nozionismo. Abbiamo ridotto i programmi e il numero delle pagine da leggere. All'università,“abbiamo deciso che per un esame non si debba portare più di un certo numero (molto basso!) di pagine da studiare”.
Nel periodo universitario non si dovrebbe leggere il più possibile? “E' una nefasta decisione al ribasso”. I nostri studenti non leggeranno i classici, non verranno mai a contatto con la bellezza dello stile dei grandi come Platone, Aristotele, Goethe, Galileo. Addirittura all'università con la moltiplicazione degli appelli, si sono introdotti gli “esoneri”, significa che un libro di 400 pagine, si può dividere in quattro parti. La generazione dei nostri padri portavano tutte le materie all'esame di maturità, e per ogni materia il programma di tutti gli anni di liceo. “La gioventù di allora possedeva forse menti più evolute?”.
Perché oggi non è più così? Perché siamo noi a non crederci più.
“E' bizzarro che proprio a scuola non si chieda mai veramente, cioè sul serio, di studiare. Non abbiamo strumenti per chiederlo, né sanzioni: un ragazzo può impunemente venire a scuola e non studiare[...]”.
Nonostante tutta la tecnologia possibile, c'è sempre un momento in cui bisogna mettersi seduti, chiusi in una stanza e aprire “un benedettissimo libro e starci sopra parecchio”. La Mastrocola riesce a fornirci con esattezza e chiarezza che cosa significa studiare e soprattutto come bisogna farlo. Sono concetti ovvi, ma che nell'era di internet serve riproporre pazientemente. E si trattiene spiegando ogni passaggio: Stare, seduti, per ore, in un luogo appartato, indugiando. Naturalmente la solitudine è un ingrediente fondamentale, per lo studio. Altro dato fondamentale è che bisogna essere scollegati. Infine ultimo passaggio occorre memorizzare. E non è facile perchè studiare significa chequel che si legge resta”. Viene trasferito da un luogo (il libro) a un altro luogo ( la nostra testa), ove permane”. E qui la parola “trasferimento” è basilare. La pagina del libro diventa una sorta di secondo testo nella nostra mente, che, naturalmente non è del tutto uguale all'originale.
“Quel che noi studiamo va a finire in una sorta di magazzino, cui attingere ogni volta che vogliamo”, qualcosa di simile amo raccomandarlo ai miei ragazzini a scuola. Un'altra frase ricorrente nel libro e che “si studia per essere e non per diventare”.
Tuttavia la Mastrocola è quasi costretta a sostenere che è meglio andare via da questa scuola che non attrae e che non ti abitua a studiare.
Negli ultimi capitoli del libro, la professoressa riesce a proporre delle sublimi riflessioni che non si discostano molto da certe raccomandazioni che si possono ascoltare in certi ambienti religiosi o leggere in testi di alta spiritualità, dove prima di agire si raccomanda la necessaria contemplazione. Emerge qualcosa che mi ricorda gli esercizi spirituali ignaziani.“E' sparita l'interiorità. - scrive la Mastrocola - Il piacere di stare con se stessi, di intrattenere rapporti con la parte interna, più spirituale, di noi. Non abbiamo nessuna voglia di ripiegarci, guardarci dentro e riflettere, ricordare, almanaccare su concetti, astrazioni, sentimenti”.
L'uomo moderno di oggi ha paura di rimanere solo. Ha sempre bisogno di relazionarsi con altri, fisicamente o virtualmente. Invece per Mastrocola abbiamo bisogno di solitudine per leggere per stare con i libri, le parole, i pensieri, i ricordi. “E' la solitudine che ha reso possibili le grandi opere dell'ingegno umano, in ogni campo”. Abbiamo bisogno di alimentare la nostra interiorità, la nostra casa, che potrebbe essere la nostra anima.

Gli ultimi capitoli del libro, sono tutti da rileggere e farli propri, per le profonde e significative riflessioni. La Mastrocola ci indica i grandi pensatori antichi come Socrate, Platone, Aristotele, sant'Agostino, Cicerone, Seneca, che non hanno fatto altro che mostrarci la via della felicità attraverso lo studio. E' vero lo studio può trasformare il mondo e Paola Mastrocola ci crede.