domenica 31 luglio 2016

Paolo Mieli, "I conti con la storia" (Ed. Rizzoli)

di Domenico Bonvegna

Nell'introduzione al libro “I conti con la storia”, Paolo Mieli, tra i tanti episodi riporta la decisione dell'intellettuale ebreo Alain Finkielkraut di schierarsi a favore della beatificazione del cardinale Alojzije Viktor Stepinac, primate di Croazia. La decisione di san Giovanni Paolo II di beatificare Stepinac fu molto criticata, il progressistume diceva perchè innalzare agli onori dell'altare una persona accusata di aver sostenuto durante la Seconda guerra mondiale il regime Ustascia a cui si imputava di essere responsabile di crimini e persecuzioni contro ebrei, serbi e zingari. Poi si scopre studiando i documenti che è tutto falso, monsignor Stepinac si è sempre battuto per la Chiesa e ha preso le distanze sia dal regime fascista che da quello comunista.
Ma le critiche per Stepinac sono molto simili a quelle per la beatificazione e canonizzazione di oltre millecinquecento tra preti suore e religiose vittime della sanguinosa persecuzione che ha subito la Chiesa spagnola durante la guerra civile (1936-39) ad opera delle avanguardie anarco-comuniste. Anzi la Chiesa ha dovuto aspettare troppi anni per beatificare e canonizzare questi uomini e donne, perchè risultavano scomodi a certi poteri e ideologie e forse anche a certi uomini di Chiesa.
Lo schiavitù in Africa non è stata inventata dai bianchi europei.
Tra i temi che il giornalista tratta nella prima parte del libro, c'è la questione dello schiavismo africano. Anche per questo tema Mieli sfata alcuni miti che ancora perdurano su troppi testi. Come al solito Mieli cita diversi lavori, molto importanti e documentati, tra questi da evidenziare quelli di uno studioso americano, John Thornton, L'Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico 1400-1800 e La tratta degli schiavi del francese Oliver Petrè-Grenouilleau, quest'ultimo ha passato un guaio, siccome la Francia ha definito lo schiavismo crimine contro l'umanità e impone di ricordarlo e condannarlo in ogni libro di storia identificandone in modo esplicito i responsabili occidentali. Grenouilleau nel suo libro ha messo in luce che le responsabilità nella tratta degli schiavi è stata dei mercanti islamici (soprattutto da Zanzibar) e di alcune potenze dell'Africa subsahariana che guadagnavano da quella compravendita assai più degli europei. Per fortuna che a favore dello scrittore francese si è mosso un comitato di ben seicento tra storici e studiosi che hanno sottoscritto un documento in cui si affermava che il compito di chi si occupa del passato “non è quello di esprimere giudizi morali sugli avvenimenti di cui si occupa, ma soltanto di esaminare con scrupolo i documenti nonché di interpretarli e metterli in ordine secondo criteri il più possibile oggettivi”.
Intanto il libro di Thornton rivoluziona sostanzialmente la storia sullo schiavismo africano. “L'intero commercio africano con l'Atlantico, inclusa la tratta degli schiavi, fu 'volontario'. Che ben prima del XV secolo la schiavitù era una pratica assai diffusa nelle società africane, che il loro sistema dava molta importanza ai rapporti giuridici di schiavitù per fini politici[...]”. Gli “africanisti”, non hanno studiato bene il passato degli schiavi in Africa, per Thornton, è necessaria “una revisione sostanziale nella storiografia esistente”, anche se essa 'abbatterà alcuni pilastri della tradizionale visione di un'Africa vittima degli europei”.
Pertanto si può sostenere che la schiavitù in Africa era presente ancora prima dell'arrivo degli europei. Robert Hughes in La cultura del piagnisteo, scrive che “la più grande rivolta di schiavi si ebbe a metà del IX secolo”. Erano neri Zang che si rivoltarono contro i califfi abbasidi musulmani dell'Iraq.
Comunque sia per Hughes,“la rivolta degli Zang di undici secoli fa dovrebbe rammentarci la totale falsità delle argomentazioni ora di moda, con le quali si cerca di far credere che la schiavitù sia stata inventata dai bianchi europei; è vero invece che la schiavitù era inscritta nelle fondamenta del mondo classico: l'Atene di Pericle era uno stato schiavista e così pure la Roma di Augusto”.
Per Hughes i mercanti di schiavi che rifornivano gli emirati arabi hanno operato fino al 1960. E non si comprende perchè ancora oggi l'Africa chieda riparazioni per la tratta degli schiavi agli Stati Uniti e all'Europa e non all'Iraq o agli Emirati Arabi. Un'altra precisazione di Mieli può suscitare discussione: “è falso che il fenomeno dello schiavismo fosse riconducibile al mondo cattolico”. E avvalendosi degli studi del grande sociologo delle religioni Rodney Stark, fa dire che“Ad avere la legge schiavista più umana era la Spagna, seguita dalla Francia, propria a causa dell'influenza esercitata dalla Chiesa cattolica[...]”.
Passando ad altro argomento, Mieli affronta il rapporto del filosofo Giovanni Gentile con la questione ebraica e con Benito Mussolini. Emerge che Gentile non era per niente razzista, anzi proponeva in nome della tradizione dell'antica Roma,“un processo di unificazioni di stirpi e religioni”.
La sanguinosa guerra civile spagnola.
In chiusura della prima parte Mieli propone il capitolo sulla guerra civile, facendo riferimento all'opera di Gabriele Ranzato. Le riflessioni dell'ex direttore del Corriere sulla complessità della guerra civile sembrano abbastanza super partes. A questo proposito, Mieli cita Ranzato, quando apre il suo saggio con alcune significative parole di Indalecio Prieto, il leader socialista che fu ministro della Difesa della Spagna repubblicana nel corso della guerra civile: “Certo, tutti vorremmo essere liberi da colpe; ma l'autoassoluzione non può lasciarci tranquilli[...]. Solo degli imbecilli che si credano onniscienti possono proclamarsi mondi da ogni errore o colpa, limitandosi di accusare i nemici della parte opposta o gli amici che sono stati al loro fianco”. Naturalmente la sintesi di Mieli sulla guerra spagnola di 80 anni fa, non è facile, gli avvenimenti sono abbastanza complessi. Non condivido il passaggio quando Ranzato fa riferimento alla Chiesa spagnola, che passa come una istituzione “insensibile alle aspirazioni di emancipazione delle classi subalterne”. Anche se poi ammette che “la Chiesa ha subito una vera e propria persecuzione religiosa”. Infatti il 17 marzo Manuel Azana, presidente della Repubblica, così scriveva al cognato: “Ho perso il conto delle località in cui hanno bruciato chiese e conventi”. Ma per una documentata opera sul martirio della Chiesa spagnola bisogna leggere il saggio di Arturo Mario Iannaccone, Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna, fra seconda repubblica e guerra civile 1931-1939”, Lindau (2015).
Spartacus non fu lotta di classe.
Per quanto riguarda la seconda parte mi sembra interessante il capitolo su Spartaco (Quella di Spartaco non fu lotta di classe). I primi a parlare di lotta di classe furono Marx ed Engels, in seguito ripresa da Lenin. Poi c'è uno studio di Elena Mikhailovna Staerman e Mariana Kazimirovna, La schiavitù nell'Italia imperiale, che ha influenzato diversi altri studi e perfino la cinematografia, nonché Spartacus, il famosissimo film di Stanley Kubrick, che penso di aver visto nella sala cinematografica del mio paese nativo quando frequentavo le elementari.
Tuttavia è il volume di Aldo Schiavone, Spartaco. Le armi e l'uomo, che ha smontato gran parte dei capisaldi della lettura marxista in merito a quella lontana rivolta degli schiavi. Una rivolta che fece tremare Roma tra il 73 e 71 a.C. Spartaco, originario della Tracia, una regione dell'attuale Bulgaria, nel momento della rivolta aveva trent'anni. Secondo Schiavone, Spartaco non aveva nessuna “coscienza di classe”, del resto nella storia di Roma non è mai esistita.“Tantomeno gli schiavi ne hanno mai avuta una, per la semplice ragione che nella storia sociale antica non si può mai rintracciare la presenza di autentiche 'classi', nel senso moderno[...]”. Addirittura per Schiavone, “la dilatazione arbitraria del paradigma delle classi 'è stata ed è tuttora una delle forme peggiori di inquinamento della conoscenza del passato”.
Pertanto, “niente dei comportamenti di Spartaco ci autorizza a supporre che egli abbia agito deliberatamente nel nome di tutti gli schiavi di Roma o lottato per un loro generale riscatto. Di certo non voleva abolire la schiavitù. I prigionieri romani furono trattati da lui come schiavi e da schiavi vennero fatti combattere e morire”.
Nella cultura del Mediterraneo antico, l'idea di una società senza lavoro servile non esisteva.
Un capitolo è dedicato a Carlo Magno, per Mieli è una figura abbastanza strumentalizzata lungo il corso dei secoli.“Ognuno ha il suo Carlo Magno”, durante il medioevo, da eroe a santo, da crociato, a modello del cavaliere cristiano. Patrono degli intellettuali, e precursore del rinascimento, a vero riformatore, fino ai nostri giorni come fondatore dell'unione europea.
Nel capitolo, “Le mani sporche del cardinal Mazarino”, sembra che Mieli giustifichi la corruzione e il malaffare in politica. Qui ripercorre la storia del genere della depravazione connessa al potere, arrivando a sostenere tesi politicamente scorrette. Mieli, cita un bel libro, di Carlo Alberto Brioschi, Il malaffare. Breve storia della corruzione. Addirittura in altro testo, quello di Bernard de Mandeville, si afferma che “una società onesta è una società stagnante, mentre la corruzione genera una circolazione incessante di beni e di status”. E' impossibile avere una società dell'oro, ricca potente, e allo stesso tempo tutte le virtù e le innocenze. Veramente significativa la storia di Kurt Becher, un nazista corrotto, che nonostante tutto ha salvato tanti ebrei, mentre altri come Eichmann, incorruttibile, arrivava a deportare in qualche mese più di quattrocentomila ebrei ungheresi.
Il testo continua con altri capitoli sempre densi di sorprese, capaci di fare i conti con la storia senza preconcetti o pregiudizi. Sarebbe interessante trattare la terza parte: La memoria italiana: storie e personaggi di un Paese diviso.

venerdì 29 luglio 2016

Giovanni D'Ercole, “Nulla andrà perduto. Il mio grido di speranza per l'Italia”,(Ed. Piemme)

di Domenico Bonvegna


In un mondo in frantumi come quello che stiamo vivendo, la testimonianza di monsignor Giovanni D'Ercole nel suo librettoNulla andrà perduto. Il mio grido di speranza per l'Italia”, edito da Piemme (2012), mentre sta nascendo un nuovo mondo, potrà aiutarci a non perdere la speranza. Monsignor D'Ercole ha scritto questo saggio quando era vescovo dell'Aquila, la città martoriata dal terremoto. Nel testo, in pratica il vescovo si racconta, raccoglie esperienze, fa alcune riflessioni, racconta gli incontri con varie personalità, il tutto coinvolgendo una ragazza di nome Alice.
Un libro per i giovani.
E' un libro che viene scritto soprattutto per le nuove generazioni che sono stanchi di vivere e non hanno più niente da chiedere a “questa società di merda!” Sono le parole Alice, ma possono essere di tante altre ragazze o ragazzi di oggi che vivono nella solitudine e nell'angoscia. Monsignor D'Ercole propone di fare un viaggio a tutte le Alice di questa società per far nascere quelle“relazioni, che sono l'essenza del nostro essere e del nostro esistere in questo mondo”.
L'intento del vescovo è quello di trasmettere a tutti i giovani la sua esperienza come un testamento di amore, trasmetterlo sia ai giovani cristiani, che a quelli che non lo sono. Per questo il vescovo ricorda la giornata del 15 ottobre del 2011, quando nella stessa giornata a Roma si sono celebrate due manifestazioni di segno opposto: nel pomeriggio i cosiddetti indignados, i black bloc, che hanno sfasciato Roma, peraltro durante la manifestazione, hanno anche simbolicamente frantumato una statua della madonna. In serata, invece sono stati protagonisti i giovani delle“sentinelle del mattino”, i nuovi evangelizzatori, diecimila ragazzi e ragazze, riuniti attorno al Papa.
Nella prima parte del libro, monsignor D'Ercole sottolinea l'attualità delle persecuzioni nei confronti della Chiesa e dei cristiani:“il fenomeno della persecuzione dei cristiani e quello dell'illanguidirsi della fede nelle comunità cristiane sono tra loro collegati, sono facce della stessa medaglia[...]”. C'è da preoccuparsi,“quando tutti dicono bene dei cristiani, perchè significa che sono scesi a compromessi e a patti con lo spirito del mondo”.
Il terremoto dell'Aquila una metafora del disfacimento spirituale e morale della società italiana.
Il testo parte dall'esperienza del dopo terremoto dell'Aquila,“La croce e la pala”. “Con il trascorrere dei giorni – scrive D'Ercole - mi resi conto che quando si parla di ricostruzione si dovrebbe pensare meno ai mattoni e più agli uomini”. Certo il terremoto ha distrutto le case, le chiese, il centro storico, tra i più ricchi di cultura del nostro Paese, ma“i palazzi crollati si vedono, sono invece invisibili a occhio nudo le ferite più profonde: i drammi personali di chi ha perso familiari, parenti, casa, lavoro...tutto”. Infatti per tanti è più preoccupante, “l'emergenza delle relazioni”. La sfida prioritaria della ricostruzione è quella di garantire un futuro soprattutto culturale e spirituale. “A che serve, - si domanda monsignor D'Ercole - infatti, rimettere in piedi le case, se poi manca un sostenibile progetto di sviluppo che dia speranza a quanti le case dovranno riabitarle?”
L'Occidente soffre di una crisi di relazioni.
Nella nostra epoca, l'emergenza è la mancanza di relazioni, lo sottolinea più volte anche padre Etienne Roze, nel suo bellissimo saggio,“Verità e splendore della differenza sessuale”, Cantagalli (2014) a proposito delle famiglie. “Quanta fatica a stare insieme, ascoltarsi e parlarsi! Eppure occorre ripartire da qui: da un ascolto che si fa amore e che si esprime in piccoli gesti quotidiani di attenzione e di accoglienza”.
Il libro di Giovanni D'Ercole si occupa della crisi economica che sta tormentando  l'Occidente, ma si preoccupa soprattutto di un'altra crisi, quella spirituale,“accanto a quella materiale c'è una miseria che la accompagna e che preoccupa ancor più: è la solitudine, la depressione e qualche volta la disperazione”.Non lasciamoci prendere dal panico, la crisi, oltre a un pericolo, può essere anche un'opportunità, è una sfida che dobbiamo accettare. Come bisogna accettare l'altra sfida preoccupante, quella dell'immigrazione. Del resto il mondo sta mutando rapidamente.“Si è conclusa un'epoca e dall'11 settembre del 2001- giorno dell'attentato alle Twin Towers di New York- non si tornerà più indietro”.
Anche monsignor D'Ercole fa riferimento al cambiamento epocale, e prendendo in prestito un'espressione dal grande vescovo sant'Agostino, scrive che”non stiamo assistendo alla fine del mondo, ma al sorgere di una nuova era ricca d'incognite e di speranza”. Insiste monsignor D'Ercole, “la crisi, per sua stessa definizione, è un tempo di cambiamento e potrebbe essere l'occasione per riscoprire il valore delle cose che contano davvero, il senso della vita, e farci riassaporare quei sentimenti semplici che rendono serena e feconda l'esistenza”.
Il libro è scritto soprattutto per i giovani, quindi Giovanni D'Ercole, parlando di recuperare le relazioni, è convinto che lo sport potrà dare un grande aiuto a educare alla vita e soprattutto alla nuova evangelizzazione. Il vescovo fa riferimento allo sport dilettantistico e non a quello del tifo sportivo, spesso associato a episodi di violenza.
Descrivendo la sua esperienza in Africa, affronta la questione islam il dialogo interculturale, il confronto interreligioso. D'Ercole sostiene che,“Non si può inoltre dimenticare la volontà di conquista di un certo islam fondamentalista rispetto a un mondo cristiano secolarizzato, empirista e pragmatico”.
Di fronte al tema delicato e complesso dell'integrazione degli immigrati nelle nostre società, monsignor D'Ercole, auspica che bisogna rispettare la dignità di ogni persona, la libertà religiosa, ma nello stesso tempo, occorre garantire “un ordinato svolgimento della vita della comunità, dove vengono a inserirsi gli immigrati”.In pratica accoglienza ma nella sicurezza.
Le tesi del vescovo possono suscitare qualche perplessità, ma“è inutile combattere battaglie di retroguardia – scrive D'Ercole - ostinandosi a considerare gli immigrati come un corpo estraneo da espellere, oppure da contenere ritenendoli forzati ospiti non graditi. Essi sono necessari per le nostre società che invecchiano, e per le nostre economie”. Quello che è importante è non perdere le nostre radici culturali e cristiane.
I Santi al servizio del bene comune.
Nel libro Giovanni D'Ercole fa riferimento a diverse figure che hanno segnato la storia del cristianesimo, e non solo, a cominciare da don Luigi Orione, fondatore della Congregazione, “la Piccola Opera della Divina Provvidenza Don Orione”, di cui monsignor D'Ercole fa parte. Don Orione, fu inviato dal papa san Pio X a Messina proprio dopo il terremoto del 1915. Monsignor D'Ercole prima di diventare vescovo è stato vicedirettore della Sala Stampa della Santa Sede, poi capo ufficio della prima sezione degli affari generali della Segreteria di Stato del Vaticano, quindi ha conosciuto bene san Giovanni Paolo II, qui ne sintetizza la poliedrica personalità del grande papa polacco, difficile da incapsulare in uno schema predefinito. Infatti i giornalisti, nel corso degli anni spesso sono stati spiazzati dalle sue sue prese di posizione, a volte hanno cercato di definirlo come tradizionalista, un conservatore, altre volte moderno, o progressista. In particolare, qui si coglie l'audacia apostolica e il coraggio evangelico, di papa Wojtyla,“era l'unico leader al mondo capace di trascinare gente e smuovere coscienze”. “La sua forza era il messaggio che proclamava, la potenza della fede testimoniata con coerenza in una società piuttosto spaesata e alla ricerca di punti seri di riferimento”.
Qualcuno ha definito il suo pontificato come“una ricca enciclopedia, dove sfogliando le pagine si riesce ad abbracciare in pratica l'intero spaccato dell'umanità[...]”.
Un altro grande papa da raccontare è Benedetto XVI, l'umile servitore.“Il suo insegnamento offerto con semplicità, chiarezza e fermezza costituisce ormai un punto di riferimento per tanti”. Il testo è ricco di tanti altri incontri che il vescovo ha fatto e vuol far conoscere ad Alice. Colpisce e impressiona la figura del cardinale vietnamita Francois Xavier Nguyen Van Thuan, tredici lunghi anni di prigionia, sorvegliato continuamente da due guardie. Un altro incontro totalmente diverso che racconta nel libro è quello di Alberto Sordi, che monsignor D'Ercoli, in pratica, ha accompagnato fino alla morte: “Tu mi devi aiutare ad andare lassù”, gli disse, il celebre attore. Ma ci sono incontri anche di popolani, come il barbone Pierluigi. E ancora l'incontro con  Carlo Carretto, che gli consiglia di fare deserto, il silenzio è fondamentale. Viviamo tempi dove prevale il rumore, è importante “ricavarsi una nicchia di solitudine nella frenesia quotidiana”. Ancora un'altra figura proposta è quella di don Tonino Bello, il vescovo scomodo di Molfetta. Interessante una frase riportata da D'Ercoli nel libro: “Io non risolvo il problema degli sfrattati ospitando famiglie in vescovado. Non spetta a me farlo, spetta alle istituzioni: però io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove, deve insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa”.
Ma“Vale la pena essere cristiani?”
E' un'interessante domanda che si pone monsignor D'Ercole. E' un interrogativo che gli ricorda, gli anni sessanta quando frequentava il movimento OASI fondato da padre Virginio Rotondi, qui c'era quel giovane Luigi Calabresi, che poi da commissario sarà ucciso a Milano il 17 maggio 1971 da militanti comunisti di Lotta Continua. Calabresi, era una bella figura di uomo, di cristiano, di sposo che aveva scelto per vocazione di lavorare nella polizia. E' stata introdotta la causa di beatificazione, a suo tempo Giovanni Paolo II, l'ha definito: “Testimone del vangelo ed eroico difensore del bene comune”. Un'altra bella figura evocata è quella del giovane giudice agrigentino Rosario Angelo Livatino, barbaramente assassinato dalla mafia, anche per lui è iniziata la causa di beatificazione, definito da papa Wojtyla,“un martire della giustizia e indirettamente della fede”. Calabresi e Livatino sono due figure che andrebbero conosciute e valorizzate meglio, due uomini che certamente aiutano a maturare nella fede, come ha ben scritto Giovanni D'Ercole ora vescovo di Ascoli Piceno.
Si può evangelizzare anche con la televisione e internet?
Giovanni D'Ercole è stato anche un personaggio televisivo, un uomo di comunicazione, volto noto al pubblico di Rai Due, da anni conduce una trasmissione seguita,“Sulla via di Damasco”, per questo si racconta in un capitolo,“Un sacerdozio catodico. Anzi, digitale”.Comunicare è un dono di natura e a proposito della comunicazione in televisione, mi ha colpito quello che scrive monsignor D'Ercole: “devi preoccuparti di essere te stesso, in modo naturale, sincero, senza farti prendere dall'ansia di dover dire tutto quello che hai in corpo”. Questa riflessione mi fa pensare a quando conducevo la mia trasmissione radiofonica, forse mi facevo prendere da questa ansia di raccontare tutto in una trasmissione.
E dell'oceano telematico di internet, dove navigano miliardi di utenti, il vescovo, al riguardo, è convinto che internet è un servizio favoloso ma può essere anche pericoloso, pieno di insidie e di rischi. Pertanto secondo D'Ercole, oggi è necessario, “una saggia educazione all'uso dei mezzi di comunicazione sociale, che non è prudente idolatrare né demonizzare”.

Il libro di monsignor D'Ercole è ricco di spunti, di riflessioni, scritto con chiarezza e che sicuramente potrà essere utile per i tanti giovani, ma non solo, per tutti quelli che hanno perso la speranza, in questa Italia dai tanti problemi.  

giovedì 28 luglio 2016

L'informazione missionaria di Asianews.

Leggendo il corposo saggio“Il Settimanale cattolico”di don Giorgio Zucchelli sui settimanali cattolici edito dalla Libreria Editrice Vaticana (2014), il giornalista per rilanciare i periodici cattolici, associati al FISC (Federazione italiana settimanali cattolici) scriveva che rispetto ad altre testate giornalistiche, questi possono utilizzare le notizie dei tanti missionari sparsi nel mondo, che diventano informatori di prima mano. Pertanto questi settimanali possono avere notizie che altri giornali non hanno.
E' una sacrosanta verità, basta sfogliare, il mensile “Asianews”, del Pontificio Istituto Missioni Estere, diretto da padre Bernardo Cervellera. Ma soprattutto per conoscere tempestivamente cosa succede in Asia, basta visitare il sito internet di Asianews.it, aggiornato giornalmente. Non per niente padre Cervellera è stato ampiamente intervistato dai tg della televisione, dopo il grave attentato jihadista nell'Holey Artisan Cafè, di Dhaka nel Bangladesh, che ha causato la morte di nove italiani.
Per quanto riguarda il giornale cartaceo, che ricevo puntualmente ogni mese, nell'ultimo numero di giugno-luglio 2016, si possono leggere servizi che certamente la grande stampa, spesso ignora volutamente.
Nell'editoriale, padre Cervellera racconta del pellegrinaggio del 24 maggio scorso, dei fedeli cinesi al santuario della Madonna di Sheshan. Dal 2008 in poi, nel timore di vedere radunate troppe persone unite nella stessa fede, il governo comunista ha permesso di partecipare al pellegrinaggio soltanto alla diocesi di Shanghai. “Il punto è che il governo cinese vede ancora il cristianesimo (e tutte le religioni) come qualcosa di negativo, da controllare, e non si accorge che la dimensione religiosa è parte dell'esperienza umana e anzi, grazie ad essa si può costruire una moralità nella società che l'ideologia non riesce a garantire”.
Nelle rubriche in breve del mensile del Pime, apprendiamo che le città asiatiche sono le più inquinate del pianeta. Secondo l'Oms, otto cittadini su dieci nel mondo vengono affetti dall'inquinamento atmosferico, la maggior parte dei quali si concentra nelle capitali del continente asiatico. Sembra che la città più inquinata sia Peshawar, nel nord-est del Pakistan.
Nelle Filippine, Rodrigo Duterte è il nuovo presidente.“Sarò il dittatore contro tutti gli uomini cattivi e malvagi[...]Giudicatemi – ha detto – non dai titoli dei quotidiani, ma alla fine del mio mandato”. Duterte è stato sindaco per 22 anni di Davao City (sud Mindanao), città che ha trasformato – scrive Asianews – da luogo arretrato e malavitoso a 'città più sicura d'Asia'. Con la politica del pugno di ferro, il politico ha sradicato la criminalità nel territorio[...]”La lotta alla criminalità, dalla spaccio di droga e al terrorismo islamico, è stata il cavallo di battaglia della sua campagna elettorale”. Bisogna andare nelle Filippine per capire come risolvere certi problemi delle città italiane?
Mentre in Giordania con il denaro raccolto dal padiglione della Santa Sede in occasione dell'Expo 2015 di Milano, è stato creato un “Giardino della Misericordia”. Si tratta di un appezzamento di terreno, dove sono stati piantati alberi da frutto che garantirà lavoro per alcuni cittadini in fuga dalla guerra. Altra notizia, in Pakistan succede che un gruppo di musulmani finanzi la costruzione di una piccola chiesa cristiana.
In India, una donna indiana ha dato alla luce il suo primo figlio all'età di 72 anni grazie alla fecondazione in vitro. Il dott. Pascoal Carvalho, membro della Pontificia  Accademia per la vita, intervistato da Asianews, ha detto: “La nascita di quel bambino è frutto della globalizzazione dell'indifferenza e solleva serie questioni etiche e morali. La professione medica si è ridotta ad una guerra lampo di marketing”. Nel servizio viene denunciata l'abituale pratica del turismo medico in India dove facilmente si ottengono i trattamenti in vitro o la maternità surrogata. Nel paese ci sono più di 500 cliniche. E' una fiorente industria medico-tecnologica, oltre che deplorevole e pericolosa, senza regole formali o preoccupazioni di carattere legale, morale ed etico, scatena la corruzione e i raggiri.
In questo numero il giornale del Pime presenta il testo del messaggio di Papa Francesco sulla Giornata Missionaria Mondiale del 2016. Il Papa ci invita ad “uscire”,“come discepoli missionari, ciascuno mettendo a servizio i propri talenti, la propria creatività, la propria saggezza ed esperienza nel portare il messaggio della tenerezza e della compassione di Dio all'intera famiglia umana”.
Nel Vietnam viene denunciato un disastro ambientale da monsignor Paul Nguyen Thai Hop, che protesta con il governo di Hanoi di non fare nulla per risolvere la grave questione. Ogni giorno vengono riversati da un'industria taiwanese 12mila metri cubi di liquido tossico nelle acque sotto costa. Questo causa la morte di centinaia e migliaia di pesci e mettendo in ginocchio i pescatori delle province centrali del Vietnam. Chi manifesta per denunciare questo crimine viene arrestato e percorso a sangue.
Per quanto riguarda la situazione della Siria, il vicario apostolico dei latini di Aleppo, monsignor Georges Abou Khazen e diverse personalità della Chiesa siriana e del Medio Oriente, tra cui monsignor Pierbattista Pizzaballa, lanciano la campagna contro le sanzioni al popolo siriano. E' importante sostenere questa e altre iniziative, perché le sanzioni, “finiscono per colpire solo la gente povera, non toccano i grandi”, e soprattutto esse “non servono per far cessare la guerra”. Quando leggo notizie sulla Siria, non posso non ricordare gli anni 90, quando il governo siriano di Hafiz al-Assad, il padre di Bashar, spadroneggiava tenendo in scacco il popolo cristiano libanese che combatteva per l'indipendenza del Paese.
Dario Salvi per Asianews propone un diario di due settimane di guerra da Aleppo. Cittadini sotto shock, scuole e negozi chiusi, ospedali e case bombardate, universitari costretti nei sotterranei, centinaia di morti. Intanto la Chiesa locale ha deciso di consacrare la città al Cuore Immacolato di Maria, per “illuminare le menti di chi semina violenze e odio”.
In Pakistan si registra una storia di ordinaria persecuzione nei confronti dei cristiani, Michael Masih è stato oggetto di un attentato perchè aveva difeso i cristiani.
Dalla Corea del Sud, arriva invece una bella ed edificante notizia, due suore, Marianne e Margaret, austriache, hanno speso una vita per curare i lebbrosi della Corea.“Non ho mai accettato di farmi intervistare, perché non c'era nulla di speciale nella mia vita. Non ho fatto nulla di straordinario nei miei anni sull'isola di Sorok”. Risponde così suor Marianne Stoeger a chi le chiede come mai non abbia accettato di farsi conoscere prima dall'opinione pubblica e perchè abbia rifiutato onorificenze e sovvenzioni. La loro vita quotidiana, “non sarebbe nulla senza Dio. Lui ci è sempre vicino, e lo ha dimostrato con il dolore di Cristo sulla croce”. Conclude suor Marianne. “Lui è morto nel dolore, e grazie a questo noi possiamo vivere con gioia la nostra vita e la nostra fede. Se capisci che Gesù vive in ognuno di noi puoi amare ogni essere umano, non importa quanto non ti piaccia”. Sembra di sentire Madre Teresa di Calcutta.
Per quanto riguarda la rubrica sull'islam, Asianews intervista il patriarca caldeo Mar Louis Raphael Sako che invita i politici irakeni ad adottare “saggezza e calma” per dar vita a una “vera riconciliazione”, in grado di mettere fine a “questo degrado economico, istituzionale e della sicurezza”. “Basta divisioni, serve un progetto condiviso per la rinascita dell'Iraq”.
Pierre Balanian, nonostante le maglie della censura e dei blocchi messi in atto dai miliziani fondamentalisti, ci racconta cosa succede nell'inferno di Raqqa, governata da Daesh, fra stato di emergenza, fratture interne e diserzioni.
Sembra che la condanna a morte di un bambino musulmano siriano, di nome Muaz Hassan, di appena sette anni, abbia aperto una breccia anche all'interno dell'Isis. “Molti si sono chiesti come possa un bambino di sette anni pensare ad insultare l'essenza divina o che cosa possa aver detto che sia interpretabile in tal senso”.Inoltre pare i carcerati in mano all'Isis vengono uccisi per risparmiare denaro e ridurre le spese, in un periodo in cui i proventi derivanti dalla vendita del petrolio e di reperti archeologici segnano il passo.

Infine come al solito il giornale dedica ampio spazio alla Cina. Padre Cervellera riflette sul silenzio dei governanti cinesi sui 50 anni della Rivoluzione Culturale in Cina e in Occidente. Il sacerdote ricorda il Grande Balzo in Avanti del leader Mao Tze Tung, che ha portato alla morte almeno 35 milioni di persone. All'estero molte università studiano questo periodo determinante per la storia della Cina, mentre all'interno del Partito comunista cinese non si permette alcun studio approfondito e alcun dibattito pubblico.

mercoledì 27 luglio 2016

Nicola Bux, "Con i Sacramenti non si scherza" (Ed. Cantagalli)

di Domenico Bonvegna

I sette sacramenti sono al centro della dottrina cattolica, quindi amministrandoli non bisogna scherzare, occorre fare sul serio. E' tutto qui il recente libro scritto da don Nicola Bux, “Con i sacramenti non si scherza”, edito da Cantagalli (2016). Don Nicola è un grande esperto di liturgia. Ha dedicato diversi libri all'argomento. E' stato consultore in Vaticano nella Congregazione per la Dottrina della Fede e nell'Ufficio delle celebrazioni Pontificie, tuttora è consultore in quelle dei santi e del Culto Divino. E' stato chiamato da Giovanni Paolo II a preparare il Sinodo sull'Eucarestia del 2005 e, da Benedetto XVI a parteciparvi come perito. Ha fatto tanto altro, ma questo basta. Ho conosciuto per la prima volta don Bux nell'estate del 2011, a S. Teresa di Riva, presso la parrocchia Maria SS di Portosalvo, invitato dall'allora parroco don Roberto Romeo per due giorni di studio sul "Motu proprio". "Summorum pontificum" di Benedetto XVI.
Lo studio che ho letto nonostante i tanti riferimenti di alta teologia, è stato scritto con semplicità e chiarezza, anche se è molto impegnativo. Del resto noi cattolici non abbiamo solo diritti, ma anche doveri, tra questi c'è quello di coltivare la propria fede, attraverso la conoscenza e lo studio di quello che la santa Chiesa propone ogni giorno. Non possiamo fermarci ai primi elementi del catechismo appreso per la prima comunione. Il cristiano deve essere sempre pronto a rendere ragione di quello in cui crede. Pertanto il testo di don Nicola serve proprio a risvegliare la nostra fede inaridita.
Il cattedratico barese, secondo Vittorio Messori, è consapevole che in Occidente è presente una certa “società liquida”, dove tutto sembra liquefarsi, pertanto,“anche la Chiesa pare voler dissolvere i contorni netti della fede in una sorta di brodo indeterminato e rimescolato dal 'secondo me' di certi sacerdoti”.
Il sacerdote per ogni sacramento segue uno schema: prima studia l'oggetto, poi il significato, infine la storia. Per ogni sacramento mette in guardia circa le deformazioni, gli equivoci, le aggiunte o le sottrazioni che oggi minacciano quel sacramento. Dunque, si tratta, scrive Messori nella prefazione,“di una catechesi in uno stile che sa essere al contempo dotto e divulgativo, seguita da una sorta di 'manuale per l'uso'.
Don Nicola nel libro non usa toni sprezzanti e tanto meno non vuole apparire un inquisitore, o peggio un ideologo con le“sue sbarre e le sue gabbie”.
Comunque sia la tesi del professore barese è che ormai da decenni nella Catholica, c'è una “svolta antropocentrica che ha portato nella Chiesa molta presenza dell'uomo, ma poca presenza di Dio”. Inoltre, per don Bux, nella Chiesa, c'è troppa “sociologia invece della teologia, il Mondo che oscura il Cielo, l'orizzontale senza il verticale, la profanità che scaccia la sacralità”.
Dunque nella liturgia “si dimentica la cosa essenziale: Dio”. La nostra cultura ha perso la percezione della presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. “Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti”. Pertanto oggi un libro sui sacramenti aiuta“i fedeli a riscoprire la liturgia sacramentale della Chiesa, nella sua pienezza di vita e di verità, e a rileggere la storia e il significato dei sacramenti cristiani, per rendere la propria fede vita vissuta, capace di migliorare l'esistenza quotidiana dell'uomo[...]”.
Don Nicola insiste su un concetto,oggi nella Chiesa,“si esalta la 'parola' più del sacramento, dimenticando ciò che dice san Girolamo a proposito della Scrittura: 'si tratta di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani'”.
A proposito dei misteri, scrive don Bux,“Capita di assistere a sacramenti trasformati in lunghe didascalie, dove il sacerdote – ad esempio durante la celebrazione di un battesimo – esordisce così: 'Adesso vi spiegherò cosa faremo'; oppure in questo momento prendiamo l'olio; ora diamo la veste candida; questo significa che...' . Tutto ciò è segno della sfiducia del rito: poiché temiamo che le persone non capiscano, sostituiamo, con le nostre parole, le parole della sacra liturgia, le parole di Cristo, delle formule sacramentali. Dimentichiamo - continua don Nicola -  che c'è una dimensione invisibile del mistero – come dice sant'Ambrogio- che penetra nel cuore di sorpresa, cioè senza preparazione, nel senso naturale o mondano della parola. La verità è che non crediamo più all'efficacia dei sacramenti”.
Sembra che il 50% dei fedeli americani non crede più che l'ostia sia veramente il corpo di Cristo, ma attribuisce ad esso un significato meramente simbolico. In questo dato del sondaggio c'è l'immagine di quanto ormai sia diffusa la mentalità mondana e secolare che ha cambiato totalmente la percezione della liturgia e dei sacramenti.
“I sacramenti -scrive don Bux - sono le azioni di Colui che è presente; ma se non si crede a Colui che è presente, non si crede nemmeno alle sue azioni”. Pertanto per il sacerdote, prima bisogna, “affermare che nei sacramenti il Signore Gesù è presente; in secondo luogo, che nei sacramenti il Signore Gesù agisce, con tutti i suoi misteri, dall'incarnazione all'ascensione; ma se non ci fosse la presenza, non ci sarebbe neppure l'azione”.
A questo punto si comprende  che “tutti i sacramenti dipendono dal grande sacramento dell'eucarestia, che è il sacramento della presenza. Tutti i sacramenti sono quindi collegati: conducono e riconducono all'eucarestia”.
Facendo riferimento a sant'Ambrogio, don Nicola Bux, ci invita ad imparare il metodo dei sacramenti:“non dare troppe spiegazioni prima che essi abbiano illuminato i credenti, perchè esse non sono efficaci: per capire i sacramenti non bisogna aprire gli occhi, ma chiuderli.
L'amministratore del sacramento, il sacerdote, che serve, deve essere fedele, “non deve aggiungere nulla di suo, né tanto meno togliere qualcosa da ciò che gli è affidato. L'amministrazione comporta l'essere molto attenti a custodire quello che si è ricevuto”.
Qualche mese fa durante la presentazione del volume di Nicola Bux, i cardinali Burke e Sarah, citando più volte il magistero di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, in particolare Sarah ha ricordato come lo stesso Papa Francesco nell’enciclica Lumen Fidei ha ribadito che la Chiesa è responsabile del cambiamento del cuore degli uomini e che questo cambiamento che poggia su tre capisaldi: il magistero, la preghiera e i sacramenti. Ancora più chiaro è quel passaggio del diritto canonico citato da Burke dove si afferma che il sacerdote nella liturgia non deve togliere o aggiungere nulla di sua iniziativa”.
“Eppure nelle parrocchie, ogni domenica, si continuano a mettere in scena spettacoli carnevaleschi durante le celebrazioni; la sacra liturgia diventa uno show e il prete assume il tono da presentatore televisivo che sostituisce con le sue parole quelle delle formule sacramentali. La presunzione di cambiare ciò che è stato dettato dal Cristo, sostengono i due cardinali, deriva da una svolta antropocentrica che ha portato a “voltare le spalle a Dio”. Tutto questo perché convinti di rendere la liturgia più interessante e più mondana attraverso contributi creativi e tante parole e spiegazioni didascaliche”. (M. Guerra, Il sacramento sconfigge il male dell'uomo, 7.4.2016, LaNuovaBQ.it)
Durante la presentazione del libro di don Bux, l'economista Gotti Tedeschi evidenzia“il dislocamento del tabernacolo al di fuori dell'altare”.Hanno portato via il mio signore e non sanno dove lo hanno messo”, fa sue le parole della Maddalena che dopo aver visto il santo sepolcro vuoto per descrivere lo stupore che colpisce oggi quando si entra in una delle tante chiese che hanno “allontanato” il tabernacolo dall’assemblea”.

Oggi – ricorda infine il sacerdote autore del libro – c’è una Chiesa che pensa che il male si vince con le manifestazioni per la legalità e ne esiste un'altra parte che crede che il male del mondo (guerre, omicidi, violenze…) non sarà mai sconfitto completamente dagli uomini e che la salvezza è in Gesù Cristo.“Lo stesso Nazareno quando ha predicato non si è perso nei mali dell’impero romano, nelle sue ingiustizie, ma ha fatto appello al cuore degli uomini”. Bux allora cita persino quanto diceva lo scrittore inglese Tolkien: “Il sacramento è la salvezza che vince il male dell’uomo”. Insomma, ha proseguito Bux, “il male del mondo non sarà fermato finché Gesù non sarà fatto nostro”. E se i sacramenti sono stati “affidati alla Chiesa perché li amministri come delle medicine che curano l’uomo”, allora si può affermare che nel libro di Bux ci sono tante pillole che portano alla salvezza attraverso Cristo.

martedì 26 luglio 2016

Pasquale Attard, "Dal Califfato al Regno " (Ed. Thule)

di Giovanni Taibi

Per tutta la silloge di Pasquale Attard, studioso di origine maltese, “Dal Califfato al Regno” ( edizione Thule 2016 pagg. 107 Euro 10,00) aleggia il grande monito dell'autore, che guardando e commentando le cronache di vita mondana si preoccupa della salvezza dell'anima e invita a vivere il più cristianamente possibile “
 Stringer in pugno / un piacer di vento/ e ansimare / per goderne un poco, // sempre amarezza / alla fine del gioco / e mai sentire dell’Eterno il fiato. // Questo ti tocca, / miscredente cieco, / e tuo salario / è l’Eterno Fuoco ( cfr “Miscredente cieco” pag. 65). 
Terra e cielo formano una continuità di cui la Parola è il segno rivelatore e il cibo a cui accostarsi. 
“Per esperienza / della vita mia / e per la luce / che viene da Maria ,/… che per sentire / l’anima parlare / al primo canto / indietro devi andare / come per l’uomo / il fin poter capire / d’Adamo ed Eva / bisogna ripartire, / e per comprender / appieno la Parola / a quel principio / devi risalire. ( cfr “In principio era il verbo” pag. 57) 
Con uno sguardo severo, a volte ironico ( vedasi ad esempio le liriche “E a me che m’importa ?” ( pag. 31 )e “ Piero Angela “ ( pag. 51) Attard sembra giudicare le umane vicende con la certezza che gli deriva da quello che sa, della rivelazione , del mistero della croce e della vacuità delle cose reali . “Smarrito / è il tuo popolo / Signore, / nell’infuriare / della gran tempesta, /….ma la speranza / brilla, / e ormai s’appresta / quel gran sentire / della Grande Luce. /….alfine, / eccola esplode / meteora d’Amore, / e finalmente adesso / è vera pace. ( CFR “La grande luce” pag. 53 ) 
L’autore è realisticamente convinto che la giustizia e la legge terrena mai potranno realizzare la Parusia di platoniana memoria ma bisogna aspettare un evento salvifico, la rivelazione. ( Pazienza / chiede Cristo / al popol suo, / per poco ancor / sarà martirizzato, / e arriverà Giustizia / al fine / della Gran Tribolazione /…Il gran potere / tornerà all’Onnipotente / rientrato nel suo Regno / …Alleluia, salute / gloria e potere / al nostro Dio; / dategli lode / voi tutti suoi servi. ( Cfr “Dal Califfato al Regno pagg. 80-81 ) 
In una forma certamente personale ma che attinge a piene mani agli stilemi della grande tradizione letteraria italiana l'autore ci dà una rappresentazione della sua particolare visione del mondo della sua Weltanschauung al di fuori da banali e retoriche frasi fatte ma come afferma Tommaso Romano nella Prefazione questa raccolta è "una prova convincente e matura, con picchi lirici intensi e meditazioni mai consuete o peregrine che ci fanno attraversare l'anima di questo poeta schivo e
pensoso, uomo libero e autentico credente. “ /( Cfr pag 8 )


sabato 23 luglio 2016

Serena Lao, "Note di parole" (Ed. Thule)

di Saverio La Paglia

Ancora un lavoro, ancora un volume che sta a testimoniare la capacità e l’estro di Serena Lao, poetessa, cantautrice, attrice a tutto campo che con le sue “Note di Parole” compone poesia e musica.
Chi ha avuto modo di conoscerla sa già che con lei tutto è possibile, sa che, giorno dopo giorno, esperienza dopo esperienza, questa donna è cresciuta e in ogni suo lavoro si registrano maturità, conoscenza e testimonianza di vita vera che qui ora diventano poesia e messaggio universale.
Parole-note le sue che scavano nell’animo umano, che rendono palpabili e immediati sentimenti, emozioni, sconforto e solitudine, che sanno far rivivere il passato con tutto il suo Valore di affetti, di storie lontane ma mai dimenticate.
Leggere le sue liriche significa in buona sostanza tuffarsi in un mondo che rapisce, che invoglia a riflettere, a pensare, a valutare nel presente il passato che spesso ritorna con tutto ciò che esso ancora rappresenta.
In questo nuovo lavoro dove convivono ricordi e speranze l’avere voluto raccontarsi e raccontarci il suo tormentato vissuto in lingua italiana è ancora una riprova della sua capacità di sapersi esprimere con ogni mezzo, di volerci incontrare su un piano che anche ai più può così risultare più leggibile e immediato per riaprire le porte del cuore alla speranza e al riscatto.
Ed ecco il suo aspirare a un mondo ed a una realtà dove il cuore si rasserena per perdersi ed approdare in immacolati e desiderati spazi dove scorre la penna ispirata da sentimenti e Valori eterni come in (Nei Labirinti dell’ignoto); e ancora è un vero inno all’amore in (Primavera) dove il Sole che strizza l’occhio al grigiore del mondo e dove con la nuova stagione “il cuore si schiude a nuove promesse“ per sedurre e incantare, ancora una volta chi nell’amore crede e spera e vuole ancora sognare per ridare la vita a pensieri ed emozioni“ (Regalami un sogno).
È un cuore che non cessa mai di battere; è un continuo volere conoscere, indagare, scoprire che anche nelle notti insonni come in (Pensiero Notturno), la fanno correre dietro le nuvole per arrivare al di là del cielo per trovare il tutto e il nulla così come al di là della siepe di Leopardiana memoria o così come in (Notti estive) dove mentre il viso bagnato viene sfiorato da “sprazzi di sole e da aria frizzantina che porta sapore di baci“.
È un continuo lottare quello della Lao tra Buio e Luce, tra desiderio e delusione, tra sogno e realtà dove alla fine tuttavia prevale prepotentemente la speranza che ancora tutto possa cambiare e che una nuova vita possa ancora cancellare tutto il male e il buio che fin qui hanno condizionato i suoi giorni grigi.
Come non richiamare Foscolo nei versi di  (A mani nude) dove la poetessa non chiede per se dopo la sua morte lacrime, ma canzoni festose con opere di bene e ancora il suo anelare a risalire la china per approdare là dove il grande Dante alla fine arriva e dove anche lei brama approdare per incontrarsi “ là dove tutto ha origine e dove tutto finisce “e dove potrà  conquistare“, “il primordiale equilibrio a lungo cercato ”.
Parole – note che con semplicità e immediatezza raccontano, spiegano, mentre scavano profondamente nell’animo umano riuscendo a coglierne le vere tensioni e i motivi che spingono ancora a lottare per non demordere, per potere sperare e amare la vita e tutto ciò che essa comporta …
Toccante è il suo grido di protesta contro colui o coloro che ancora calpestano la donna, i suoi sentimenti come in (Come una marionetta) dove in pochi versi riesce a sintetizzare tutto lo sconforto di chi amando non è amato e di chi, malgrado tutto, ancora spera che l’alba non porterà via il dolce sogno accarezzato durante tutta una notte.
Si potrebbe continuare leggendo - assaporando verso dopo verso a scrutare nell’animo della poetessa che ancora, come il Foscolo, afferma che solo la memoria perdura in noimentrela felicità è un alito di vento che come meteora /si perde nei viali dell’immenso / e / un istante dopo il delirio è già svanito.
Accorato e struggente è in “IDEALE“ la ricerca di chi non è riuscita a trovare né dentro né fuori ciò che brama e per cui vive constatando con amarezza di avere “speso la sua vita inutilmente “.
Quanti di noi nel corso della nostra esistenza abbiamo avuto gli stessi pensieri?
Quanti di noi non abbiamo con la poetessa sofferto per delusioni, per false attese per sentimenti traditi e per l’impotenza di non potere cambiare gli eventi che ci creano (Inquietudini) facendoci capire con le parole della Lao  “tutto è incerto in un presente che non mi appartiene”  e dal quale vuole estraniarsi.
Eppure da tutto ciò, come in (Certe volte) l’amore viene sublimato come l’unico rimedio e l’unica fonte di vita vera: l’amore non si esaurisce / l’amore è imprevedibile / l’amore non si perde / la sua essenza invece si rinnova per / durare lo spazio di una vita intera /” che allora vale la pena di vivere.
Ancora una volta in (PAROLE) la poetessa parla delle illusioni provocate da “chi è vissuto senza vivere /chi ha rubato persino l’ombra / a chi gli stava accanto” ma che forse è senza colpe perché forse tutto gli è stato imposto, così come lo stesso Leopardi afferma, quasi come volere riscattare chi ancora in fondo continua ad amare perché appunto, l’amore, quello vero, non muore.
E ancora in (Sogni) ancora c’è la voglia di una nuova vita con un nuovo domani dove tutto è “ancora da vivere e da scoprire”.
E qui sta la grandezza della Lao donna e poetessa della vita e per la vita, della donna che dal buio risale con la speranza che tutto non sia stato vano e che al di là della siepe leopardiana e nell’immensità dello spazio alla fine, ognuno potrà ritrovare la sua quiete, la sua pace interiore e il suo vero ed eterno amore.
Sarà questo, un motivo di riscatto nella lirica Un Giorno“ dove finalmente libera dai legami di una travagliata e tormentata esistenza l’anima volerà “ senza rimpianti e malinconie” per arrivare (all’origine del Bene).
Solo lì la poetessa non avrà più paura. Solo lì l’alfa l’omèga si congiungeranno per un tempo infinito dove albe e tramonti saranno tutt’uno e dove potrà finalmente essere libera e continuare a essere magari (A picciridda di Baddarò) spensierata nella sua infantile allegria capace di sognare …
Grazie Serena per averci ancora una volta rapiti e fatti partecipi dei tuoi sentimenti e soprattutto per averci fatto sognare e sperare con Te in un futuro migliore con le tue - Note di Parole -.

martedì 19 luglio 2016

Serena Lao "Vaneddi" (Ed. Arianna- Rende)

di Francesca Luzzio


Leggere il racconto lungo, Vaneddi di Serena Lao è fondamentale per chi vuole conoscere la Palermo popolare degli anni cinquanta: gli usi, le tradizioni, i costumi,   l’ economia  emergono con una limpidezza di dettato che solo l’intenso amore per Ballarò, suo quartiere natio, poteva generare.     Senza fingimenti letterari, quali, ad esempio, la proustiana madeleine, la scrittrice dà avvio al flusso della memoria e rivive  il vissuto infantile, che alberga nei meandri reconditi  della sua essenza  ed ha contribuito a generare la sua  attuale, splendida personalità.                                                             
Serena Lao con vivacità immaginifica, ma anche con grande malinconia, riesce a fare riaffiorare personaggi, eventi e li affida alla scrittura, dando ad essi quell’immortalità che solo la letteratura riesce a garantire, consegnando così ai posteri un mondo, una realtà altrimenti per sempre perduta.
Viuzze, case, balconi e banconi del mercato, usi e tradizioni  diventano coprotagonisti ed acquistano vita in una simbiosi osmotica che, se mancasse, ridurrebbe l’opera a pura , asettica descrizione. Ovviamente a favorire questo concerto  in cui ogni strumento concorre con il suo suono è, come già si è detto, l’animo della scrittrice-poetessa che nel rievocare trasmette a persone, cose ed eventi il pathos che l’anima nel momento in cui  li rivive.                                                          
Il racconto lungo, diviso in cinque sezioni, propone un mondo che oggi  non esiste più, o meglio, esiste, ma è diverso: Ballarò non è più quella di una volta, né c’è più quell’umanità; i tempi cambiano, la mentalità pure  e ciò che è stato può esistere solo nella nostra memoria . Così la malinconia ci assale perché quell’umanità semplice e sincera, solidale sebbene povera, che sapeva gioire delle piccole cose si è dileguata come nebbia al sole.       
  La scrittrice rivede nel cuore e nell’immaginazione e ci descrive la casa in cui nacque,  le vie in cui da bambina si muoveva, ma niente ormai risuona della povera felicità che albergava allora ovunque: nella gente, nelle case, persino nelle basole delle strade che, ormai maleodoranti e ricolme di cumuli d’immondizia, sembrano emblematicamente simboleggiare la decadenza attuale.                                  
  Lo stile limpido e scorrevole è allietato da parole o frasi in dialetto che ulteriormente vivificano l’immaginazione del lettore, man mano che s’immerge nella realtà di un passato  e di un quartiere-mercato di cui ormai resta, quasi, solo il nome: Ballarò!

lunedì 18 luglio 2016

Giovanni Turco, "Valori e deontologia" (Ed. Studium"

di Piero Vassallo
Strenuo difensore ed autorevole, fedele interprete della metafisica classica, Nicola Petruzzellis (Trani 1910 – Roma 1988) ha approfondito e incrementato le ragioni della tenace/efficace attività dei pensatori cattolici refrattari e irriducibili ai tossici sofismi, in frenetica e (in apparenza) inarrestabile circolazione negli scritti dei prestidigitatori filosofanti.
L’eccellente saggio dedicato a Petruzzellis, Valori e deontologia. L’assiologia di Nicola Petruzzellis, pubblicato nella prestigiosa collana della casa editrice romana Studium, è la più recente opera di Giovanni Turco, pensatore autorevole, schierato nella prima fila dei cattolici non narcotizzati dalla mitologia intorno al Vaticano II e perciò resistenti alle abbaglianti suggestioni del neomodernismo.
Turco propone la lettura dell’ingente opera del Tranese quale antidoto alle elucubrazioni pseudo filosofiche e ai desolati sofismi teologici urlati dai post moderni e sussurrati nelle sacrestie degli incalliti modernizzatori, circolanti/galoppanti nel triste pensatoio da Pier Paolo Ottonello intitolato al debolismo.
Ora il nodo che l’ateismo moderno ha stretto intorno alla vera filosofia è il criticismo kantiano, ossia l’intenzione sofistica di screditare, squalificare e mettere al bando la metafisica in vista di un’età pacifica e felice.
La contraria lezione impartita dalle guerre illuminate dal moderno non disarmò – purtroppo – la fazione dei cattolici infatuati dalla abbagliante filosofia di Kant.
Spaventati o ubriacati dalle squillanti frottole, dietro le quali il Novecento nascondeva il proprio feroce e sanguinario malessere, i teologi dai nervi fragili e modernizzanti caddero ginocchioni davanti alla parodia kantiana del pensiero filosofico.
Quello concepito da Kant, è un programma in cui agisce l’influsso della tenebrosa avversione di Martin Lutero alla verità cattolica.
Conseguenza della rivolta luterana e kantiana è lo scetticismo al galoppo dogmatico nella mente dei pensatori scismatici, a proposito dei quali Petruzzellis affermava: “E’ proprio, come è noto, dall’agnosticismo metafisico del criticismo che trae vigore il rifiuto, in tanta parte del pensiero contemporaneo, dell’affermazione razionale dell’esistenza di Dio”.
Petruzzellis, in sintonia con Cornelio Fabro, insorge contro la sofistica di matrice luterana, causa delle disavventure del pensiero moderno, e propone, quale efficace terapia, le ingenti opere dei cattolici San Tommaso d’Aquino e Giambattista Vico.
Alla luce della metafisica tomasiana e della scienza nuova vichiana è possibile schivare i trabocchetti del falso ecumenismo, e confutare l’oscuro, modernizzante pregiudizio “che vieta di estendere il principio di causalità al di là del campo dei fenomeni”.
Rimossi i pregiudizi antimetafisici, svelate le aporie che inceppano il sistema e conteggiate le esigenze insoddisfatte dalla filosofia di Kant, Petruzzellis afferma l’inderogabile obbligo di riabilitare “la ricchezza imprescindibile dell’esperienza”.
Di qui la legittimità del pensiero fondato sul riconoscimento “che la realtà nella quale siamo immersi esiste ma potrebbe anche non esistere … infatti se ciò che è dato fosse l’Assoluto sarebbe intimamente contraddittorio” . Di qui, infine, “l’obbligo di risalire a una casa increata”, un dovere cui nessuno può seriamente sottrarsi.
La riabilitazione della metafisica, in ultima analisi è la premessa necessaria all’uscita dell’uomo moderno dalla macchina che fa girare i valori e le leggi intorno ai mutevoli e capricciosi stati d’animo dei legislatori e dei loro elettori.
Petruzzellis afferma infatti che “la vera filosofia dei valori è proprio la filosofia dell’essere in quanto sia intesa in tutta la sua profondità, fecondità e organicità”.L’alternativa alla metafisica è il vago e stucchevole buonismo, predicato dai teologi dimezzati e perciò incapaci di vedere il delirio a due teste matte – la falsa religione e il laicismo – un’alienazione che incombe minacciosa sui piaceri promossi dal pensiero rovesciato nella fantasticheria.

giovedì 14 luglio 2016

Gozzano, moderno, postmoderno o crepuscolare?

di Carmelo Fucarino

Questo decennio è stato nei secoli uno di quelli segnati per la cultura. Esattamente il 23 aprile 1616 se ne andarono entrambi William Shakespeare e Miguel de Cervantes Saavedra. Per considerare i piccoli fatti di casa nostra il 17 marzo 1916 morì a Palermo Salvatore Salomone-Marino, seguito il 10 aprile dall’amico, Giuseppe Pitrèanche lui etnologo, prima che si sapesse cosa fossero l’etnologia o il folklore come scienze.
Davanti a questi giganti direi con il poeta, per poco il cor non si spaura. Perciò mi riservo di tornar con loro in un prossimo mio umile colloquio. Trovo più adatto, anche se non più facile, trattare di un giovanissimo, piccolo grande, che a soli 33, come Cristo, senza voler essere blasfemo, se ne andò il 9 agosto di quel rovinoso 1916. Una foto in bianco e nero, in formato tessera, in posa e agghindato, mostra il suo viso sorridente e per niente crepuscolare con un vestito quasi divisa. Una fisionomia che ritrovo in tanti ritratti sgranati di inizio Novecento, il volto bambino di un mio zio caduto sul Podgora per redimerne una parte ingrata di Italia. Nel colore quasi di africano che ho visto in tanti volti del Museo di Ellis Island.
Certo, in quell’anno Einstein pubblicò la sua teoria della relatività e fu introdotta per la prima volta l’ora legale. Ma eravamo anche all’epicentro della prima grande guerra con il primo impensabile bombardamento di Milano a febbraio e l’inizio a maggio della Strafexpedition, terribile già nella fonetica.
Per Guido Gozzano il male covava da anni, quel mal sottile che si cercava di sconfiggere con la buona aria, nelle Baden Baden montane o nei più modesti centri liguri di mare. La tisi ispirò Thomas Mann per la sua titanica Montagna incantata e per la più modesta Diceria di Bufalino. Era stato il male delle damine aristocratiche di un’epoca romantica, ma anche la dote onorifica delle soffitte dei bohemien, esemplare la Boheme di teatro e musica e i casalinghi Scapigliati milanesi. Non si parlò del popolo minuto falcidiato all’ingrosso. La malaria fu protagonista popolare.
La fama del poeta bambino corre ancora in una lunga sequenza di siti internet legata ad un aforisma, quasi un refrain «Non amo che le rose che non colsi» (Cocotte). Purtroppo ci ha lasciato con questo mistero, di conoscere le sue rose non colte. E la domanda: cosa avrebbe scritto ancora in prosecuzione di questo infantile avvio? In che modo si sarebbe sviluppata la sua poetica in tale stato esistenziale di perenne evoluzione, ma sospeso e fratto tra l’antico impresso sulla pelle, tatoo indelebile, e il moderno sentire che urgeva? Circolava in tutta la sua breve esperienza poetica questa tensione verso un desiderio inappagato che diventava aspirazione onirica. Così si agitava già in altro ossimoro dell’impossibile in Via del rifugio, «vedo un quadrifoglio / che non coglierò».
Sulla sua sperimentazione, diciamo esercitazione poetica, incombettero i giganti del passato e del presente in progress, l’arcigno luciferino Carducci, anche lui dimidiato tra il classicismo dei primi titoli latini e della irruenza dei giambi ed epodi e dei ritmi barbari, fino all’approdo delle nuove rime e ritmi, e il Pascoli che ondeggiava tra l’umiltà delle tamerici virgiliane e la dolorosa e pietosa (da pietas) invenzione del canto a voce spiegata di Castelvecchio, prima di esplodere e dispiegarsi nei poemetti, secondo il progetto della IV ecloga, vv.1-3, Sicelides Musae, paulo maiora canamus. /non omnis arbusta iuvant humilesque myricae; / si canimus silvas, silvae sint consule dignae. Erano i professori che si succedettero nella cattedra di italiano di Bologna, Carducci fino al 1907, Pascoli fino al 1912. Con quest’ultimo Gaetano Trombatore mi costruì nel corso particolare dei miei studi universitari le risonanze e le anticipazioni simbolistiche, i simboli svelati ed abortiti, raccolti in Memoria e simbolo nella poesia di Giovanni Pascoli (1975). Esemplare quell’infelice titolo Orfano, ma grandiosa Digitale purpurea. Incombeva su tutti, nume tutelare, poeta romanziere tragediografo commediografo, eroe ed esteta di vita, l’oceanico D’Annunzio, che avrebbe imperato sulla poesia e sulla cultura italiana fino al 1938.
Tutto si potrebbe dire di quegli anni. Eppure si parlò e si scrisse di crepuscolo della letteratura. Sarebbero venuti anni più tragici in cui si sarebbe parlato di decadenza. G.A. Borgese, quello del grande Rubé, inventò il neologismo, «mite e lunghissimo crepuscolo» (La Stampa del 10 settembre 1910). Ma i critici son fatti così, vedono sempre nero, nessun artista va bene per loro e prospettano sempre la fine del mondo. Non vogliono riconoscere che la società si evolve e trasforma e quella che sembra una crisi è semplicemente una trasformazione verso nuovi progetti o pura rimodulazione di antichissimi fenomeni. Già quando si era esaurito lo slancio creativo della lirica e della melica greca classica, in età alessandrina, i poeti cercarono l’originalità nella raffinatezza  stilistica o si esercitarono in fantasiose  composizioni grafiche, inventarono la poesia figurata. Esempi eclatanti furono le composizioni di Simmia di Rodi, i versi a forma di ascia bipenne (L’ascia), di ali (Ali), di uovo (Uovo) o di siringa (Syrinx). Perciò esaurita la linearità estetica e poetica del romanticismo e risolto il neoclassicismo romantico del velo delle Grazie, in una fase definita anche decadente, le figure parlanti di Guillaume Apollinaire, Il Pleut, con il fiotto di versi.
Gozzano, stretto fra questi giganti, per i pochi anni che gli furono concessi, trovò una sua via alla espressione poetica. Eppure non mancarono le classiche rime e le regole metriche, lo stantio di certi vocaboli ottocenteschi che mai osò Pascoli. Ci fu questo scarto tra una conoscenza linguistica attardata al linguaggio letterario della scuola e la volontà di superare le forme attraverso l’inganno dei nuovi contenuti. E qua si rivelò l’impossibilità della conciliazione. Occorreva la demolizione futurista per ri-cominciare. In seguito la sua poesia si conformò ai tipi di una prosa ritmata, ma non poteva bastare quello, l’umiltà del quotidiano e la prosaicità della resa a decretare la nascita di una nuova poesia. Restavano i modelli letterari abusati, pur nella sua aspirazione al loro ribaltamento.
Certamente furono i contenuti a interessarlo, un mondo nuovo che il concetto altamente eroico e sublime della poesia aveva trascurato, soprattutto disprezzato come indegni di essere elevati a ritmo. Tuttavia se si considera tutta la tradizione letteraria italiana c’era stata perenne questa aspirazione a rilevare il poetico nella vita reale. Già Dante aveva manifestato questa scelta con la qualità estetica della sua umile “comedia”, in opposizione all’eroico epico e tragico. Invece il primo poeta lirico, Petrarca, aveva atteso l’alloro dalla sua Affrica, considerando la lirica, come vulgares res. Sempre tale alternativa ossessionò la creazione italiana. Non mancò Manzoni di volgersi agli umili, dopo la sua esperienza lirica e tragica dei grandi della storia. In questa lettura della poetica romantica in Italia, il popolo come umile o la società come eccezione alla norma, Pascoli, un professore di latino e greco, passato alla cattedra di letteratura italiana, ritrovò la linea della semplicità, spinto al quotidiano dall’esperienza della campagna elegiaca del suo fanciullino, restato tale in margine alla tragedia familiare.
Gozzano portò alle estreme conseguenze questa svolta poetica. Rimase sempre il verso nella sua struttura dotta, in questa direzione non ci furono novità eccezionali, quali quelle sbandierate dal futurismo e dai vari ismi fino alle avanguardie. La veste estetica, scusate l’ardito pleonasmo, se estetica deriva da estes, “veste”, l’ornamento rimase identico. Cambiò la persona che l’indossava, donnette umili, simbolo di un quotidiano che nulla aveva di eroico se non la propria misera esistenza quotidiana, l’eccezionalità di questa umanità. Ed era ardito scegliere a protagonisti di poesia quelle piccole donne, come le umili Agnese e Lucia, che rimangono personaggi di romanzo, elevandole addirittura a soggetto di poesia. Alle Elettra o Fedra o Ermengarda si sostituivano la Carlotta, la Felicità, etc.
Lo straordinario dell’operazione stava nel fatto che all’estetica della raffinatezza aristocratica si assumeva l’estetica delle piccole cose di pessimo gusto. Si era pur sempre in un ambito di estetismo di contrapposizione. Di fronte alla società delle passioni aristocratiche dannunziane si elevava in contraltare la donna del popolo, con i suoi gusti e il vestire che imitava quello delle dame, nella brama perenne di una elevazione sociale attraverso la moda, il galateo spicciolo del modo di tenere la tazza del tè. Si elevava nell’imitazione esteriore dei cappellini e delle gonne.
Eppure egli stesso era consapevole del suo antiestetismo dell’estetismo, quando prometteva a Felicita di volere rinnegare se stesso,
«Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...


Ed io non voglio più essere io!».

E ancora:
«M'apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...


Quello che fingo d'essere e non sono!».

Nella citazione dotta c’è la finzione di uomo scisso, ancora indeciso sulla strada da imboccare, giunto all’ypsilon di Eracle. Invano, perché le radici sentimentali erano profonde e consolidate, quei simboli poetici, quelle metafore erano insite nella formazione, troppo scolastica, ancora fervida per farvi tabula rasa, quella cultura letteraria impartitagli era troppo recente per essere cancellata di un colpo.
A ciò gli mancarono gli anni. Poi Borgese coniò quell’ismo che lo etichettò per sempre fra altri poeti mediocri, se si esclude Moretti, che nulla avevano a che spartire con lui.

E le tante formule ed estrapolazioni fuorvianti che ne hanno fatto il caso letterario della “malinconia crespuscolare”, delle celebri «buone cose di pessimo gusto». Fino a diventare un caso clinico, povero infelice per quella frase maldestra, come nell’ultima seduta analitica della psicoterapeuta Gianna Schelotto, Le rose che non colsi. Psicologia del rimpianto (Mondadori, Milano, 2014).