venerdì 31 luglio 2015

Francesco Alliata, "il Mediterraneo era il mio regno. Memorie di un aristocratico siciliano"(ed. Neri Pozza)

di Tommaso Romano


Non sono pochi i libri di memorie di aristocratici siciliani, scritti o dettati, e/o pubblicati in memoria capaci di suscitare l’interesse non solo di una fetta di lettori appassionati e di cultori di tradizioni patrie, ma anche utilizzati per ricostruire una storia di famiglie molto spesso complessa , articolata e ricca, che si pretende di obliare o di mortificare – in troppe snobistiche occasioni – come un residuo da cui disfarsi perché ingombrante, impegnativo, e forse perché interroga la coscienza degli ignavi e dei responsabili della deturpazione anche edilizia e del paesaggio, unite al colpevole disinteresse delle “autorità”, alle mani mafiose e a volte politiche stese sui patrimoni ceduti e/o sottratti con il raggiro, con la violenza o con artigli voraci.
Una storia ancora da ricapitolare per intero, dalla parte di chi ha fatto la storia di Sicilia rispetto agli incapaci sciacalletti, alle macchiette, ai ladri e delinquenti che da troppi decenni infangano l’isola e la manomettono gettandola nel caos e nel disgusto, nel saccheggio e nello sfregio alla sua millenaria e, diciamolo gloriosa storia.

Biografie, storie, aneddoti, cedimenti e resistenze della parte nobile che l’indimenticabile Amico Bent Parodi di Belsito non smise mai di riproporre e sottolineare a partire dalle vicende, dagli intrecci fra successi, tonfi, rovine e orgogliosi ritiri in solitudine, ad appannaggio di straordinari personaggi  sui cui, appunto, le memorie proposte risultano avere un peso notevole da non disgiungersi dal fascino e dal rammarico che prende leggendo le loro pagine o le loro biografie. Non tutti i capolavori letterari, sia chiaro, ma pezzi, tasselli utilissimi per comprendere il valore, le contraddizioni, il peso dell’aristocrazia e di colore che hanno saputo restare in piedi in campi molto diversi, o hanno saputo conservare preservare la bellezza che il volgo, gli arricchiti illecitamente, la borghesia dei “villini” non poteva comprendere.
Storie a volte emblematiche, a volte tragiche, ma storie, vicende vere, anche – per non pochi – nel crepuscolo del declino inarrestabile e nel cupio dissolvi.
Certamente, capostipite indiscusso di tali memoriali memorabili dovrebbe essere giustamente considerato il famoso Marchese Francesco Maria Emanuele e Gaetani di Villabianca con i suoi opuscoli infiniti, minuziosi, a volte pedanti sulla società settecentesca, non solo aristocratica. A cui è giusto aggiungere il poligrafo reazionario e tradizionalista Vincenzo Mortillaro di Villarena, che mi pregio aver restituito alla luce che gli è dovuta.
Ma il filone a cui mi riferisco, anche a causa della fine della regalità in Sicilia e nel resto del continente, data appunto a partire dai testi che, nel periodo a noi più contemporaneo, indubbiamente hanno in Giuseppe Tomasi di Lampedusa e nel Suo immortale Gattopardo , la pietra miliare, che ha dato via alla scia delle memorie proprie e di famiglia intessute fra religiosità, affari, politica, amori, eroismi, dissesti finanziari, bella vita e povertà, professioni borghesi e voluti annullamenti di stato, in nome di una presunta novella eguaglianza che si è tradotta nel livellamento verso il basso.
Va appena ricordato che tutte le famiglie assurte a distinzioni premiali e onorifiche e graziate di titoli e di prebende, hanno avuto i loro fondatori, non nobili . come dire che la nobiltà dovrebbe essere per tutti i dotati di virtù, una sorta di aspirazione al meglio, votata alle grandi e significative conquiste, ad un riconoscimento more nobilium impegnativo, altruistic verso disagiati e sfortunati, che dovrebbe essere sempre sorretto da spirito cavalleresco e non da albagia e utilitarismo. Pena l’annullamento del titolo stesso.
Questa non breve premessa, con la promessa a me stesso di tornare più ampiamente sul tema, anche storiograficamente oltre che dal punto di vista letterario e dottrinale, per raccontare adesso finalmente del bel libro di Francesco Alliata di Villafranca, Il Mediterraneo era il mio regno. Memorie di un aristocratico siciliano , Neri Pozza editore di Vicenza(2015) con una bella introduzione di Stefano Malatesta a sua volta autore di libri imperdibili su fatti, ambienti e persone di Sicilia.
Ho letto in due riprese questo libro – avvincente per altro – del Principe Alliata. Appena uscito, infatti, sapendone e attendendone la comparsa in libreria, mi sono fiondato avidamente nella lettura, riponendolo per circa un mese data l’impressione in me suscitata dalla scomparsa a quasi novantasei anni, del Principe a pochi giorni dall’uscita del suo libro-verità, che spero abbia avuto fra le mani prima della scomparsa.
Formidabile protagonista in Sicilia di un intero secolo,amava dire che bisogna essere Principi prima di apparirlo.
Ho avuto il privilegio della conoscenza di questa unica figura di aristocratico siciliano, che ha fatto onore alla sua vocazione, alle sue vicende personali, alla sua famiglia e alla nostra sempre bellissima e ineguagliabile terra. Grazie devo subito dire, soprattutto a Nino Aquila  che me lo presentò, un gentiluomo e letterato che tanto ci manca, e a Rita Cedrini, docente universitaria e antropologa di valore, giustamente celebrata nel libro di Alliata come punto di riferimento della rivalutazione delle sue imprese novecentesche, a volte veramente epiche. Ricordo un afoso pomeriggio di qualche anno fa, alla Sala delle Lapidi di Palermo in cui gli conferimmo, grazie a Rita in particolare e al Dott. Anello e a chi scrive fra i giurati, il Premio Speciale Arenella-Città di Palermo per tutto ciò che oggi, grazie anche al libro sappiamo nel dettaglio, nella briosa narrazione, nelle combattive scelte e determinazioni dettate dal fare e che l’autore rivendica in toto, pur con talune ingenuità unite a tanta buona fede, non sempre corrisposta peraltro. La storia quasi millenaria della famiglia degli Alliata – che vanta parecchi rami ancora oggi – fra guerrieri, letterati, Santi, uomini di potere e Beati, ha inizio a Pisa.  Mercanti di quella Repubblica aristocratica ( le cui gesta furono oggetto di un volume storico di grande importanza che dobbiamo a Marco Tangheroni, valoroso medievalista e caro Amico, troppo presto scomparso) che presero dimora in Sicilia assurgendo le più alte care del Regnum e gestendo il servizio di posta. Vicende che la zia di Francesco, Felicita (1876-1974) aveva ricordato in un suo imperdibile volume anch’esso di memorie Cose che furono attraverso la storia di un’antica famigli italiana, edito da Flaccovio nel lontano 1949, e in cui le origini della famiglia, come si usava nei secoli scorsi, sono ricordate avvolte nella mitologia antica, ma ben documentate quelle degli ultimi secoli, non esenti da aneddoti ed esaltazioni che invece mancano, ed è un bene, alla fluida scrittura di Francesco.
Altro libro che voglio ricordare è quello delle memorie di Gianfranco Alliata di Montereale, principe anch’Egli, e di un altro ramo della famiglia, pure ricordato nel libro attuale del Villafranca insieme alla memoria della madre di Gianfranco, Olga Matarazzo. Mentre di Francesco sono stato un buon conoscente, come lo sono della degna figlia Vittoria, scrittrice e fiera imprenditrice (a cui ebbi l’onore a Bagheria di attribuire nel 2012 il Premio Socialità e Cultura del Circolo Giacomo Giardina, presieduto da Giuseppe Bagnasco), che è stata capace di riunificare le proprietà disperse della villa bagherese di famiglia, teatro in un recente passato di corvi rapaci e di interessi e presenze mafiose, di Gianfranco Principe del Sacro Romano Impero, che dilapidò una fortuna fra la politica monarchica (fu più volte deputato, le donne, la massoneria, l’esilio per improbabili golpe), sono stato amico e mi legano a lui tanti ricordi di comuni imprese culturali in Grecia, a Malta, a Roma e oltre che ovviamente a Palermo.
Il libro dicevo, fa il periplo di un secolo storia propria e di Sicilia. Scorrono in modo lieve le tappe della formazione, la famiglia, l’iniziazione alla cultura con la correzione di 7500 pagine di bozze, le proprietà sparse in tutta l’isola, il ricordo vivo del maestoso Palazzo Villafranca a piazza Bologni a Palermo con una Crocifissione di Van Dyck, i viaggi la vita militare da ufficiale addetto alle riprese cinematografiche, la guerra, la passione mai venuta meno per il mare, per la fotografia, per il cinema, per gli affari (non sempre andati a buon fine), la difesa della proprietà avita di palazzi, ville, delle terre dall’assalto dei nuovi barbari della burocrazia sclerotica e del malaffare mafioso. 
Certo dire di Francesco Alliata, è dire innanzitutto della sua creatura più riuscita: la Panaria film, fondata nel 1946. Il cuore del libro,  e certamente il più riuscito. Una volontaristica impresa tutta siciliana condotta con i sodali Pietro Moncada, Renzo Avanzo (veneto e primo marito di Uberta Visconti, sorella di Luchino e poi moglie del compositore e direttore d’orchestra Franco Mannino) nonché da Quintino di Napoli (poi raffinato artista che mi onorò della sua considerazione con bellissime conversazioni domenicali a piazza San Domenico , e nella sua casa a largo dei Cavalieri di Malta. Tutte le vicende di questa coraggiosa casa di produzione che prendeva il nome dall’isola di Panarea nelle Eolie, vi sono minuziosamente e con godimento raccontate, insieme all’invenzione con le prime riprese subacquee al mondo (una volta si diceva sottomarine) nonché dei documentari e dei film prodotti. Memorabile resta la storia del “duello” cinematografico tra la Panaria e Roberto Rossellini, e fra due film emblematici “Vulcano” con Anna Magnani e “Stromboli terra di Dio”  con la Bergman in funzioni di rivali sul set e non solo artisticamente, contendendosi le due attrici un Rossellini ormai stanco di Nannarella e innamorato della sensuale Ingrid. Vulcano della Panaria fu notevolmente e artatamente ostacolato da svariate forze clericali e politico-cristiane e da interessi geoculturali anche americani, che sfuggivano però ad Alliata ed ai suoi amici. Altra impresa da ricordare fu “La carrozza d’oro” un film altrettanto bello e significativo che ebbe per regista il grande Renoir. Le  vicende, anche di costume, sono semplicemente e onestamente narrate nel libro da Alliata con l’occhio   rivolto anche ad altri comprimari e co-protagonisti delle sue imprese, fra i tanti magnificamente descritti svetta un Luchino Visconti, geniale regista ed esteta decadente, immerso nella sua turris aeburnea, scostante rampollo comunista con ville splendide e camerieri in livrea, il cui corpo morto venne esposte a Botteghe Oscure. Non manca inoltre il ricordo di un funambolico, affascinante Raimondo Lanza di Trabia, su cui si sono scritte tante pagine, ultime quelle della figlia Raimonda e del bravo Vincenzo Prestigiacomo in un libro edito alla Nuova Ipsa. Decine le figure di contorno illustrate, che sono però citate sempre a proposito e con garbo, avvolte con giusta esecrazione , specie fra la fauna dei politici di professione e dei responsabili del mancato decollo dell’economia del secondo dopoguerra, autori di politiche dissennate di presunto sviluppo (a cominciare dalla disgraziata Cassa per il Mezzogiorno) di cementificatori senza scrupoli e di affaristi  impuniti. S’inquadra in tale contesto la seconda parte del libro legata alle nuove avventure di Moncada e Alliata, nella pista delle surgelazioni e dei gelati confezionati in quel di Catania.
Chiude il volume la dettagliata Odissea, fino ai più piccoli particolari, patita da Francesco e da Vittoria per i beni di famiglia “donati” dalla cognata di Francesco al seminario della Curia di Palermo (l’amato palazzo cittadino), e all’Opus dei (quello bagherese, a cui l’Opera rinuncerà saggiamente a favore degli Alliata ). Una pagina oscura, ancora non risolta nelle complesse appendici che certo getta ombre contraddittorie, non solo nello specifico caso, sull’incameramento dei beni storico-monumentali. Non fa difetto la narrazione dei fatti un violento atto di accusa, con nomi e cognomi , nei confronti della politica di tutela della Sopraintendenza ai Beni Culturali e a quella per i Beni Archivistici.
La lotta fino allo stremo per difendere la residenza straordinaria di Bagheria, per fino dalle mani ingorde e sporche di sangue della mafia, è un altro segmento importante di questo libro, che è anche un civile atto di accusa. Paradosso, come nella migliore o peggiore, che è meglio dire, tradizione pirandelliana siciliana, e  la miope messa in stato di accusa di Francesco Alliata da parte della magistratura con l’imputazione di non badare al patrimonio…  controsenso per i vincoli e gli ostacoli insormontabili che invece la burocrazia imponeva e tutt’ora impone, alle strutture in degnado.
Insomma, un libro da leggere e godere e su cui riflettere, specie pensando ad un micromondo  come Bagheria tanti bella quanto perseguitata e  violentata dal malaffare. A proposito di Bagheria non si manchi di visitare l’appena aperta al pubblico Villa Sant’Isidoro de Cordoba, un gioiellino ancora miracolosamente intatto anche negli arredi, che un’altra storia da raccontare.   

Giordano Bruni Guerri, "La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele D'Annunzio" (Ed. Mondadori)

di Domenico Bonvegna

Tempo fa mi è capitato tra le mani, nella solita libreria dell’outlet milanese, un libro su Gabriele D’Annunzio, “La mia vita carnale”. Amori e passioni di Gabriele D’Annunzio”, Arnoldo Mondadori Editore(2013), scritto dallo storico Giordano Bruno Guerri, che è anche presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, che peraltro si occupa della conservazione dell’ultima monumentale dimora dello scrittore. Proprio grazie a questo ruolo Guerri ha avuto accesso a numerosi documenti inediti, scovati al Vittoriale, attraverso i quali ha realizzato questo nuovo volume che guarda alle abitudini più nascoste dell’eccentrico personaggio.
Avevo delle conoscenze un po’sbiadite del Vate abruzzese, ma dopo aver letto il testo di Guerri, credo di conoscerlo meglio. Giordano Bruno Guerri, fa un ottimo lavoro di ricerca ben documentato, “ci conduce lontano da stereotipi e leggende metropolitane, accompagnandoci nelle stanze folli e geniali della dimora dannunziana”. Grazie al diario di Amelie Mazoyer, ancella in servizio continuo che D’AnnunzioribattezzaAelis, si arriva a conoscere il “seduttore, l’amante irresistibile, il suo ‘bisogno’ imperioso della vita violenta, della vita carnale, del piacere, del pericolo fisico, dell’allegrezza”.
Il testo scritto da Guerri in occasione del 150° anniversario della nascita di D’Annunzio, ha un intento ambizioso, quello di “ricavare una più fedele immagine dell’uomo, prima ancora che del genio. E, insieme alla sua, riscoprire la vita, le gioie e le sofferenze delle donne che con lui condivisero – per decenni o anche soltanto per poche ore – l’entusiasmo di essere D’Annunzio”.Naturalmente già dal titolo si ricava che lo storico cerca di descrivere il più possibile, la vita intima, e non solo sessuale, della figura complicata di Gabriele D’Annunzio. Obiettivamente, leggendo il testo, Guerri descrive in modo insuperabile i tanti “amori”, anche quelli non consumati del poeta, senza mai scadere nella volgarità o nella banale pornografia. Guerri annota nel suo libro, che a volte, al cancello del Vittoriale, c’era un tale affollamento di donne che spinge il Vate al “sacrificio della cernita”. Peraltro il testo è corredato di ben10 pagine fotografiche delle sue donne, a cominciare dalla moglie, Maria Hardouin, che offrono una discreta sintesi della vita privata del poeta.
Si chiedeGuerri: che cosa rendeva Gabriele D’Annunzio così irresistibile alle donne? I giornali, avevano cominciato a parlare di D’Annunzio, già sedicenne. “A vent’anni aveva conquistato il bel mondo romano della cultura e della nobiltà, creando anche un nuovo stile di giornalismo, mondano quanto colto.(…) Innovatore nella lingua, usò per primo i termini ‘intellettuale’ e ‘beni culturali’ nel senso in cui intendiamo oggi. (…)Nel 1907, alla morte di Carducci, si autoproclamò nuovo Vate d’Italia, senza che nessuno accennasse a smentirlo”. Tuttavia, con la sua storia d’amore con Eleonora Duse, ha inventato il divismo. Nel settembre del 1919, senza sparare un colpo, come un “condottiero rinascimentale”, ha conquistato la città di Fiume. L’ha tenuta per sedici mesi, in un clima di esaltazione e rivoluzione, dandole una costituzione, la Carta di Carnaro. Per Giordano Bruno Guerri, il comandante D’Annunzio, “nell’impresa fiumana aveva trasfuso i suoi ideali di bellezza e libertà senza freni, in un crescendo di passioni e di novità che avevano come unico motivo ricorrente la volontà di estendere allo Stato il proprio progetto esistenziale: creare un’opera d’arte”.Intorno a quest’impresa si è creato un alone di leggenda, D’Annunzio, secondo Guerri, “aveva gettato nel mondo un seme di libertà violento, audace e contagioso per una generazione di sognatori esaltati, per una serie di epigoni che tenteranno di raccogliere la sua impossibile eredità”. Ma degli aspetti sociopolitici e culturali dell’impresa di Fiume mi occuperò nel prossimo intervento facendo riferimento a un ben documentato articolo di Salvatore Calasso, pubblicato dalla rivista trimestrale Cristianità.
Ritornando al libro, “La mia vita carnale”, per D’Annunzio, “le donne furono il tormento e la delizia della sua vita - scrive Guerri – che le usasse non toglie che provasse per loro una vera passione(…)Impegnò ogni arte per ammaliarle, prima ancora che per sedurle”. Addirittura, Isidora Duncan scrive che D’Annunzio, “era un così grande amante che poteva trasformare la donna più ordinaria e darle per un momento l’apparenza di essere celeste”. Pertanto, secondo Guerri,“non importa quanto fosse bugiardo, quanto incline alla mistificazione e all’inganno. La suggestione della sua poesia, la seduzione del suo erotismo, l’intraprendenza sessuale (certificata da numerose testimonianze, oltre che dall’autocompiacimento di Gabriele), l’audace sfacciataggine dei suoi comportamenti, le imprese ardite non sono sufficienti per cogliere il segreto di D’Annunzio, l’origine del suo intramontabile trionfo con l’altro sesso”.
Nel Libro segreto, D’Annunzio potrà scrivere: “Modulo la mia voce per sedurre, per incantare, per domare”, e riferendosi a una delle tante amanti, scrive: “La sento godere della mia voce come di una carezza sapiente”.
Ma Gabriele non “collezionava” solo donne ma anche farmaci: fiale, fialette, barattoli, cofanetti, che ora sono raccolti, in un piccolo studio, che fa da anticamera alla stanza da letto. Mostra interesse per i prodigi della Modernità, “vuole saggiare i risultati miracolosi dei preparati chimici(…) la sua fede negli intrugli di cui si serve tutti i giorni è incrollabile”. Tuttavia, non è mistero ma D’Annunzio fa un uso smodato di cocaina, con un accanimento tipico del tossicodipendente. “Il diario di Aelis racconta di un consumo quotidiano, senza freno, che gli facilita l’esaltazione durante gli incontri amorosi, anche se proprio con l’arrivo della cocaina, a Fiume, ’erano cominciate le lussurie che necessitavano di minore virilità: la cocaina serviva a questo meravigliosamente”.
Il superuomo D’Annunzio non si vergognava dell’uso della cocaina, ma della sua dipendenza, “il superuomo non si nega niente perché è re della propria volontà e la riduce a bramosia genuflessa”. La droga, però, gli rende la vita difficile, con malumori improvvisi che lo rendono nervoso, furioso; la sessualità diventa maniacale e ossessiva, la febbre lo coglie spesso. Scompare anche per le persone intime, per lunghi periodi, persino il suo disimpegno nella vita pubblica, intervallato da lampi di eccitazione politica, sono tutti segnali noti agli studiosi della dipendenza da cocaina.
D’Annunzio, disprezza il denaro nella sua essenza, ma gli è indispensabile per assecondare desideri sempre più costosi. “Accumula debiti, pressa editori e giornali, chiede prestiti poi raramente onorati: tutto questo servirà a confermarlo anche nel ruolo di genio dello sperpero”. Ecco perché le sue stanze, a cominciare dalla Leda, la stanza dedicata agli incontri amorosi, sono ricche di oggetti, stoffe, tappeti, piatti, bronzi, e tanto altro, che sono visitate ora come veri e propri musei. E poi i libri, i suoi manoscritti, l’epistolario, i volumi, disposti in tutti gli ambienti della villa. D’Annunzio fu archivista, collezionista, amante di rarità, non si limita all’accumulo di libri, ma li legge, li studia, compulsandoli e annotandoli in lunghe sedute di lavoro. Un po’ quello che cerco di fare nel mio piccolo “Sono migliaia (i libri) sottolineati, glossati, vissuti come oggetti quotidiani, strumenti di quel lavoro di cui D’Annunzio si considera un operaio”. Infatti nel 1930 redarguendo Luisa e Aelis dice: “Mentre voi tutti che mi state intorno pensavate che avessi le lune, io studiavo le modificazioni degli speroni da Carlo Magno a Francesco I”. D’Annunzio non accumula solo libri, i suoi armadi sono pieni divestiti, maschili, ma anche femminili, partendo dal proprio ego, finisce per incidere nelle tendenze e nel costume collettivo. Lui stesso ha creato profumi rari, si faceva portare profumi rari a qualsiasi prezzo, non si accontentava delle essenze in vendita per tutti. Diventa lui stesso testimonial, di diversi prodotti, anche liquori. I migliori sarti di Milano fanno a gara a vestirlo. Peraltro per D’Annunzio, la vestizione viene vista come un rito, come per gli eroi omerici prima della battaglia. “Anche durante la Grande Guerra, - scrive Guerri - l’eroe, l’aviatore, il marinaio, il soldato riuscivano a trovare tempo e voglia di pensare a cose che ai più sembrano frivoli orpelli, davanti al pericolo e alla morte”. Ma proprio in quella drammaticità del momento porta Gabriele a ribadire che, dannunzianamente, “l’abito fa il monaco”. Mi fermo, naturalmente, ci sono altri aspetti da sviluppare della poliedrica figura di D’Annunzio, ma sarà per un’altra volta.

Va’, metti una sentinella

di Carmelo Fucarino

Non so se nel furore di quest’afa soffocante posso trovare lettori per una riflessione su un libro appena in uscita. Certo, la cultura, il relax della spiaggia sotto l’ombrellone o della villetta-rifugio. Nonostante i tragici allarmismi su governo e finanze, forse proprio a causa di pettegolezzi e chiacchiericcio da salone di barbiere su tasse, crisi greca, rimpasti e tribune elettorali estive su beghe personali, nonostante il voyerismo di certa efferata cronaca nera, nonostante tutto le città sono deserte, abbandonate alle orde di turisti mordi e fuggi. Il palermitano è fuggito nella villetta di zone suburbane o nella casa avita di paesi da fiaba.
Il libro di cui voglio parlare ha un prequel celeberrimo, di una attualità sconvolgente nel titolo italiano, data la tragica situazione nazionale ed internazionale socio-politica che prefigura realmente il buio oltre la siepe. Forse allorasi trattò di una citazione in antitesi da parte del traduttore italiano che ribaltò la celebre siepe del nostro pessimista in assolutoche «sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo», tanto che «così tra questa / immensità s’annega il pensier mio», etc. Non solo tratto dalla metafora di Scout. In effetti il titolo inglese diceva ben altro, più delicato ed emotivamente forte, femminile, To Kill a Mockingbird, Uccidere un usignolo. È il destino orrifico delle traduzioni dei titoli di libri. E ancor più orripilanti quelle dei film sacrificati alle idiosincrasie e agli appetiti di pubblici etnici in funzione di cassetta. Quel romanzo della nostra gioventù, pubblicato nel 1960 e subito l’anno dopo PulitzerPrize for Fiction, nel successivo 1962 ebbe la versione filmica di Robert Mulligan e la lacrimevole forte interpretazione dell’amato Gregory Peck - AtticusFinch,perciò premiato con tre Oscar. Seguirono trenta milioni di copie e la fama di Best Novel of the Century. La gloria e la beatificazione nazionale dell’autrice furono ininterrotte negli anni, assiemeagli onori della cronaca per l’amicizia e i consigli elargiti a Truman Capote per il suoIn Cold Blood del 1966 e i film, nel 2005 interpretata da Catherine Keener in Truman Capote – A sangue freddo di Bennett Miller e nel 2006 dall’Oscar Sandra Bullock in Infamous – Una pessima reputazione.

In anni più recenti si volle assumere come simbolo dell’America nuova delle leggi antirazziali, interprete di una ideologia che si voleva politicamente interpretare agli occhi del mondo di contro ad un sostrato nazionale che rimaneva ed è ancora estremamente razzista, prova le stragi ricorrenti che si ascrivono a pazzi cani sciolti. Perciò il George W. Bush della guerra a Saddam con falsi pretesti il 5 novembre 2007 le assegnava l’Award della PresidentialMedal of Freedom, data, si badi bene, a coloro che hanno dato «an especially meritorious contribution to the security or national interests of the United States, world peace, cultural or other significant public or private endeavors». Nulla di tutto questo possedeva il libro di Lee (penname) e la motivazione lo esprimeva: «Ha influenzato il carattere del nostro paese in meglio. È stato un dono per il mondo intero. Come modello di buona scrittura e sensibilità umana questo libro verrà letto e studiato per sempre». Non poteva fare di meno il presidente nero Barack Obama che nel 2010 le conferiva la National Medal of Arts per gli «outstanding contributions to the excellence, growth, support and availability of the arts». Se si guarda bene scomparivano i valori patriottici, di sicurezza nazionale, e si accampavano e si ribadivano stranamente i soli valori artistici.
Awarded the Presidential Medal of Freedom, November 5, 2007
Perciò come una folgore si è abbattuta sull’opinione pubblica americana l’operazione (culturale? O finanziaria?) portata avanti dal suo avvocato Tonja Carter che nel 2011 scartabellando in un vecchio baule trovò il manoscritto di Go Set a Watchman. La lettura, la conferma dell’autrice ebbero come passo successivo la consegna all’agente Andrew Numberg, che lo considerò il primo libro di una trilogia, ritenuto perduto. Tutto si è svolto in rapida successione, l’annunzio della pubblicazione a febbraio del 2015 con la Harper Collins (nel Regno Unito da William Heinneman) e l’uscita in un giorno fatidico il 14 luglio della presa della Bastiglia.In Italia la traduzione sarà edita da Feltrinelli con il titolo di una sciatteria e banalità inaudita per volerlo rendere alla lettera, Va’, metti una sentinella. Si tratta del sequel del primo, sebbene sia stato completato prima del più tardo romanzo.
L’operazione, fatta dal suo avvocato e dal suo agente, ha suscitato grande scalpore e non poche perplessità. La domanda che sorge naturale è perché Lee per cinquantacinque anni ha ribadito che non avrebbe mai scritto altro libro e ora improvvisamente dà l’avallo, si scrive “sorpresa e felice”, alla fortuita scoperta in un suo safe-deposit boxe a questa scandalosa edizione.E la scrittrice, sorda e cieca, con postumi di infarto, è realmente in possesso delle sue facoltà mentali messe in dubbio dal processo al suo ex agente e dalla stessa sorella morta di recente?Difficile stabilire le ragioni di questa uscita che a molta opinione pubblica americana è apparsa sconcertante o quanto meno inopportuna, perché stravolge un’immagine consolidata dell’autrice e della coscienza americana, prima e dopo l’approvazione del CivilRightsAct del 1964, voluto da Kennedy, che non lo vide approvato. Ma forse la spiegazione sta nella tiratura iniziale di due milioni di copie.
La sequenza dei titoli e delle inchieste portate avanti daThe New York Timese dal Washington Post rappresentano la problematicità e l’opposto schierarsi dell’opinione pubblica statunitense, scioccata e turbata da questo scoop evidente e madornale, non tanto e solo letterario, come era stato presentato il primo. Ora si proclama “il libro del secolo”, ci credo. Cito soltanto i due più recenti interventi di luglio di The New York Times. Alexandra Alter l’11 titolava “While Some Are Shocked by ‘Go Set a Watchman’ Others Find Nuance in a Bigoted Atticus Finch” e attaccava: «Con tutto il dibattito che ruota sulleoriginidel romanzo diHarper Lee“Go Set a Watchman”, la più grande bombasi è rivelato essereuncolpo di scenaesplosiva chenessuno ha vistoarrivare.AtticusFinch-l'avvocatocrociatadi “To Kill a Mockingbird”, il cui principiolotta contro il razzismoela disuguaglianza ha ispirato generazioni dilettori-è raffiguratoin "Watchman" come un passatista razzistache hapartecipato a una riunionedel KuKlux Klan, detieneopinioni negativecirca gli Afro-Americaniedenunciagli sforzidi desegregazione. "Vuoinegriavagonenelle nostrescuolee nelle chiesee nei teatri? Velivolete nel nostromondoAtticuschiede alla figlia, JeanLouise (l'adulta Scout), in "Watchman» («With all the debate brewing over the origins of Harper Lee’s novel “Go Set a Watchman” the biggest bombshell turned out to be an explosive plot twist that no one saw coming.Atticus Finch — the crusading lawyer of “To Kill a Mockingbird,” whose principled fight against racism and inequality inspired generations of readers — is depicted in “Watchman” as an aging racist who has attended a Ku Klux Klan meeting, holds negative views about African-Americans and denounces desegregation efforts. “Do you want Negroes by the carload in our schools and churches and theaters? Do you want them in our world?” Atticus asks his daughter, Jean Louise (the adult Scout), in “Watchman.”»).Come è possibile che questo nuovo Atticus sia lo stesso crociato che nel 1960 difendeva a spada tratta il“negro” Tom Robinson nella profonda America dell’Alabama?
Ancora Michiko Kakutami nel suo intervento “Review: Harper Lee’s ‘Go Set a Watchman’ Gives Atticus Finch a Dark Side” sullo stesso quotidiano del 10 luglio, mette a raffronto i due Atticus:quello di Il buio: «coscienza moraledel romanzo: gentile,saggio, onorevole, un avatardiintegritàche ha usatole sue doticomeavvocato perdifendereun uomo di coloreingiustamenteaccusato di aver violentatounadonna biancain una piccola cittàdell'Alabamapiena dipregiudizie odionel 1930» («novel’s moral conscience: kind, wise, honorable, an avatar of integrity who used his gifts as a lawyer to defend a black man falsely accused of raping a white woman in a small Alabama town filled with prejudice and hatred in the 1930s.»); o quello nuovo, “scioccante”, «un razzistache una voltapartecipò ad una riunione del Klan, che dicecose come"I negri quisono ancoranella loro infanziacome popolo". O chiedealla figlia: "Vuoinegriavagonenelle nostrescuolee nelle chiesee nei teatri? Velivolete nel nostromondo?» («a racist who once attended a Klan meeting, who says things like “The Negroes down here are still in their childhood as a people”. Or asks his daughter: “Do you want Negroes by the carload in our schools and churches and theaters? Do you want them in our world?”»). Cosa ne sarà di quel Finch, «un'icona culturalela cui influenza ha trasceso la letteratura, ispirando generazionidi avvocati, insegnanti e operatori sociali". Se avete lettoilromanzo ovisto il film, c'è questaimmagineche hai diAtticuscome un eroe, e questoloporta ad abbassare la cresta", ha detto AdamBergstein, un insegnante di inglesenel Queens» («a cultural icon whose influence transcended literature, inspiring generations of lawyers, teachers and social workers. “Whether you’ve read the novel or seen the film, there’s this image you have of Atticus as a hero, and this brings him down a peg,” said Adam Bergstein, an English teacher in Queens»).
Dove e quando l’America ha sbagliato? Allora, quando l’editore avrebbe rifiutato questa prima versione del romanzo della trentaquattrenne Harper Lee e avrebbe giocato tutto sulla retorica dei buoni sentimenti del cittadino medio, sulla mistica della bontà del secondo romanzo? O oggi con l’aperta sfida alla società multietnica che non ha mai saldato il conto con le sue origini, brutali contro tutte le minoranze, indiane e nere, irlandesi o italiane? Ed è questa l’America che vota nei consigli comunali l’ostracismo contro il Colombo perché assassino di indiani e poi nasconde sotto il tappetoil suo odio mai sopito per il negro che teme nella classe fra i propri figli?E tutta la retorica di un cinquantennio, insegnata nelle scuole con il testo di Lee, il libro Cuore degli americani?Sarannoquesti per un americano i 27.99 dollari ben spesi nella sua vita per scoprire il lato “oscuro” della sua anima, il suo inconfessato dark side?
Noi, profondamente innamorati dell’America del progresso, della giustizia e della libertà, noi che ci sentiamo dentro cittadini della Big Apple, dobbiamo e vogliamo sperare che la brutale messa in mora della bontà del primo Finch possa aprire un dibattito più chiaro, leale, profondo sulla coscienza americana, sul suo razzismo che ha voluto mistificare e rimuovere nominando un presidente “negro”. E gli ha opposto UN Senato a maggioranza di oppositori repubblicani. Si dice, ne ha fattoun’anitra zoppa. Per progetti e riforme mancate, come quella umanissima della riforma sanitaria. Davanti alla salute, peggio ancora davanti alla vita, non dovrebbe in nessuna società contare di più il dio dollaro.
Noi crediamo nella virtù etica degli Americani.

lunedì 27 luglio 2015

Maria Barresi, "Non dire niente" (Ed. Solfanelli)

Protagonista di questo romanzo, ambientato in una Calabria insieme magica e reale, cruda e poetica, è una ragazza, Nicla, che, vittima di un padre perverso, trova la forza di reagire alla violenza e riconquistare la propria dignità.
Intorno a Nicla ruota tutta una serie di personaggi, coinvolti per una ragione o per l'altra nella vicenda. Tra di essi svolge un ruolo fondamentale Clara, alter ego dell'autrice, che nel desiderio di andare oltre la superficie dei fatti si dedica ad un'indagine tutta personale, riuscendo a trascinare anche Piero, il magistrato inquirente. Così, quello che era un caso giudiziario si trasforma in un'inchiesta giornalistica sui generis, e il "non dire niente" diventa l'emblema di un mondo dominato dalla paura e dall'omertà.
Per la prima volta, però, nel buio dell'indifferenza o della rassegnazione sembra aprirsi uno spiraglio. La ribellione di Nicla non è più isolata.
Altre donne umiliate hanno deciso di parlare mettendo a nudo quella mentalità e quel costume che seguitano a rendere possibili, e impuniti, certi misfatti consumati nel silenzio.
Pur fedele ai fatti ed ai personaggi, il romanzo non è privo di suspense e di mistero e spesso si accende di un intenso lirismo, a cui fa da pendent il favoloso paesaggio calabrese. Non dire niente è un esempio di come il giornalismo, se praticato con onestà, passione e intelligenza, possa trasformarsi in letteratura, ed anzi rappresentare una via per rinnovare la narrativa, come Thomas Wolfe ha indicato con i suoi romanzi.

Maria Barresi, nata a Reggio Calabria, vive a Roma. Giornalista Rai, lavora al TG1 nella Redazione Cultura e Spettacoli. Scrive romanzi, poesie e favole per bambini.
Non dire niente è il suo romanzo d'esordio, giunto alla terza edizione, di cui parla anche nel suo blog www.mariabarresi.it.

Antonino Russo su "Continuum" di Vito Mauro (CO.S.MOS.)



da: "Il settimanale di Bagheria, 26 luglio 2015

venerdì 17 luglio 2015

R.H. Benson, "Il baronetto vagabondo"

di Luca Fumagalli

Il baronetto vagabondo (None Other Gods) è l’ultimo romanzo escatologico della carriera di R. H. Benson, pubblicato per la prima volta nel 1910. Strano intruglio di generi diversi e di sensazioni contrastasti che si alternano con forsennata ostinazione, costituisce un piatto ricco caratterizzato da una forza drammatica che lo rende uno degli scritti più toccanti del sacerdote inglese.
Protagonista del libro è Frank Guiseley, figlio cadetto del marchese di Talghat, da qualche giorno laureato in giurisprudenza al Trinity College di Cambridge. È un tipo gioviale ed è famoso in tutto l’istituto per i suoi scherzi. Improvvisamente, un mattino, annuncia all’amico Jack Kirby – che nella finzione letteraria è colui che fornisce il materiale del racconto a Benson – di essere diventato cattolico e, a seguito del ripudio paterno, di aver deciso di vendere i mobili della sua stanza, abbandonare la promessa sposa Jenny Launton e girare per qualche tempo l’Inghilterra da vagabondo. Ricevuta la notizia della sua fuga dal collegio, il padre e il fratello Archie disapprovano fortemente il gesto, sollevati però dalla speranza che il ragazzo, scoperta quanto sia dura la vita di strada, possa tornare a casa dopo solo pochi giorni. Intanto Frank recupera qualche soldo compiendo lavoretti saltuari e sembra cavarsela piuttosto bene nei panni del vagabondo. Si fa però largo in lui una certa apatia religiosa che lo porta a frequentare la Messa, ove possibile, senza però l’entusiasmo dei primi tempi. Dopo qualche settimana, incontra due senzatetto, il Maggiore Truscott e Gertie. Da questo momento, per la nuova compagnia, le avventure si susseguiranno a ritmo incalzante in una costante alternanza di dramma e commedia che metterà a dura prova il corpo e l’anima di un protagonista sempre più tormentato e in difficoltà.
Il libro, pur ricalcando alcuni temi ricorrenti nei romanzi d’ambientazione moderna di Benson, si presenta sotto una veste inedita e provocatoria. Il cammino del giovane è un’occasione importantissima, anche se spesso pericolosa, per fare propria quella ricchezza che la precedente conversione al cattolicesimo gli aveva consegnato, quell’essenza che molti uomini superficiali non colgono in tutta una vita. Si parla della realtà, del significato, di una vividezza che supera di gran lunga i sensi e l’intelletto. É come quando, tolto il velo che ostacola lo sguardo, il mondo appare nella sua intima struttura, se ne comprendono per la prima volta le ragioni profonde e tutte le contraddizioni della vita – un impasto di positività e negatività – trovano la loro sintesi in Cristo, creatore della storia. Del resto il titolo originale del libro significa “nessun altro Dio”, a ricordo del primo dei dieci comandamenti. L’esistenza di Frank ricalca quindi un percorso di perfezionamento morale, di avvicinamento progressivo alla Vita: abbandonata la via piana della brillante carriera, degli agi dell’aristocrazia e di un matrimonio imminente con una splendida ragazza, il giovane si mette in cammino, sia fisicamente che moralmente. Con un gesto folle, almeno secondo la logica del mondo, rinuncia a tutto per seguire l’unica cosa vera, il Dio a cui la Chiesa di Roma l’aveva avvicinato: «La sua conversione al cattolicesimo era stata un colpo che aveva sorpreso Jack, il quale aveva sempre pensato che Frank, come lui, avesse l’ordinario sensato criterio inglese in fatto di religione». L’anticonvenzionalismo e l’allegra incontinenza di Frank si rivelano, alla fine delle sue avventure, una grazia, la premessa alla decisione di rompere con la banalità esistenziale a cui la sorte sembrava averlo destinato. Molla quindi tutto, deciso per la prima volta a diventare protagonista della propria esistenza. 
Nulla dura al mondo, tutto è destinato a passare, compresi gli idoli che costellano la vita di un giovane aristocratico. Frank però non cede alle lusinghe dell’effimero e si incammina per la via ripida. Il baronetto è dunque una sorta di eremita moderno, in cui la tensione per l’essenziale lo conduce a spogliarsi di tutto l’accidentale (con grande scandalo della famiglia e dei benpensanti): tutto è sacrificabile a Cristo, perfino se stessi.
Nella mente e nel cuore del protagonista, almeno all’inizio del vagabondaggio, tutto questo è poco chiaro. Ma è proprio grazie al confronto con una realtà spesso ingiusta e crudele – come il sacerdote che gli rifiuta l’elemosina – che Frank mette progressivamente a fuoco lo scopo della sua vita. A partire dalla riscoperta della conversione, l’approccio nei confronti dell’esistenza muta piano piano, guadagnando in profondità: «Quello che egli non poteva descrivere né comprendere era l’intima alchimia per la quale queste nuove relazioni tra le cose modificavano la sua anima e gli davano un punto di vista del tutto nuovo e sorprendente».
Anche le sue giornate, in parallelo alla maturazione morale, acquistano una pienezza inedita. Frank ha l’impressione che, intorno a lui, ci sia qualcosa di strano, una presenza che veglia sul suo cammino. Non la vede, ma il cuore, nel sussulto di un istante, l’avverte chiaramente. Questo non vale solo per lui, ma anche per tutti quelli che gli stanno attorno, come il servo del dottor Whitty che, colto da strane emozioni, esce angosciato dalla stanza in cui il ragazzo si sta riprendendo da una brutta malattia. Anche sul finire del romanzo, mentre è ospite nella casa della signora Partington, il reverendo Paharam-Carter sobbalza improvvisamente quando Frank, dopo una lunga discussione, si alza dalla sedia: «Era una sensazione ch’era venuta e svanita in un istante, quando Frank s’era mosso … una sensazione che io suppongo che qualcuno avrebbe chiamato “psichica”, la sensazione di un colpo vibrato per un istante attraverso ogni parte del suo essere».
La migliore testimonianza dalla crescita compiuta sino a quel momento è resa esplicitamente dallo stesso protagonista che, in un brano, ricostruisce il percorso di meditazione svolto durante la breve permanenza presso un monastero benedettino. Identifica sostanzialmente tre fasi che, attraversate, lo hanno portato a un livello crescente di comunione con Cristo e gli altri. La prima, denominata “Via della purgazione” prevede la tentazione dei beni materiali e, successivamente, la tentazione dell’anima. Superate queste prime prove si entra nella seconda fase, la “Via dell’illuminazione”, in cui si riscopre il valore della Fede in Cristo. Nella terza e ultima fase, la “Via dell’unione”, si comprende che creatore e creatura saranno una cosa sola per tutta l’eternità.
Ecco allora che la fuga dall’università, nata da un’azione sregolata e provocatoria, si tinge di provvidenzialità e Frank coglie per la prima volta il vero senso del suo atto. Vede anche la meta di un vagabondare che, almeno all’inizio, era dettato più dal naturale anticonformismo che da serie motivazioni. Si fa largo nel suo cuore la sensazione di seguire la via che Cristo ha preparato amorevolmente per lui, la strada più breve e idonea per incontrarlo: «V’era una sensazione di un ritorno a casa; v’era una sensazione di serenità sorprendente; v’era la sensazione di un’immensa pace obiettiva, che incontrava e ratificava quella pace interiore che cominciava ad essere sua».
Anche il passato è investito di un senso nuovo. Nell’albero genealogico dei Guiseley Frank può riscoprire infatti i legami con figure significative, come un suo antico antenato, l’unico che, da cattolico, sotto il regno di Elisabetta I pagò con la vita la fedeltà al Papa, mentre il resto della famiglia cambiò bandiera a seconda delle convenienze, appiattita in un’adesione distaccata e formale all’anglicanesimo.
Al termine della storia il rifiuto del mondo e il processo di santificazione raggiungono il culmine. Disinteressato a qualunque prospettiva di ereditare un titolo nobiliare e consistenti ricchezze, il ragazzo si consegna fiducioso, con un ampio sorriso sulle labbra, all’orizzonte oscuro e terribile che incombe su di lui. Solo allora, conclude Benson con abile paradosso, «il fallimento fu completo».

da:"www.radiospada.org

Vincenzo Di Michele, L'ultimo segreto di Mussolini" (ed. Il cerchio)

L'otto settembre del 1943 l'Italia annunciò l'armistizio con le Forze alleate. Fu una resa senza condizioni. Qualcosa però si mosse sottobanco. C'era infatti un altro tavolo, non ufficiale, dove il governo Badoglio continuò a collaborare con il vecchio amico tedesco. Tra ricatti, ostaggi, minacce e sotterfugi, l'illustre prigioniero Mussolini veniva così sottratto agli Alleati e consegnato ai tedeschi il 12 settembre a Campo Imperatore.
L'agente Nelio Pannuti, addetto alla sorveglianza personale di Mussolini al Gran Sasso, in un'intervista rilasciata all'autore della presente opera, dichiarò che quell'incursione dei tedeschi "sembrava proprio un'azione concordata, tant'è che, una volta liberato il Duce, ci fu un momento conviviale tra soldati italiani e tedeschi nella sala dello stesso albergo, tutti con le armi in spalla pacificamente". 
Per chi non lo sapesse: i manuali storici hanno sempre narrato dell'efficacia dei servizi segreti tedeschi e dell'impresa epica dei loro paracadutisti per liberare Mussolini. Ma quale efficenza! Che fandonie! Che a Campo Imperatore si trovava prigioniero il Duce lo sapevano tutti, persino i bambini. Addirittura ci fu un pastorello di tredici anni che trafugò gli alianti tedeschi impossessandosi di alcuni armamenti. Per non parlare della complicità italiana nel riaggiustamento storico. Il comandante dei carabinieri al Gran Sasso Alberto Faiola, fu pure encomiato, quando al contrario questi, non solo non predispose alcuna misura cautelativa, ma venne anche meno ai suoi doveri invitando alcuni suoi amici proprio in quei giorni all'albergo di Campo Imperatore.
Insomma una nuova verità storica che è raccontata sin dagli inizi grazie anche alla testimonianza - sconosciuta a molti - di Karl Radl, l'aiutante di colui che erroneamente è stato sempre considerato il vero artefice dell'Operazione Quercia": il capitano Otto Skorzeny.
VINCENZO DI MICHELE (1962) già autore di "La famiglia di fatto" (un'analisi sulle tematiche della convivenza more uxorio); "Io prigioniero in Russia" (oltre 50.000 copie vendute e vincitore di premi alla memoria storica); "Guidare oggi" (un manuale di guida per le insolite problematiche stradali); "Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso"(una revisione dei fatti storici sulla prigionia del Duce a Campo Imperatore nel settembre 1943); "Pino Wilson, vero capitano d'altri tempi" (2013, la biografia ufficiale dello storico calciatore della Lazio campione d'Italia nel1974); "Come sciogliere un matrimonio alla Sacra Rota" (2014, un'inchiesta dettagliata sull'iter di annullamento dei matrimoni innanzi ai Tribunali ecclesiastici).

martedì 14 luglio 2015

Buon Festino


Stefano Vilardo, “…les neiges d’antan”, (Ed. Thule)

Pubblichiamo una nota che annuncia il prossimo volume del noto scrittore di Delia, Stefano Vilardo. Il libro sarà pronto nel prossimo autunno ed è curato da Giuseppe Saja.
Stefano Vilardo e Tommaso Romano
I racconti che compongono il volume testimoniano una sorta di leopardiana ‘Storia di un’anima’, in cui l’autore di Delia, attraverso una nuova e voluta intertestualità di queste brevi narrazioni recuperate, dipana il filo tagliente ma accorato, lucido ma commosso, delle sue memorie più personali. Sette dei dieci racconti hanno un carattere volutamente autobiografico: Vilardo ripercorre le stagioni del suo terreno transito, dalla fanciullezza, riaffiorante quasi da un tempo di magia, alla maturità disillusa, passando attraverso un’adolescenza accesa da dolori assoluti (la perdita del fratello) e amicizie salvifiche (quella con Leonardo Sciascia su tutte).
Il percorso autobiografico, di un’autobiografia soprattutto intellettuale, diviene, pagina dopo pagina, racconto dopo racconto, il ritratto di una generazione, di un’epoca che stava per vivere il trapasso dalla civiltà contadina a quella società dell’omologazione e dei consumi che, in Sicilia, sarebbe diventata ‘civiltà’ del cemento, della speculazione, del malaffare. Le ultime narrazioni della raccolta recuperano parzialmente la dimensione eterodiegetica e sono, per così dire, il riflesso di quella weltanschauung delineata nei primi sette racconti-confessione. I rispettivi protagonisti sono esseri disillusi, inariditi dalle personali esistenze; ma che tuttavia si sforzano di mantenere ancora brandelli di riconoscibile umanità.
Stefano Vilardo, nato a Delia (in provincia di Caltanissetta) nel 1922, ha pubblicato con l’editore Sciascia i volumi di poesie I primi fuochi (1954), Il frutto più vero (1960) e Gli astratti furori (1988). Nel 1975 affida a Garzanti Tutti dicono Germania Germania, 42 narrazioni di emigrati ‘ricreate’ in versi e riproposte nel 2007 da Sellerio. Con quest’ultimo editore ha pubblicato i romanzi Una sorta di violenza (1990), Uno stupido scherzo (1997) e il libro-conversazione A scuola con Leonardo Sciascia (2012). L’ultima sua fatica è il volume Si conta e si racconta. Quattordici racconti di Salvatore Salomone Marino (Lussografica, 2015).
Giuseppe Saja, dottore di ricerca in Letteratura italiana, è stato assegnista e docente a contratto presso l’Università di Palermo. Attualmente è docente di ruolo di Italiano e Storia. Ha pubblicato, per i tipi dell’editore Sciascia, i volumi «Il Momento». Identità d’una rivista di fine Ottocento. Con gli indici del periodico (1883-1885) (2004), Il silenzio e l’azzardo. Narratori e poeti siciliani del ’900 (2006), Impasse relazionale e solipsismo in Con gli occhi chiusi e altri saggi tozziani (2010) e Federigo Tozzi. ‘Incontri’ siciliani (2011). Ha curato il volume Opere di Antonio Castelli (Sciascia, 2008).

venerdì 10 luglio 2015

Giovanni Fighera, "Che cos'è mai l'uomo, perche di lui ti ricordi?" (Ed. ARES)

di Domenico Bonvegna

L’uomo contemporaneo sta vivendo una crisi spirituale ben più profonda di quella economica, anche se gli ultimi Papi, il papa emerito Benedetto XVI, e poi anche Papa Francesco sostengono che la crisi economica è il risultato di una crisi antropologica. Papa Francesco ammonisce che la crisi, " non è solo economica e finanziaria, ma affonda le radici in una crisi etica e antropologica" che mette "gli idoli del potere, del profitto, del denaro, al di sopra del valore della persona umana", dimenticando che "al di sopra degli affari, della logica e dei parametri di mercato, c'è l'essere umano" che, per la sua dignità deve poter "vivere dignitosamente".L’uomo contemporaneo è immerso in un dramma tragicomico che lo sta portando alla solitudine e quindi alla morte. Il malessere dell’uomo contemporaneo viene da lontano. Si può certamente individuare un vero e proprio percorso, un processo storico, che si è sviluppato nei secoli, attraverso le varie epoche storiche. Ci sono stati uomini di pensiero che ne hanno studiato i processi di disgregazione esistenziale degli uomini, della nostra civiltà occidentale in particolare. Ho presente l’ottimo studio del pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira, “Rivoluzione e Controrivoluzione”, un testo a cui si sono formate intere generazioni e associazioni come Alleanza Cattolica. In questi giorni ho letto un testo interessante e credo di non esagerare, assomiglia molto a quello del professor Plinio, almeno per quanto riguarda la seconda parte. Il libro è scritto da Giovanni Fighera, un giovane professore di italiano e latino, il titolo è particolare: “Che cos’è mai l’uomo, perché di lui ti ricordi?”. Sottotitolo: “L’io, la crisi, la speranza”, pubblicato qualche anno fa dalle gloriose Edizioni Ares di Milano.Il testo è presentato da Giovanni Reale e Gianfranco Lauretano.
Il professore Reale riesce nelle poche pagine a fare un’ottima sintesi del libro. Il testo di Fighera analizza i fondamenti che hanno prodotto la crisi della modernità e gli sviluppi prodotti che si possono vedere nella nostra epoca: “la libertà sciolta dai valori e dalla verità, la parcellizzazione del sapere, il relativismo, l’ideologia scientistico-tecnicistica”. Fighera fa una rapida incursione nel territorio della letteratura, della filosofia, della cultura, e degli avvenimenti storici e attraverso poeti, letterati, filosofi ed eroi, condottieri che dimostra di conoscere molto bene.In questo “viaggio”, Figheracerca di provare una questione fondamentale: “senza il Mistero, il mondo è più piccolo e assurdo, soprattutto la parte più interessante del mondo, cioè l’io, la persona”.
La crisi attuale che sta attraversando l’uomo contemporaneo “è diversa dalle altre – scrive il professore Reale, citando un libro dal titolo significativo: “L’epoca delle passioni tristi” - a cui l’Occidente ha saputo adattarsi: si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà”. Pertanto, “dopo aver abbandonato la fede nell’Al di là, l’uomo ha perso o comunque sta perdendo anche la fiducia nel progresso nell’al di qua, e si trova, quindi, in una situazione drammatica, in quanto non sa più in che cosa credere”.Infatti possiamo costatare che “l’uomo è colpito da mali dell’anima e da depressioni spirituali, che nella storia non si erano mai verificati. E sono mali che la scienza e la tecnica son ben lontani dal poter curare”. Fighera mette in luce la “fuga dalla realtà” dell’uomo d’oggi, cercando di liberarsi dai suoi mali. Infatti questo mondo una volta che si è privato del senso del Mistero, di Dio, non sa affrontare la realtà quotidiana della vita e allora cerca di evadere in mondi illusori, fittizi, virtuali.
Il percorso preciso e documentato di Giovanni Fighera, parte dal “disagio dell’io”, la situazione di incertezza esistenziale che l’uomo vive all’alba del terzo millennio. “Spenti tutti i lanternoni del passato, l’epoca contemporanea assiste all’accensione di un nuovo lanternone culturale che nega l’esistenza di qualsiasi verità assoluta, privilegia una finta tolleranza in nome di un presunto multiculturalismo, si rivolge all’esperto in ogni campo, una volta che tutte le figure di riferimento del passato sono cadute(…)”. Inoltre, “spenta la lanterna della verità assoluta, l’uomo vive una stagione di apparente leggerezza che è come il sipario dietro cui si cela una ‘gaia disperazione’ di un uomo senza Dio. Traspare nell’uomo contemporaneo, un misto di leggerezza e debolezza, e così si ha la percezione di vivere la realtà come un carcere.
Fighera per descrivere questo mondo utilizza citazioni ed esempi tratti dalla storia dell’arte e del pensiero, soffermandosi in particolare su tre  artisti: Pirandello, Van Gogh, Munch, che per certi versi, “anticipano in diverse arti quella percezione di crisi dell’uomo che caratterizzerà gran parte dei decenni successivi. Un uomo che è inerte, angosciato o addirittura paralizzato”. Siamo introdotti al tema centrale del libro, secondo Lauretano: “il dramma della solitudine contemporanea. L’uomo ha sì desiderio di comunicare, ma avendo negato a se stesso ogni verità, che cosa c’è più da dire?”. Tanti artisti, poeti, documentano questa difficoltà o impossibilità di raggiungere la verità. Tuttavia, “se non c’è una verità o essa non è da noi conoscibile, non è possibile una reale comunicazione tra gli uomini”. Pertanto, “quando la verità è negata alle radici, ognuno continua a camminare nel proprio tunnel di vetro trasparente in cui potrà vedere gli altri, senza, però, entrare realmente in contatto con loro”.
Il testo di Fighera è suddiviso in quattro parti, nella prima, descrive il percorso dettagliato di come si sia formato un tipo antropologico come quello di oggi. Un uomo solo senz’anima, sempre più cattivo, vicino agli animali. Un uomo ridotto ad essere un mezzo della produzione e i suoi desideri ridotti al piacere. Questo appiattimento “sul possesso e sul piacere portano a un distacco dall’amore alla vita e a sé, fino al revival ‘neomalthusiano’ di pratiche contrarie alla vita, in nome, guarda caso, ancora della libertà e della salute. Menzogne come l’ideologia darwinista, spacciata dalla scuola in maniera indiscutibile quando è stata confutata persino dalla scienza, dimostrano come il vero scopo dell’imposizione di una certa mentalità – infiltratasi purtroppo persino nella maggioranza dei percorsi educativi – non sia affatto lo sviluppo dell’uomo e della cultura umanistica; persino l’ecologia è utilizzata per un secondo fine”.Di questi temi ne so qualcosa, essendo insegnante di scuola primaria, vedo tutti i giorni i manuali scolastici che presentano l’uomo come una scimmia un po’ più evoluta. Ho presente quei sussidiari con l’immagine della scimmia che a poco a poco “avanza verso la stazione eretta”. Naturalmente chi scrive questi manuali scolastici non sa, oppure se ne infischia di quello che hanno scritto autorevoli paleontologi o biologi come Stephen Jay Gould.
Per quanto riguarda il rispetto dell’ambiente e del risparmio energetico è giusto che i bambini, i ragazzini vengano educati a questi valori, purtroppo spesso secondo Fighera passa il messaggio catastrofista come il film “l’undicesima ora” che trasmette una visione del mondo malthusiana, ostile alla cultura cristiana e alla visione antropologica biblica. “La difesa dell’ambiente è solo un pretesto per sferrare un attacco alla tradizione occidentale e al progresso”.
Per il momento interrompo le riflessioni riprendendo affrontando la seconda parte del testo ben scritto dal professore Fighera.

giovedì 9 luglio 2015

Pino Sciacca, "Armir: sulle tracce di un esercito perduto" (Ed. Andrea Giannasi)

di Giovanni Lugaresi

“Cinquant’anni. Finalmente ritornano in patria i resti di tanti giovani soldati morti nella neve. Di novecentonovantadue (sono tanti) si conoscono nomi e cognomi. Possiamo immaginare l’emozione delle famiglie che non solo hanno ora delle certezze dopo un buio così lungo, ma anche una tomba su cui piangere. Non è facile trovare parole fuori della retorica, in certi momenti. Ci riesce don Enelio Franzoni che a nome di tutti i coraggiosi cappellani militari è voluto tornare in Russia per accompagnare gli ex commilitoni in quello che è davvero l’ultimo viaggio. ‘Ieri sera ho potuto parlare con loro, con tutti quei mille. Siamo stati a lungo insieme’, dice facendomi venire i brividi. ‘Noi parlavamo sempre. Per loro, noi cappellani eravamo amici, la famiglia, tutto. Abbiamo aspettato tanto tempo questo viaggio. Se non tornavano loro, non tornavo neanch’io. Li ho aspettati. Ecco, adesso posso dire di tornare a casa’…”.
E anche al lettore, immerso in pagine coinvolgenti, vengono i brividi a scorrere le ultime righe di questo “Armir – Sulle tracce di un esercito perduto” (Tra le righe Libri – Andrea Giannasi editore; pagine 255, Euro 16,00 – Prefazione di Demetrio Volcic) di Pino Scaccia, storico inviato speciale della Raitv, testimone di un’operazione straordinaria quale quella compiuta dal generale Benito Gavazza (1926-2010), già comandante delle Truppe Alpine, e già tanti altri comandi, ma soprattutto, nel caso specifico, commissario di Onorcaduti all’indomani dalla Caduta del Muro di Berlino, dell’implosione del comunismo nell’Urss, della glasnost di Gorbaciov. E l’immagine di don Enelio Franzoni, medaglia d’oro al valor militare, si staglia a tutto tondo nella sua grandezza di sacerdote e di uomo vicino ai suoi soldati sempre: al fronte e poi nella prigionia sovietica, come emerge anche dalle testimonianze di chi tornò, fra i quali il padovano Bassi…
Armir (Armata italiana in Russia) ed è detto tutto: la follia di un cinico dittatore, il sacrificio spesso eroico di giovani che seppero compiere il loro dovere, restando feriti, congelati, che caddero nei combattimenti di quella campagna di guerra, o nella ritirata, o ancora lungo le strade del “davaj”, cioè verso i gulag del dolore e dell’abbruttimento.
L’Armata, l’8. del Regio Esercito, contava 220mila uomini; 74.800 furono i Caduti, sepolti in cimiteri allestiti dai cappellani militari, o in fosse comuni fatte alla bell’e meglio dai russi.
Il dramma delle famiglie in attesa, l’impegno del generale Gavazza e dei suoi, la collaborazione delle autorità e della stessa popolazione rivivono in questo libro di Pino Scaccia, che seguendo Onorcaduti con telecamere, penna e taccuino, ci fa partecipi di un’avventura di pietas, di solidarietà, di pace.
La prima fase del recupero riguardò un migliaio di salme; si calcola poi che sino ad oggi siano state quattromila. Perché, se nel frattempo il generale Gavazza aveva cessato dall’incarico, per poi “andare avanti”, come si usa dire nel parlare degli Alpini per chi muore, l’opera di Onorcaduti era proseguita…
Nel libro di Pino Scaccia entra infine di sfuggita, per così dire, ma il lettore attento non mancherà di rilevarlo, l’impresa delle Penne Nere in congedo: la progettazione e costruzione di un asilo nido-scuola materna per 150 bambini in quel di Rossosch, dove, durante la campagna di Russia aveva sede il comando del Corpo d’Armata Alpino. Una struttura voluta e realizzata dai volontari dell’Ana per onorare, mezzo secolo dopo la battaglia di Nikolajewka, coloro che non erano tornati a baita, e donata alla popolazione di quella città come segno di pace e di amicizia. Come non manca, fra gli incontri dell’inviato speciale della Raitv, quello con lo studioso di Rossosch Alim Morozov, promotore, realizzatore di un museo storico sulla guerra, e che, ragazzino, visse l’esperienza della occupazione italiana, ricavandone, peraltro, una impressione positiva.
Un libro, insomma, quello di Pino Scaccia, nel quale si trovano voci molto eloquenti, al di là del diretto interesse specifico di chi quell’avventura visse (ormai sono pochissimi) e/o dei familiari di chi più non ritornò, coltivando peraltro la speranza di un segno, di un avviso, di una notizia dei sui e dei loro cari.
Il libro ha il ritmo di un reportage televisivo, inteso ovviamente nel migliore dei modi, e perciò lo si legge d’un fiato.

da: Riscossa Cristina

Arai Daniele, "Nella profezia di Fatima il mistero dell'altra Roma" (ed. Radio Spada)

"L’anima cattolica rivolta a Fatima per capire l’ora che viviamo può solo farlo seguendo quel naturale senso di stupore che, come inse-gnava Aristotele, è la vera guida alla saggezza. Capirà allora che Fatima è un altro gran segno della soavità divina, dato per lenire le profonde contraddizioni umane che viviamo. È segno soprannaturale nella sa-piente sequenza di altri che, in ogni tempo e luogo, furono offerti a noi per guidarci attraverso i labirinti della vita.
La Sacra Scrittura è storia di questi segni dati a tutti, agli Ebrei come ai Niniviti, ai re come agli schiavi, in una sequenza secolare, di colle in colle e da profeta a profeta, che guidavano all’avvento del Segno supremo: il Verbo Incarnato. E il segno di Betlemme fu visto da re saggi di paesi lontani come dai pecorai dei dintorni." 
INFORMAZIONI SULL'AUTORE: La singolarità dell'autore di questo lavoro, Arai Daniele, è di non essere né uno scrittore di mestiere, né uno studioso accademico, ma un comandante d'aviazione civile. Nato a San Paolo il 13 maggio 1934, ha studiato nel Collegio San Luigi dei Gesuiti. Tra gli studi all’Università di Fisica e l'aviazione ha seguito questa carriera per ragioni contingenti, che lo ha condotto da giovane dal Brasile ai cieli di tutto il mondo. Ma il pilota, nello scontro con la dura realtà della vita e della morte, come padre di famiglia, si sentì richiamato alla Chiesa della sua giovinezza. Lì, tuttavia, ha trovato un porto desolato da devastazioni descritte dai profeti. Nella difficoltà di trovare un ritorno sicuro, prese la direzione luminosa di Fatima. Questo è il percorso che segue da allora, scrutando il suo profetico messaggio di pace e di salvezza, tralasciato per oscuri disegni. Lo segue, moltiplicando scritti, conferenze in vari paesi e lingue. Ha collaborato col la rivista «Permanência» di Gustavo Corção a Rio, col «sì sì no no» di Don Putti e «Chiesa Viva» de Don Villa, e «Roma» di Buenos Aires. Ma considera la sua missione principale quella di aver collaborato strettamente con i Vescovi Antônio de Castro Mayer e Marcel Lefebvre.
Oltre ai molti scritti di natura religiosa e storica, il Daniele ha pubblicato in portoghese il libro «Entre Fátima e o Abismo», (Ed. Excelsior, 1988, SP), presentato da Sua Ecc. Mons. Castro Mayer, con un’importante dichiarazione sulla naura di Fatima. Inoltre, ha pubblicato in italiano «L'Eclisse del pensiero Cattolico», Ed. Europa, Roma, 1996 e in francese «L'Esprit désolant de Vaticano II», presentato da Malachi Martin, Ed. Delacroix, Dinard, 1997. Altri lavori, tradotti anche in inglese, attendono pubblicazione. L’Autore vive ad Aljustrel, Fatima.

Nel buio aspettando l’alba, speranza che non muore schegge dal mosaicosmo di Tommaso Romano

di Gianfranco Romagnoli

Questo agile volumetto, che esce per le edizioni Limina Mentis nella collana Fede e Ragione in concomitanza con il sessantesimo compleanno di Tommaso  Romano, si propone di illustrare la figura e il pensiero di questo importante Autore, ben noto non soltanto nei circoli intellettuali di Palermo, ma altresì a livello nazionale ed internazionale.
Nel suo Proemio la curatrice, sua collega ed amica, non si nasconde la difficoltà di fornire un compiuto ritratto di una personalità tanto complessa ed in continua evoluzione: tuttavia, attraverso una “carrellata” sulla sua vita, le sue tantissime opere ed i suoi vasti e molteplici interessi, riesce a dare un’idea abbastanza precisa di uno studioso che è, al tempo stesso, filosofo, poeta, narratore, editore, ricco di incontri e relazioni di amicizia con i più importanti personaggi della cultura mondiale contemporanea e che presenta tanti altri aspetti, che sarebbe arduo e riduttivo tentare di definire.
Ne emerge il ritratto di un intellettuale a tutto tondo, una figura che definirei “uomo del Rinascimento” per la molteplicità degli interessi e dei suoi campi d’azione; ma soprattutto, come pure la stessa Allotta sottolinea, la figura di un Maestro, non soltanto per avere svolto, con continuità a tutt’oggi ininterrotta, un’alta opera educativa e formativa della gioventù, ma  anche (e specialmente, a mio avviso) per avere raccolto intorno a sé e alle sue iniziative, come in una scuola filosofica, tanti ingegni che si riconoscono nelle linee portanti del suo pensiero, volto a coltivare con assoluta coerenza, mantenuta anche negli incarichi politici ricoperti in passato, la ricerca del Vero, del Bello e del Bene quali frutti dello Spirito e  personale contributo a quel “mosaicosmo” da lui teorizzato, al cui disegno complessivo concorrono con uguale necessità, ciascuno mediante la propria “tessera” , tutti gli esseri umani.
A questo punto, la parola passa direttamente a Tommaso Romano attraverso gli scritti, racchiusi nel simbolico numero di sette capitoli, che dalla sua vastissima opera la curatrice  ha enucleato come rappresentativi del suo pensiero: “schegge” che trattano, rispettivamente, l’essenzialità della parola viva; la teoretica come altezza cosmica; la gnoseologia come integrità dell’esserci; l’etica in tempo di crisi; la pedagogia come formazione dell’uomo integrale; l’estetica come etica; per culminare nel finale capitolo “dalla morte di Dio al Dio vivo”.
Un adeguato commento a ciascuno di queste “schegge” richiederebbe molto tempo e spazio: mi limiterò pertanto, pur avvertendo in pieno la riduttività della mia scelta, a richiamare alcuni punti, “schegge di schegge”, che mi hanno particolarmente colpito.
In una prima parte (capitoli da 1 a 3),  svolta su un piano squisitamente teoretico, la Parola è definita epifania del Sacro, mezzo di redenzione, speranza, profezia: in particolare, la parola poetica è versus, ritorno al Divino, sortilegio e mito, base di tutte le arti e, attraverso esse, veicolo di accesso alla verità. Poi, la frase «L’Origine crea l’Inizio, successivamente, l’Inizio crea gli enti, gli enti divengono. Dal caos al Kosmos», riecheggiante temi neoplatonici pur nella originalità della successiva elaborazione, attenta al rapporto con l’Altrove e l’Attimo e sfociante nella costruzione del concetto di Mosaicosmo, formato da tante tessere e sintesi simbolica delle vite degli uomini, che «si perpetuerà come rinnovamento dell’umano e come perennità dell’anima».
La gnoseologia, infine, intesa come costruzione filosofica chimerica sì, ma necessaria, anzi indispensabile, legata alla percezione e che disquisisce sull’Eterno, ma da non assolutizzare in sistemi che esaltino il passato o lo condannino decontestualizzandolo.
In una seconda parte (capitoli 4 e 5) il filosofo scende sul piano dell’agire umano, denunciando la crisi di valori dei nostri tempi che ha generato il corrente pensiero unico, mascherato di falso buonismo, di «umanitarismo senza humanitas» e di ipocrita egualitarismo, sottolineando, contro il pericolo di omologazione e marginalizzazione,  la necessità di assumere un atteggiamento attivo verso se stessi quale «condizione di dignitosa sopravvivenza, uno spazio di ammutinamento dove far convergere le poche individualità disponibili per non lasciarsi stritolare da un dominante pensiero planetario dell’indistinto, del conformismo, del banale misto a volgarità»: ciò si realizza  nutrendosi di «conoscenza fisica e oltrefisica», aiutandosi con letteratura, filosofia, fede, logica, recuperando l’autentica Tradizione e riscoprendo il senso del Sacro. Una tale impostazione trova il suo naturale sviluppo nelle considerazioni che il nostro Autore svolge sulla pedagogia, tutte puntate sulla missione del Maestro di formare nel giovane l’uomo integrale, educandolo alla  libertà, alla scoperta dello “stile” e del “gusto”; riflessioni che si confrontano, in senso fortemente critico, con l’attuale stato di totale crisi della scuola, indotta, dal cedimento al progressismo degli slogan, a scelte spesso orientate a un «discutibilissimo “specialismo” che elimina l’orizzonte della totalità»,.facendone non più un luogo di cultura, ma «una burocrazia di funzioni affidate senza selezione, a singoli organismi pletorici e inconsistenti, dagli effetti spesso perniciosi, che producono intralcio e perdita di tempo, sottratto allo studio e all’apprendimento».
Con il sesto capitolo, dedicato all’estetica come etica, il Nostro torna alla riflessione teoretica e nel richiamare l’endiadi platonica Bellazza-Virtù, pur affermando l’impossibilità di enunciare un sistema estetico e, quindi etico, asserisce che «al di là di ogni declino epocale si può, solo se si vuole, accarezzare il Bene e la Bellezza anche aspirando alla Grazia, all’intervento della Provvidenza e alla Redenzione». Il bene è la partecipazione al Sacro e il suo rifiuto ne è l’antitesi. Va respinto il delirio di onnipotenza: l’uomo non è Dio, ma pellegrino errante; va valorizzata l’amicizia come affinità, che è Armonia. Occorre tenere conto del pluralismo dei valori nel mondo, ma mai rinnegare la propria coerente visione.
La riflessione teoretica di Tommaso Romano culmina ad altezza divina nell’ultimo capitolo in cui egli, premesso che «Dio c’è senza bisogno delle nostre credenze», individua nell’uomo la scintilla dell’Eterno e vi rintraccia il Ritorno al punto di Partenza. Il Figlio di Dio fatto uomo e da noi crocifisso, è il portatore della vera  Pace, che non è «il risultato di iniziative o trattative umane, ma piuttosto … fiducia e fede nella Tradizione … messaggio non da proclamare come ideale ma … realtà giù donata da Lui e in Lui». Contro le distorsioni nel proporre la figura di Cristo come pacifista e il Suo insegnamento  secondo una «ciarliera, incoerente e sincretistica nuova teologia», è «la nostra quotidianità che deve riscattare la morte di Dio, ovvero riscattare dal pensiero negativo, dal nichilismo, quella Luce che sola può illuminare  l’umano transito verso la Patria Celeste».Vivere Cristo impegna totalmente l’uomo, liberandolo: il Regno è la salvezza dell’uomo


lunedì 6 luglio 2015

La Sicilia dopo l'Unita d'Italia: progresso o regresso? (ed. Thule-Spiritualità & Letteratura)

Il numero 85 (anno XXIX) si Spiritualità & Letteratura dal titolo "La Sicilia dopo l'Unita d'Italia: progresso o regresso?", a cura di Rita Elia, riunisce organicamente accompagnato da fotografie di Manuel Piscitello e Calogero Giarrizzo gli Atti del Ciclo di seminari dell'Associazione Termini d'Arte, svoltisi alla Biblioteca Liciniana di Termini Imerese dall'Ottobre al Dicembre 2014. il volume si apre con una poesia di Rita Elia " La me terra" e una premessa del Sindaco di Termini Imerese Salvatore Burrafato. Questo l'indice degli articoli pubblicati: Giuseppe Bagnasco "La rivolta del Sette e mezzo"; "Il delitto Paternò (amore, gelosia e morte nella Palermo del primo Novecento)"; Massimo Costa "Questione agraria, econòmica, sociali nna la Sicilia post-unitaria"; Tommaso Romano "La Sicilia nella Belle Èpoque"; Giuseppe Oddo "I Fasci dei Lavoratori e l'irruzione delle donne rurali nella storia"; Sara Favarò "Conoscere la Sicilia"; Lucio Zinna "L'unità d'Italia attraverso i letterati"; Ciro Spataro "Il sogno dell'emigrazione".

La seduzione della trascendenza nella poesia di Maria Patrizia Allotta

di Antonio Martorana

Nella sua formulazione binomia (anima-alba), dalla forte pregnanza allusiva, il titolo della bella silloge Anima all’alba di Maria Patrizia Allotta (Palermo, Thule, 2012) ci predispone ad una “poetica trascendentale”, vista la centralità del rapporto tra un “io” sollecitato dalla pressante aspirazione all’Assoluto ed il senso metafisico del mondo.
   Toccare il tasto del ruolo tematizzante del titolo, e quindi immergersi nel magico cromatismo del risveglio aurorale della foto di copertina, significa trovarsi già sulla soglia di un microcosmo da esplorare.
   Vogliamo precisare che usiamo il termine soglianell’accezione proposta da Gérard Genette, per indicare l’ “insieme eteroclito”di produzioni, verbali e non verbali (titolo, copertina, dedica, epigrafe, prefazione, postfazione, fotografie, illustrazioni varie, scelte tipografiche e lo stesso nome della casa editrice) che danno al libro consistenza materica come presenza nel mondo e come prodotto di consumo.
   L’elenco di cui sopra, circoscrive così l’area della paratestualità, inerente la relazione tra il testo e i “segnali accessori, autografi o allografi,  che producono al testo un contorno (variabile) e a volte un commento ufficiale o ufficioso (…) e che è indubbiamente uno dei luoghi privilegiati della dimensione pragmatica dell’opera, vale a dire della sua azione sul lettore” (G. Genette, Palimpsestes, Senil, Paris, 1982, p. 9). 
   Nella postfazione al libro di Genette Soglie. I dintorni del testo (Einaudi, Torino 1987), da lei tradotto in italiano, Camilla Maria Cederna definisce la paratestualità come “frangia del testo che esiste solo in virtù di una decisione metodologica; area di transizione o meglio di transazione tra il dentro e il fuori, soglia o, per citare ancora un’altra metafora, chiusa tra la realtà socio-storica del lettore e quella relativamente immutabile e ideale del testo” (Soglie, cit. p. 407).
  Il paratesto è, per la Cederna, “il luogo privilegiato dell’istanza autoriale”, poiché è proprio in esso che l’autore, a livello diretto o indiretto, “manifesta la propria autorità nei confronti del testo e della sua interpretazione”.
   Ciò premesso, non abbiamo esitazione nell’affermare che esperire un approccio metodologico di tipo genettiano al libro di Maria Patrizia Allotta vuol dire focalizzare tutto lo spettro della significatività dei vari elementi paratestuali a disposizione, a cominciare dalla stessa veste tipografica, che chiama in causa le responsabilità ideative e realizzative della casa editoriale.
   Nel caso specifico, l’eleganza dell’ “abito” indossato dal testo e confezionato da Thule per la collana “Il quaderno di Munari”, inaugurata dalla silloge Dittici e altro di Nino Aquila, è pur esso espressione di un “commento autoriale”, facendo presupporre una legittimazione dell’Autrice nell’intento pragmatico e strategico “di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più pertinente” (Soglia, cit. p. 4).
  Ritornando adesso alla foto di copertina, appalesante una innegabile correlazione tra il suo linguaggio iconico e gli enunciati verbali del testo, riconosciamo che la sua “quiddità” ha valenza di commento e implica la “responsabilità dell’autore” (Soglie, cit. p. 4009).
   Ancor più tale responsabilità aumenta se si tiene conto, nel caso specifico, che tutte le foto del testo, compresa la copertina, sono state scattate dalla stessa Allotta, come omaggio al padre, apprezzato maestro-fotografo.
   Sono scorci paesaggistici di rara suggestione. Qui è come se la parola, nella sua possibilità di dissolvimento, spegnesse il proprio suono, per palpitare attonita nell’incantato silenzio del creato, teatro di un ritrovato equilibrio nel rapporto uomo-natura.
   Passando alla Prefazione, altro elemento paratestuale che Borges considera il “vestibolo” dell’opera, vediamo come Nino Aquila colga una nota fondamentale del testo: la sua “spiritualità intensa”.
   Ma è grazie al denso intervento postfativo di Tommaso Romano che il lettore può penetrare nel “sentire profondo” della silloge. Egli ravvisa nell’orfismo di Maria Patrizia Allotta una weltanschauung, ma tale motivo meriterebbe un approfondimento in altra sede, poiché si entra nel terreno di quella “trascendenza testuale”, relativa al gioco delle relazioni di un testo con altri testi, che Genette definisce trantestualità(Soglia, cit. p. 412).
   Romano sottolinea la presenza in quei versi di una componente onirica caratterizzata da una “consustanzialità” alla vita, definendo il sogno come “il terzo occhio del cuore che false prospettive e illusioni allontana in nome di una inesausta ricerca di armonia e bellezza”.
   Arde in quella poesia un “fuoco di sacralità … come tributo all’Infinito”.
   E è il termine “fuoco” del citato passo romaniano a farci balenare nella mente l’espressione “cuore di fuoco, spirito di luce”, usata da Giovanni Papini a proposito di quell’ “operoso guerriero di Cristo” che fu Pietro Mignosi. Per questo “ingegno in moto perpetuo, il cervello più vivo che fosse in Sicilia fra il ‘15 e ‘37”, come a sua volta lo definisce Guglielmo lo Curzio (Scrittori siciliani, Novecento, Palermo, 1989, p. 148), la poesia è “quella essenzialità espressiva che dice il dicibile senza girarvi attorno e senza gonfiar la voce”.
   Alla luce di una cristallina affinità elettiva, sotto il profilo della consapevolezza della missione affidata al poeta e della scelta di una cifra stilistica dalla spoglia essenzialità, riteniamo che la frase papiniana “cuore di fuoco, spirito di luce” ben si adatti anche all’ardore del temperamento creativo della poetessa palermitana.
   La silloge Anima all’alba vede la luce in un momento storico segnato dalla pervasività della comunicazione tecnologica, che minaccia di inaridire la trasmissione della parola, sempre più incapace di creare dialogo, sempre più affossata nelle sabbie mobili di una virtualità anonima.
Tale deriva è il risultato di una gigantesca operazione di espropriazione dell’autonomia, portata avanti dall’industria culturale della società capitalistica, rea, per Adorno e Horkheimer, di avere “perfidamente realizzato l’uomo come essere generico”, a tal punto che l’individuo “è assolutamente sostituibile, il puro nulla” (T. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1976, p. 161).
A fronte di tale scenario desolante si comprende il senso della sfida lanciata da una poesia rivelatrice di una trascendenza tenuta occultata dalla realtà fenomenica, e testimonianza di quelle “indelebili verità” che “sulla terra accadono senza luogo / senza perché”, di cui parla Mario Luzi in L’immensità dell’attimo (vv. 10-11). 
   Ponendosi in questa linea di tendenza, Maria Patrizia Allotta continua la tradizione orfica della nostra lirica, orientandola verso una prospettiva teologica dalla contingenza all’ “essere”.
   La sua silloge è un racconto autobiografico di un’anima che, ribaltando una gnome esistenzialistica sull’essenza spirituale dell’Universo, si attesta su posizioni di difesa del patrimonio valoriale attinto alla tradizione.
   La nota commotiva del risalire a questa come viatico del nostro cammino può cogliersi ne L’immensità di esistere:
Ai confini tra cielo e terra
scorge luminoso sole,
bagliore azzurrato marino,
in alto nuvole profughe.
Adesso vento stillato
non elimina e porta via
meglio,
inspiegabilmente
conduce
elementi essenziali del vivere.

Aria profumata ora
etere
spazio illimitato.

Respiro profondissimo
ricolma il reale del tempo andato
ma nella Tradizione si intravede il futuro

alito sconfinato
riporta destino dettato dal Cosmo
in esclusiva bellezza del vero

sospiro intimo
riconduce all’unicità
non del nascere
ma dell’essere.

Immensità d’esistere.

   Il bisogno dello spirito di trovare un definitivo approdo salvifico nello “splendore/del Verbo del Signore” permea la poesia Salmo 130:
Come in antico salmo
di pellegrino errante
 anche il nostro odierno canto
supplica l’Eterno

 s’innalza dai luoghi più profondi
la voce disperata
che prega ascolto
per esser consolata

si sente nel buio un grido di dolore
che implora 
al gran Mistero soltanto Amore

s’invoca, con mestizia,
l’atteso perdono
per far dell’unica esistenza
un grande dono


e si chiede con ardore
giustizia, benevolenza,onore

poi, lentamente
sopita ogni rabbia e
accettato ogni destino
lo spirito si placa
  certo dell’aiuto del Divino

e come guardia d’Israele aspetta
 il chiarore mattutino
così ciascun anima vagante
attende lo splendore
del Verbo del Signore.

La pregnanza simbolica del materiale lessicale utilizzato tesa a recuperare una parola assoluta e originaria, scaturisce da un’esistenza profonda di rifondazione verbale del mondo su base platonico-cristiana.
   La “ricerca veritativa” della poetessa palermitana, come la definisce Tommaso Romano, culmina alla fine nel momento epifanico dell’incontro con il Maestro:

Prima

nel tempo mattutino
il reale unito al contingente
dona quell’incessante sbandamento
che sradica e logora
mortifica
e a volte svilisce

poi
in abbandono

nel buio dell’universo notturno 
 rivive la magia dell’Oltre
scende l’impalpabile serenità dell’Infinito
si coglie la Bellezza cosmica
la santità del Sacro,
l’irraggiungibile Verità
nella ricerca incessante di quel
“senso del senso che è già Senso”.

E nelle preghiere confidenze
poi per esserci si ringrazia sempre.

 Suggerisce così il Maestro e
  l’nima all’alba
rinasce.
  
    I lessemi ricorrenti (Infinito, Bellezza, Sacro, Oltre, Verità, Amore, Divino) sono lame di luce che fendono l’opacità di questo nostro mondo, dove l’uomo, per usare le parole di Georg Simmel, viene “ridotto a una quantità negligeable, ad un granellodisabbia di fronte ad un’organizzazione immensa di cose e di forze che gli sottraggono tutti i progressi, le spiritualità e i valori, traferiti via via dalla loro forma soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva” (G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando, 1987, pp. 43-44).
  Il messaggio di riscatto lanciato da Maria Patrizia Allotta intende offrire risposte definitive a una conduzione esistenziale affacciata sull’inquietante mistero della propria destinazione.
   “Tu non tocchi un libro, tocchi un uomo”: con tale precetto il critico statunitense Francis Otto Matthiessen, la cui fama resta legata all’opera American Renaissance(1941), intendeva responsabilizzare il lettore.
   Quel precetto vale anche nel nostro caso.
“Toccare” il libro Anima all’alba significa cogliere la sintesi dell’individualità dell’Autrice e della complessa cultura millenaria che ha dato forma ai suoi pensieri ed alla sua lingua, e le cui invisibili mani hanno concorso alla stesura del testo.
Mi piace adesso esplicitare la ragione per la quale parlo di “seduzione della trascendenza” nel titolo della presente nota.
   Affiora dai versi della silloge la deducibilità di un’idea di trascendenza come suprema espressione di una bellezza che rapisce, e quindi seduce, nell’estasi contemplativa.
   Coniugando “Estasi con bellezza”, come suona il primo verso di Estasi, l’Autrice proietta tale vertiginosa intenzione nella prospettiva di “quel mistero / voluto forse / da celeste Destino”.
Ravviso in tale enunciato, che sottende un concetto trascendentale di Bellezza, l’inveramento, sul piano della creazione poetica, di un tema-cardine dell’estetica teologica di Hans Urs von Balthasar.
   Nella visione di questo grande pensatore svizzero, definito da Pare de Lubac “l’uomo più colto del nostro tempo”, solo l’espressione estetica può rendere accessibile la rivelazione, mentre destinato a fallire sarebbe qualsiasi tentativo di approccio, basato sulle solite categorie conoscitive.
A pretesa di spiegare quell’evento attraverso una qualche elaborazione speculativa “significherebbe riportare la sfera dell’infondatezza translogica del dono personale d’amore (quindi la sfera dello Spirito Santo) alla sfera del logos, inteso come esclusivo intelletto cosmologico-antropologico”.
   E’ “nella figura luminosa del bello” che “l’essere dell’ente diviene visibile come in nessun’altra parte; e per questo un elemento estetico deve essere presente in ogni conoscenza e tendenza spirituale”. E’ quanto può essere verificato nello splendor che, anche per San Tommaso, accompagna il verum.
   La bellezza intesa come manifestazione della verità che Dio partecipa agli uomini “è l’ultima avventura in cui la ragione ragionante può arrischiarsi, ché la bellezza non fa che circondare con un impalpabile splendore il duplice volto della verità e della bontà e la loro indissolubile reciprocità”.
   Queste cose ci dice Hans Urs von Balthasar nella sua poderosa opera Herrlichket. EinetheologischeAesthetik (Gloria. Una estetica teologica, 7 voll., Milano, 1971 e segg.), che, mirando alla fondazione metafisica del discorso teologico, si pone nella …..  delle estetiche teologiche elaborate da Ireneo, Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura, Dante, Pascal, Giovanni della Croce, Hamann, Soloviev, Hopkins,Péguy.
   Trovo davvero sorprendente la consonanza con i temi portanti della riflessione balthasariana delle intuizioni metafisiche connotanti una poetica che, per Carmelo Fucarino, ruota attorno a una “antitesi esistenziale, in biancore dell’alba, raramente aurora, e l’incombente tenebra notturna che pure si attende con ansia come porto di riposo e di pace”. (Per la poesia di Maria Patrizia Allotta. L’anima di inesauribile, in “Sicilia Umanistica”, anno XXXIII, 2013, p. 6).
   Anche Maria Patrizia Allotta ha voluto, dunque, raccontarsi, come tutte le donne che, raccontandosi, sembrano confermare la “profezia” di  Geltrude Stein: “ci sarà un giorno in cui verrà raccontata la storia di milioni e milioni di donne …. di come sono in sé, nella loro vita” (C’era una volta gli Americani, Torino, Einaudi, 1979, p. 195).