di Giuseppe Saja
«Esiste una leggerezza della pensosità,
così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la
leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca».
Alla fine della lettura del romanzo
postumo di Giancarlo Licata, Il volo
dell’allodola, curato dalla moglie Giusi Serravalle e con intelligente
passione editato da Tommaso Romano, mi sono rimbalzate nella mente le parole di
Calvino sulla leggerezza; certo inevitabilmente decontestualizzate dal setting
saggistico in cui vennero scritte, ma rispondenti alla sensazione che la
lettura di quest’opera lascia: si percepisce subito la grande maestria nel
legare e collegare contenuti e temi di difficile e talvolta ardua trattazione e
interpretazione (sempre che si vogliano evitare le plaghe della banalità e del
già detto) per mezzo di una straordinaria leggerezza narrativa, che Licata
aveva già parzialmente mostrato di possedere con la pièce Il bambino del sentiero, figlia di una grande abilità, certo non
proveniente soltanto dalla lunga e scaltrita pratica della scrittura
giornalistica. Nel panorama narrativo italiano dei nostri giorni, in cui i
libri che vale la pena leggere brillano come rare pepite in mezzo al fango del
desolante commerciale, questo romanzo si distingue per il suo appartenere a un
sempre più raro filone aureo, e sorprende ancora di più dato che l’autore, pur
avendone definito sviluppo e stile, non sia riuscito a dargli l’ultima,
personale revisione. Senza volere indulgere
a facili sintesi della trama, che toglierebbero qualcosa al grande
piacere che si prova nel legger questo libro, bisogna pure far comprendere da
cosa nasca l’entusiastica adesione nei suoi confronti. Sono presenti in esso temi,
spunti, episodi, riflessioni che sviluppati singolarmente avrebbero potuto dare
al suo autore materiale per tre, quattro
romanzi non seriali, si badi bene; ma tutti di forte e coinvolgente attualità:
la nuova mafia e i suoi sempre più complessi rapporti con la politica; la
disabilità e l’immigrazione, temi grazie ai quali Licata ragiona sulle
principali e più rabbrividenti forme di
emarginazione, ma anche sulla ricchezza di un pensiero e di una cultura
‘altri’; la differenza tra la parola che informa e contribuisce a creare coscienze libere e pensanti e quella,
spesso mediatica, che indottrina e plasma cittadini passivi. E poi, la presenza
delle ‘cattedrali nel deserto’, soprattutto nel meridione, in Sicilia: i
prodotti più evidenti di un’industrializzazione senza radici e progetti, figlia
del compromesso tra politica e malaffare; le tardive scoperte e i colpevoli
silenzi legati all’amianto e alle sue devastanti conseguenze; il ruolo
fondamentale della scuola, non solo come dimenticato presidio di legalità, ma
come potenziale incubatrice di spiriti consapevolmente indipendenti- non è un caso che agli episodi riguardanti la
scuola vengano dedicate le pagine
centrali del libro -. Una ricchezza di temi che si scioglie, come si diceva,
nella ‘leggerezza’ della scrittura, che non è mai sopraffatta dai contenuti, ma
che mantiene un ritmo coinvolgente, una sapienza narrativa pari soltanto alla
conoscenza precisa, puntuale, di prima mano, potremmo dire, delle questioni
affrontate. E qui, sì, viene fuori il mestiere del giornalista, che Licata
onorò con onestà e grande capacità, del
cronista che indaga i gangli più misteriosi e spinosi della storia recente
della nostra penisola. Non c’è approssimazione in ciò che i personaggi dicono o
pensano, non ci sono né retorica, né cedimenti ai luoghi comuni, agli stereotipi;
ma lucidità, conoscenza che diventano ‘caratteri’ in carne e ossa, soggetti con
un’identità e un ruolo narrativo precisi: Antonella Valenti, la donna che
subisce un matrimonio e un marito che imparerà ad amare, Franco Tarussi, il
marito, comunista disilluso, ma sindacalista per vocazione; Giovanni, il figlio
realmente ‘diversamente abile’, nel senso che la sua difficoltà al vivere
sociale, il frequente perdersi della sua mente
si accompagnano alla sua evidente genialità matematica; Maran, giovane
somala che prova a unire, senza forzature
e con sincero affetto, la propria diversità di immigrata con quella di
Giovanni; Giorgio Spinarosa, amante di
Antonella, nuovo boss ma nei fatti un comprimario del crimine, di quel
malaffare mafioso che ha invece come protagonista il cinico “uomo del
chiostro”, le cui parole rendono manifesti gli interessi e le logiche che sottendono
il patto mortale tra mafia, politica e mondo della finanza: quei legami tossici
che Licata sapeva bene aver dato vita, prima che lo scandalo scoppiasse, alle
tante “Mafie-capitale”. Ma non sono loro, i personaggi citati, le vicende
isolane a cui Licata allude, i soli soggetti
principali della vicenda; protagonista è anche un’intera collettività, da
intendersi come Sicilia, Italia, Europa, Mondo. Protagonista è lo scontro tra
‘culture’ e ‘società’ che convivono nello spazio ristretto di una città: come
non pensare, leggendo il libro, che le difficoltà di conoscenza, convivenza, di relazione che dividono il paese-quartiere
Borgo S. Fedele dal grande centro urbano siano simili, se non uguali, a quelle delle tante ‘città del
mondo’ con le loro periferie, le banlieues di tutte le latitudini. E dunque,
personaggi di rilievo, spesso devastati dalle droghe, sono pure i nuovi
‘ragazzi di vita’, che di pasoliniano hanno le loro vite a perdere ancora
inconciliabili, nonostante i definitivi
processi di omologazione, con quelle del mondo alto borghese. Il volo dell’allodola è una ‘storia’ che
magistralmente si compone di tante storie, mirabilmente fuse grazie al dominio
assoluto della forma narrativa che sa dosare accelerazioni del plot e pause
riflessive, abbandoni, mai mielosamente lirici, e colpi di scena. La lingua,
poi, risulta essere perfettamente calibrata alla materia, comunicativa ma non banale,
sorvegliata ma non leziosa. Anche quando essa, nel gioco della
rappresentazione, diviene talvolta cruda e diretta, non scade mai nel volgare,
che nasce sempre non dalla scandalosità dei termini e delle situazioni, ma dalla loro eventuale gratuità. In questo
romanzo non vi è niente di gratuito, di inutilmente accessorio; anche per
questo vince il vaglio di una prima lettura e si propone, con una sorta di
intrinseca necessità, ad essere ripreso, magari per riassaporarne le pagine più
intense: per tale motivo il libro è da consigliare a chi pensa che la lettura
sia anche un piacere da centellinare come un buon vino, agli studenti, nella
speranza che sui banchi di scuola possano vedersi libri come questo e non
successi editoriali, scritti talvolta pure male, ammiccanti a pruriginose, ma
nella sostanza banali, ‘sfumature’ di colore.
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