mercoledì 30 settembre 2015

Salvatore Grillo Morassutti, "Il delitto Sicilia" (Ed. Bonfirraro)




di Sandra Guddo Spatola

Nell’ottocento il  romanzo storico raggiunse la sua massima espressione con i “Promessi Sposi” di A. Manzoni. Tale genere letterario, con alterne fortune, ha trovato, quasi un secolo dopo, conferma della sua validità nel “Gattopardo” di T. Di Lampedusa, ottenendo, anche grazie alla trasposizione cinematografica di Luchino Visconti, un enorme successo a livello internazionale.
La narrativa postmoderna invece si è allontanata dal romanzo storico, cedendo, sotto la pressione del potere mediatico, alle sue lusinghe e, obbedendo al dominio della globalizzazione, si è limitata a spettacolarizzare i fatti narrati utilizzando stereotipi o slogan di facile comprensione a qualsiasi latitudine . Così, per esempio, è avvenuto per il fenomeno “ mafia e malavita organizzata” che è stato raccontato, anche in versione televisiva, in modo eclatante e raramente in profondità ricercandone le cause, ma mirando essenzialmente a colpire l’attenzione dei lettori con fatti cruenti e grondanti di sangue che nulla hanno a che fare con le ragioni storiche e sociali che li hanno generati. Da quel terrificante giorno (11 settembre 2001 ) in cui è avvenuto l’attentato alle Torri Gemelle, si può considerare chiusa l’avventura letteraria del postmodernismo con il ritorno ai problemi reali che travagliano il nostro pianeta: guerre, terrorismo internazionale, inquinamento dei gas serra, criminalità organizzata e via discorrendo. A mio parere, a livello mondiale, il romanzo storico che segna la svolta in tal senso è: “ Extremely Loud & Incredibly Close “ dell’americano Jonathan Safran Foer che narra la storia di un bambino il cui padre è morto a seguito dell’attentato terroristico. Il romanzo, fornendo una “ chiave” per la comprensione e la rielaborazione di quel giorno, ha inciso sulla vita politica americana divenendo non soltanto un best-seller ma un incisivo romanzo storico.
In Italia, alla più autentica e rispettabile tradizione del romanzo storico, ci riporta l’opera di  Salvatore Grillo con “ Delitto Sicilia” che, aldilà di ogni altra considerazione, ha il merito di focalizzare  fatti che interessano gli anni 1943/45 raccontando una delle pagine della storia siciliana obliata, mistificata e sconosciuta dalla maggior parte degli italiani e, cosa ancora più inaccettabile, dei siciliani. Per sentirci tutti assolti da tale deficienza, si potrebbe obiettare che nei libri di scuola non c’è traccia di questi fatti e che l’EVIS molto più facilmente potrà essere scambiato per un ente volontario di donatori di sangue.
Invece l’EVIS fu l’Esercito Volontario Indipendentisti Siciliani con a capo Antonio Canepa , ucciso da una pattuglia di carabinieri, all’alba del 17 giugno del 1945 nelle campagne di Randazzo , al fine di stroncare il movimento separatista alle radici. Con lui infatti morirono i suoi fedelissimi insieme a Carmelo Rosano, braccio destro di Canepa.
Con un abile escamotage letterario, il nostro scrittore si  cala nei panni di  Fabrizio, un affermato giornalista, originario come Grillo di Caltagirone, ma che da vent’anni vive e lavora a Roma, inviato in Sicilia per indagare sulla cosiddetta “Operazione Vulcano” sulla base di alcuni documenti di cui il capo redattore del giornale per cui lavora, è  entrato in possesso. Tutto fa presupporre che dietro l’Operazione Vulcano si celino gli accordi raggiunti a Yalta dalle grandi potenze mondiali: I documenti erano le copie di due messaggi tra inglesi e russi . Il primo era un messaggio diplomatico inviato dal comando della intelligence inglese del Mediterraneo ad un referente parallelo dell’ URSS nel quale si poteva leggere tra l’altro : “ Confermiamo che autorità italiane hanno concordato con noi azione relativa definita operazione Vulcano; assicurata neutralità USA. “  Questo messaggio sarebbe stato smistato il 7 giugno 1945 mentre l’altro era del gennaio 1946, con la stessa provenienza ma indirizzato all’ambasciatore britannico a Roma, leggendo il quale si chiariva il significato della Operazione Vulcano con queste parole: “ Per determinazione del nostro governo nel maggio dello scorso anno si è data inizio in Sicilia , all’Operazione Vulcano per il depotenziamento dei vertici del movimento separatista siciliano al fine di allentarne la pressione militare e politica rivolta alla separazione della Sicilia dall’Italia. Il comando USA ha chiesto ed ottenuto la cancellazione  di alcuni cittadini siciliani dalla lista degli esponenti separatisti da neutralizzare . Tale elenco è nella disponibilità dei comandi alleati. “
Non a caso la copertina del libro riproduce la celebre foto di Churchill, Roosevelt e Stalin seduti su una panchina in una gelida giornata del febbraio 1945. Accordi che, secondo Grillo, portarono alla decisione di stroncare alle radici, con l’uccisione del Canepa, il movimento separatista siciliano, che in quella fase storica godeva dell’appoggio della maggior parte degli isolani, essendo considerato l’unico possibile mezzo per l’emancipazione popolare. L’indipendenza della Sicilia però avrebbe potuto avere come conseguenza lo strapotere degli americani nel Mediterraneo che, dopo lo sbarco nell’isola avvenuto circa due anni prima, avevano intessuto con gli amministratori locali forti intese: prospettiva che né l’ex U.R.S.S. né la Gran Bretagna potevano accettare. Ciò per Grillo costituisce un vero delitto per la Sicilia e getta un’ombra sulle prime ore di vita dell’Italia repubblicana. Ma un’altra domanda si fa strada nella mente di Fabrizio e dei lettori: chi ha aiutato gli Usa a stilare quella lista che condannava a morte alcuni esponenti dell’EVIS, salvandone altri ed in base a quali criteri? Che ruolo ha avuto nella vicenda Don Luigi Sturzo ed il fedelissimo amico Mario La Rosa ? Che relazione c’è tra la morte di Canepa e l’attentato di Antonio Pallante, avvenuto il 14 luglio del 1948, alla vita di Palmiro Togliatti? Sono tutte domande alle quali Fabrizio tenterà di rispondere ritornando in Sicilia per incontrare l’anziano zio della madre: Giacomo Monterosa che, appena diciassettenne, era entrato nelle fila dell’esercito separatista e aveva combattuto a fianco di Canepa.
Certamente un forte peso nell’evolversi della storia di quegli anni, ha avuto la concessione alla richiesta dell’autonomia della regione Sicilia che, in parte, avrebbe potuto compensare la sua totale indipendenza dall’Italia. Che utilizzo si sia poi fatto della nostra autonomia da parte dei politici che ci hanno governato, è un altro discorso che meriterebbe severi approfondimenti.
La narrazione, pur attenendosi a fatti storici documentati e a testimonianze di personaggi di rilievo negli anni della lotta separatista, come Mario La Rosa che di certo aveva avuto contatti con gli USA, tramite un inviato ed in collaborazione con Luigi Sturzo, si colora di giallo. La lettura, grazie al linguaggio chiaro e scorrevole utilizzato da Grillo, a tratti diventa avvincente perché lo snodarsi dell’inchiesta avviene gradatamente e ci conduce, con crescente curiosità, allo svelarsi della verità che si tinge di rammarico per quel che poteva essere e non è stato, per le decisioni riguardanti il futuro politico della Sicilia, prese al di fuori  dell’isola e contro la volontà popolare, per il forte riaffermasi della mafia che tutt’ora tiranneggia in Sicilia consegnandola ad un infiacchimento non solo di valori etici ma anche economici e sociali  condannandola ad un divario nord- sud che sembra incolmabile.
 A tal proposito, vorrei sottolineare come Salvatore Grillo, con l’autorevolezza dell’intellettuale impegnato nella società in cui opera, riesca a rendere visibile tale gap con la metafora del treno e di un’Italia a due velocità: infatti Fabrizio, di ritorno nella capitale, dopo avere trascorso quindici giorni in Sicilia per svolgere la sua inchiesta, non riuscendo a prendere il volo Catania -Roma , annullato a causa di una forte tempesta di vento realmente verificatasi nel febbraio del 2012, data in cui ha inizio il racconto, è costretto a prendere il treno: Undici ore di viaggio, un’eternità in confronto ai tempi di percorrenza dei treni che circolano in tutta Europa ed anche nell’altra Italia . Ironia della sorte proprio oggi sul “ Corriere della sera “ viene presentato il nuovo treno privato “ ITALO” con il quale si reclamizza la percorrenza della tratta Roma-Milano in due ore e quaranta minuti. “
 Lo stesso impegno e la medesima autorevolezza, Grillo manifesta nel denunciare l’odioso fenomeno della mafia analizzandolo alle radici: “ Nell’800 in Sicilia, si usavano dei termini precisi per identificare una persona : “ cappeddu e “ coppola “ . Il copricapo veniva utilizzato per qualificare una persona grazie al fatto che nessun uomo andava in giro a testa scoperta facendo ad esempio la distinzione tra uomini con i cappelli e uomini con le coppole. Era un distintivo a cui nessuno rinunziava e che ti consentiva di identificare il ceto della persona che ti veniva incontro . “ L’analisi continua in modo chiaro e sintetico fino ai nostri giorni in cui  ” cosa nostra” , pur mutata nei modi, indossando colletti bianchi e infiltrandosi nel sistema politico, agisce ancora oggi con inaudita arroganza.
 In un altro interessantissimo passo del suo romanzo, lo scrittore riesce a intravedere, con esempi concreti, possibili soluzioni per una forte ripresa economica dell’isola puntando sullo sviluppo dell’agricoltura attraverso una conduzione dei borghi e delle masserie che, basandosi su un antico e concreto modello sperimentato da alcuni secoli nella cittadina di Scicli e nelle campagne tra Ragusa e Siracusa, è pervenuto integro fino ai nostri giorni.
Tutta la narrazione si svolge in prima persona e ciò favorisce la posizione omodiegetica di S. Grillo che in più punti coincide con il protagonista del romanzo le cui vicende personali e familiari talvolta si identificano. Utilizza, com’è ovvio ma non scontato in un romanzo storico, il presente che abbandona frequentemente per  tuffarsi nello spaccato delle vicende storiche avvenute tra il 1943 e ’45  . L’indagine giornalistica si intreccia abilmente con le vicende personali di Fabrizio che ritrova nella sua isola, mai dimenticata, gli affetti più cari, i ricordi e gli amici di infanzia, l’amore per una ragazza che, senza alcuna  spiegazione, lo aveva abbandonato proprio quando il loro rapporto aveva raggiunto un’intesa perfetta. L’autore rivela così di possedere una robusta vena sentimentale, mai sdolcinata o melense, arricchita da una buona dose di conoscenza dell’animo umano e dei suoi moti.
 Ma quando lo scrittore si sofferma nella descrizione dei luoghi della sua terra di rara bellezza  e dei paesaggi  con i suoi inebrianti profumi,  la narrazione sobria ed elegante assume i toni dell’ elegia . “… Avevo lasciato la strada a scorrimento veloce Catania-Ragusa per immettermi in una provinciale che si addentra nella campagna. Iniziarono a sfilarmi innanzi innumerevoli muretti di pietre incastrate l’una alle altre, in maniera da creare una divisione o un contenimento senza interrompere il flusso dell’aria e dell’acqua; sono pietre chiare che si stagliano sul terreno spiccando tra la vegetazione e creando disegni geometrici; anche molte delle piccole case che intravedevo sembravano fatte in  pietre a secco. A questa uniformità di colori si alternano terre coperte di serre; da lì, d’inverno partono per l’Italia e l’Europa i prodotti della orticoltura siciliana che consentono di rendere permanenti sulle nostre tavole i sapori dell’estate.  (… ) Infine ho avvertito l’odore forte della campagna siciliana che lentamente ti avvolge e diviene assordante, tanto è forte ed è carico. Allora, come un sommelier, ho iniziato a cercare di distinguerne le sfumature: il profumo maturo della terra che ancora non è inaridita dal sole estivo ma è ancora carica di odori di erbe scarsamente irrigate, l’aroma dei cespugli di rosmarino e di lavanda , il profumo dei fiori dei mandorli, poi il lontano eco del carrubo che è l’albero della tradizione contadina, le cui bacche nutrivano animali e uomini e le cui fronde ti inebriano. E’ stata in quella dimensione fantastica che ho riepilogato i motivi che mi avevano portato in Sicilia. “
L’autore si sofferma in più parti anche nella descrizioni della cucina tipica siciliana descrivendo piatti gustosi a base di prodotti locali come certe verdure o frutti appena raccolti. Il suo romanzo per i contenuti trattati e per il profondo legame che mantiene con la Sicilia, nonostante la sua prolungata assenza, costituisce quasi una guida per chi vuole conoscere meglio la storia e la terra di Sicilia con le sue contraddizioni, il suo incanto e le sue speranze



lunedì 28 settembre 2015

Luciano Garibaldi, "Gli Italiani di Crimea" (Ed. Settimo Sigillo)

di Luciano Garibaldi 

Due notizie (sottovalutate dalla «grande stampa») sulle quali val la pena riflettere. La prima riguarda una parlamentare, la onorevole Angela Fucsia Nissoli, eletta alla Camera dagli italiani residenti in Nord e Centro America. A conclusione di una lunga e intensa battaglia a Montecitorio, ha ottenuto un’ampia adesione alla sua richiesta di rivedere la legge sulla cittadinanza consentendo agli italiani residenti all’estero di tornare ad essere, a tutti gli effetti, cittadini italiani. La Commissione Affari Costituzionali della Camera, infatti, ha finalmente dato il via all’esame della proposta di legge che la onorevole Nissoli aveva presentato il 22 dicembre scorso.
La seconda notizia ha uno spessore ancora maggiore. Per la prima volta, dopo un’attesa durata quasi un secolo, la comunità di origine italiana residente in Crimea (oggi Russia) ha ottenuto di essere ascoltata dal massimo esponente dello Stato. E’ accaduto nel corso della visita di Putin a Yalta, accompagnato dal suo ospite Silvio Berlusconi. I dirigenti dell’Associazione Emigrati Italiani in Crimea (CERKIO) sono stati ricevuti da Putin, che ha fatto capire di essere intenzionato ad accogliere le loro richieste. La prima delle quali è il riconoscimento, ai componenti della comunità, dello status di deportati, riconoscimento già concesso ai discendenti di cinque nazionalità presenti in Crimea, ma mai a quella italiana.
La storia sconosciuta e drammatica degli italiani di Crimea venne in luce alcuni anni fa, quando il professor Giulio Vignoli, docente di Diritto internazionale e membro del Dipartimento Ricerche Europee dell’Università di Genova, e la scrittrice italo-ucraina Giulia Giacchetti-Boico scrissero un libro dedicato al dramma di quella comunità. La Crimea faceva parte, all’epoca, dell’Ucraina, cioè non era stata ancora occupata ed annessa alla Russia.
Da anni, ormai, esisteva un contenzioso tra l’Italia e l’Ucraina riguardo alla sorte di centinaia di componenti la comunità di oriundi italiani scampati alle persecuzioni sovietiche o loro eredi. Ma, nei fatti, l’Italia si era sempre disinteressata alla sorte di quelle famiglie, che pure avevano vissuto un calvario simile a quello degli istriano-giuliano-dalmati. Il libro di Giulio Vignoli e Giulia Giachetti-Boico, intitolato «La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea», non trovò – e si poteva dubitarne? – un editore disposto a metterlo sul mercato, sicché i due autori lo stamparono (in italiano e in russo) a proprie spese (soltanto due anni fa, la casa editrice Settimo Sigillo ha ripubblicato il libro con il titolo «Gli italiani di Crimea»). E ciò, malgrado contenesse rivelazioni a dir poco sconvolgenti. Vediamole.
Nel 1830 e nel 1870, in due ondate successive, giunsero a Kerc, città marittima della Crimea, sullo stretto tra il Mar Nero e il Mar d’Azov, due ondate migratorie di italiani provenienti soprattutto dalla Puglia (Bisceglie, Molfetta, Bari), qualcuno anche dalla Liguria (tra questi un nipote di Giuseppe Garibaldi, discendente da un fratello dell’eroe, che sarà poi fucilato dai comunisti negli anni Trenta): si trattava di agricoltori, pescatori e marinai, attirati soprattutto dalla prospettiva di coltivare la vite e fabbricare vino, ma anche di dedicarsi ad attività marittime. L’immigrazione proseguì nei primi anni del Novecento, favorita dalle autorità imperiali, tanto che, nel censimento del 1921, risultavano residenti a Kerc circa tremila italiani, pari al 2% della popolazione. Avevano costruito una chiesa cattolica, una scuola elementare, una biblioteca, erano rispettati dalla popolazione multietnica della Crimea.
Le cose cambiarono con l’avvento del comunismo. A metà degli Anni Venti iniziarono le requisizioni delle terre, gli arresti, le persecuzioni, il rientro in patria dei molti che prevedevano il peggio. Peggio che arrivò quando Stalin decise di mandare a Kerc un buon numero di attivisti del Partito comunista d’Italia riparati in Urss dopo il 28 ottobre 1922. Tra costoro c’era anche Paolo Robotti, cognato di Palmiro Togliatti. Trasformarono la chiesa in una palestra, cacciarono il parroco, presero le redini della scuola e si misero a gestire le terre espropriate dando vita a un «kolkoz». Gli italiani rimasti a Kerc furono trasformati da piccoli padroni agricoli in servi della gleba. Per chi si ribellava, arresti, torture, fucilazioni o Gulag siberiani con l’accusa di «spionaggio a favore dell’Italia di Mussolini». Si leggano, in proposito, gli agghiaccianti racconti fatti dai discendenti degli scampati a Giulio Vignoli e raccolti nell’appendice del libro.
Molte delle mogli, degli anziani genitori e dei figli delle vittime verranno soccorsi e portati in Italia dalle truppe dell’Armir negli anni 1941 e ’42. Ma coloro che restarono a Kerc, allorché, dopo Stalingrado, il 30 dicembre 1943, l’Armata Rossa tornò ad occupare la città, furono arrestati in massa come «popolazioni fasciste» e deportati in Siberia. La maggior parte dei vecchi e dei bambini (non meno di 500 persone) morì sui carri bestiame durante gli interminabili viaggi. Chi sopravvisse fu inserito nella «Trudarmia» («armata del lavoro») e alcuni riuscirono a salvare la pelle fino all’avvento di Kruscev, che consentì loro di tornare ad una condizione almeno di sopravvivenza.
Dopo il crollo del comunismo, la Crimea entrò a far parte della Repubblica Ucraina. In contemporanea, sorse l’«Associazione degli Italiani di Crimea» (Associazione CERKIO), che oggi conta più di 400 iscritti.
Tutte le istanze da essa presentate sia al governo ucraino, sia al governo italiano non hanno mai ottenuto risposta. L’ambasciata d’Italia a Kiev (capitale dell’Ucraina) ha continuato a ricevere domande tese a riottenere la cittadinanza italiana, ma, poiché i documenti originali erano scomparsi o era praticamente impossibile trovarli, la risposta è stata sempre negativa. Da qui la conclusione del professor Vignoli al suo libro: «Occorre che l’Ucraina riconosca ufficialmente la deportazione degli italiani, e l’Italia restituisca la cittadinanza agli italiani di Crimea che la richiedono». Che oggi, a tutti gi effetti, è possibile correggere così: «Occorre che la Russia riconosca, eccetera, eccetera ». Ebbene, dopo la visita di Putin a Yalta, tutto fa pensare che qualcosa finalmente si stia muovendo.





l segreto di Tolkien

di Isacco Tacconi

La grandezza di ogni vero artista risiede nell’immortalità dei valori che riesce ad esprimere e non tanto nelle sue capacità tecniche tantomeno nella novità delle sue idee. La sua arte trascende la stessa sua comprensione e consapevolezza di ciò che egli effettivamente realizza. Il suo compito è, per così dire, «profetico» ossia “rivelare” come spiragli e riflessi di luce la realtà del soprannaturale, alla maniera dei rosoni delle cattedrali gotiche medievali. Nella misura in cui sarà impregnato del soprannaturale nella contemplazione dei Misteri della Santa Fede Cattolica l’artista potrà diventare un canale, un mediatore tra Dio e gli uomini, tra la realtà increata e il mondo creato, tra L’Essere per essenza e gli enti per partecipazione, illustrando, come in un quadro, “la realtà in trasparenza”. «Contemplata aliis tradere», diceva san Tommaso d’Aquino, intendendo che si trasmette agli altri ciò che si è contemplato. Chi si pasce e sostenta, quindi si “sostanzia”, della Bellezza, della Verità e della Bontà racchiuse nell’Unità dell’Essere fungerà da “portatore” di un tesoro non fatto da mani d’uomo pur essendo egli un fragile vaso di creta, sarà cioè un riflesso di una realtà più grande, eterna, immutabile. Il vero artista potrà dunque trasmettere agli uomini la Bellezza della Verità, lo Splendor Veritatis che egli stesso ha contemplato e amato: «Et vidimus gloriam eius, gloriam quasi Unigeniti a Patre, plenum gratiae et veritatis».
John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), nato in Sud Africa, rimarrà a soli quattro anni orfano di padre. Trasferitosi in Inghilterra soffrì l’abbandono dei nonni e di tutta la famiglia materna che ripudiò sua madre per essersi convertita al cattolicesimo dall’anglicanesimo. Questo abbandono comportò la miseria per mamma Mabel la quale visse un martirio esteriore ed interiore che, aggravato dalla malattia, la condurrà ben presto alla morte lasciando il piccolo Tolkien, ancora dodicenne, insieme al fratello minore Hilary orfani anche di madre. Memore del luminoso esempio di sacrificio della madre, John, insieme al fratello, venne accolto ed adottato da un sacerdote, l’oratoriano padre Francis Xavier Morgan il quale diverrà il suo vero padre, soprattutto nella fede. Di lui Tolkien scriverà: “era stato come un padre, più di un padre vero, pur senza esserci obbligato[1].
Il giovane Tolkien si formerà anzitutto alla scuola del servizio dell’altare come chierichetto, studiando il catechismo il latino e il greco, dissetandosi a quella fonte inesauribile che è la Santa Messa. Si diletterà attraverso il canto pregato del gregoriano alla scuola degli angeli imparando ad amare la bellezza. Assimilerà il latino, lingua sacra della Chiesa e dei Sacri Misteri. Amerà le lettere e la letteratura, una passione che la madre infuse in lui fin dalla più tenera età. Orfano, senza nessuno al mondo, odiato dai suoi unici parenti a causa della sua fede cattolica e per questo ancor più amato da Colui che rende giustizia ai suoi santi, Tolkien troverà nella Chiesa Cattolica La Madre, in un sacerdote pio un padre, immagine del Padre Eterno che non abbandona la vedova e l’orfano, in Nostro Signore e nei sacramenti da Lui istituiti la fonte della Vita.
Questo in breve il background umano-spirituale di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Come detto nell’incipit, la fede di Tolkien fu totalmente riversata nei suoi scritti e nelle sue creazioni fantastiche. E come poteva essere altrimenti? Era l’aria che respirava, era l’unica vera realtà che avesse consistenza e stabilità di fronte alla caducità e all’instabilità della vita terrena, incombente sempre lo spettro della morte. John, infatti, combatterà nelle trincee durante la Grande Guerra perdendo tutti i suoi amici più cari. Partecipò a quella che egli stesso definì «la carneficina della Somme»[2]. Ancora una volta rimarrà solo. Soltanto la sua Fede provata e purificata rimase, unica certezza dinanzi allo sfacelo della vita e della morte, a confortarlo e sostenerlo. In una lettera indirizzata al figlio Michael scriverà: «Al di là di questa mia vita oscura, tanto frustrata, io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: i Santi Sacramenti. Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte. Per il divino paradosso che solo il presagio della morte, che fa terminare la vita e pretende da tutti la resa, può conservare e donare realtà ed eterna durata alle relazioni su questa terra che tu cerchi (amore, fedeltà, gioia), e che ogni uomo nel suo cuore desidera»[3].
Questi brevi estratti autobiografici dovrebbero essere sufficienti per farci comprendere la pasta di cui Tolkien era fatto, plasmata da una fede viva, interiore, intima, combattuta. Non dimentichiamo che l’Inghilterra era ancora ben impregnata di quell’odio e pregiudizio anticattolico apertamente contestati da G.K. Chesterton e il cardinal John Henry Newman solo pochi anni prima. Ecco un legame latente eppure non stupefacente, quello tra il santo cardinale dell’oratorio inglese e John Ronald Reuel Tolkien. Un filo rosso lega questi due giganti inglesi seppur vissuti in epoche differenti, e le loro vite per certi versi ravvisano non poche analogie. Entrambi convertiti dall’anglicanesimo, entrambi inglesi e cattolici in un’Inghilterra liberale e, per questo, antireligiosa, entrambi disprezzati dai propri cari, ambedue studiosi di antichità ed insegnanti ad Oxford, spiriti riflessivi ed introversi tutti e due si chiamavano Giovanni. Ma ciò che, in realtà, lega Tolkien a Newman è un rapporto di figliolanza. John Ronald infatti, lo abbiamo visto, sarà figlio dei padri oratoriani di San Filippo Neri i quali vennero trapiantati su suolo britannico dallo stesso Newman per mandato del Santo Padre Pio IX il quale lo pose a capo dell’oratorio inglese soltanto una generazione anteriore a quella di Tolkien. I primi oratoriani figli di Newman, dunque, allevarono e formarono il giovane Tolkien il quale può dirsi veramente un’eredità e una primizia dell’apostolato del santo cardinale John Henry Newman.
Parlando, invece, dell’opera letteraria di Tolkien è d’obbligo metterne in risalto l’assoluta unicità a causa dello scopo e degli effetti assolutamente imprevisti, e in una certa misura non voluti, della sua opera.
La peculiarità di Tolkien in quanto scrittore di romanzi fantasy è quella di aver creato un mondo, una realtà, dei popoli, dei linguaggi, delle culture del tutto fantastiche ma non irrazionali. Senza dubbio il suo è il primo vero fantasy letterario moderno, di cui l’attuale valanghiva produzione commerciale non è che una patetica e volgare scimmiottatura. Ciò che distingue infatti il Signore degli Anelli da un qualsiasi romanzo fantasy contemporaneo come quelli ad esempio della saga di Shannara, è la levatura morale dei suoi protagonisti, lo spessore psicologico dei personaggi, il simbolismo di cui l’intero romanzo è pregno e da cui il lettore viene inconsapevolmente avvolto.
Il Signore degli Anelli non è una semplice lettura “da metropolitana”, non è un mero romanzo di piacere per passare il tempo. Anche se questa non fu assolutamente l’intenzione di Tolkien, il Signore degli Anelli è un libro impegnativo (la grandezza del volume ne è un segnale eloquente). Il professore di Oxford infatti voleva semplicemente scrivere dei racconti da leggere ai suoi figli ma anche soddisfare il suo desiderio di veder “vivere” quegli strani e complessi idiomi da lui inventati e sui quali aveva speso molto tempo della sua giovinezza, delle creazioni di cui ebbe sempre cura come il creatore la sua creatura. Eppure, l’opera da lui iniziata, andrà molto al di là delle sue prime intenzioni. La stessa stesura richiese una gestazione lunga e lenta e una continua riponderazione dei contenuti. In realtà le vicende della vita privata di Tolkien influenzeranno molto lo sviluppo del suo capolavoro il quale non fu appunto frutto di una pianificazione premeditata ma una creazione che sfuggì al suo controllo. Anche Michelangelo nell’accingersi ad affrescare la cappella sistina non seppe con chiarezza come si sarebbe sviluppata la sua opera né quanto tempo avrebbe occorso, tanto più che, come Tolkien, dovette interrompere e riprendere il lavoro più volte. L’accostamento sarà senz’altro ardito ma sia Michelangelo Buonarroti che John Ronald Reuel Tolkien, al termine della loro opera, si resero conto che essa aveva superato ampiamente i loro progetti e le loro aspirazioni e che essa esprimeva veramente, oltre ai contenuti oggettivi, tutta la loro interiorità e tutta la loro visione del mondo.
Inevitabilmente perciò il Signore degli Anelli diventerà anche una sorta di “diario spirituale”, probabilmente involontario, nel quale troviamo congregati i sentimenti più profondi di uno scrittore, uomo di Fede che fece della sua immaginazione uno strumento a maggior gloria del Signore al pari delle Confessioni di Sant’Agostino.
Dunque, anche se non è volutamente un racconto pedagogico, il Signore degli Anelli non può non esserlo. Con la sua trama complessa e la pluralità dei protagonisti coinvolti, il Signore degli Anelli rappresenta una allegoria della vita e della morte, del senso del dovere e del significato della sofferenza, della necessità del sacrificio e di quello dell’espiazione. È un grande affresco sul fine ultimo dell’uomo e della creazione tutta, ovvero il riposo dei beati i quali, dopo la traversata dell’oceano della vita, troveranno la quiete tanto sospirata sulle sponde luminose dell’eternità. Potremmo accostarlo, per la sua ricchezza e il suo spessore, ad un’altra produzione figlia dell’oratorio di San Filippo Neri la nota “Rappresentatione di anima et di corpo” di Agostino Manni, sacerdote oratoriano.
La cosa che al contempo stupisce e affascina del Signore degli Anelli in particolare ma di tutta la produzione relativa alla Terra di Mezzo in generale, è che nulla vi è in essa di esplicitamente cattolico. Ossia non ci sono riferimenti diretti a personaggi della Sacra Scrittura né il contesto storico che fa da sfondo alla trama è un’epoca cristiana come nei romanzi medievali di Boiardo, di Ariosto o di Tasso. Eppure, tutto nel Signore degli Anelli è cattolico. Ma è proprio questa sua bellezza al contempo implicita e manifesta ritengo sia stata ed è tutt’ora la sua forza persuasiva e coinvolgente, tanto da riuscir ad attirare persone delle più diverse estrazioni culturali e religiose. Con questo non voglio dire che leggendo il Signore degli Anelli si diventi cattolici, certamente no, ma chi ha avuto la fortuna e la grazia di leggerlo ha potuto gustare la bellezza fresca che può venire soltanto dalla Fede Cattolica integralmente vissuta e trasmessa.
La lettura del Signore degli Anelli ha la capacità di spingere il lettore a farsi spontaneamente bambino provocando in lui quasi la sensazione di essere preso in braccio dal buon papà seduto sulla poltrona, messo sulle sue ginocchia accanto al fuoco crepitante mentre la storia ha inizio. Cosa che Tolkien, d’altra parte, fece realmente con i suoi figli man mano che stendeva il suo capolavoro e, prima di coricarsi, gliene leggeva volta per volta il capitolo appena scritto. Lo stesso non si può dire degli scritti di C.S. Lewis il quale, proprio perché anglicano, risulta a volte moralista e pedante con la smania tipica dei protestanti di voler predicare “a parole”.
Nell’interpretazione degli scritti di Tolkien troppo si è insistito sulla famosa metafora del “viaggio” enfatizzandone gli aspetti meramente “romantici” che portano ad una immagine di Tolkien parziale e distorta. Gli autori romantici, infatti, sono in genere contraddistinti dall’egocentrismo, dalla malinconia e dal ripiegamento su se stessi che pretende però di istruire, attraverso la lamentela, gli sventurati lettori. Niente di simile in Tolkien il quale scrisse principalmente per se stesso, per i suoi figli e per la sua amatissima moglie Edith. Niente di autoreferenziale dunque vista la sua mai celata timidezza e il suo carattere riflessivo che preferiva il nascondimento alla notorietà. La metafora del “viaggio” fine a se stesso, come ricerca o “quest” è uno stereotipo letterario romantico che non si addice ad un cattolico, tantomeno ad uno scrittore cattolico come Tolkien, il quale non va in cerca di qualcosa di indefinito o di immaginario ma, con i piedi ben piantati a terra, punta dritto al Cielo. L’uomo secondo la teleologia o escatologia cattolica è un «pellegrino» con tutto quello che il pellegrinaggio significa (espiazione, adorazione, offerta, riparazione, devozione, ecc.). È del tutto ingiusto, perciò, incasellare Tolkien e la sua opera in una delle categorie letterarie moderne. Egli sapeva che l’uomo non è un viaggiatore malinconico imprigionato nell’intramondano alla ricerca di un qualcosa di indefinito che appaghi l’ego dell’artista tormentato. Questo è nient’altro che lo stato dell’uomo che ha perso o rifiutato l’orizzonte soprannaturale e il senso della propria esistenza. Il cristiano al contrario, dice sant’Agostino, è come un albero che vive sulla Terra ma ha le sue radici in Cielo.
La concezione che è alla base del Signore degli Anelli e che regola tutta la Terra di Mezzo è, a ben vedere, aristotelico-tomista ossia cattolica. Sulla scorta della visione del mondo di cui San Tommaso d’Aquino per grazia di Dio ha arricchito la dottrina cattolica, Tolkien descrive la realtà da lui creata, riflesso di quella creata da Dio, secondo un duplice movimento che la anima e la guida. Il primo è un movimento di exitus («uscita») il secondo di reditus («ritorno») che spiega come tutti gli esseri spirituali escono e provengono da Dio e aspirano a ricongiungersi a Lui che è il Bene Supremo e la nostra eterna Felicità. Il Silmarillion è il volume dedicato proprio alla creazione e all’origine dei “progenitori” della Terra di Mezzo. In esso viene descritta anche “la caduta” attraverso la metafora di una splendida e divina melodia rovinata da poche note stonate frutto della ribellione e dell’orgoglio.
Questa è l’avventura dell’anima, la ricerca del suo Fine Ultimo e il “ritorno” al suo Principio Primo che si svolge in una vera e propria “Terra di Mezzo” fra il Paradiso e l’Inferno, in un luogo d’esilio che non è la sua patria. Il suo Fine è tornare al suo Inizio, al suo Creatore, varcando quello spazio indefinito, descritto da Tolkien come una traversata oceanica da una sponda ad un’altra, che è la morte. Il passaggio dalla riva instabile e mutevole di una terra “di Mezzo” ai colli eterni e immutabili del Regno dei Cieli, un premio riservato solo a coloro che hanno portato il loro “fardello” attraverso quella che l’Apocalisse definisce «la grande tribolazione». Non a caso Bilbo Baggins chiamerà la sua avventura, secondo la cosmologia tomista, “Andata e Ritorno” («exitus et reditus»).
Fatta questa doverosa, seppur troppo breve, premessa diamo inizio ad un esame più dettagliato dei simboli e dei personaggi tolkieniani o, perlomeno, dei più importanti.
[1] La realtà in trasparenza, Bompiani, Milano 2002, p. 62. 
[2] Ibidem, p. 63. 
[3] Ibidem.

Premio Aquistoria 2015

FRANCO CARDINI, PAOLO ISOTTA, LICIA GIAQUINTO, ANTONIO DE ROSSI, i vincitori della 48° edizione del Premio Acqui Storia 2015. DARIO BALLANTINI di Striscia la Notizia, PIETRANGELO BUTTAFUOCO, ITALO CUCCI, MARIA RITA PARSI E ANTONIO PATUELLI, Presidente dell’ABI, Testimoni del Tempo. A GIGI MARZULLO il premio la Storia in TV. A GIUSEPPE GALASSO il Premio alla Carriera con la Medaglia Presidente della Repubblica.
Le Giurie del  Premio Acqui Storia, riunitesi in Acqui Terme, hanno designato i vincitori della 48° edizione del Premio.
Il Premio, nato nel 1969 per onorare il ricordo della “Divisione Acqui” e i caduti di Cefalonia nel settembre 1943, è divenuto in questi ultimi anni uno dei più importanti riconoscimenti europei nell’ambito della storiografia scientifica e divulgativa, del romanzo storico e della storia al cinema ed in televisione ottenendo un importante rilancio scientifico culturale ed una grande visibilità internazionale.
Questi i vincitori nelle rispettive sezioni previste dal regolamento del Premio:
Franco Cardini con il volume “L’appetito dell’Imperatore. Storie e sapori segreti della storia” Mondadori e Paolo Isotta con “La virtù dell’elefante. La musica, i libri, gli amici e San Gennaro” Marsilio, si sono aggiudicati il Premio da 6500 euro nella sezione storico divulgativa.
Antonio De Rossi, con il volumeLa costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (1773-1914),  Donzelli editore si aggiudica la sezione storico – scientifica.
Licia Giaquinto viene premiata nella sezione romanzo – storico  per il volume La Briganta e lo sparviero” Marsilio Editori.
            La cerimonia di premiazione della 48° edizione del Premio Acqui Storia è in programma sabato 17 ottobre alle ore 17.15 presso il recentemente restaurato Teatro Ariston di Acqui Terme, Piazza Matteotti. Sarà condotta da Mauro Mazza, ex direttore di Rai 1 e Tg2 ed Antonia Varini, di Uno Mattina,  e sarà il culmine di un intenso programma di eventi, iniziato alla mattina alle ore 10.00 al Grand Hotel Terme di Acqui con l’incontro dei vincitori con la stampa, gli studenti ed il pubblico, orchestrato e moderato da Carlo Sburlati, patron anche dell’altro Premio Internazionale biennale ”Acqui Ambiente”.
Nel pomeriggio sul palco del Teatro Ariston, oltre alla  presenza dei vincitori delle tre sezioni, le personalità insignite dei premi speciali “Testimone del Tempo”, “La Storia in TV”, Premio alla Carriera. L’assegnazione del premio Testimone del Tempo 2015, che rappresenta il momento più prestigioso della manifestazione, vedrà calcare il palco del Teatro Ariston cinque figure di straordinario rilievo nel panorama artistico e culturale contemporaneo: Dario Ballantini, Pietrangelo Buttafuoco, Italo Cucci, Maria Rita Parsi e Antonio Patuelli.
“Il numero delle opere partecipanti al concorso quest’anno è stato di 170 a fronte di una media di circa 25 - 30 delle prime quaranta edizioni” -  ha rimarcato il Responsabile Esecutivo del Premio Carlo Sburlati, artefice in questi ultimi anni di uno spettacolare rilancio scientifico, culturale, mediatico e mondano del Premio, come evidenziato dai maggiori quotidiani italiani, ripreso in quasi tutti i telegiornali Rai e Mediaset, oltreché dai network privati, confortato dalla presenza di un folto pubblico e di personaggi del jet-set internazionale, che affollano il pur capiente Teatro Ariston per la premiazione.

Franco CARDINI con il volume “L’appetito dell’Imperatore. Storie e sapori segreti della storia” Mondadori e Paolo Isotta con “La virtù dell’elefante. La musica, i libri, gli amici e San Gennaro” Marsilio, si sono aggiudicati il Premio da 6500 euro nella sezione storico divulgativa.
La zuppa di riso di Ho Chi Minh, i sontuosi banchetti dei dittatori, l’alimentazione semplice ma fantasiosa del popolino, i “vizi” e le debolezze dell’intellighenzia… Il libro di Franco Cardini, storico rigorosissimo e raffinato gourmet che sa cedere alle “frivolezze” della grande Storia, racconta il nostro passato, dal medioevo ai totalitarismi del Novecento, attraverso un punto di vista assolutamente originale, e particolarmente godibile oltre che “goloso”: il cibo (specchio dei popoli), i “sapori segreti”, e le caratteristiche della cucina dei diversi periodi storici. Tra aneddoti, testimonianze d’autore, ricordi e piccole rivelazioni, l’autore – proprio nell’anno dell’ Expo dedicato al tema “Nutrire il pianeta” - ci fa scoprire come, molto più spesso di quanto crediamo, gli sviluppi improvvisi della grande Storia possano essere stati  decisi da un capriccio di gola.
Paolo ISOTTA,  grande musicologo, scrittore di talento, colto, ironico e tutt’altro che politicamente corretto, pertanto per molti versi scomodo e urticante, con “La virtù dell’elefante. La musica, i libri, gli amici e San Gennaro” ci offre un  libro di memorie, in cui l’ordine cronologico è sopraffatto e travolto da una valanga di aneddoti e di curiosità (anche piccanti), ci offre un formidabile compendio di oltre mezzo secolo di vita musicale e nello stesso tempo un ampio campionario di quanti – giganti, mezze figure e figuranti – lo popolano. E mentre ci parla a dovizia delle sue predilezioni culturali, delle sue amicizie, dei suoi maestri e delle sue idiosincrasie, spaziando in lungo e in largo per l’Italia (ed anche fuori), innalza un monumento forse più duraturo del bronzo alla napoletanità, di cui egli stesso è campione e cantore.

Antonio DE ROSSI, con il volumeLa costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (1773-1914),  Donzelli editore si aggiudica la sezione storico – scientifica.
Sulla scorta di ampia ricerca bibliografica e di esplorazione archivistica in Italia e all’estero, l’Autore propone le Alpi come sfida sotto il profilo culturale, politico, economico, sociale e militare, con attenzione per scienza e tecnologia (in specie l’ingegneria stradale e ferroviaria) e per l’industria turistica da fine Settecento alla Grande Guerra. L’opera è corredata da imponente e pertinente apparato iconografico.
Licia GIAQUINTO viene premiata nella sezione romanzo – storico  per il volume La Briganta e lo sparviero” Marsilio Editori. “Ambientato negli anni Sessanta dell’Ottocento, tra i territori montuosi dove si incontrano Basilicata, Campania e Puglia, il romanzo “rilegge” il Risorgimento attraverso la storia del bandito Giuseppe Schiavone, detto lo Sparviero, e della bellissima Filomena, la sua donna, la Briganta. Una storia dalla scrittura densa e potente che mette in scena la rappresentazione di un Medioevo “barbarico” dove la magia è di casa, insieme alle più feroci passioni”.
Il premio TESTIMONE DEL TEMPO 2015 verrà consegnato a cinque figure di straordinario rilievo nel panorama artistico e culturale contemporaneo: Dario Ballantini di Striscia la Notizia, Pietrangelo Buttafuoco, Italo Cucci, Maria Rita Parsi e Antonio Patuelli, Presidente ABI.
            Dario BALLANTINI ha  conquistato una eccezionale notorietà televisiva, grazie a un programma di straordinario successo come Striscia la Notizia. Indossando i panni di Valentino e di Papa Francesco, di Roberto Maroni  e di Matteo Renzi, di Matteo Salvini e di Angelino Alfano, di Angela Merkel e di Luca Cordero di Montezemolo, di Ignazio Marino e di Gianni Morandi. La galleria di personaggi interpretati con stile e precisione è lunghissima. Come ben sanno milioni di telespettatori.
Sarebbe però estremamente riduttivo classificare Ballantini come “imitatore”. Perché in realtà è un artista completo. Pittore, innanzi tutto. Pittore di grande qualità che ha esposto le sue opere in importanti mostre e gallerie di tutta Europa. Sono molti i  teatri più prestigiosi che han visto le esibizioni di Ballantini come attore, come autore, anche come scenografo.
 Perché, quando si hanno le doti di Ballantini, l’arte diventa una sola. Si può passare dalla realizzazione di un quadro all’interpretazione di un personaggio comico, dall’imitazione di un cantante alla satira politica. Per raggiungere questi risultati occorre capacità ed occorre anche uno studio approfondito. Non solo della pittura, ma anche degli scenari politici ed economici nazionali ed internazionali. Perché la satira, quando è fatta bene, non può prescindere dalla conoscenza della realtà.
Pietrangelo BUTTAFUOCO ha collaborato con alcune tra le principali testate giornalistiche italiane, dal “Giornale” al “Sole 24 ore”, da “Panorama”, a “Repubblica”, dal “Foglio” di Giuliano Ferrara , al “Fatto Quotidiano” di Travaglio, distinguendosi per la spregiudicatezza e talora per la conclamata irriverenza dei suoi interventi. Ha sempre amato analizzare e commentare i fatti da prospettive inedite, disdegnando intenzionalmente il politically correct, anche a costo di épater i benpensanti e di suscitare scalpore.
            Si è sempre dimostrato uno spirito (e un battitore) libero, preferendo restare amico e fedele alla (sua) verità, anziché accattivarsi e  blandire il potere e i potenti, quelli amici compresi, non di rado pagando di persona. Presidente per un quinquennio del Teatro Stabile di Catania, per la televisione, oltre ad avere realizzato per La 7 “Giarabub”, ha condotto alcuni programmi, come “Sali & Tabacchi” su Canale 5 (secondo Aldo Grasso, “la migliore trasmissione culturale della Tv italiana”) e “Otto e mezzo” in coppia con Alessandra Sardoni. E’ ospite fisso a Mix 24, la trasmissione di Giovanni Minoli su Radio24.
            Il suo talento di polemista e di scrittore si è rivelato in saggi e romanzi via via pubblicati: dal celeberrimo “Le uova del drago” al “Il lupo e la luna”, al “Il dolore pazzo dell’amore”, a “I cinque funerali della Signora Göring”; a “Cabaret Voltaire”, a “Buttanissima Sicilia”, a “Il Feroce Saladino”.
            Italo CUCCI è, dopo Gianni Brera, il più autorevole ed innovativo giornalista sportivo italiano di questo secondo dopo guerra. E’stato più volte direttore del mitico “Guerin Sportivo “, reinventandolo totalmente nel 1975, del “Corriere dello Sport – Stadio”, del Quotidiano Nazionale, del settimanale “Auto sprint”, editorialista di molti quotidiani italiani, tra cui il “Corriere della Sera”.
            Docente universitario di sociologia della comunicazione sportiva alla Facoltà di Scienze Politiche e di giornalismo alla Luiss di Roma. Volto noto del piccolo schermo come ideatore, conduttore ed opinionista di trasmissioni televisive e radiofoniche di successo.
            Ha scritto diversi volumi, non solo di sport, vincitore di importanti premi letterari. Grande interesse sta suscitando il suo ultimo libro “Ferrari Segreto” da pochi giorni nelle librerie,  dedicato al Mago di Maranello e alle rosse del cavallino rampante.
Maria Rita PARSI   è  docente, psicoterapeuta e psicopedagogista, collaboratrice di molti quotidiani e periodici, nonché volto noto della nostra televisione in qualità di psicologa ed opinionista. Oltre ad aver fondato e dirigere tuttora la Scuola Italiana di Psicoanimazione, è componente del comitato ONU per i diritti per l’infanzia e  ha sempre rivolto al mondo dei bambini e degli adolescenti uno sguardo affettuoso e attento, cercando di esplorarlo in profondità, di portarne alla luce la misteriosa ricchezza e di disegnarne il complesso profilo con quel “rispetto” a cui, per l’appunto, si faceva cenno.
 Per la Parsi - amare i nostri figli “non basta”, bisogna cercare di capire quello che “non dicono”, dobbiamo renderci conto che parole e comportamenti segnalano una realtà interiore che non può essere costretta nella maglie di una pedagogia approssimativa , ma deve essere “letta”, con delicatezza di cuore e di intelletto, come un mondo tutto da scoprire. Maria Rita Parsi si è mossa sempre in questa direzione con una “ricerca sul campo” aperta agli aggiornamenti e promuovendo una serie di importanti iniziative nazionali ed internazionali.
Antonio PATUELLI è stato eletto all’unanimità nel 2013 Presidente dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana). Cavaliere del Lavoro, sottosegretario di Stato al Ministero della Difesa nel Governo Ciampi,  giornalista. In ognuna delle attività che ha affrontato, Antonio Patuelli si è sempre contraddistinto per capacità, intelligenza, professionalità.  Riuscendo a coniugare impegni diversi, affrontati sempre con successo. Patuelli è al vertice dell’associazione bancaria italiana ma è anche presidente dal 1995 della Cassa di Risparmio di Ravenna e titolare di una prestigiosa azienda agricola.
Nonostante il poco tempo libero a disposizione, è riuscito in questi ultimi mesi  anche a scrivere un nuovo libro, “Nuova Europa e neonazionalismo”. Uno sguardo d’insieme su quanto sta avvenendo in Europa, sui sogni dei fondatori, sulle disillusioni attuali. Scritto con la competenza di chi si occupa di economia e di finanza, ma anche con la passione civile di chi  ha un ruolo di primo piano nella vita  italiana.
            L’Italia, che spesso non ama i banchieri, prova ancora un atavico rispetto per chi si occupa di lavoro, impresa ed agricoltura. Patuelli, anche in questo settore, ha saputo coniugare la conoscenza tecnica, gli studi approfonditi, con l’attenzione agli aspetti più profondi di un lavoro antico. Ai vertici dell’Associazione bancaria ha portato le sue qualità, la sua capacità di osservare, di comprendere, di interpretare. In uno scenario difficile, complesso, globale.  Conquistando il rispetto e l’ammirazione generale per l’onestà intellettuale, la correttezza, la capacità di guardare al futuro.

Il PREMIO LA STORIA IN TV 2015, inserito per la prima volta nei palmares dell’Acqui Storia nel 2003 e giunto quest’anno alla sua tredicesima edizione, vuole rendere un significativo omaggio a Gigi Marzullo e alla sua significativa carriera di autore e conduttore televisivo (dal 14 maggio 2013 è capo struttura cultura della prima rete RAI).
            Ha scritto qualcuno che Gigi Marzullo,  è una “garanzia”,  ci “garantisce”, ci “rassicura”,  con una presenza che è ormai, da anni, un appuntamento irrinunciabile per gli insonni cercatori di cultura. Un pubblico più ampio di quel che si creda e a cui Marzullo presenta- con uno sperimentato “taglio” televisivo fatto di domande e interviste, dibattiti e immagini di repertorio- una ricca offerta di argomenti storici.
L’uomo che, “a mezzanotte e dintorni”, viene a parlarci “sottovoce”, sfogliando le pagine di “mille e un libro”, tocca molteplici corde, stimola ogni sorta di curiosità storica e letteraria, si apre alla più varia umanità, con i diretti autori e protagonisti, attraverso un approccio sempre garbato, ma al tempo stesso puntuale.
Perché il celebre “tormentone” marzulliano “si faccia una domanda e si dia una risposta” significa che il pubblico vuol sapere chi ha davanti e che dunque bisogna farsi capire. Essere convincenti e non reticenti. In particolare quando si ha a che fare con la storia. Più in particolare ancora quando si ha a che fare con la storia del nostro tempo dove è facile peccare in “pensieri, parole, opere e omissioni”.
Sempre paziente e amabile, l’insonne Marzullo indaga. E, se necessario, “stana”. Perché sa che la storia non vuole zone d’ombra, giudizi sommari, pregiudizi ideologici. Lo spettatore vuol vederci chiaro. Più che mai quando scocca la mezzanotte (e dintorni).
Il PREMIO SPECIALE “ALLA CARRIERA”,  istituito nel 2009 da un’idea ed un progetto di Carlo Sburlati , è stato conferito a Giuseppe Galasso.
Tra i massimi storici italiani del Novecento, unisce ricerca scientifica,  alta divulgazione ed impegno civile. Alunno e poi segretario dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici fondato da Benedetto Croce, libero docente dal 1963, ordinario di storia moderna e medievale all'Università  Federico II di Napoli dal 1966 al 2006, accademico dei Lincei dal 1977, presidente della Società Napoletana di Storia Patria dal 1980, ha pubblicato opere fondamentali sulla storia del Mezzogiorno, anche in collaborazione con Rosario Romeo, e ha ideato e diretto la Storia d'Italia in 24 volumi, aperta dal suo incisivo affresco dell'Italia come problema storiografico.
            Giuseppe Galasso al magistero storiografico ha accompagnato la partecipazione al dibattito culturale con articoli  storiografici e politici in quotidiani e settimanali. Sottosegretario di Stato al Ministero dei Beni Culturali e ambientali (1983-1987) e al Ministero  per l'Intervento straordinario nel Mezzogiorno  (1988-1991), ha legato il suo nome alla legge per la tutela dei beni naturalistici e ambientali, universalmente apprezzata. Con la sua opera Galasso insegna  che la meditazione storiografica non solo è sempre storia contemporanea e visione del futuro ma anche diuturno impegno civile.








di G. K. Chesterton, "Gli alberi dell'orgoglio" (Ed. Nuova Editrice Berti)

di Luca Fumagalli

In quel tratto di Cornovaglia, un maestoso spaccato della costa inglese, c’è qualcosa d’insolito. L’osservatore meno avvezzo, attratto dalla composta bellezza di porticcioli, barche, pescatori e insenature boscose, potrebbe non accorgersi dell’anomalia. Ma nel giardino di Vane, nobiluomo locale, vi sono delle piante esotiche decisamente strane. Volgarmente si definiscono “alberi pavone”. Portano con sé l’aroma di terre remote e, al contempo, tremende leggende sulla loro origine. Il mito, tramandato sin dalla notte dei tempi, racconta che il dono consesso loro da Dio, quello di poter camminare come esseri umani, sia stato rovinato dalla tentazione del demonio che, in forma di serpente, ha convinto le piante a diventare violente, smaniose di uccidere chiunque capitasse a tiro delle loro frasche. Anche in Cornovaglia si racconta che all’ombra del variopinto fogliame siano morte o scomparse diverse persone. La saggezza popolare, quindi, vorrebbe che quelle piante venissero abbattute, ma Vane, incorreggibile razionalista, non perde occasione per dimostrare il suo disprezzo verso tutte le inutili superstizioni: «In breve, era un uomo che si inorgogliva in modo particolare per il fatto di non perdere mai tempo in sciocchezze. […] Pareva che volesse star ritto sulla testa solo per dimostrare quanto l’avesse dura». Un giorno, però, quando per scommessa accetta di trascorrere una notte di riposo sotto gli “alberi pavone” pur di dimostrare una volta per tutte che le leggende sono solo un cumulo di stupidaggini, scompare improvvisamente, e di lui si perde ogni traccia.
A metà tra il realismo magico di Buzzati e l’ironia composta di Dickens, Gli alberi dell’orgoglio descrivono una storia piuttosto lineare, poche pagine raggruppate in quattro capitoli. G. K. Chesterton imbastisce una sorta di apologo morale che si insinua sapientemente nella grave leggerezza di una trama a metà tra favola e poliziesco. Le frasi fluiscono rapidamente, sovente strutturate in abili paradossi o scaltri giochi di parole che interrogano il lettore, invitandolo a esplorare episodicamente il retropensiero dell’autore. Ed è proprio nelle crepe, nei vuoti testuali, più che nei fatti narrati o nei personaggi, che si cela l’ammaliante bellezza del libro.
Uno degli esempi migliori di questo atteggiamento – del resto tipico di tutta la produzione chestertoniana – è il coro popolare costituito da braccianti, pescatori e contadini che con la sua voce testimonia il memento, figlio della cultura paesana, a non tentare la terribile magia degli “alberi pavone”. Quando il taglialegna Martin parla con Vane li paragona addirittura a dei draghi, una similitudine così azzeccata da trasfigurare la realtà in senso favolistico. Vi è una sfumatura medievale nella penna di Chesterton per cui il realismo produce qualcosa di infinitamente più veritiero del semplice naturalismo. La realtà è per lui segno di altro, è simbolo e inevitabile testimonianza di quella benevolenza che è l’impalcatura dell’esistenza. Non a caso, come già accadeva ne Il poeta e i pazzi, è lo scrittore, l’artista che più di altri ha il dono di penetrare i misteri del quotidiano: «È il poeta ad avere ragione, il poeta ha sempre ragione. Oh, è qui sin dagli albori del mondo, ha visto le meraviglie e gli orrori che circondano il nostro cammino e che si nascondono appena dietro un cespuglio o una pietra. […] Credere in Dio è l’unica cosa che rimane, dal momento che non possiamo fare a meno di credere nei demoni!». Nella pantomima di inganni e illusioni che è la modernità, è l’antirazionalista il vero razionalista, è il folle l’unico sano. La scienza non viene ridicolizzata o sminuita nel suo complesso; piuttosto è condannato l’atteggiamento presuntuoso del positivismo materialista.
Più tardi Barbara, l’amabile figlia di Vane, parlando con Paynter, critico letterario e amico di famiglia, ribadisce l’importanza di saper distinguere nella vita gli squarci di salvezza dalle malvagità da abbattere. Ma per fare questo, ancora una volta, è necessario un occhio sincero, incontaminato da pregiudizi «Sono assolutamente certa […] che nessuno possa salvare questa terra agonizzante e questa gente prossima alla fine, tranne coloro che sanno leggere i mille piccoli segni, le indicazioni disseminate nel terreno e nella configurazione di questa terra, e le tracce quasi cancellate dai passi». Infine conclude: «Esistono delle forze, esiste lo spirito di un luogo, vi sono presenze che non possono essere accantonate».
Il vero protagonista de Gli alberi dell’orgoglio è dunque il mistero del quotidiano, quel crepuscolo che lascia presagire una nuova alba. La scomparsa di Vane è solo il primo di una serie di accadimenti che porta i personaggi a interrogarsi sul mondo e sulla vita. Ne risulta un vivido affresco colmo di caratteri e colpi di scena, una letteratura che si fa rivelazione, disvelamento della bellezza che irradia il mondo; la gioia non nasconde la tragedia, ma la riscatta, la trasforma in un imprevisto che ha sempre e comunque un valore positivo. La cima «spoglia e rocciosa dove il vento soffia come febbre su una landa selvaggia» è il luogo desertico a cui l’umanità, per sua stessa natura, per vocazione, è chiamata a porre rimedio. Non è questione di rimboccarsi le maniche, di lanciarsi in fatui titanismi, quanto di lasciarsi attraversare dal desiderio di risoluzione che, come in un romanzo poliziesco, anima la vita.
La più grande lezione di questo breve racconto di Chesterton, edito per la prima volta nel 1922, è un’ammonizione di sana ovvietà: l’interrogativo sulla vita è l’unica condizione in grado di muovere l’uomo, di infondergli passione, di renderlo vivo.

da:www.radiospada.org

sabato 19 settembre 2015

Francesco Rossi de Gasperis "Un Pellegrino che "comincia da Gerusalemme"" (Ed. Paoline)

di Domenico Bonvegna

Da qualche tempo si assiste a uno stillicidio di messaggi e di commenti su facebook dove più o meno “amici” danno giudizi “pesanti” sui discorsi o prese di posizione dell’attuale Pontefice papa Francesco, a volte i messaggi sono talmente puerili e ridicoli che viene da ridere o forse da piangere. In questi giorni sempre preso dalla mia curiosità culturale, questa volta religiosa teologica, mi sono imbattuto in un testo singolare, “Un pellegrino che ‘comincia da Gerusalemme’, sottotitolo: “Esercizi spirituali sull’autobiografia di Ignazio di Loyola con riferimenti al Cammino dell’uomo di Martin Buber”, scritto da un gesuita, Francesco Rossi De Gasperis, pubblicato dalle Paoline (2015). Per la verità il libro ancora non l’ho letto tutto, ma in particolare sono rimasto colpito dal capitolo, XXI: “Regole per il retto sentire che nella Chiesa militante dobbiamo avere”. Ci sono alcuni passaggi che sembrano fatte apposta per rispondere a quegli “amici” di facebook che da tempo si sono dedicati allo sport di infangare l’attuale Sommo Pontefice.
Padre De Gasperis ci invita a pregare e sulla linea degli Esercizi, propone le regole “per il nostro genuino sentire nella Chiesa militante”. Sono delle indicazioni, un invito “a porsi personalmente nella Chiesa, nelle Chiese, là dove ognuno si trova, per vedere che cosa può fare di più e di meglio ‘per formarci a sentire (quasi istintivamente) con profonda simpatia nella Chiesa militante”.
La prima regola è quella di deporre ogni giudizio, “dobbiamo tenere l’animo apparecchiato e pronto per obbedire in tutto alla vera sposa di Cristo nostro Signore che è la nostra Santa Madre Chiesa gerarchica”. E’ qui che Nostro Signore Gesù Cristo continua ad operare nella storia, attraverso i successori di Pietro e quindi anche con papa Francesco.
Padre De Gasperis ci mette in guardia dal non vedere la Chiesa “con gli occhi terreni e di cui si legga sui giornali”. La vera Chiesa si coglie in verità nell’atto di fede cattolica: “Credo Ecclesiam”. S. Ignazio nel suo tempo l’aveva capito bene.
Quattro direzioni verso cui camminare.
Pertanto il gesuita suggerisce, quattro direzioni verso cui camminare: “prima di tutto dobbiamo imparare a ‘sentire nella Chiesa’, rendendoci più e meglio consapevoli della sua inculturazione nell’Italia odierna, con i suoi pesi e misure, senza immaginare di trovarci o in un ambiente culturale differente o, addirittura, liberi da ogni condizionamento culturale. La Chiesa  -scrive De Gasperis – di per sé, dovunque si trovi, non è italiana o francese o giapponese od orientale od occidentale…”Essa è di Dio e di Cristo, dispersa e pellegrina a Roma, come a Berlino o a New York o a Mosca”. A questo proposito il gesuita rimprovera tutti quelli che ritengono che la Chiesa italiana sia più Chiesa delle altre. Non possiamo accettare che la fede di un giapponese sia minoritaria rispetto alla nostra, come “se la fede venisse dall’antichità del credere o dalla geografia, invece di essere un dono teologale di Dio”. Del resto anche nella stessa Italia, la fede è vissuta in diversi modi.
Tra l’altro padre De Gasperisdopo avere scritto che la Chiesa in Italia è molto clericale, un po’ arrogante e provinciale, sostiene che l’ideale per una Chiesa non è una presenza massiccia di clero. Come se chi ne ha poco è un sottosviluppato, “forse in alcune cose, i sottosviluppati siamo noi, proprio a causa della sovrabbondanza di clericalismo”. Il padre gesuita, è abbastanza critico verso certe esagerazionireligiose tipicamente italiane. Bisogna stare attenti a non sacralizzare quelle che sono tradizioni di uomini, come dice Gesù (Mt 13,1-9; Mc 7,1-13), anche se gli uomini sono rispettabili.
Occorre ringraziare il Signore “di quello che siamo, ma senza rivendicazioni campanilistiche, senza totalitarismi e immobilismi, che ci rendono arroganti, non servi di Dio nella sua Chiesa, ma padroni nelle nostre comunità”.
Padre Francesco Rossi De Gasperis parla di bastioni caduti, a cominciare da quello dell’”ideologia del papato”, ad opera di papa Ratzinger.
La Chiesa passata per il Concilio Vaticano II.
Il Concilio Vaticano II, forse è stato troppo europeo e soprattutto si è celebrato contro nessuno, forse l’unico nella storia della Chiesa. “Per questo fu molto più sereno degli altri(…)e ci ha dato una visione più equilibrata e completa della verità cristiana e della Chiesa cattolica…”. Per il gesuita “il Vaticano II potè fare un discorso più tranquillo, più disteso, meno polemico e, quindi, più vero(…)”. Comunque sia il Concilio si è mosso secondo l’idea che tutti i problemi e situazioni della e nella Chiesa si dovrebbero sempre affrontare “Cominciando da Gerusalemme”(Lc 24,47)da dove, cioè, Dio ha cominciato e sempre dirige il nostro cammino-, più e prima che dalle tappe successive e intermedie, costruite dagli uomini lungo i loro sentieri”.
Il Vaticano II per padre Francesco, “ha seguito una linea di recupero: per ‘aggiornare’ la trasmissione della fede, bisogna capire da dove si deve partire, che cosa si può e si deve aggiornare”. Naturalmente, il Concilio, “non ha mostrato alcun complesso cristiano di inferiorità dinanzi alla società civile”.

venerdì 18 settembre 2015

AA.VV., "Le memorie di Elvira" (Ed. Sellerio)

di Carmelo Fucarino

Chi degli operanti nel campo della scrittura non fu sfiorato negli anni ’80 del secolo scorso dalla vampata della “Signora” Sellerio? C’erano allora solo pochi riferimenti locali per noi operai della macchina da scrivere, la piccola verde Olivetti 22 che spesso si impuntava ingarbugliando le asticelle dei caratteri. Il mio primo libro nel 1982, una traduzione dal russo di un romanzo per ragazzi, fu accettato da Vittorietti, pubblicato nello scolastico e pagato a forfait trecentomila lire in due. Il secondo, il mio prezioso Pitagora e il vegetarianismo, amato da Bent Parodi, fu edito senza obolo da parte mia, ma anche senza percentuale di diritti da parte sua dall’amico collega Antonio Giannone che alla partita doppia aveva preferito, pensionandosi da prof di tecnica, l’arte per lui quasi infruttifera dell’editoria di scienza alternativa alla quale sacrificava la sua magra baby pensione. Il terzo uscì da Brotto, una meticolosa edizione critica delle Supplici di Euripide, l’anno in cui Giusto Monaco ci stupiva con la sua versione centrata su Le madri. L’incantamento per la poesia e la cultura greca che non mi avrebbe mai lasciato. Oh, dimenticavo, le poesie, Città e ancora città, sfogo dell’anima e sfizio editoriale strettamente a pagamento, per fiducia e amore del compianto Carmelo Pirrera!
Poi, un giorno, su spinta e segnalazione di una cara amica, ebbi anch’io l’appuntamento e fui fatto accomodare, in trepida attesa, nel salottino che tanta celebrità avrebbe avuto e tante più esimie visitazioni, come è conclamato da tanti più fortunati. Per parte mia non ne ricordo assolutamente i particolari, non saprei indicarne gli oggetti, immerso nel pensiero e nella ricerca dei convenevoli. Non seppi e non mi accorsi di “divanetto di Sciascia” e di personalissime e gloriose suppellettili. Non mi ricordo neppure se ho avuto il premio della tanto decantata specialità, il suo originale Martini (testimonio Piero Violante). Sicuramente La Memoria era giunta al n. 23, con quella tanta esaltata Diceria, inserita tra la grandiosa caricatura di Dostojevskij, il tronfio e grottesco letterato di Stepancikovo, FomàFomìc, e il diario Per Eliza, chicca della scandalosa passione adultera dello Sternecolui che guidò la nostra giovinezza con il suo Viaggio sentimentale su consiglio di Foscolo. Perciò l’anno fu con sicurezza il 1981, certamente di poco successivo al Campiello, gloria da decantare per una piccola editrice di lontano,sperduto capoluogo di regione, ma di insignificanti e quasi assenti trascorsi letterari. A questo subito si appellò la “signora”, nel breve colloquio che riguardò il mio dattiloscritto. Lo avevo fatto rilegare con una copertina blu e se ne stava in inerte attesa nella mia carpetta poggiata sul divanetto. Senza richiedermi di lui, soggetto della visita, senza parvenze o promesse di incontri mi chiese semplicemente se sapessi cosa significasse un passaggio al Campiello. L’allusione era economica, come l’altra domanda su quanto costasse una recensione su L’espresso. Fatti i conti nelle vecchie lire e citati i risultati, mi dichiarò che un’opera prima di un autore sconosciuto richiedeva un grosso impegno, che dopo quello affrontato con Bufalino non poteva in quel momento permettersene un altro. Perciò non poteva accettare il mio romanzo. Nato secondo dopo la perdita di un primo, non ebbe neppure la chance di una lettura, neppure di unasemplice scorsa delle pagine. Un rifiuto netto e definitivo, senza che una semplice occhiata si fosse posata su quei caratteri e su quella impaginazione. Un miracolato della collana ebbe la grazia di uscire in pubblico per la veste tipografica del manoscritto. Senza speranze e senza attenuanti. Se volevo lasciarlo, ma senza impegni e senza speranze prossime future. Cosa avresti fatto? Lo abbandonai nelle sue mani, per sempre. Ed è rimasto per sempre dormiente nel suo scaffale (fino a quando, prima del macero?) e nel mio cassetto con il presuntuoso titolo di Katabasi.
Ora con un titolo alludente ed alquanto ambiguo nella sua articolazione escono ventitré esaltanti ed esaltate autobiografie che hanno la pretesa di commemorare da sole una lunga e complessa vicenda durata quarantasei anni e scandita da mille opere di autori, quanto mai diversi ed eterogenei,proposte nei decenni ai lettori palermitani e infine italiani. Lasciando in pace i molti protagonisti morti che per la loro condizione rimangono soltanto testimoni della scelta culturale della “Signora”, c’è da chiedersi perché dei tanti altri beneficati solo questi ventitré hanno potuto manifestare corampopulola loro beatitudine. Lo ribadisco, questa impressione si ricava dalla lettura di siffatta raccolta, il libro delle beatitudini. In tema di Francesco, oggi vivissimo per l’identificazione papale, mi ricordano i modesti, appassionati, ingenui Fioretti.
Il titolo del libretto del numero 1000 della collana è emblematico, La memoria di Elvira (Sellerio editore Palermo, Palermo 2015). Non è detto chi ha curato gli inviti e la raccolta di queste autobiografie, né quale criterio è stato usato nella scelta dei beneficati. Accanto ai nomi di grandi prestigio, primo (solo per ordine? O per beneficenza?) il Camilleri delle grandi fortune, il Piazzese, sempre di area poliziesca, non mancano per fortuna, in ordine,Luciano Canfora, Adriano Sofri e Piero Violante. Si accostano poi in una sequenza misteriosa (per importanza? o canone storico? o secondo il criterio catulliano della variatio?) personaggi di fama ristretta agli addetti ai lavori.
In genere la memoria di un uomo illustre nel campo delle lettere, diciamo di un cattedratico, è esaltata fra studiosi o scrittori attraverso loro contributi creativi, “In omaggio a” o “Miscellanea in onore di”. Qua invece si accampa esclusivamente il ricordo personale, smaccatamente quotidiano e autobiografico, troppo intimo e scandalosamente privo di pudore, nulla a che vedere con lo spirito profondamente altro della “memoria”, la “mneme”, che prelude alla “episteme”. Un madornale equivoco in funzione del ricordo.
Resta da chiedersi se è stato fatto un buon servizio alla “Signora”. Chi ha immaginato, creato e organizzato l’operazione si è assunto una grave responsabilità sia in relazione al metodo panegiristico e vergognosamente encomiastico, sia anche in rapporto alla chiamata nel cerchio magico degli eletti sia nella arbitrarietà delle esclusioni. L’anonimato degli autori della scelta e perfino nel risvolto di copertina deresponsabilizzano e lasciano perplessi. Perché se tutto nacque da input di simpatizzanti ha un significato diverso dalla volontà dei familiari ed eredi, che pur devono aver dato l’avallo per siffatta pubblicazione nella gloriosa collana.
Sono modestamente dell’avviso che la “Signora” non aveva bisogno di questa sviolinata. La sua opera per se stessa testimonia e certifica meriti e rivoluzioni editoriali. Bastano da soli a solenne testimonianza l’esperienza e l’intelligenza di Elvira Sellerio alla riscoperta del pensiero trascorso, della nostra memoria occidentale, in funzione civile e politica, la genialità delle scelte e delle intuizioni di opere che ancora potevano trasformare il mondo, quei contenuti di impegno civile che scorre sotterraneo in tutte le opere riproposte. Elvira partiva da questi presupposti, basta scorrere i titoli della prestigiosa collana dalla quale trae allusioni il titolo del libricino, per individuare strategie e sviluppo e realizzazione. L’editoria “bella” fu compito di Enzo Sellerio, prima ed unica quel particolare blu della copertina. L’editoria creativa e formativa, la biblioteca dell’esistenza e della formazione fu la passione della vita di Elvira. Le sue scelte, sublimi o immancabilmente errate, come qualsiasi intrapresa umana, furono comunque l’esempio di un progetto dell’uomo, quello che lei volle offrire e salvare per le generazioni presenti e future.
Non so quanto potrà restare del suo insegnamento fra i continuatori e nel progetto editoriale, quale eredità sarà preservata come bene prezioso da seguire ed imitare, da proteggere come patrimonio dell’umanità. Problematico prevedere come la sua creatura potrà e saprà preservarsi integra ed originale nelle scelte, salvarsi dalle grinfie dell’editoria nordica, affarista e commerciale. Affarismo diverso da quello del tipografo Angelo Rizzoli della BUR del 1949 che permise a noi squattrinati del dopoguerra di preparare e forgiare sui classici la nostra educazione umana e sentimentale, dal Mondadori, dichiaratamente analfabeta, che si inventò nel 1965 i settimanali tascabili Oscar, i “libri-transistor” secondo Vittorio Sereni, n. 1 Addio alle armi. Oggi l’affare è nelle copertine cartonate in rilievo dei volumoni dei best-seller di letteratura da macero americana, quella prefabbricata nella struttura da format, unico privilegio e qualità essere scritta nella lingua universale e sorretta da montagne di dollari per farne altre montagne.
Un augurio agli eredi, la speranza di una saggia guida che con discrezione ed umiltà prenda posto su quella poltrona.
Io così ho voluto ricordare il suo magistero, per nulla debordando dallo stile della nostalgia e dell’elogio funebre, con la ventiquattresima biografia letteraria in suo onore.

giovedì 17 settembre 2015

Giancarlo Licata, "Il volo dell'allodola" (Ed. Thule)

di Giuseppe Saja

«Esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca».
Alla fine della lettura del romanzo postumo di Giancarlo Licata, Il volo dell’allodola, curato dalla moglie Giusi Serravalle e con intelligente passione editato da Tommaso Romano, mi sono rimbalzate nella mente le parole di Calvino sulla leggerezza; certo inevitabilmente decontestualizzate dal setting saggistico in cui vennero scritte, ma rispondenti alla sensazione che la lettura di quest’opera lascia: si percepisce subito la grande maestria nel legare e collegare contenuti e temi di difficile e talvolta ardua trattazione e interpretazione (sempre che si vogliano evitare le plaghe della banalità e del già detto) per mezzo di una straordinaria leggerezza narrativa, che Licata aveva già parzialmente mostrato di possedere con la pièce Il bambino del sentiero, figlia di una grande abilità, certo non proveniente soltanto dalla lunga e scaltrita pratica della scrittura giornalistica. Nel panorama narrativo italiano dei nostri giorni, in cui i libri che vale la pena leggere brillano come rare pepite in mezzo al fango del desolante commerciale, questo romanzo si distingue per il suo appartenere a un sempre più raro filone aureo, e sorprende ancora di più dato che l’autore, pur avendone definito sviluppo e stile, non sia riuscito a dargli l’ultima, personale revisione. Senza volere indulgere  a facili sintesi della trama, che toglierebbero qualcosa al grande piacere che si prova nel legger questo libro, bisogna pure far comprendere da cosa nasca l’entusiastica adesione nei suoi confronti. Sono presenti in esso temi, spunti, episodi, riflessioni che sviluppati singolarmente avrebbero potuto dare  al suo autore materiale per tre, quattro romanzi non seriali, si badi bene; ma tutti di forte e coinvolgente attualità: la nuova mafia e i suoi sempre più complessi rapporti con la politica; la disabilità e l’immigrazione, temi grazie ai quali Licata ragiona sulle principali e più rabbrividenti  forme di emarginazione, ma anche sulla ricchezza di un pensiero e di una cultura ‘altri’; la differenza tra la parola che informa e contribuisce  a creare coscienze libere e pensanti e quella, spesso mediatica, che indottrina e plasma cittadini passivi. E poi, la presenza delle ‘cattedrali nel deserto’, soprattutto nel meridione, in Sicilia: i prodotti più evidenti di un’industrializzazione senza radici e progetti, figlia del compromesso tra politica e malaffare; le tardive scoperte e i colpevoli silenzi legati all’amianto e alle sue devastanti conseguenze; il ruolo fondamentale della scuola, non solo come dimenticato presidio di legalità, ma come potenziale incubatrice di spiriti consapevolmente indipendenti-  non è un caso che agli episodi riguardanti la scuola vengano dedicate  le pagine centrali del libro -. Una ricchezza di temi che si scioglie, come si diceva, nella ‘leggerezza’ della scrittura, che non è mai sopraffatta dai contenuti, ma che mantiene un ritmo coinvolgente, una sapienza narrativa pari soltanto alla conoscenza precisa, puntuale, di prima mano, potremmo dire, delle questioni affrontate. E qui, sì, viene fuori il mestiere del giornalista, che Licata onorò con onestà e grande capacità,  del cronista che indaga i gangli più misteriosi e spinosi della storia recente della nostra penisola. Non c’è approssimazione in ciò che i personaggi dicono o pensano, non ci sono né retorica, né cedimenti ai luoghi comuni, agli stereotipi; ma lucidità, conoscenza che diventano ‘caratteri’ in carne e ossa, soggetti con un’identità e un ruolo narrativo precisi: Antonella Valenti, la donna che subisce un matrimonio e un marito che imparerà ad amare, Franco Tarussi, il marito, comunista disilluso, ma sindacalista per vocazione; Giovanni, il figlio realmente ‘diversamente abile’, nel senso che la sua difficoltà al vivere sociale, il frequente perdersi della sua mente  si accompagnano alla sua evidente genialità matematica; Maran, giovane somala che prova a unire, senza forzature  e con sincero affetto, la propria diversità di immigrata con quella di Giovanni; Giorgio Spinarosa,  amante di Antonella, nuovo boss ma nei fatti un comprimario del crimine, di quel malaffare mafioso che ha invece come protagonista il cinico “uomo del chiostro”, le cui parole rendono manifesti gli interessi e le logiche che sottendono il patto mortale tra mafia, politica e mondo della finanza: quei legami tossici che Licata sapeva bene aver dato vita, prima che lo scandalo scoppiasse, alle tante “Mafie-capitale”. Ma non sono loro, i personaggi citati, le vicende isolane a cui Licata allude,  i soli soggetti principali della vicenda; protagonista è anche un’intera collettività, da intendersi come Sicilia, Italia, Europa, Mondo. Protagonista è lo scontro tra ‘culture’ e ‘società’ che convivono nello spazio ristretto di una città: come non pensare, leggendo il libro, che le difficoltà di conoscenza, convivenza,  di relazione che dividono il paese-quartiere Borgo S. Fedele dal grande centro urbano siano simili, se  non uguali, a quelle delle tante ‘città del mondo’ con le loro periferie, le banlieues di tutte le latitudini. E dunque, personaggi di rilievo, spesso devastati dalle droghe, sono pure i nuovi ‘ragazzi di vita’, che di pasoliniano hanno le loro vite a perdere ancora inconciliabili, nonostante i  definitivi processi di omologazione, con quelle del mondo alto borghese. Il volo dell’allodola è una ‘storia’ che magistralmente si compone di tante storie, mirabilmente fuse grazie al dominio assoluto della forma narrativa che sa dosare accelerazioni del plot e pause riflessive, abbandoni, mai mielosamente lirici, e colpi di scena. La lingua, poi, risulta essere perfettamente calibrata alla materia, comunicativa ma non banale, sorvegliata ma non leziosa. Anche quando essa, nel gioco della rappresentazione, diviene talvolta cruda e diretta, non scade mai nel volgare, che nasce sempre non dalla scandalosità dei termini e delle situazioni,  ma dalla loro eventuale gratuità. In questo romanzo non vi è niente di gratuito, di inutilmente accessorio; anche per questo vince il vaglio di una prima lettura e si propone, con una sorta di intrinseca necessità, ad essere ripreso, magari per riassaporarne le pagine più intense: per tale motivo il libro è da consigliare a chi pensa che la lettura sia anche un piacere da centellinare come un buon vino, agli studenti, nella speranza che sui banchi di scuola possano vedersi libri come questo e non successi editoriali, scritti talvolta pure male, ammiccanti a pruriginose, ma nella sostanza banali, ‘sfumature’ di colore.