di Carmelo Fucarino
Chi
degli operanti nel campo della scrittura non fu sfiorato negli anni ’80 del
secolo scorso dalla vampata della “Signora” Sellerio? C’erano allora solo pochi
riferimenti locali per noi operai della macchina da scrivere, la piccola verde
Olivetti 22 che spesso si impuntava ingarbugliando le asticelle dei caratteri.
Il mio primo libro nel 1982, una traduzione dal russo di un romanzo per ragazzi,
fu accettato da Vittorietti, pubblicato nello scolastico e pagato a forfait
trecentomila lire in due. Il secondo, il mio prezioso Pitagora e il vegetarianismo, amato da Bent Parodi, fu edito senza
obolo da parte mia, ma anche senza percentuale di diritti da parte sua
dall’amico collega Antonio Giannone che alla partita doppia aveva preferito,
pensionandosi da prof di tecnica, l’arte per lui quasi infruttifera
dell’editoria di scienza alternativa alla quale sacrificava la sua magra baby
pensione. Il terzo uscì da Brotto, una meticolosa edizione critica delle Supplici di Euripide, l’anno in cui
Giusto Monaco ci stupiva con la sua versione centrata su Le madri. L’incantamento per la poesia e la cultura greca che non
mi avrebbe mai lasciato. Oh, dimenticavo, le poesie, Città e ancora città, sfogo dell’anima e sfizio editoriale
strettamente a pagamento, per fiducia e amore del compianto Carmelo Pirrera!
Poi,
un giorno, su spinta e segnalazione di una cara amica, ebbi anch’io l’appuntamento
e fui fatto accomodare, in trepida attesa, nel salottino che tanta celebrità
avrebbe avuto e tante più esimie visitazioni, come è conclamato da tanti più fortunati.
Per parte mia non ne ricordo assolutamente i particolari, non saprei indicarne
gli oggetti, immerso nel pensiero e nella ricerca dei convenevoli. Non seppi e
non mi accorsi di “divanetto di Sciascia” e di personalissime e gloriose
suppellettili. Non mi ricordo neppure se ho avuto il premio della tanto
decantata specialità, il suo originale Martini (testimonio Piero Violante).
Sicuramente La Memoria era giunta al
n. 23, con quella tanta esaltata Diceria,
inserita tra la grandiosa caricatura di Dostojevskij, il tronfio e grottesco letterato
di Stepancikovo, FomàFomìc,
e il diario Per Eliza, chicca della
scandalosa passione adultera dello Sternecolui che guidò la nostra giovinezza
con il suo Viaggio sentimentale su
consiglio di Foscolo. Perciò l’anno fu con sicurezza il 1981, certamente di
poco successivo al Campiello, gloria da decantare per una piccola editrice di
lontano,sperduto capoluogo di regione, ma di insignificanti e quasi assenti trascorsi
letterari. A questo subito si appellò la “signora”, nel breve colloquio che
riguardò il mio dattiloscritto. Lo avevo fatto rilegare con una copertina blu e
se ne stava in inerte attesa nella mia carpetta poggiata sul divanetto. Senza
richiedermi di lui, soggetto della visita, senza parvenze o promesse di
incontri mi chiese semplicemente se sapessi cosa significasse un passaggio al
Campiello. L’allusione era economica, come l’altra domanda su quanto costasse
una recensione su L’espresso. Fatti i
conti nelle vecchie lire e citati i risultati, mi dichiarò che un’opera prima
di un autore sconosciuto richiedeva un grosso impegno, che dopo quello
affrontato con Bufalino non poteva in quel momento permettersene un altro.
Perciò non poteva accettare il mio romanzo. Nato secondo dopo la perdita di un
primo, non ebbe neppure la chance di una lettura, neppure di unasemplice scorsa
delle pagine. Un rifiuto netto e definitivo, senza che una semplice occhiata si
fosse posata su quei caratteri e su quella impaginazione. Un miracolato della
collana ebbe la grazia di uscire in pubblico per la veste tipografica del
manoscritto. Senza speranze e senza attenuanti. Se volevo lasciarlo, ma senza
impegni e senza speranze prossime future. Cosa avresti fatto? Lo abbandonai
nelle sue mani, per sempre. Ed è rimasto per sempre dormiente nel suo scaffale (fino
a quando, prima del macero?) e nel mio cassetto con il presuntuoso titolo di Katabasi.
Ora
con un titolo alludente ed alquanto ambiguo nella sua articolazione escono
ventitré esaltanti ed esaltate autobiografie che hanno la pretesa di
commemorare da sole una lunga e complessa vicenda durata quarantasei anni e
scandita da mille opere di autori, quanto mai diversi ed eterogenei,proposte
nei decenni ai lettori palermitani e infine italiani. Lasciando in pace i molti
protagonisti morti che per la loro condizione rimangono soltanto testimoni
della scelta culturale della “Signora”, c’è da chiedersi perché dei tanti altri
beneficati solo questi ventitré hanno potuto manifestare corampopulola loro beatitudine. Lo ribadisco, questa impressione si
ricava dalla lettura di siffatta raccolta, il libro delle beatitudini. In tema
di Francesco, oggi vivissimo per l’identificazione papale, mi ricordano i
modesti, appassionati, ingenui Fioretti.
Il
titolo del libretto del numero 1000 della collana è emblematico, La memoria di Elvira (Sellerio editore
Palermo, Palermo 2015). Non è detto chi ha curato gli inviti e la raccolta di
queste autobiografie, né quale criterio è stato usato nella scelta dei
beneficati. Accanto ai nomi di grandi prestigio, primo (solo per ordine? O per
beneficenza?) il Camilleri delle grandi fortune, il Piazzese, sempre di area
poliziesca, non mancano per fortuna, in ordine,Luciano Canfora, Adriano Sofri e
Piero Violante. Si accostano poi in una sequenza misteriosa (per importanza? o
canone storico? o secondo il criterio catulliano della variatio?) personaggi di fama ristretta agli addetti ai lavori.
In
genere la memoria di un uomo illustre nel campo delle lettere, diciamo di un
cattedratico, è esaltata fra studiosi o scrittori attraverso loro contributi
creativi, “In omaggio a” o “Miscellanea in onore di”. Qua invece si accampa
esclusivamente il ricordo personale, smaccatamente quotidiano e autobiografico,
troppo intimo e scandalosamente privo di pudore, nulla a che vedere con lo
spirito profondamente altro della “memoria”, la “mneme”, che prelude alla
“episteme”. Un madornale equivoco in funzione del ricordo.
Resta
da chiedersi se è stato fatto un buon servizio alla “Signora”. Chi ha
immaginato, creato e organizzato l’operazione si è assunto una grave
responsabilità sia in relazione al metodo panegiristico e vergognosamente
encomiastico, sia anche in rapporto alla chiamata nel cerchio magico degli
eletti sia nella arbitrarietà delle esclusioni. L’anonimato degli autori della
scelta e perfino nel risvolto di copertina deresponsabilizzano e lasciano
perplessi. Perché se tutto nacque da input di simpatizzanti ha un significato diverso
dalla volontà dei familiari ed eredi, che pur devono aver dato l’avallo per
siffatta pubblicazione nella gloriosa collana.
Sono
modestamente dell’avviso che la “Signora” non aveva bisogno di questa
sviolinata. La sua opera per se stessa testimonia e certifica meriti e
rivoluzioni editoriali. Bastano da soli a solenne testimonianza l’esperienza e
l’intelligenza di Elvira Sellerio alla riscoperta del pensiero trascorso, della
nostra memoria occidentale, in funzione civile e politica, la genialità delle
scelte e delle intuizioni di opere che ancora potevano trasformare il mondo,
quei contenuti di impegno civile che scorre sotterraneo in tutte le opere
riproposte. Elvira partiva da questi presupposti, basta scorrere i titoli della
prestigiosa collana dalla quale trae allusioni il titolo del libricino, per
individuare strategie e sviluppo e realizzazione. L’editoria “bella” fu compito
di Enzo Sellerio, prima ed unica quel particolare blu della copertina.
L’editoria creativa e formativa, la biblioteca dell’esistenza e della
formazione fu la passione della vita di Elvira. Le sue scelte, sublimi o
immancabilmente errate, come qualsiasi intrapresa umana, furono comunque
l’esempio di un progetto dell’uomo, quello che lei volle offrire e salvare per
le generazioni presenti e future.
Non
so quanto potrà restare del suo insegnamento fra i continuatori e nel progetto
editoriale, quale eredità sarà preservata come bene prezioso da seguire ed
imitare, da proteggere come patrimonio dell’umanità. Problematico prevedere come
la sua creatura potrà e saprà preservarsi integra ed originale nelle scelte,
salvarsi dalle grinfie dell’editoria nordica, affarista e commerciale.
Affarismo diverso da quello del tipografo Angelo Rizzoli della BUR del 1949 che
permise a noi squattrinati del dopoguerra di preparare e forgiare sui classici
la nostra educazione umana e sentimentale, dal Mondadori, dichiaratamente
analfabeta, che si inventò nel 1965 i settimanali tascabili Oscar, i
“libri-transistor” secondo Vittorio Sereni, n. 1 Addio alle armi. Oggi l’affare è nelle copertine cartonate in
rilievo dei volumoni dei best-seller di letteratura da macero americana, quella
prefabbricata nella struttura da format, unico privilegio e qualità essere
scritta nella lingua universale e sorretta da montagne di dollari per farne
altre montagne.
Un
augurio agli eredi, la speranza di una saggia guida che con discrezione ed
umiltà prenda posto su quella poltrona.
Io
così ho voluto ricordare il suo magistero, per nulla debordando dallo stile
della nostalgia e dell’elogio funebre, con la ventiquattresima biografia
letteraria in suo onore.
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