di Isacco Tacconi
La grandezza di ogni vero artista risiede nell’immortalità dei
valori che riesce ad esprimere e non tanto nelle sue capacità tecniche
tantomeno nella novità delle sue idee. La sua arte
trascende la stessa sua comprensione e consapevolezza di ciò che egli
effettivamente realizza. Il suo compito è, per così dire, «profetico» ossia
“rivelare” come spiragli e riflessi di luce la realtà del soprannaturale, alla
maniera dei rosoni delle cattedrali gotiche medievali. Nella misura in cui sarà
impregnato del soprannaturale nella contemplazione dei Misteri della Santa Fede
Cattolica l’artista potrà diventare un canale, un mediatore tra Dio e gli
uomini, tra la realtà increata e il mondo creato, tra L’Essere per essenza e
gli enti per partecipazione, illustrando, come in un quadro, “la realtà in
trasparenza”. «Contemplata
aliis tradere», diceva san Tommaso d’Aquino, intendendo che si
trasmette agli altri ciò che si è contemplato. Chi si pasce e sostenta, quindi
si “sostanzia”, della Bellezza, della Verità e della Bontà racchiuse nell’Unità
dell’Essere fungerà da “portatore” di un tesoro non fatto da mani d’uomo pur
essendo egli un fragile vaso di creta, sarà cioè un riflesso di una realtà più
grande, eterna, immutabile. Il vero artista potrà dunque trasmettere agli
uomini la Bellezza della Verità, lo Splendor
Veritatis che egli stesso ha contemplato e amato: «Et vidimus gloriam eius, gloriam
quasi Unigeniti a Patre, plenum gratiae et veritatis».
John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), nato in Sud Africa,
rimarrà a soli quattro anni orfano di padre.
Trasferitosi in Inghilterra soffrì l’abbandono dei nonni e di tutta la famiglia
materna che ripudiò sua madre per essersi convertita al cattolicesimo
dall’anglicanesimo. Questo abbandono comportò la miseria per mamma Mabel la
quale visse un martirio esteriore ed interiore che, aggravato dalla malattia,
la condurrà ben presto alla morte lasciando il piccolo Tolkien, ancora
dodicenne, insieme al fratello minore Hilary orfani anche di madre. Memore del
luminoso esempio di sacrificio della madre, John, insieme al fratello, venne
accolto ed adottato da un sacerdote, l’oratoriano padre Francis Xavier Morgan
il quale diverrà il suo vero padre, soprattutto nella fede. Di lui Tolkien
scriverà: “era stato
come un padre, più di un padre vero, pur senza esserci obbligato”[1].
Il giovane Tolkien si formerà anzitutto alla scuola del servizio
dell’altare come chierichetto, studiando il catechismo il latino e il greco,
dissetandosi a quella fonte inesauribile che è la Santa Messa. Si
diletterà attraverso il canto pregato del gregoriano alla scuola degli angeli
imparando ad amare la bellezza. Assimilerà il latino, lingua sacra della Chiesa
e dei Sacri Misteri. Amerà le lettere e la letteratura, una passione che la
madre infuse in lui fin dalla più tenera età. Orfano, senza nessuno al mondo,
odiato dai suoi unici parenti a causa della sua fede cattolica e per questo
ancor più amato da Colui che rende giustizia ai suoi santi, Tolkien troverà
nella Chiesa Cattolica La Madre, in un sacerdote pio un padre, immagine del
Padre Eterno che non abbandona la vedova e l’orfano, in Nostro Signore e nei
sacramenti da Lui istituiti la fonte della Vita.
Questo in breve il background umano-spirituale di uno dei più
grandi scrittori di tutti i tempi. Come detto nell’incipit,
la fede di Tolkien fu totalmente riversata nei suoi scritti e nelle sue
creazioni fantastiche. E come poteva essere altrimenti? Era l’aria che
respirava, era l’unica vera realtà che avesse consistenza e stabilità di fronte
alla caducità e all’instabilità della vita terrena, incombente sempre lo
spettro della morte. John, infatti, combatterà nelle trincee durante la Grande
Guerra perdendo tutti i suoi amici più cari. Partecipò a quella che egli stesso
definì «la carneficina
della Somme»[2]. Ancora una volta
rimarrà solo. Soltanto la sua Fede provata e purificata rimase, unica certezza
dinanzi allo sfacelo della vita e della morte, a confortarlo e sostenerlo. In
una lettera indirizzata al figlio Michael scriverà: «Al di là di questa mia vita
oscura, tanto frustrata, io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla
terra: i Santi Sacramenti. Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e
la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la
morte. Per il divino paradosso che solo il presagio della morte, che fa
terminare la vita e pretende da tutti la resa, può conservare e donare realtà
ed eterna durata alle relazioni su questa terra che tu cerchi (amore, fedeltà,
gioia), e che ogni uomo nel suo cuore desidera»[3].
Questi brevi estratti autobiografici dovrebbero essere
sufficienti per farci comprendere la pasta di cui Tolkien era fatto, plasmata
da una fede viva, interiore, intima, combattuta.
Non dimentichiamo che l’Inghilterra era ancora ben impregnata di quell’odio e
pregiudizio anticattolico apertamente contestati da G.K. Chesterton e il
cardinal John Henry Newman solo pochi anni prima. Ecco un legame latente eppure
non stupefacente, quello tra il santo cardinale dell’oratorio inglese e John
Ronald Reuel Tolkien. Un filo rosso lega questi due giganti inglesi seppur
vissuti in epoche differenti, e le loro vite per certi versi ravvisano non
poche analogie. Entrambi convertiti dall’anglicanesimo, entrambi inglesi e
cattolici in un’Inghilterra liberale e, per questo, antireligiosa, entrambi
disprezzati dai propri cari, ambedue studiosi di antichità ed insegnanti ad
Oxford, spiriti riflessivi ed introversi tutti e due si chiamavano Giovanni. Ma
ciò che, in realtà, lega Tolkien a Newman è un rapporto di figliolanza. John
Ronald infatti, lo abbiamo visto, sarà figlio dei padri oratoriani di San
Filippo Neri i quali vennero trapiantati su suolo britannico dallo stesso
Newman per mandato del Santo Padre Pio IX il quale lo pose a capo dell’oratorio
inglese soltanto una generazione anteriore a quella di Tolkien. I primi
oratoriani figli di Newman, dunque, allevarono e formarono il giovane Tolkien
il quale può dirsi veramente un’eredità e una primizia dell’apostolato del
santo cardinale John Henry Newman.
Parlando, invece, dell’opera letteraria di Tolkien è d’obbligo
metterne in risalto l’assoluta unicità a causa dello scopo e degli effetti
assolutamente imprevisti, e in una certa misura non voluti, della sua opera.
La peculiarità di Tolkien in quanto scrittore di romanzi fantasy
è quella di aver creato un mondo, una realtà, dei popoli, dei linguaggi, delle
culture del tutto fantastiche ma non irrazionali. Senza dubbio il suo è il
primo vero fantasy letterario moderno, di cui l’attuale valanghiva produzione
commerciale non è che una patetica e volgare scimmiottatura. Ciò che distingue
infatti il Signore degli Anelli da un qualsiasi romanzo fantasy contemporaneo
come quelli ad esempio della saga di Shannara, è la levatura morale dei suoi protagonisti,
lo spessore psicologico dei personaggi, il simbolismo di cui l’intero romanzo è
pregno e da cui il lettore viene inconsapevolmente avvolto.
Il Signore degli Anelli non è una semplice lettura “da
metropolitana”, non è un mero romanzo di piacere per passare il tempo.
Anche se questa non fu assolutamente l’intenzione di Tolkien, il Signore degli
Anelli è un libro impegnativo (la grandezza del volume ne è un segnale
eloquente). Il professore di Oxford infatti voleva semplicemente scrivere dei
racconti da leggere ai suoi figli ma anche soddisfare il suo desiderio di veder
“vivere” quegli strani e complessi idiomi da lui inventati e sui quali aveva
speso molto tempo della sua giovinezza, delle creazioni di cui ebbe sempre cura
come il creatore la sua creatura. Eppure, l’opera da lui iniziata, andrà molto
al di là delle sue prime intenzioni. La stessa stesura richiese una gestazione
lunga e lenta e una continua riponderazione dei contenuti. In realtà le vicende
della vita privata di Tolkien influenzeranno molto lo sviluppo del suo
capolavoro il quale non fu appunto frutto di una pianificazione premeditata ma
una creazione che sfuggì al suo controllo. Anche Michelangelo nell’accingersi
ad affrescare la cappella sistina non seppe con chiarezza come si sarebbe
sviluppata la sua opera né quanto tempo avrebbe occorso, tanto più che, come
Tolkien, dovette interrompere e riprendere il lavoro più volte. L’accostamento
sarà senz’altro ardito ma sia Michelangelo Buonarroti che John Ronald Reuel
Tolkien, al termine della loro opera, si resero conto che essa aveva superato
ampiamente i loro progetti e le loro aspirazioni e che essa esprimeva
veramente, oltre ai contenuti oggettivi, tutta la loro interiorità e tutta la
loro visione del mondo.
Inevitabilmente perciò il Signore degli Anelli diventerà anche
una sorta di “diario spirituale”, probabilmente
involontario, nel quale troviamo congregati i sentimenti più profondi di uno
scrittore, uomo di Fede che fece della sua immaginazione uno strumento a
maggior gloria del Signore al pari delle Confessioni di Sant’Agostino.
Dunque, anche se non è volutamente un racconto pedagogico, il
Signore degli Anelli non può non esserlo.
Con la sua trama complessa e la pluralità dei protagonisti coinvolti, il
Signore degli Anelli rappresenta una allegoria della vita e della morte, del
senso del dovere e del significato della sofferenza, della necessità del
sacrificio e di quello dell’espiazione. È un grande affresco sul fine ultimo
dell’uomo e della creazione tutta, ovvero il riposo dei beati i quali, dopo la
traversata dell’oceano della vita, troveranno la quiete tanto sospirata sulle
sponde luminose dell’eternità. Potremmo accostarlo, per la sua ricchezza e il
suo spessore, ad un’altra produzione figlia dell’oratorio di San Filippo Neri la
nota “Rappresentatione
di anima et di corpo” di Agostino Manni, sacerdote oratoriano.
La cosa che al contempo stupisce e affascina del Signore degli
Anelli in particolare ma di tutta la produzione relativa alla Terra di Mezzo in
generale, è che nulla vi è in essa di esplicitamente cattolico.
Ossia non ci sono riferimenti diretti a personaggi della Sacra Scrittura né il
contesto storico che fa da sfondo alla trama è un’epoca cristiana come nei
romanzi medievali di Boiardo, di Ariosto o di Tasso. Eppure, tutto nel Signore
degli Anelli è cattolico. Ma è proprio questa sua bellezza al contempo
implicita e manifesta ritengo sia stata ed è tutt’ora la sua forza persuasiva e
coinvolgente, tanto da riuscir ad attirare persone delle più diverse estrazioni
culturali e religiose. Con questo non voglio dire che leggendo il Signore degli
Anelli si diventi cattolici, certamente no, ma chi ha avuto la fortuna e la
grazia di leggerlo ha potuto gustare la bellezza fresca che può venire soltanto
dalla Fede Cattolica integralmente vissuta e trasmessa.
La lettura del Signore degli Anelli ha la capacità di spingere
il lettore a farsi spontaneamente bambino
provocando in lui quasi la sensazione di essere preso in braccio dal buon papà
seduto sulla poltrona, messo sulle sue ginocchia accanto al fuoco crepitante
mentre la storia ha inizio. Cosa che Tolkien, d’altra parte, fece realmente con
i suoi figli man mano che stendeva il suo capolavoro e, prima di coricarsi,
gliene leggeva volta per volta il capitolo appena scritto. Lo stesso non si può
dire degli scritti di C.S. Lewis il quale, proprio perché anglicano, risulta a
volte moralista e pedante con la smania tipica dei protestanti di voler
predicare “a parole”.
Nell’interpretazione degli scritti di Tolkien troppo si è
insistito sulla famosa metafora del “viaggio” enfatizzandone gli aspetti
meramente “romantici” che portano ad una immagine di Tolkien parziale e
distorta. Gli autori romantici, infatti, sono in genere contraddistinti
dall’egocentrismo, dalla malinconia e dal ripiegamento su se stessi che
pretende però di istruire, attraverso la lamentela, gli sventurati lettori.
Niente di simile in Tolkien il quale scrisse principalmente per se stesso, per
i suoi figli e per la sua amatissima moglie Edith. Niente di autoreferenziale
dunque vista la sua mai celata timidezza e il suo carattere riflessivo che
preferiva il nascondimento alla notorietà. La metafora del “viaggio” fine a se
stesso, come ricerca o “quest”
è uno stereotipo letterario romantico che non si addice ad un cattolico, tantomeno
ad uno scrittore cattolico come Tolkien, il quale non va in cerca di qualcosa
di indefinito o di immaginario ma, con i piedi ben piantati a terra, punta
dritto al Cielo. L’uomo secondo la teleologia o escatologia cattolica è un
«pellegrino» con tutto quello che il pellegrinaggio significa (espiazione,
adorazione, offerta, riparazione, devozione, ecc.). È del tutto ingiusto,
perciò, incasellare Tolkien e la sua opera in una delle categorie letterarie
moderne. Egli sapeva che l’uomo non è un viaggiatore malinconico imprigionato
nell’intramondano alla ricerca di un qualcosa di indefinito che appaghi l’ego
dell’artista tormentato. Questo è nient’altro che lo stato dell’uomo che ha
perso o rifiutato l’orizzonte soprannaturale e il senso della propria esistenza.
Il cristiano al contrario, dice sant’Agostino, è come un albero che vive sulla
Terra ma ha le sue radici in Cielo.
La concezione che è alla base del Signore degli Anelli e che
regola tutta la Terra di Mezzo è, a ben vedere, aristotelico-tomista ossia
cattolica. Sulla scorta della visione del mondo di cui San Tommaso
d’Aquino per grazia di Dio ha arricchito la dottrina cattolica, Tolkien
descrive la realtà da lui creata, riflesso di quella creata da Dio, secondo un
duplice movimento che la anima e la guida. Il primo è un movimento di exitus («uscita») il
secondo di reditus («ritorno»)
che spiega come tutti gli esseri spirituali escono e provengono da Dio e
aspirano a ricongiungersi a Lui che è il Bene Supremo e la nostra eterna
Felicità. Il Silmarillion
è il volume dedicato proprio alla creazione e all’origine dei “progenitori”
della Terra di Mezzo. In esso viene descritta anche “la caduta” attraverso la
metafora di una splendida e divina melodia rovinata da poche note stonate
frutto della ribellione e dell’orgoglio.
Questa è l’avventura dell’anima, la ricerca del suo Fine Ultimo
e il “ritorno” al suo Principio Primo che si svolge in una vera e propria
“Terra di Mezzo” fra il Paradiso e l’Inferno, in un luogo d’esilio che non è la
sua patria. Il suo Fine è tornare al suo Inizio, al suo Creatore, varcando
quello spazio indefinito, descritto da Tolkien come una traversata oceanica da
una sponda ad un’altra, che è la morte. Il passaggio dalla riva instabile e
mutevole di una terra “di Mezzo” ai colli eterni e immutabili del Regno dei
Cieli, un premio riservato solo a coloro che hanno portato il loro “fardello”
attraverso quella che l’Apocalisse definisce «la grande tribolazione». Non a
caso Bilbo Baggins chiamerà la sua avventura, secondo la cosmologia tomista,
“Andata e Ritorno” («exitus
et reditus»).
Fatta questa doverosa, seppur troppo breve, premessa diamo
inizio ad un esame più dettagliato dei simboli e dei personaggi tolkieniani o,
perlomeno, dei più importanti.
[1] La realtà in trasparenza, Bompiani, Milano 2002, p. 62.
[2] Ibidem, p. 63.
[3] Ibidem.
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