Polisemia e nominazione nel mundus
imaginalis della soaltà di G. Peralta
di Antonio Martorana
Il termine stesso "Soaltà"
sembrerebbe evocare la metafisica del bello come luminosità, uno dei due filoni
del pensiero estetico cristiano nel Medioevo, che fa capo a Roberto Grossatesta
e a San Bonaventura, mentre l'altro filone, ossia la teoria del bello come
'numero', misura, proporzione, ha tra i suoi esponenti Sant'Agostino, Boezio e
San Tommaso. Ma al di là di tali posizioni, spesso così contrapposte, che in un
certo senso ripropongono il confronto dialettico tra eredità platonica ed
eredità aristotelica, il significato più interessante del pensiero estetico
medievale consiste, come avverte Gianni Vattimo, nell'accentuazione del
concetto di opera. Ed allora il mondo, in quanto opera di Dio, presenta come
suoi caratteri peculiari, oltre alla verità e alla bontà, anche la Bellezza.
Vattimo afferma che "senza la
visione cristiana del mondo come opera di Dio non sarebbe stato possibile
pervenire a quella connessione tra opera d'arte e bellezza su cui riposa
l'estetica come noi la conosciamo", e su cui riposa, aggiungiamo noi, la
stessa estetica di Guglielmo Peralta.
Il fatto che egli riporti il termine
estetica nella forma spezzata est-etica, evidenzia quale spessore etico intende
dare al concetto di bellezza. Ricordiamo quella straordinaria lettera inviata
agli artisti da Giovanni Paolo II il 4 aprile 1999, per la Pasqua di
Resurrezione. Viene lanciato qui un appello perché la loro creatività
"contribuisca all'affermarsi di una bellezza autentica, che, quasi
riverbero dello spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al
senso dell'eterno".
Come destinatario ideale del messaggio
papale, Peralta obbedisce al cogente imperativo etico che impone alla coscienza
dell'artista di riconoscere che "la bellezza è la vocazione a lui rivolta
dal Creatore". Si può già intuire il senso pregnante della simbologia che
connota il cammino dell'Autore sulla via dello stupore. È un'esperienza
emozionale che sarebbe come percorrere il "diagramma dell'indicibile"
di cui parla Heidegger. Indicibile, e già Dante stesso non esitava a confessare
questa sua difficoltà, sarebbe rispondere al richiamo fascinoso e possente del
mistero, così come indicibile sarebbe il brivido provato dinanzi all'incanto
del Verbo che emana dal dettato biblico nelle pagine della Genesi. Ma un poeta
come Peralta, chiamato, direbbe Paul Claudel, a "ricevere l'essere e
restituire l'eterno" non può sottrarsi a quella sfida, essendo suo preciso
compito quello della nominazione (nomen - numen). Colpisce allora
l'inesauribile ricchezza polisemica della nominazione con cui il Nostro, al di là
degli automatismi retorici e delle forme convenzionali di un sistema
linguistico ipostatizzato, sa recuperare tutta l'energia che, occultata, giace
sotto il segno. È il rifiuto di quella pan-semiosi, dove, avverte Maurizio
Della Casa, "non vi è più un oggetto da dire, ma solo un linguaggio da
pronunciare, in cui i rimandi e la costruzione dei sensi si esauriscono nel
cerchio dei codici e dei simboli, in una spirale che non riesce mai ad
attingere alla presenza delle cose"[1]. C'è in Peralta
il bisogno di liberarsi dalle maglie di una visione precostituita del reale,
insabbiata in parole costrette dalla convenzione semantica ad essere
depositarie di un'unica immutabile valenza. La creatività linguistica di
Peralta, riconducibile per la sua forte spinta innovativa al modello
chomskiano, si manifesta con quella prorompente inesauribilità che il linguista
Luis J. Prieto vede realizzabile all'interno di un codice comportante un numero
infinito di semi. La creatività, precisa Prieto, altro non è se non "la
possibilità per un soggetto di operare con un sema che per lui sia
assolutamente nuovo in quanto sema, ma che venga costituito da una combinazione
di monemi a lui noti, fatta secondo regole che gli sono ugualmente
familiari"[2].
È Peralta stesso ad esplicitare il
perché e la funzione dei suoi neologismi: "portatori di una visione nuova,
inedita, che essi annunciano ponendoci in cammino con la promessa di una
rivelazione", finiscono per innestare "un processo creativo che essi
stessi contribuiscono ad esplicitare attraverso un metalinguaggio che, nel
tentativo di spiegare il loro significato, finisce per tradurre e dare forma a
quanto è in essi contenuto" (p. 38). Termini come soaltà, sognagione,
kalosfera, spazio antropografico non fanno che supplire "all'insufficienza
lessicale, alla mancanza di parole che siano ancelle, angeliche messaggere di
un pensiero nuovo" rivestendo in
tal modo una funzione gnoseologica nell'esplorazione della realtà.
Guglielmo Peralta offre in tal modo una
chiara dimostrazione delle potenzialità "inesauribili" insite in
quella che James Hillman definisce la "base poetica della mente".
Quei neologismi rendono specularmente il mundus
imaginalis dell'Autore, che è come dire la sua psiche, stando alla massima
fissata da Jung: "l'immagine è psiche"[3]. Schiudono un
orizzonte immaginale che richiede facoltà percettive diverse dalla normale
percezione sensoriale del mondo empirico, ponendosi in una posizione mediana
tra la realtà sensibile e quella intelligibile. Il mundus imaginalis di Peralta viene a configurarsi come la
"topologia dell'essere" di cui parla Heidegger[4]. Su di esso
irradia la sua luce la soaltà, termine eponimo indicante "l'unione
indissolubile tra sogno e realtà" ed indirettamente un ritrovato
equilibrio armonico tra coscienza diurna e oniricità. Vediamo dissolversi i
nebulosi confini che separano il momento razionale delle certezze sperimentali
dal regno oscuro dell'involontario. L'attività autogenerativa dell'anima di
Peralta crea così una dimensione di magica sospensione che ricorda, a mio
avviso, i grandi pittori visionari dell'Ottocento, come Gustave Moreau. Questi
affermava: "Non credo né a quello che tocco né a quello che vedo. Non
credo che a quello che non vedo e unicamente a quello che sento". Sono parole che Peralta potrebbe
sottoscrivere nel momento in cui volge lo sguardo "al di là" delle
illusorie apparenze fenomeniche, per cui la natura, l'oggetto per eccellenza,
si trasforma in soggetto, in "altro da noi", e noi diventiamo nei
riguardi di essa oggetto riflettente.
Quando Peralta precisa che
l'introduzione dei neologismi è finalizzata a supplire "all'insufficienza
lessicale", rivendica un diritto alla creatività che non può essere
garantito dalla finzione - costruzione del linguaggio codificato, da quel monstrum onnivoro, che preclude al
parlante qualsiasi possibilità di feed-back. In tal modo egli si pone in linea
con le posizioni più avanzate dell'odierna filosofia del linguaggio, pronta a
denunciare, come fa Schaff, gli effetti delle determinazioni filogenetiche del
linguaggio, per cui questo è il "prodotto" che ha finito per
sovrapporsi al "produttore", imponendogli stereotipi, meccaniche
semiotiche ed automatismi che lasciano emarginato il sottocodice emotivo[5].
Possono aiutarci a comprendere il senso dello sperimentalismo linguistico di
Peralta i passi che qui riportiamo di due autorevoli filosofi del linguaggio:
il primo è di Gadamer che richiama l'attenzione sulla "esigenza inappagata
della parola giusta"; il secondo è tratto dagli Atti linguistici di Searle.
Afferma Gadamer: la parola "è un voler dire, un intendere, sfiorandolo
appena, va sempre aldilà di quel che realmente, nella lingua, nelle parole
raggiunge l'altro. Un'esigenza inappagata della parola giusta: ecco che cosa
costituisce la vera vita e la vera essenza del linguaggio"[6]. Sono
estremamente interessanti pure le conclusioni cui approda Searle: "perfino
nei casi in cui è di fatto impossibile dire esattamente quel che voglio dire, è
possibile, in linea di principio, se non in pratica, aumentare la mia
conoscenza della lingua, o più radicalmente, se la lingua o le lingue esistenti
non sono adeguate al compito, se esse semplicemente mancano delle risorse per
dire quel che voglio dire, posso, perlomeno in teoria, arricchire la lingua
introducendovi nuove parole"[7]. La
tesi di Searle finisce in un certo senso per legittimare i neologismi
introdotti da Peralta facendo apprezzare l'attualità e l'originalità della sua
estetica.
[1] M. Della Casa, Lingua Testo Significato, Brescia, La
Scuola, 1979, p.19
[2] L. J. Prieto, La sémiologia, in Le langage, a cura di A. Martinet, Paris, 1968, pp. 93-144
[3] The Collected Works of C.
G. Yung, New York - London - Princeton, 1957-1979;
tr. it. Torino,
1970-1979, vol. XIII, p. 75
[4] Pensiero e poesia, tr. it.
Roma, Armando, 1977, p. 55
[5] A. Schaff, Filosofia del linguaggio, tr. it.
Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 182-83
[6] H. G. Gadamer, I limiti del linguaggio, in Linguaggio, a cura di D. Di Cesare,
Bari, Laterza, 2005, p. 71
[7] J. R. Searle, Atti linguistici, tr. it. di G. R. Cardona, Bollati Boringhieri, 1992,
pp. 44-45
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