mercoledì 21 novembre 2018
mercoledì 21 marzo 2018
mercoledì 14 marzo 2018
mercoledì 21 febbraio 2018
Tommaso Romano, "Profili da Medaglia" (Ed. Thule)
di Giuseppe Bagnasco
Dopo
“Incontri e profili di siciliani e non” (Ed. Arianna, Geraci Siculo 2010), il
filosofo Tommaso Romano, prestato per l’occorso alla saggistica, per la collana
“Ammirate biografie”, torna a riproporci la seconda di una probabile trilogia, come
è nel suo costume, dal titolo “Profili da medaglia” (Ed. Fondazione Thule Cultura,
Palermo 2017). Un pregevole lavoro questo che si distingue dal primo per una
particolare attenzione infrapposta da cenni personalistici per essere stato egli
stesso testimone-attore di alcuni eventi che ebbe a condividere con alcuni
grandi profili presenti in questa “galleria” di illustri. Illustri, chiariamo
subito, appartenenti al pensiero libero e non massificato da una ideologia che
in nome di una libertà, estesasi finanche all’ingegneria genetica, sta
letteralmente stravolgendo un mondo che niente ha più in comune con quello
costruito dall’uomo mediterraneo nel corso di una civiltà millenaria. Tommaso Romano di questi trentanove profili,
non fa solo un ricordo di vite, ma li arricchisce con personali aneddoti e non
solo. Una “galleria”, dicevamo, di personaggi di grande levatura di cui Romano
delinea distinti profili che vanno dall’anagrafico alla storicizzazione di
momenti salienti, dalle pubblicazioni agli incarichi di responsabilità
politico-editoriali. Personaggi che hanno in comune la preservazione
dell’ordine, del senso dell’onore, dell’appartenenza alla cultura della
classicità, delle fondamenta del diritto, della conservazione della Tradizione.
Una “galleria” biografica di “illustri” appartenenti alla “Destra” postbellica
e repubblicana che ebbe in Giorgio Almirante il suo più fulgido ed eminente
esponente. Poteva essere esposta questa collana in ordine cronologico per gli
incontri avuti nel tempo dall’Autore e per le dirette conoscenze acquisite
nell’arco della vita. Ma ciò avrebbe comportato il rischio di un esercizio
agiografico per il Nostro che invece ne rifugge mantenendo un sapiente equilibrio
tra una asettica biografia e il colore aneddotico che la tempera. Dei tanti,
dei quali non possiamo riportarne i tratti più marcati e meritevoli d’essere
assunti, a parere nostro, solo in quattro meritano la palma del salvataggio,
nella nuotata della memoria, come asserisce Gennaro Malgieri nella pregevole
prefazione. Nell’ordine: il rumeno Mircea Eliade, l’italiano (palermitano di
Cinisi) Julius Evola, il tedesco Ernst Jünger e lo spagnolo Elias de Tejada. Tutti
riconducibili al pensiero cattolico-tradizionalista di stampo internazionale ad
alcuni dei quali Romano riconosce la personale uscita dal nostalgismo e
l’ingresso nella fede della Trascendenza del Dio Creatore. “Profili da
medaglia” quindi, in definitiva, non è solo un casellario biografico ma un
lavoro a metà tra un resoconto storico-biografico e un diario personale. In
esso l’Autore srotola il filo di una memoria davvero sagace se a distanza, per
alcuni profili, di 40 e più anni, riesce a far emergere particolari tanto
minuti quanto interessanti, quasi piccoli scoop, come il colore della sua 127
celestina o le irrituali e gioiose cene di Mondello. E adesso un cenno alla
copertina. Emblematica come sempre. E’ la scena di un cenacolo, un “nuntio
vobis”, di grandi uomini, dallo storico al sociologo, dal filosofo al saggista.
Vi scorgiamo in sequel da sinistra, Ernst Jünger, Rosario Romeo, Tommaso
Romano, Nino Muccioli, Vittorio Vettori e Gennaro Malgieri ospiti nel salotto di
Luigi Maniscalco Basile e dove, ritratti nella foto di Labbruzzo, il primo e
l’ultimo sono di particolare rilievo per il presente volume in quanto del primo
in questo febbraio se ne ricorda il ventennale della scomparsa, e del secondo
la presente dotta, pregevole prefazione. Ma non solo. Ernst Jünger compare anche
nella medaglia in quarta di copertina quasi a emblema semantica del titolo. A
lui l’Autore dedica più di un canonico spazio nel volume, decantandone le
qualità di uomo di autentico stile. Un uomo libero, un entomologo illustre, un
poeta, un maestro di vita e di pensiero del quale il Romano confessa parlando
del suo soggiorno palermitano, di farlo quasi con timore reverenziale giacché
ritenuto “nel tempo senza tempo…fra i grandi scrittori e interpreti
privilegiati del Novecento”. Infine, quasi come una postfazione, il puntuale
saggio di Maria Patrizia Allotta. Un saggio che appare come un piccolo “pantheon”
che racchiude tutte le attività saggistiche di Tommaso Romano nel suo cammino
sullo studio della Biografia come scienza, come da lui definita, avente lo
scopo di ricostruire tramite il racconto della vita di un “illustre”, il
processo socio-politico-antropologico della società in cui è vissuto. Un “pantheon”
dove in “consecutio” di tempo si snodano gli eccellenti saggi che vanno dalla
“Collezione del Mosaicosmo” ai volumi “Luce del pensiero”, da “Centodestre…” a
quello di “Antimoderni e critici della modernità in Sicilia...” fino, nel suo
ultimo incarico istituzionale, alla sublimale ideazione e realizzazione dell’Archivio
Biografico Comunale di Palermo. Un percorso, conclude l’Allotta, da dove
traspare l’”irripetibilità del singolo”, giacché ogni uomo, nella teoria
romaniana, è una singola e irripetibile tessera nel “Mosaico cosmico”.
Affermazione quanto mai attuale nel momento in cui in Cina recentemente è stata
clonata una scimmietta. Riproduzione contro natura di laboratorio che sottolinea
quanto sia impossibile la clonazione dell’anima. A conclusione di queste note sulle
biografie da medaglia, la conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, di come e di
quanto l’uomo abbia bisogna della memoria giacché in fondo, la memoria non è
che un mezzo per colloquiare col passato. E Tommaso Romano lo fa ancora una
volta con equilibrio ed eleganza trattandosi nello specifico di uno spaccato
della cultura di una parte troppo spesso data all’ostracismo da una
“intellighenzia” prevaricatrice e ottusa. E questo volume ne rende giustizia poiché
i valori nella loro accezione più nobile, sono universali e vivono “nel
tempo…senza tempo”.
da: "Il Settimanale di Bagheria" n. 780, 25 Marzo 2018
da: "Il Settimanale di Bagheria" n. 780, 25 Marzo 2018
Tommaso Romano, "Profili da Medaglia" (Ed. Thule)
di Salvo Messina
“Profili da Medaglia” è l’ultima fatica letteraria di Tommaso Romano (Edizioni Thule – Collana: Ammirate biografie). Incontri determinanti con personaggi straordinari: Evola, Jünger, Fanelli, Falcone Lucifero, Accame, Francisco Elias de Tejada, Zolla, e altri profili con una introduzione di Gennaro Malgieri.
Dal verbo “suchen” (cercare) i tedeschi fanno il participio presente, “suchend” e lo usano sostantivato “der suchende” (colui che cerca) per designare quegli uomini che non si accontentano della superficie delle cose, ma di ogni aspetto della vita vogliono ragionando andare in fondo, e rendersi conto di se stessi, del mondo, dei rapporti che tra loro e il mondo intercorrono. Quel “cercare-ricercare” è una componente peculiare di Romano che con grande sensibilità e rara capacità di sintesi, mette insieme in queste pagine personaggi con cui ha intessuto colloqui più o meno intensi a margine di un’attività editoriale improntata alla riscoperta della vitalità della Tradizione sottraendosi all’inquinamento della modernità. Ogni capitolo rappresenta un ritratto, ovvero una fonte di ispirazione e di interpretazione critica della modernità. Un volume che non propone sterili ricordi e aneddoti ma costituisce la sintesi di un’iniziazione ragionata interiorizzata che ha avuto protagonisti i personaggi biografati, le loro opere e molte letture che hanno arricchito la formazione intellettuale dell’autore. La strada che lo ha portato a riconoscere la verità nella milizia scomoda volta ad affermare costantemente la ragione della “buona battaglia”. “Ed a essa – come sottolinea Gennaro Malgieri – ha dedicato tutta la sua esistenza come scrittore, editore, animatore culturale, attivo protagonista della vita pubblica civile e politica”. Questo libro, è l’autobiografia intellettuale di un generoso interprete della Tradizione che evidenzia un diverso modo di accostarsi alla sofferta e psicologizzata visuale cosmica della nostra generazione intellettuale, visuale che proclama il desiderio e al contempo soffre la letale dissoluzione dei confini dell’ego.
martedì 20 febbraio 2018
L'antisemitismo italiano e le leggi razziali contro gli ebrei
di Domenico Bonvegna
Nella giornata della memoria
ogni anno si assiste al solito profluvio di interventi intrisi di tanta
retorica, addirittura mi è capitato di vedere su Rai 3 un apposito programma di
giochi a quiz, sull'olocausto. Sicuramente l'intervento che ha sollevato
qualche clamore, è stato quello del presidente Mattarella che ha presentato il
fascismo italiano come male assoluto, a cominciare dalle leggi razziali contro
gli ebrei. Certo qui nessuno vuole giustificare gli errori storici del
fascismo, in particolare, l'orrore delle leggi razziali, ma“E’ triste dover
constatare che ancora oggi, dopo ben 42 anni e nonostante molto altro lavoro di
storici seri e importanti, la lezione di Renzo de Felice non sia stata compresa
[...]Ancora una volta l’invettiva di carattere politico prevale sull’analisi e
sul giudizio storico confondendo tutto in un’unica sentenza confusa ed
integralista””.(Massimo Weilbacher, “Guerre contro il tempo/ Gli anatemi di
Mattarella e la lezione di Renzo De Felice”, 27.1.18, Destra.it)
Per avere qualche risposta
storica in più che non sia quella suggerita dai talk show, ho dato un'occhiata a un
volumetto,“catturato” da poco nel solito outlet librario milanese, scritto da
uno storico Romano Canosa, “A Caccia di ebrei”,
Le Scie-Mondadori, (2006).
Sottotitolo: “Mussolini, Preziosi e l'antisemitismo fascista”.
Il testo, soprattutto in
alcuni capitoli, offre argomenti che potrebbero arricchire un vero e serio
dibattito storico.
Il testo di Canosa a margine
della questione ebraica italiana, ruota intorno alla vita politica di una
figura alquanto misteriosa e poco conosciuta, un certo Giovanni Preziosi,
un campano, ex religioso, uomo di pensiero, che per tutta la sua vita si è
concentrato sul problema dell'”Internazionale ebraica” operante in
Italia. Attraverso la sua rivista “La vita Italiana”, divenne
l'uomo politico più antisemita in Italia. Anche se guardando la sua carriera di
antisemita,“sembra possa dirsi che egli fu sempre assai lontano dai 'deliri'
tipici di altre persone e di altri luoghi. Gli furono infatti estranee le
fantasie mitico-razziali alle quali si abbandonarono ad esempio un Chamberlain
o lo stesso Rosemberg”. Per quanto riguarda il “delirio”, si trattò sempre
e comunque di un “delirio 'a bassa intensità'”. Anche se basava le sue
teorie sull'antisemitismo sui “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”,
rivelatesi poi un falso storico.
Successivamente Preziosi si
legò al gerarca fascista Roberto Farinacci, diventando il nume tutelare
dell'antisemitismo, per molto tempo fu ignorato dal duce, soltanto durante la
guerra ha ottenuto la sua attenzione con la nomina a Ispettore Generale per la
razza. Piuttosto il nostro aveva rapporti diretti con i gerarchi nazisti, da
Goebbels a Rosemberg fino allo stesso Hitler.
Nel testo di Canosa emerge
chiaramente come la questione dell'ebraismo, era molto sentita in quegli
anni, non tanto in Italia, ma nel resto dell'Europa. Sono interessanti a questo
riguardo alcuni articoli pubblicati sulla rivista dei gesuiti,“La Civiltà
Cattolica”. E comunque per restare all'Italia, secondo Canosa,“le
tracce di antisemitismo, pure presenti in misura trascurabile nel pensiero
liberale di fine secolo e in misura maggiore in quello cattolico, non furono
mai tali che sulla loro base potessero sorgere e affermarsi teorie razzistiche
antiebraiche di una qualche presa e pericolosità”.
Pertanto secondo Canosa,“sembrava
un'impresa impossibile da realizzare quella di costruire un antisemitismo
italiano degno di considerazione”.
Tuttavia se si vuole fare un
po' di storia dell'antisemitismo italiano, nel IV capitolo, Canosa dà conto di
quello che era successo in Italia, tra l'Ottocento e il Novecento e pare che la
sola forma di antisemitismo, anche se lontano dalle forme estreme presenti in
altre parti dell'Europa, fosse quello cattolico, almeno da quello che ha notato
Renzo De Felice. Non si sa se questo sia dovuto allo scarso peso
demografico degli ebrei in Italia (tra le 35 mila e le 40 mila persone) o
perché non avessero mai occupato un posto di primo piano nella vita
economico-politica del paese.
Fu durante il pontificato di
Leone XIII che si intensificò un certo attacco della stampa cattolica contro
gli ebrei, associandoli ai massoni. In primo piano c'era La Civiltà Cattolica
che ha riservato almeno per un decennio una particolare attenzione agli ebrei
europei e italiani. E lo stesso Preziosi, molti anni dopo, al tempo delle leggi
razziali fasciste, ripubblica sulla sua rivista gli articoli pubblicati dalla
rivista dei gesuiti, in particolare un articolo,“Della questione giudaica in
Europa”del padre Raffaele Ballerini, apparso nel 1890. In
particolare si fa riferimento alla polemica parallela su come considerare gli
ebrei, tra due padri Oreglia e Guidetti.
Ritornando a Ballerini,“il
padre gesuita iniziava con il notare quanto fosse viva in Europa, ancora alla
fine del secolo XIX, la questione ebraica, quanto essa perturbasse le maggiori
nazioni, preoccupate per 'l'invasione degli israeliti in ogni appartenenza
della vita pubblica e sociale' e come in Francia, in Austria, in Germania, in
Inghilterra, in Russia, in Romania e in altri luoghi fossero sorte delle leghe
per arrestarla”. Ballerini era convinto però che la “questione giudaica”
non aveva origine per odio alla religione o alla stirpe,“In realtà essa
nasceva dall'abbandono da parte degli ebrei della legge mosaica e dalla sua
surrogazione con il Talmud”. Il cardine del talmudismo prevedeva “l'oppressione
e la spogliazione dei popoli che ai suoi seguaci avessero concesso ospitale
soggiorno”. Non solo ma secondo il talmud, gli israeliti sono la razza
superiore del genero umano e che solo a loro compete il diritto di conseguire
il pieno “possesso dell'universo”.
Interessante a questo
proposito le considerazioni di padre Ballerini in riguardo alle rivoluzioni
dell'Ottocento che hanno portato alla scomparsa di numerose monarchie e
ordinamenti cristiani, senza che i popoli beneficiassero di nulla. Il tutto
unicamente a pro del giudaismo. Fanno impressione le riflessioni del padre
gesuita sulle condizioni dell'impero asburgico, qui come in nessun altro luogo,
in trent'anni dalla loro emancipazione,
hanno conquistato il potere in ogni ambiente.“Nella capitale austriaca essi
avevano occupato le banche e con questo il giro del pubblico denaro […] Tutti i
primari giornali erano in mano loro ed erano diretti e scritti da 'centodieci
loro confratelli'. Loro monopolio era anche l'università, della quale
occupavano pressoché tutte le cattedre[...]”. Ulteriori riflessioni si
trovano in merito alla rivoluzione bolscevica russa, organizzata perlopiù da
elementi molto vicini al giudaismo. Soltanto due, Lenin e Cicerin, erano russi,
“gli altri diciassette erano tutti figli di Israele”.
Il libro di Canosa
ripercorre le varie vicende su come si è giunti alle leggi razziali,
alle posizioni dei giornali e in particolare alle spinte di Preziosi e
Farinacci. Il testo fa riferimento ai vari provvedimenti, ai vari criteri su
chi doveva essere discriminato, su chi poteva essere espulso e chi no.
Infatti dando uno sguardo ai
decreti legislativi riguardanti le leggi razziali, c'erano almeno sette
categorie esentate dalle discriminazioni, almeno nella prima fase delle leggi.
Infatti “la guerra portò con sé una nuova grave vessazione nei confronti
degli ebrei, costituita dall'internamento”. E soprattutto con l'occupazione
tedesca del Nord Italia, i rastrellamenti di ebrei si intensificarono. Ai
nazisti importava poco delle prime discriminazioni previste dalle leggi. Canosa
a questo proposito riporta due circolari telegrafiche, inviate alle prefetture
con elenchi di ebrei pericolosi da internare. E qui ritorna a farsi sentire la
Santa Sede insistendo sugli inconvenienti prodotti dalla legislazione razziale
nell'ambito dei matrimoni misti. riporta i vari e dolorosi rastrellamenti di
ebrei nelle città italiane.“Gli arrestati dell'Italia settentrionale furono
condotti nel carcere milanese di San Vittore che fungeva da luogo di raccolta”.
E dopo portati alla stazione Centrale caricati su carri merci, furono spediti per
il campo di concentramento di Auschwitz. Tuttavia da tutti i riferimenti
riportati nel libro, appare evidente “la sostanziale connivenza delle
autorità italiane, 'grandi' e piccole, nei confronti dei tedeschi, alle cui
richieste, contrastanti con le leggi italiane vigenti, il più delle volte non
venne mossa neppure la più blanda delle obiezioni e, nei casi in cui venne
mossa, rientrò immediatamente, non appena i tedeschi fecero mostra di qualche
insistenza”.
Comunque sia, “Le leggi
razziali non restarono senza eco nella Chiesa e negli ambienti ufficiali
cattolici, i quali ebbero a manifestare qualche perplessità nei loro confronti,
anche se di modesta entità”. La Civiltà Cattolica, tirata in ballo da
Preziosi, ritenne opportuno precisare il suo punto di vista sulla questione
ebraica in due articoli a firma di Enrico Rosa. Praticamente si puntualizzava
che i testi di Ballerini, di cinquant'anni fa, erano stati scritti in altri
contesti e probabilmente era stato travisato il suo pensiero, che non rappresentava
un “programma di vendetta o di rappresaglia”, o di “guerra senza
quartiere” contro gli ebrei. Anzi,“esso era invece un caldo e motivato
richiamo alla vigilanza e alla difesa, efficace ma pacifica, contro un pericolo
e disordine civile, non meno che religioso e morale, della società moderna,
minacciata dal giudaismo”. Tuttavia
Canosa ci tiene a specificare che “quello mussoliniano, almeno fino al
momento in cui il Rosa scriveva, non appariva (e non era), a differenza di
quello nazista, un atto di guerra contro gli ebrei, ma rassomigliava
stranamente proprio al programma di 'vigilanza e difesa, efficace ma
pacifica' del Ballerini [..]”.
Canosa passa poi
all'atteggiamento tenuto nei confronti delle leggi dalla Santa Sede, e si dà
conto di una serie di lettere dove si prospettavano preoccupazioni sulle varie
discriminazioni, in particolare ai matrimoni misti. Si fa riferimento a due
lettere di Pio XI, una al Presidente del Consiglio e l'altra al Re.
Tuttavia Canosa
sull'atteggiamento della Chiesa nei confronti delle leggi, è d'accordo con lo
storico De Felice:“In cinque mesi di trattative in pratica mai la Santa Sede
affrontò ex professo la questione dell'antisemitismo. Anche nei momenti di più
accesa polemica, questa si rivolse genericamente contro il razzismo, mai contro
l'antisemitismo”. Anche se il Papa e la maggioranza delle gerarchie
cattoliche “era, in sostanza, desiderosa di non apparire, agli occhi
dell'opinione pubblica fiancheggiatrice della politica razziale fascista,
perchè temeva che questa potesse, sull'esempio tedesco, degenerare in un
anticristianesimo [...]”.
Lo studio di Canosa prende
in considerazione una grande vastità di argomenti, spesso anche complessi,
pretendendo forse di dare a tutti qualche risposta, ma non è certamente facile,
come si può notare esaminando il testo.
domenica 18 febbraio 2018
La lezione di Don Bosco per prevenire la violenza giovanile
di Domenico Bonvegna
Intendo festeggiare a modo
mio, la festa di San Giovanni Bosco, il santo dell'educazione per
eccellenza, per l'occasione presento un libro tutto salesiano, l'ho “catturato”
nel solito outlet librario della città. Mi riferisco a “Memorie di una
casa di rieducazione” del sacerdote Luigi Melesi, Don
Bosco Edizioni (2016). Il testo è prefato niente di meno che dal Papa Paolo VI,
che quando era arcivescovo di Milano, ha accompagnato e sostenuto il Centro
Salesiano di Arese, vicino Milano.
In questo libro il sacerdote
salesiano ha voluto raccontare la sua esperienza di sette anni di catechista,
insegnante ed educatore, nella casa di rieducazione di Arese. E' necessario che
quelle esperienze non vadano perdute.“Bisogna tramandarle, forse altri
potranno ispirarsi leggendole, e ripetere questa esperienza educativa,
eccezionale e meravigliosa, che ha del sorprendente e, vorrei dire, del
miracoloso che fa supporre un intervento diretto di don Bosco, il santo patrono
di tanti ragazzi di strada”.
Il Centro Salesiano “S.
Domenico Savio” di Arese è una continuazione del lavoro missionario di don
Bosco, compiuto cento anni prima. I salesiani sono riusciti a trasformare
questo centro, gestito prima dall'Associazione Nazionale Cesare Beccaria,
da una realtà vecchia sudicia e squallida dove languivano 300 ragazzi
“traviati”, colpevoli di essere poveri, ignoranti e meridionali, in in centro
gioioso ed efficiente.
Il sacerdote racconta i vari
passaggi di riabilitazione di quel luogo che era diventato molto simile ad un
carcere. Siamo nel 1955, per volontà dell'allora cardinale Giovanni Battista
Montini la struttura passa nelle mani dei salesiani.
Don Melesi descrive le
condizioni misere di questi ragazzi disagiati, ci sono anche le foto,“i loro
corpi sembravano in agguato, quelle teste erano stanche; era rimasta nei corpi
una vitalità animale[...]”. La signora Devoto Falk, commissaria del
Beccaria, racconta:“Siamo rimasti colpiti dall'immagine angosciante di 350
bambini, ragazzi e giovani, passivi, annoiati, di un ozio forzato, tristi e
nauseati […] appoggiati ai muri, seduti o sdraiati per terra”. Era un
sistema infernale, tutto incentrato sulla reclusione e sulla repressione. E'
uno dei fallimenti dello Stato, le autorità laiche capiscono il grave problema
e cercano una soluzione intelligente e umana.
Il 29 settembre del 1955
diciannove salesiani giungono ad Arese con la benedizione dell'Arcivescovo di
Milano, per incontrare i 300 ragazzi dell'Istituto, non per stare un giorno,
una settimana, un mese, ma anni per accompagnarli giorno e notte, nel loro
cammino formativo per diventare onesti cittadini e buoni cristiani.“Abbiamo
accettato questa nuova opera educativa, tanto impegnativa e onerosa, solo con
la tessera di operai salesiani, senza soldi, ma con tanta fiducia nella
Provvidenza di Dio, che aiuta sempre chi lavora per il suo regno”.
Don Melesi racconta i primi
momenti con questi ragazzi:“Cari ragazzi, vi incontriamo volentieri dopo
avervi tanto sognato”. Il nuovo direttore don Della, “siamo come una
squadra di calcio[...] con titolari e riserve, io sarò il vostro allenatore, il
C.T., ma giocherò anch'io con voi nel ruolo di attaccante centrale. Non
vogliamo sfidarvi, ma giocare con voi e per voi”. Don Della presenta, uno a
uno, tutti i suoi collaboratori. Il primo passo è stato fatto, “finalmente
in quei ragazzi è rinata l'allegria, la voglia di correre e di giocare.
L'allegria sarà la nota dominante del Centro […] Vogliamo che i ragazzi abbiano
sempre la libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento, come voleva
don Bosco, e il cortile sarà una palestra di vera vita”.
Successivamente al centro
arrivano le suore salesiane, vestite di bianco,“le figure femminili al
Centro erano importanti per creare un ambiente naturale, come Dio l'ha creato”.
Probabilmente questi ragazzi non hanno mai conosciuto un clima così familiare,“forse
non hanno mai conosciuto né madri, né sorelle, né donne che ripetevano loro
parole d'amore, ed esprimevano gesti di bontà”.
Poi il libro descrive
l'operatività dei tre laboratori, dove lavorano i ragazzi. Quelli del Beccaria
erano fatiscenti. Si apre un grande cantiere, si demolisce tutto quello che era
vecchio, che non serve, finestre, muri, le celle.“La demolizione di quei
segni repressivi era seguita con gioia e allegria”. Bisognava costruire
uomini nuovi, del resto i Salesiani hanno da sempre cercato di “costruire
uomini veri”. Ci sono le tante foto a dimostrarlo.
Nel libro di don Melese si
parla del sistema preventivo di don Bosco, che si basa su tre
elementi fondamentali: ragione, religione e amorevolezza.
Ma tutto il principio è fondato sulla fede religiosa e cristiana e si sviluppa
dalla stessa, con l'intenzione dominante di salvare le anime, coltivando la
grazia di Dio nella vita del ragazzo.
Il Centro salesiano pone al
centro dell'attenzione, la questione della rieducazione a scoprire tutte le
dimensioni della vita umana. Qualcuno sostiene che bisogna mettere nel loro
cuore la speranza e portarli all'amore di Dio e del prossimo.
Il Centro ora in mano ai
salesiani,“non doveva più essere un concentramento di 'delitti e pene' in
onore di Cesare Beccaria, ma un cantiere di riqualificazione, per creare
onesti cittadini e buoni cristiani, nello stile allegro di Domenico Savio”.
Al capitolo 10 del testo,
l'autore ricorda come hanno attuato “lo studio e il lavoro” nel
nuovo Centro. Certamente un'impresa difficile anche perché i “ragazzi erano
abituati all'ozio, esperti nei guadagni facili e illegali, condizionati da
esempi negativi e dannosi di adulti, con l'intelligenza intorpidita e la
volontà debole e dominata dagli istinti irrazionali, non fu facile accettare la
scuola e una precisa professione per le quali impegnarsi con costanza e
passione”. E' importante descrivere gli inconvenienti, per evitare facili
edulcorazioni. Il sacerdote è convinto che ogni casa salesiana dovrebbe
prendere appunti e segnare gli avvenimenti più significativi, le emozioni
rilevanti e la prassi pedagogica vissuta dalla comunità. Infatti nel capitolo
15, si entra nel merito del sistema preventivo educativo salesiano, in
particolare come correggere i ragazzi, senza fredde punizioni particolari,
entrare in amicizia con loro e fargli capire che sono amati.
Don Melesi leggendo le
memorie di don Bosco, si è reso conto che i problemi che ha incontrato il
santo, sono gli stessi della casa di rieducazione di Arese.
A questo proposito riporta
una descrizione abbastanza significativa di San Giovanni Bosco:“Don Cafasso
mi condusse nelle carceri dove imparai a conoscere la malizia e la miseria
degli uomini. Vidi turbe di giovani sull'età dai 12 ai 18 anni: tutti sani,
robusti e d'ingegno svegliato, ma inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar
di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire, il discredito
della patria, il disonore della famiglia e l'infamia di se stesso erano
personificati in quegli infelici”.
Don Melesi entra nel
particolare delle varie discipline proposte ai ragazzi difficili, ma
soprattutto sottolinea che la principale educazione è il lavoro e con il
lavoro. Da sempre il lavoro è considerato dai salesiani, fonte essenziale della
formazione integrale di noi stessi e dei ragazzi.
Era evidente che i 300
ragazzi preferivano il lavoro materiale e manuale a quello scolastico e
astratto: cinque ore al giorno erano da loro vissute nei laboratori.
All'inizio questi laboratori
operativi erano ridotti alla meccanica, la grafica e la falegnameria. C'erano i
maestri che facevano eseguire alla perfezione il lavoro. Negli anni successivi
i laboratori si arricchirono di nuove sezioni: saldatura, motoristica,
elettronica. Il testo naturalmente è corredato da numerose fotografie che
evidenziano il grande impegno dei religiosi per il riscatto di questi giovani,
spesso rifiutati e non compresi dalla società. Peraltro non sono mancate le
dicerie e le invettive contro questi ragazzi da parte dei cosiddetti
perbenisti, ma i salesiani li hanno sempre difesi: “i nostri ragazzi sono
persone a pieno diritto, anche se disturbati dai vari condizionamenti della
loro personalità[...]”. Tuttavia,“Molti di loro si sentono rifiutati
dalla famiglia, dalla scuola, dall'ambiente sociale. L'oppressione dell'anima
in loro produce spesso un'ostilità e un'aggressività istintiva nei confronti di
chi sentono avversari e nemici”.
Inoltre,“molti di questi
nostri ragazzi hanno vissuto esperienze sconvolgenti, in famiglie dissociate,
dominati da un ambiente culturalmente violento e vendicativo, circondati da
modelli negativi e anaffettivi, inseriti in gruppi delinquenziali o in famiglie
rivali, costretti a vivere sulla strada, disertori scolastici e senza
prospettive lavorative, guidati da una coscienza indurita e torbida, inclini a
soddisfare i propri desideri istintivi, privi di razionalità e di riflessione”.
Nulla di nuovo sotto il sole, sembra di descrivere certe situazioni odierne di
depressione sociale giovanile, presente in molte periferie delle nostre
città.
Don Melese insiste sul
lavoro di trasformazione del Centro, operato dai religiosi tutti. Nei primi
quattro anni di lavoro,“abbiamo arredato le aule scolastiche, le camerate e
le sale da pranzo; ampliato i laboratori, attrezzandoli secondo le più moderne
esigenze del mondo del lavoro; il tempo libero è stato animato e organizzato
con attività culturali, sportive e ludiche[...]”. La Madonna con il braccio
il bambino è stata collocata al posto del busto di Cesare Beccaria che per i
ragazzi rappresentava una realtà da rimuovere, perché ricordava a loro i tempi
dell'umiliazione e della pena.
Don Melese racconta tanti
particolari e curiosità su questi ragazzi, sulle loro gite, al mare, in
montagna, sulle loro attività culturali e sportive nel Centro e fuori. Il libro
di don Melesi documenta tutto.
Alla fine in un solo
capitolo, il 32°, don Melese fa i nomi di quelli che hanno contribuito fattivamente
a rifondare il Centro salesiano.“Tra tutti primeggia al signora Giulia
Devoto Falck, che guidò con materna cura le prime innovazioni[...]”.
Concludo con le belle parole
del pontefice Paolo VI rilasciate nell'udienza privata ai Salesiani di Arese,
il 28 agosto 1969. Il Papa si sentiva coinvolto personalmente alla sorte del
Centro.“Fu un atto di sfida alle diffidenze e di fiducia nelle risorse della
vostra pedagogia, atte a voltare il cervello a questi ragazzi e a guarirne il
cuore. E la cosa riuscì...Avete dato testimonianza di essere fedeli al vostro
Padre, buttarsi in mezzo ai ragazzi, essere pii, buoni, pazienti e
intelligenti...Siamo riusciti, siete riusciti”. Ha detto il Papa.“Voi
avete rimesso nel loro animo la speranza, nel nome di Cristo e di don Bosco.
Avete detto al ragazzo: 'Tu puoi diventare uomo, tu puoi diventare buono, tu
puoi diventare professionista'[...]”.
sabato 17 febbraio 2018
Raccontare la vera storia per far crescere la politica
di Domenico Bonvegna
Non obbligato a rincorrere
l'attualità, peraltro c'è chi lo fa anche per me, continuo a rimanere fedele ai
miei studi storici per conoscere la vera Storia dell'Occidente.
Ci sono alcuni periodi storici,
grandi epoche, che continuano ad essere raccontate in maniera distorta, tra
questi i più gettonati sono i cosiddetti “secoli bui” del Medioevo, il
Rinascimento, l'Illuminismo, la cosiddetta Riforma protestante. Da troppo
tempo, a cominciare dal protestantesimo, si accettano versioni distorte della
verità storica. Come quella di Cristoforo Colombo che si
scontrava con la Chiesa cattolica che sosteneva che la terra era piatta. Tutte
balle! Che la terra era rotonda lo sapeva anche la Chiesa.“L'opposizione
contro cui Colombo dovette scontrarsi non riguardava la forma della Terra, ma
il fatto che, nel calcolare la circonferenza del globo, si sbagliava alla
grande”. Colombo era convinto che la distanza dalle Canarie al Giappone era
di 14.000 miglia circa, invece gli ecclesiastici“sapevano benissimo che era
decisamente maggiore ed erano contrari alla spedizione per il semplice motivo
che si rendevano conto che Colombo e i suoi uomini sarebbero morti tutti in
mezzo al mare”. Poi sappiamo come andò a finire, intanto nei libri di
Storia a scuola si scrisse che Colombo ha dimostrato che la terra è rotonda.
Ancora oggi i testi scolastici veicolano questa falsità sulla terra piatta.
Tutto questo è scritto nella
prefazione al documentato ultimo lavoro storico di Rodney Stark, “False
testimonianze”. Come smascherare alcuni secoli di storia
anticattolica”, pubblicato nel 2016 da Lindau.
“Tutto iniziò con le guerre
scatenate in Europa dalla Riforma - scrive Stark - che mise cattolici contro
protestanti e fece milioni di morti, guerre durante le quali la Spagna emerse
come la principale potenza cattolica. Per tutta risposta, Inghilterra e Olanda
promossero violente campagne propagandistiche in cui gli spagnoli venivano
descritti come barbari fanatici e assetati di sangue”. Hanno orchestrato
una specie di “Leggenda nera”, diffondendo libri dove la Spagna era descritta
come oscurantista, ignorante e malvagia. Ancora oggi è radicato questo
pregiudizio sulla Spagna e i cattolici, basta nominare l'inquisizione spagnola
per suscitare sdegno e disgusto.
Rodney Stark nel libro fa
nomi e cognomi di questi autori anticattolici, illustri fanatici come
Edward Gibbon, il primo di un lungo elenco. Peraltro negli ultimi anni ci sono
contributi alla storia anticattolica da parte di ex preti, come John Cornwell,
James Carrol, o ex suore come Karen Armstrong.
Nella prefazione, Stark fa
l'elenco delle affermazioni più comuni sulla storia occidentale di questi
illustri fanatici:
- La Chiesa cattolica ha
causato e avuto parte attiva in quasi due millenni di violenza antisemita e
anche dopo il Vaticano II, ancora oggi non si è ravveduta per il fatto che Pio
XII è noto come il “papa di Hitler”.
- Solo di recente abbiamo
conosciuto i vangeli cristiani “aperti”, tenuti nascosti da prelati
oscurantisti.
- Appena arrivati al potere
i cristiani hanno perseguitato brutalmente il paganesimo fino a eliminarlo.
- La caduta di Roma e
l'ascesa della Chiesa causarono il declino dell'Europa, che precipitò in un
millennio di ignoranza e arretratezza. I cosiddetti secoli bui del Medioevo.
- Le Crociate, iniziate dal
papa, furono il primo sanguinoso capitolo nella storia del colonialismo
europeo.
- L'inquisizione spagnola
torturò e assassinò un gran numero di persone innocenti per crimini
“immaginari”, come stregoneria e blasfemia.
- La Chiesa cattolica temeva
e perseguitava gli scienziati, come dimostra il caso Galileo. Pertanto la
“rivoluzione scientifica” avvenne soprattutto nelle società protestanti.
- La Chiesa cattolica non
fece nulla contro la schiavitù
- La Chiesa è contraria alla
democrazia ai governi liberali, appoggia con convinzione le dittature.
- Infine fu la Riforma
protestante a spezzare la repressiva morsa cattolica sul progresso e a
spalancare le porte al capitalismo, alla libertà religiosa e al mondo moderno.
Ecco tutte“queste
affermazioni fanno parte - scrive lo storico americano - della cultura
comune, ampiamente accettate e frequentemente ripetute. Eppure sono tutte false
e molte sono addirittura il contrario della verità!”. Praticamente il libro
di Stark rappresenta una sintesi riveduta di tutti i precedenti suoi libri di
“controstoria”che ha scritto in questi anni. Esiste una enorme massa di testi
zeppi di falsità, e Stark, con questo saggio vuole fare un'opera essenzialmente
di giustizia, che non interessa a chi non c'è più, ma interessa ai vivi, cioè a
tutti noi.
Il libro potrebbe sembrare
un'opera apologetica, ma non lo è, anche perché Stark, non è cattolico e questo libro non lo ha
scritto per difendere la Chiesa. “l'ho scritto per difendere la storia”.
Nel 1° capitolo Stark smonta
la polemica dell'invenzione dell'antisemitismo e della persecuzione
degli ebrei da parte della Chiesa ufficiale. Certo ci sono state nella storia
singoli ecclesiastici convinti che Dio odiava tutti gli ebrei, ma erano
opinioni.“Spesso il clero difendeva gli ebrei locali dalle aggressioni,
talvolta rischiando la propria vita”. Peraltro Stark, ha potuto appurare,
consultando altri illustri storici, che tra il 500 e il 1600, c'è stato un solo
caso di antisemitismo a Clermont nel 554.“Il fatto che non ci siano stati
altri incidenti analoghi dimostra che la Chiesa condannasse atti di questo
tipo, sottolineando che le conversioni forzate non erano valide e che gli ebrei
dovevano essere lasciati stare, posizione ribadita più e più volte dalla Chiesa
nel corso dei secoli; il divieto di battesimo forzato fu applicato persino ai
musulmani nel periodo delle crociate”.
Tuttavia quando gli ebrei
subirono attacchi da parte delle popolazioni come nella Valle del Reno,
furono i vescovi che cercarono di proteggerli, il Papa stesso condannò
duramente, tutti questi attacchi, in particolare Clemente IV. Tuttavia il
numero delle vittime sarebbe stato molto più elevato se non fosse intervenuto
San Bernardo di Chiaravalle, che si precipitò in Renania e ordinò di mettere
fine ai massacri. E comunque dove ci furono espulsioni di ebrei, avvenne per
iniziativa delle autorità secolari, non su istigazione della Chiesa.
Un'altra faccenda da
chiarire sono i rapporti tra musulmani ed ebrei a proposito della loro
convivenza in Spagna. Qualcuno ha scritto, del “magnifico emirato di
Cordova, dove bellezza, tolleranza, sapere e ordine prevalevano[...]”.
Anche il più accanito anticattolico non può credere ad affermazioni simili.
Naturalmente Stark non ha difficoltà a scoprire come le autorità musulmane non
fossero per niente tenere nei confronti degli ebrei e dei cristiani.
Ritornando al rapporto ebrei
e Chiesa, Stark conclude il capitolo chiarendo la questione Pio XII e Hitler.
La campagna di collegare il Papa a Hitler fu avviata in Unione Sovietica, dove
notoriamente si rispettava la verità. Stark sottolinea che questa campagna di
diffamazione dei sovietici contro il Papa, fu notevolmente zittita, con un coro
di apprezzamenti in difesa di Pio XII, soprattutto dagli ebrei. Negli ultimi
giorni della guerra, il premier israeliano incontrò il Papa, e potè dirgli:“a
nome del popolo ebraico, il mio primo dovere era ringraziare la Chiesa
cattolica, per tutto quello che, in vari continenti, hanno fatto per salvare ebrei”.
E poi dopo la morte di Pio XII, Golda Meir, futuro premier di Israele
sottolineò i suoi sforzi in difesa degli ebrei europei, definendolo“un
grande servitore della pace”: quella generazione di israeliani ben sapeva che
papa Pio XII aveva personalmente fatto molto per proteggere e difendere gli
ebrei dai nazisti”. Poi arrivò il libro di Cornwell, “Il Papa di
Hitler”, quindi la fiction, “Il Vicario”, di Rolf
Hochhuth, in cui il papa era descritto come un antisemita.
Il terzo capito affronta la
cosiddetta persecuzione dei pagani compiuta da cristiani militanti e
quindi dalla Chiesa nascente. Secondo gli storici illuminati, la Chiesa aveva
rapidamente abbattuto tutti i templi pagani e schiacciato ogni opposizione.
Stark chiarisce la posizione dell'imperatore Costantino che non mise fuorilegge
il paganesimo, anzi continuò ad elargire finanziamenti ai templi pagani. Tra
l'altro continuò a nominare pagani a ricoprire cariche estremamente importanti,
comprese quelle di console e prefetto. “Sia nelle parole che nei fatti,
Costantino difese il pluralismo religioso, persino rendendo esplicita la
propria adesione al cristianesimo”.
Comunque sia Stark in questo
testo, dopo aver approfondito meglio l'argomento, si è reso conto che non
bisogna “sottovalutare la profondità del paganesimo”. I pagani di fine
IV e inizio V secolo, sono descritti come “nostalgici appassionati di
antichità”. “Al contrario, in realtà la loro fu una fede attiva, basata
sulla convinzione che il mondo è colmo di divino, e che un sacrificio correttamente
eseguito porta l'uomo a un'intima comunione con il divino”.
Il quarto capitolo, si
affronta il mito dei “secoli bui”, la Chiesa domina la vita
intellettuale per oltre un millennio, al punto che l'ignoranza prevale in tutta
l'Europa. “La ragione fu incatenata, il pensiero schiavizzato e il sapere
non progredì”, questa è la sintesi dei cosiddetti storici illuminati come
William Manchester. Il Medioevo viene descritto come un periodo di “incessanti
guerre, corruzioni, illegalità, ossessione per strani miti e una quasi
impenetrabile irrazionalità[...]”. E poi arriva il Rinascimento, dove il
controllo della Chiesa diminuisce sulle principali città dell'Italia centrale e
così si arrivò alla rinascita della cultura classica greco-romana. Questa è la
tesi diffusa dai cosiddetti storici illuministi, ed è peraltro lo schema
fondamentale di qualsiasi testo scolastico dedicato alla storia occidentale,
anche se gli storici seri sapevano che era uno schema completamente falso.
Tuttavia per Stark usare il
termine Rinascimento è inappropriato, soltanto perché non possiamo accettare
che ci furono, secoli bui.
Si è molto scritto che i
popoli del nord erano barbari, attenzione però, i goti che conquistarono Roma,
non erano barbari, indipendentemente come i romani li chiamassero. Alarico,
aveva prestato servizio nell'esercito romano come comandante e la maggior parte
dei suoi soldati erano veterani delle legioni romane. “Allo stesso modo, il
'barbarico Nord' era stato pienamente 'romanizzato' da un pezzo e disponeva di
sofisticati centri manifatturieri[...]”. In Svezia, vicino Stoccolma, c'era
un centro industriale che sfornava grandi quantità di attrezzi e armi di ferro,
gioielli in bronzo, ornamenti in oro. In tutto il Nord Europa, patria dei
cosiddetti “barbari”, c'erano numerosi centri industriali.
Rodney Stark, cita lo
storico francese Jean Gimpel, per sostenere che fu proprio
durante questi secoli che l'Europa compì il grande balzo tecnologico che la
pose all'avanguardia rispetto al resto del mondo. Pertanto, non si comprende,“Come
è possibile che gli storici abbiano travisato così le cose?”
Comunque per Stark,
l'imbroglio che l'Europa sarebbe precipitata nei “secoli bui”, è una
macchinazione fortemente voluta da intellettuali antireligiosi come Voltaire e
Gibbon, determinati a sostenere la loro “Età dei Lumi”.
Tuttavia secondo Stark,
questi storici sono stati incapaci a “valutare, o persino notare, gli
elementi fondamentali della vita reale”. Pertanto, “le rivoluzioni in
campo agricolo, armamenti e tecnica militare, utilizzo di energie non
direttamente fornite dall'uomo, trasporti, manifattura e commercio non vennero
presi in considerazione”.
La stessa cosa capitò per il
notevole progresso morale, per esempio al tempo del Rinascimento, da molto
tempo era sparita la schiavitù, per non parlare della cultura di alto livello. Hanno snobbato l'enorme
progresso che avvenne nel campo della musica, dell'arte, della letteratura,
dell'istruzione e della scienza. E poi Stark, non si stanca di elencare i
progressi della tecnologia, la rivoluzione dei mulini a vento, con la forza
dell'acqua, le dighe. Altra innovazione rivoluzionaria furono gli occhiali,
inventati intorno al 1280 e poi prodotti in massa. Nel medioevo fu inventata la
cavalleria pesante, i romani non la conoscevano, furono i “barbari” franchi che
misero i primi cavalieri con armature pesanti in groppa a cavalli massicci e
massacrarono le truppe degli invasori musulmani sul campo della battaglia di
Tours, quando li caricarono imbracciando lunghe lance, saldi sulle selle
normanne dall'alto schienale e sulle loro rivoluzionarie staffe.
Tutte le società del mondo
erano schiaviste. “In questa situazione di schiavismo universale, una
sola civiltà respinse la schiavitù di esseri umani: il cristianesimo”.
Per non parlare della
cultura come si fa a chiamare secoli bui, una civiltà che ha prodotto le grandi
cattedrali gotiche, le prime università, gli ospedali.
Il quinto capitolo, dedicato
alle Crociate. Scatenati da “papi assetati di potere”, desiderosi di
espandere la cristianità mediante la conversione di masse islamiche. Inoltre
secondo questi storici illuminati, “i cavalieri europei erano dei barbari
che massacravano chiunque si trovasse sul loro cammino, lasciando 'l'elevata
cultura islamica[...] in rovina'”.
Nel 2015 il presidente Obama
non volendo identificare come musulmani i terroristi che trasmettevano video
delle numerose decapitazioni di nemici, ricordava che “le crociate e
l'inquisizione avevano commesso azioni terribili in nome di Cristo”. Non si
tratta di accuse nuove, a condannare le crociate ci ha pensato il solito
Voltaire che definì le crociate “un'epidemia di furia che durò per duecento
anni[...]”. Poi ci ha pensato David Hume, quindi Denis Diderot. Le crociate
erano viste come fanatismo e crudeltà dei cattolici. In pratica i crociati sono
stati visti come imperialisti occidentali ante litteram, che usarono una
motivazione religiosa per andare alla ricerca di terre e bottino. Per questi
signori, durante le crociate,“una cristianità espansionista, imperialista,
dominata dal papa, brutalizzò, saccheggiò e colonizzò un tollerante e pacifico
islam”. Naturalmente Stark smonta tutte queste fandonie.
Le crociate essenzialmente
furono un evento difensivo e Stark lo dimostra, non con gli slogan, ma con i
documenti. Sull'argomento non possiamo ulteriormente approfondire, vi lascio
alla lettura del libro.
Il sesto capitolo si occupa
dei “Mostri dell'inquisizione”, anche qui soprattutto per l'inquisizione
spagnola si sono scritte un cumulo di menzogne, inventate e diffuse dai
propagandisti inglesi e olandesi nel XVI secolo. Tuttavia “l'inquisizione
spagnola fu un notevole strumento di giustizia, moderazione, giusto processo e
saggezza”. Prendendo in considerazione il periodo pienamente documentato,
dei 44.674 casi le persone giustiziate furono soltanto 826 (1,8%, di quelli
processati). Nel periodo compreso tra il 1480 e il 1700, “in tutta la Spagna
le sentenze di morte inflitte dall'inquisizione furono circa dieci all'anno,
una percentuale minima delle molte migliaia di luterani, lollardi e cattolici
(oltre a due delle sue mogli) che Enrico VIII avrebbe fatto bollire, bruciare,
decapitare o impiccare”. Peraltro i pochi condannati spagnoli erano dei
veri delinquenti abituali, che non si sarebbero pentiti.
E comunque l'Inquisizione
spagnola fu istituita per affrontare una crisi sociale riguardante i conversos,
i convertiti ex-ebrei ed ex-musulmani diventati cattolici. La storiografia
ufficiale, ripete che l'inquisizione è nata per smascherare i finti cristiani. “La
verità è che quasi tutti gli ebrei e la maggior parte dei musulmani convertiti
erano sinceri, e l'Inquisizione fu istituita per eliminare le croniche
esplosioni di violenza da parte di folle inferocite e sostituirle con regolari
processi, così come per smascherare coloro la cui conversione non era sincera”.
Del settimo capitolo ce ne
siamo occupati presentando il libretto di Agnoli su il misticismo dei
matematici. Stark qui descrive tutti i protagonisti della cosiddetta
“rivoluzione scientifica”, scienziati, tutti cristiani e per giunta anche
religiosi, quindi molto vicini a Dio, altro che agnostici o atei.
Nell'ottavo capitolo si
smonta il mito della Chiesa che benedici la schiavitù. Nel nono capitolo a
proposito dell'autoritarismo, si smantella un altro mito, quello che la Chiesa
favorisce i regimi tirannici. Qui Stark fa un breve riferimento alla
rivoluzione francese, a quella bolscevica, ma sopratutto a quella spagnola del
1936-39, quando la Chiesa fu costretta a scegliere il governo nazionalista del
dittatore Francisco Franco, che ha “salvato” tantissimi religiosi e credenti
dalla furia iconoclasta anarco-comunista.
Infine nel decimo capitolo,
sulla Modernità Protestante. Tra i sociologi, per troppo tempo, si è falsamente
creduto che fu la Riforma a determinare l'ascesa del capitalismo in Europa e,
con il capitalismo, l'età moderna.
venerdì 16 febbraio 2018
L'epopea dei Cristeros in Messico.
di Domenico Bonvegna
Dopo la Rivoluzione Francese, quando
la fede e la cultura cattolica di un popolo viene minacciata, schiacciata e
perseguitata, quasi sempre capita che quel popolo reagisca e prenda le armi. Si
è verificato con il popolo Vandeano; poi con tutte le insorgenze popolari
cristiane e controrivoluzionarie che hanno preso le armi per combattere le
armate francesi napoleoniche, fino alle rivolte dei Cristeros in
Messico.
Tra il 1925 e il 1929,
nell'indifferenza del mondo occidentale, il Messico visse una tragedia senza
precedenti. Il Governo messicano in mano a un piccolo gruppo di potere,
illuminato dalla massoneria, guidato dal semi-dittatore Plutarco Elias
Calles, inasprirono a tal punto la legislazione antireligiosa che già
aveva colpito la comunità cattolica, da rendere impossibile qualsiasi
manifestazione della fede. Il risultato fu che tutti i luoghi di culto (chiese,
conventi, seminari, scuole, istituti di carità) furono chiusi o confiscati. “Di
fatto, dopo il 31 luglio 1925 la Chiesa
sparì dalla vita del popolo messicano”. A questo punto accade
qualcosa che forse nessuno aveva previsto: centinaia, migliaia di messicani,
appartenenti a tutti gli strati della popolazione, insorsero, imbracciarono le
armi, dando vita a straordinaria epopea: la Cristiada.
Calles e i sui generali federali
pensarono di controllare e di reprimere la rivolta in breve tempo, ma non è
stato così. L'insurrezione dei cattolici messicani, spregiativamente chiamata
dei Cristeros,“coinvolse presto milioni di cittadini e interi Stati della
federazione caddero sotto il controllo di un esercito 'cristero' sempre più
potente e benvoluto”.
La reazione del governo massonico fu
dura e spietata, ben presto si assiste a massacri indiscriminati, campi di
concentramento, impiccagioni di massa. I Cristeros, senza addestramento militare, guidati non sempre da
capi esperti, si mostrarono eroici e soprattutto pronti al martirio. Alla fine
nel 1929, non furono piegati dalle armi, ma dalla diplomazia internazionale,
soprattutto quella americana, dagli accordi, chiamati gli arreglos.
Tutto questo viene raccontato in un
documentatissimo volume dal giornalista e storico Mario Arturo Iannaccone,
“Cristiada. L'epopea dei Cristeros”, Lindau.
Nei primi capitoli il testo di Iannaccone,
da vero esperto del Paese latino americano, racconta le varie fasi politiche
che hanno portato all'emissione delle Ley Calles, che hanno provocato
l'insurrezione popolare.“Per comprendere la paradossale storia del Messico e
la stessa Cristiada, occorre partire dagli inizi del XIX secolo[...]”.
Bisogna indagare sulla storia del Messico, a partire da quando era colonia
dell'impero spagnolo. Qui Iannaccone ricorda come lo sviluppo della Chiesa nel
territorio messicano, come tutte le chiese dei vicereami spagnoli, riceve aiuti
economici per l'evangelizzazione. Naturalmente evidenziando anche i conflitti
all'interno della Chiesa stessa. Iannaccone rileva il miracolo del “meticciato”,
cioè i matrimoni tra i nativi e gli spagnoli, a differenza dei territori dominati
dai protestanti.
Peraltro nel Nuovo Mondo secondo lo
storico, si “tentò di costruire la Città di Dio sulla terra, mentre l'Europa
già cominciava a seguire altre utopie come la scienza e la secolarizzazione”.
Tuttavia con il Real Patronato, in teoria, non vi era spazio per
conflitti tra i due poteri, anche se quello spirituale era in mano al monarca,
che interveniva su tutti gli aspetti della vita della Chiesa.
Le pagine del libro prima di
occuparsi della guerra cristera, si occupa dei vari passaggi politici che
portano a continue elezioni di presidenti della novella Repubblica messicana.
Intanto quasi tutti i politici messicani erano influenzati dal “moderno
anticlericalismo”, che vedeva nel clero, nella Chiesa,“un nemico non più
da migliorare ma da abbattere”. Si trattava di un'ideologia europea portata
“alle masse con il giacobinismo, le idee libertarie e socialiste, ed era
giunta in Messico attraverso la circolazione di libri e l'arrivo di
intellettuali dall'Europa”. Cominciava a imporsi l'idea che lo Stato
dovesse predominare sulla Chiesa.
Il libro segue meticolosamente il
susseguirsi delle elezioni di presidenti, di politici messicani più o meno
liberali. Il testo è pieno di nomi, di personaggi che hanno dominato
l'Ottocento e l'inizio del Novecento in Messico. Ma soprattutto si seguono i
conflitti tra lo Stato e la Chiesa. I fatti che si registrano sono molto simili
a quelli che si possono seguire in Europa, in Italia, in Francia e in Germania.
Si intende riformare la Chiesa per il bene comune, ma poi il vero scopo è
quello di aggredire e incamerare i beni ecclesiastici per usarli oppure
venderli ai borghesi.“La Chiesa fu aggredita simbolicamente ma anche
materialmente quando i governatori spostarono le loro sedi nei palazzi dei
vescovi e nei seminari”.
Nel 2° capitolo si dà conto delle
politiche di scristianizzazione da Lerdo de Tejada a Benito Juarez. Queste
misure repressive, causarono ribellioni spontanee del popolo cattolico, la più
importante fu l'insurrezione dei Religioneres, “un movimento
popolare simile alle insurrezioni antirivoluzionarie della Vandea, del Carlismo
spagnolo e degli Insorgenti dell'Italia Meridionale”.
La guerra dei Religioneros fu “una
guerra di popolo, spontanea e diffusa, senza capi né eserciti, formata da bande
che si riunivano e scioglievano a seconda del bisogno: caratteristiche che si
ritroveranno nell'insurrezione della Cristiada cinquant'anni più tardi”. Ma
anche questa rivolta fu sconfitta dalla diplomazia e non dalle armi. Durante il
governo del generale Porfirio Diaz ci fu una certa calma e la
Chiesa, che gode di libertà, torna a fiorire
e a farsi influente. Diaz, nonostante la sua adesione alla massoneria,
mantenne relazioni cordiali con i vescovi messicani.
Successivamente con la dittatura
militare di Venustiano Carranza, ci fu lo scioglimento del
Congresso dei deputati e subito inizia la repressione religiosa con la confisca
degli edifici religiosi, imprigionamenti ed espulsioni dei vescovi. Ma il
peggio arrivò con la presidenza di Elias Calles a dicembre del 1924. Già nel
febbraio del 1925, Calles inviò una circolare dove ordinava che le celebrazioni
della Settimana Santa, erano consentite soltanto all'interno delle chiese,
proibiva le processioni e altre cerimonie pubbliche.
La tensione torna a risalire,“i
liberali dovevano confrontarsi con una Chiesa moderna e con movimenti cattolici
organizzati, di stampo politico-sociale, che potevano ottenere la maggioranza
nelle consultazioni elettorali”. Allora il governo Calles tentò di creare
un'associazione cattolica per contrastare la Chiesa. L'idea era di creare una
specie di scisma all'interno della Chiesa e soprattutto fondare una Chiesa
nazionale, sotto la direzione del governo. Più avanti Calles stesso confidò
all'ambasciatore francese Lagarde, che la Ley Calles era una trappola per
rendere schiava la Chiesa, “era il preludio alla fondazione di una chiesa
costituzionale e collaborazionista, staccata da Roma”.
Inizia l'assalto alle chiese da parte
degli uomini del governo; i fedeli sono costretti a montare la guardia alle
chiese. I laici cattolici allora fondano la Liga Nacional de defensa
Religiosa (LNDR), successivamente cambiò nome in Liga Nacional
Defensora de la Libertad Religiosa (LNDLR). Intanto il Messico per i
provvedimenti repressivi contro la Chiesa, assomigliava sempre più alla Russia
Sovietica.
Il 5° capitolo Iannaccone esamina il
gruppo rivoluzionario attorno al dittatore Calles, “erano diventati il
gruppo sociale dominante grazie all'uso della violenza”, Tejeda, Obregon,
Morones, Saenz, provenivano tutti dal Nord del Messico, vicino alla frontiera
con gli Usa.“Secondo loro, il Messico era arretrato e debole perché
superstizioso e troppo religioso; questo retaggio proveniva dal passato
coloniale, ispanico, cattolico. Condividevano una rozza ideologia derivata
dalla tradizione liberal-radicale messicana e dagli Stati Uniti protestanti che
avevano una storia di 'crociate', cioè di missioni protestanti inviate nel
Messico per convertire ed educare”.
Questi uomini si consideravano come
dei civilizzatori, chiamati a rigenerare il vecchio paese coloniale. I loro
programmi sono molto simili a quelli dei governi liberali europei, in
particolare a quelli italiani.
I luoghi di ritrovo di questa elite
erano soprattutto le logge massoniche, i club e le mense militari. E poi si
identificavano nel Partido Nacional Revolucionario, creatura di Calles.
Per lo più erano anticlericali, spesso protestanti, benestanti, quasi tutti
massoni e sentivano come loro missione la 'defanatizzazione' del
Messico. Pertanto, “consideravano un dovere distruggere la cultura
ispanica e rimpiazzarla con quella nordamericana. Odiavano indiani, contadini,
preti e ogni espressione di quel vecchio Messico che non comprendevano perché
non era il loro”. Erano quasi degli “stranieri” all'interno del Paese.
Ossessionati dal pericolo cattolico e dall'influsso del Papa e dei suoi uomini,
in particolare dai Gesuiti. Infatti sia Obregon che Calles favorirono il
proselitismo protestante. Addirittura i protestanti controllavano il Ministero
dell'Educazione.
L'altra grande forza, spesso alleata
con il protestantesimo fu la massoneria, che giocò un ruolo
cruciale nel Messico. “La maggior parte degli ufficiali dell'esercito erano
massoni e quando scoppiò la guerra di religione si vendicarono della condanna
decretata dalla Chiesa cattolica nel 1738 contro la massoneria. Erano massoni
anche gli insegnanti, i sindaci, i commissari agrari, i leader dei sindacati,
tutti coloro, insomma, che erano legati al governo per mestiere”. Per la
massoneria latina, il clero cattolico incarnava il male e quindi andava
distrutto. C'era una rivista distribuita alle truppe, “El Soldado”, un
mensile illustrato che dipingeva il Papa e il clero come maniaci sessuali.
Sull'altro fronte i cattolici
continuavano a rafforzare la loro organizzazione. In vista la Union
Popular (UP) di Anacleto Gonzales Flores. Si basava sul
contatto diretto e la clandestinità. Tra i loro capi c'erano anche delle donne.
Poi c'era la Liga che cresceva, nel 1926 dovette affrontare il dilemma se usare
la forza armata per prendere il potere. E questo dilemma perdurò per sempre,
anzi talvolta i loro membri, i dirigenti non furono ben visti dai Cristeros.
Tra il 2 e il 19 luglio del 1926
viene emanata la Ley Calles, imponeva ai preti di registrarsi
presso gli uffici governativi. Si arrivò ben presto allo scontro,“la lotta
era ormai aperta”, adesso si trattava “di vedere se avrebbe vinto la
luce o la tenebra. Bisognava dare il sangue per salvare la rivoluzione, asserì”,
Calles. Quindi “il 1 agosto del 1926, per la prima volta dopo oltre 500
anni, in nessuna chiesa del Messico fu celebrata una messa”.
Iannaccone rileva che in quel momento
storico del Messico, quasi tutti gli esperti, i diplomatici, i politici, gli
intellettuali e anche i vescovi “ignorarono o sottostimarono un fattore che
sarebbe risultato determinante negli eventi futuri: l'atteggiamento del popolo”.
Mentre governo e vescovi negoziavano, diventa protagonista il popolo messicano,
si comincia a fare penitenze, a confessarsi, a pregare in pubblico, a fare
pellegrinaggi spontanei. Per questa gente è “come se il mondo a cui erano
abituati stesse per finire – e in un certo senso era così”. I funzionari
pubblici, spesso massoni, “lontani dalla mentalità del popolo, non
comprendevano né accettavano quella mentalità sacralizzata che si esprimeva
attraverso atti di devozione, penitenze e pellegrinaggi ai santuari”.
Alle prime luci del 1 agosto, Aurelio
Acevedo - futuro leader cristero - preparò il suo cavallo per il “duro
lavoro”, che sapeva avvicinarsi. “La guerra arrivò da sé - scrive
Iannaccone - senza essere stata preparata, come ribellione a un'ingiustizia
che calpestava le dignità fondamentali”. Soprattutto, “arrivò come una
sorpresa per lo Stato e la Chiesa, che non avevano scommesso su questa
eventualità”.
Comunque sia,“ce n'era abbastanza
per prendere le armi”. “Gente pacifica benedì i propri figli che
chiedevano di combattere e li inviò in battaglia”. Lo storico francese Jean
A. Meyer che negli anni sessanta è riuscito a intervistare molti ex
cristero, scrivendo una monumentale opera sulla rivolta, riporta il racconto di
un testimone, che ha vissuto quei momenti:“Il Governo ci sta prendendo
tutto: il mais, i pascoli, gli animali da cortile e, come se non fosse
abbastanza, vogliono che viviamo come animali, senza religione e senza Dio.
Però non vivranno abbastanza per vederlo perché per il tempo che ci è dato noi
grideremo Lunga vita al Re! Lunga vita alla vergine di Guadalupe! Lunga vita
all'Unione Popolare! Abbasso il Governo!”.
Stava per iniziare la Cristiada
e ancora nessuno lo sapeva. Certo il Messico aveva visto diverse sollevazioni
popolari, ma questa volta era diverso, a poco a poco si manifestarono focolai a
decine, a centinaia, i federali ben presto, compresero che non era facile
sconfiggere gli insorti. Subito alcuni reggimenti dell'esercito, furono
annientati. Lo stesso Anacleto Flores dell'UP, non poté fare nulla per fermare
i suoi militanti.“Li lasciò andare senza opporsi, sia perché nulla avrebbe
potuto contro quella marea tragica che usciva dalla città all'alba, ognuno con
un fucile a tracolla [...]”. La gente gli diceva “che era meglio morire
che negare Cristo re e che non bisognava temere il martirio. Dava prova di aver
letto i testi sacri e la storia della Chiesa”. Continua Iannaccone nel
racconto:“Erano uomini esasperati, mossi da un imprevisto spirito di
eroismo, che lasciavano i loro affari, stringevano le spose e i figli e
correvano alla battaglia con alpargatas e vesti di cotone”.
In pratica questo popolo aveva “capito
che bisognava mettere in gioco il proprio benessere, il proprio corpo, oppure
la Chiesa in Messico sarebbe stata cancellata”.
In breve i capi dell'LNDLR decisero
di guidare e controllare la ribellione sempre più diffusa ma scoordinata. Fu
stabilito un comitato di guerra, e poi si trovò un capo: Capistran Garza.
A novembre la Liga assume la guida del movimento popolare e chiede
l'approvazione ai vescovi. L'episcopato approva il manifesto della Liga,
affermando che era lecito combattere quando ogni altro mezzo si era rivelato
inutile. “Alle condizioni che si stava verificando in Messico, tale
combattimento andava considerato una 'resistenza' armata, ovvero una
difesa legittima”.
A fine dicembre tutti i movimenti,
associazioni cattoliche si unificano concordi e decidono di combattere. Intanto
i vescovi rendevano chiaro che non desideravano alcuna forma di resistenza che
non fosse passiva e pacifica. La Chiesa reagì con la massima prudenza. Gli
insorti si consultavano con i parroci che approvavano la rivolta. Nello stesso
tempo, i parroci si rivolgono ai vescovi e questi ai teologi. “Quando i
dirigenti della Liga chiesero se l'insurrezione fosse moralmente e
teologicamente lecita, il Comitato Episcopale rispose che era una 'lodevole
azione' di 'legittima difesa armata'”. Qualche vescovo si
espresse a favore dell'insorgenza armata, gli altri rimasero silenziosi e Roma
negò che ogni benedizione fosse stata data ai combattenti. Tuttavia “il
Vaticano si opponeva alla rivolta armata in quanto avrebbe ostacolato i
negoziati, e il nunzio Fumasoni Biondi chiese una pubblica condanna della Liga
e Cristeros da parte dell'episcopato messicano”.
La maggioranza dei vescovi restò
indecisa lasciando ai fedeli la libertà di azione. Solo tre, Manriquez, Orozco
e Velasco si congratularono apertamente con gli insorti. Sostanzialmente
saranno sino alla fine i veri vescovi dei Cristeros.
L'8° capitolo evidenzia da un lato la
guerra Cristera e dall'altro la guerra diplomatica. A gennaio del 1927
l'insurrezione diventa massiccia e unanime soprattutto nella zona
centro-occidentale del Messico. Scrive Iannaccone: “qui la rivolta prese la
forma di una sommossa di popolo perchè l'intera popolazione, donne e bambini
compresi, si muoveva in massa per occupare paesi o piccole città”. La
risposta del governo fu rabbiosa e brutale. “Cosa poteva fare una folla
armata di bastoni e pietre contro un battaglione di federali?”. I generali
federali si accorsero subito che rivolta era totale, che chiamava in causa
l'intera popolazione. Pio XI ricevendo in udienza un gruppo di giovani
messicani, gli aveva fatto capire di sapere cosa stava succedendo nel loro
paese: “Sappiamo che combattono e come combattono in quella grande guerra
che può essere chiamata la battaglia di Cristo”. Sembrava una
benedizione della rivolta?
Ritorniamo alla guerra. Le zone
strategiche della guerra dei Cristeros erano Jalisco, Michoacan, Queretaro,
Guanajuato e Colima. Questi territori furono prese dai ribelli nel 1927 e
rimasero sotto il loro controllo fino al 1929.
A pagina 162, il libro pubblica la
cartina con le zone interessate alla Cristiada. Per la verità il testo è
corredato di tante fotografie, che rendono lo studio di Iannaccone tra i più
documentati sull'argomento.
Tra i capi dell'Armata cristero
emersero il diciannovenne Lauro Rocha, il fuorilegge, l'unico, Victoriano
Ramirez, soprannominato El Catorce. Ci furono anche un paio di
preti come padre Josè Reyes Vega e Aristeo Pedroza,
che si rivelarono eccellenti capi militari. Il secondo era molto devoto, impose
alle sue truppe e più tardi alle brigate di Los Altos una disciplina di
acciaio. Mancava un capo generale di tutte le armate cristero, lo trovarono
nella persona del generale Enrique Gorostieta y Velarde, un
quarantenne ufficiale di carriera, artigliere di talento, che aveva lasciato
l'esercito. Non aveva niente in comune con quei ribelli, essendo uomo del Nord
e liberale. “Carattere indecifrabile, capace di grande entusiasmo,
Gorostieta abbracciò la causa dei cristeros, si dice, senza avere la loro fede”.
Si comportò come un vero stratega, convinto che bisognava prima controllare il
territorio; trasformò il movimento insurrezionale in un esercito simile a
quello federale.
Nel 9° capitolo Iannaccone ritorna
sul comportamento dei preti, della Chiesa messicana nella guerra del suo popolo.
Lo storico Meyer pubblica l'intervista all'anziano capo Cristero Aurelio
Acevedo:“A un certo punto ci imbattemmo in un ostacolo che non avremmo mai
immaginato: i preti stessi ci proibirono di combattere per Cristo, per la
religione che i nostri padri ci avevano insegnato e riaffermato mediante
battesimo, confermazione e prima comunione[...]”. I preti spesso
abbandonano la propria parrocchia e si trasferiscono in città, per non essere
coinvolti nella rivolta dei propri fedeli. “Non tutti, naturalmente, altri
continuavano di nascosto nella loro missione anche nelle grandi città come fece
Miguel Pro”. Alla fine si produssero situazioni ambigue: i preti
erano considerati dei traditori dai Cristeros, perchè accettavano le
benevolenze dei federali.
Addirittura Meyer sostiene, che
grazie a quella minoranza di preti rimasti nei luoghi dell'insurrezione, che i
Cristeros non sono diventati“nuovi donatisti staccandosi dalla Chiesa”.
Furono circa 150 preti che si rifiutarono di lasciare le loro parrocchie e
proprio grazie a questi che si evitò un possibile scisma. Iannaccone fa
l'elenco di questi preti, il libro è profluvio di nomi. Alcuni di questi preti
hanno seguito i combattenti, “esistono immagini che mostrano centinaia di
combattenti assistere alla messa e comunicarsi prima di una battaglia[...]”.
Pare che i cappellani caduti in battaglia furono circa 20. Altrettanti erano
stati uccisi per la loro missione. A questi si aggiungono gli altri come Pro
che magari non avevano collegamenti diretti con i Cristeros, fino a un totale
di 90 sacerdoti uccisi. Molti di questi sono stati beatificati e santificati.
Il libro dà conto delle campagne
militari, dei due contendenti, naturalmente qui non possiamo approfondire, vi
lascio alla lettura del libro.
Il 9° capitolo termina con la morte
di Anacleto Gonzales Flores, catturato dai federali insieme ad
altri quattro compagni. Le ultime parole di Flores prima di essere fucilato,
furono: “Muoio ma Dio non muore, viva Cristo Rey!”, qualcosa di
simile l'aveva detto, prima di essere ucciso da sicari della massoneria, il
presidente dell'Ecuador Garcia Moreno.
La «Cristiada», l’insurrezione di Cristo Re
che coinvolse milioni di persone, costrinse i papi ad intervenire con tre
encicliche, preoccupò le cancellerie di mezzo mondo. I Cristeros erano in gran parte
contadini ma vi erano anche cittadini: impiegati, funzionari, avvocati,
studenti. La loro rete era sostenuta, talvolta affiancata, anche da una
resistenza pacifica cittadina (il cui martire fu san Miguel Pro)
che ricorreva ai boicottaggi, all’informazione, e cercava di far continuare la
vita sacramentale nel nascondimento, come nell’Inghilterra anglicana o nella
Russia sovietica.
Iannaccone dedica alcune pagine del
suo libro alle migliaia di donne inquadrate nelle “Brigate di Santa
Giovanna d’Arco”, sfidando ogni pericolo, procuravano le munizioni ai
Cristeros, i quali arrivarono ad essere, agli inizi del 1929, quasi 50.000, in
gran parte sottoposti alla disciplina di un esercito regolare.
Oltre al generale
Gorostieta, un altro si è distinto, Degollado Guizar, Jesus. I soldati erano
eroici, pronti al martirio per «conquistarsi il Paradiso» – come
dicevano – se il prezzo della sconfitta era l’estirpazione del cristianesimo
dal Messico. Nonostante l’appoggio logistico degli Usa che consentiva ai
federali di non cedere, i Cristeros
restarono saldi, e ad ogni sconfitta si moltiplicavano tenendo in
scacco il nemico.
Per anni il
Messico restò diviso fra zone Cristero
e zone controllate dai Federali; l’economia collassò, i morti
furono decine di migliaia: 300.000 contando le vittime di malattie, fame, campi
di concentramento. Non furono le armi a sconfiggere i Cristeros ma la diplomazia
internazionale con gli Arreglos del 1929.
La «Cristiada»
stava procurando troppi lutti, la guerra rischiava di durare, occorreva un
cessate il fuoco. Il vescovo Pascual Díaz, che avrebbe pagato con
l’incomprensione la sua posizione moderata, riuscì a far firmare gli accordi
senza immaginare che per 10 anni il governo li avrebbe traditi. Quando deposero
le armi, i Cristeros furono
uccisi a migliaia dai nemici, per vendetta.
L’epopea della
«Cristiada», così poco conosciuta, con le sue decine di martiri canonizzati,
tra questi mi piace ricordare il giovane San Josè Sanchez del Rio,
innumerevoli eroi sconosciuti, e un esercito vincente che depose le armi su
richiesta dei propri vescovi, è rubricata nei libri, incredibilmente, come un "episodio
minore" della storia.
giovedì 15 febbraio 2018
“Fabiola”: un piccolo gioiello della narrativa cattolica
di Luca Fumagalli
Il 1850 è una data fondamentale per la storia del cattolicesimo britannico. In quell’anno, infatti, Papa Pio IX, con bolla Universalis Ecclesiae, ristabilì la gerarchia ecclesiastica in Inghilterra, erigendo una sede metropolita e dodici vescovati. Al sistema dei vicari apostolici che governavano direttamente la Chiesa in nome del Pontefice vennero sostituite le diocesi: dopo più di tre secoli, il Regno Unito cessava di essere una terra di missione per ridiventare, a pieno titolo, uno dei paesi della cattolicità.
Nicholas Patrick Wiseman (1802-1865) fu scelto come primate con il titolo di Arcivescovo di Westminster, incarico che precedette di poche settimane la porpora cardinalizia.
Nato in Spagna, figlio di un commerciante irlandese, Wiseman era uno spirito gioioso, dotato di erudizione, entusiasmo, potenza emotiva e ricchezza di immaginazione, doti che nel 1828 gli erano valse la nomina a rettore del Collegio Inglese di Roma. Nella Città Eterna si sentiva a casa e godeva della protezione del cardinale Angelo Mai e di Gregorio XVI.
La sua vita pastorale in Inghilterra, dove era tornato poco prima degli inizi dell’età vittoriana, si divise in due parti distinte: lo straordinario, rapido successo dei primi anni e l’azione costruttiva, frammista anche a delusioni, della tarda maturità.
Divenne il capo dell’ancor piccolo gruppo che credeva fermamente nel rapido ritorno del paese al cattolicesimo; si dette quindi molto da fare in conferenze e prediche, contribuendo tra l’altro a fondare con Daniel O’Connel il celebre periodico «Dublin Review».
Dal 1850, sotto la sua guida, la gerarchia inglese si mise all’opera. Dopo il successo raggiunto con la conversione del noto teologo anglicano John Henry Newman, animatore del “Movimento di Oxford” e futuro cardinale, cominciò la fase calante della carriera di Wiseman che prese a scontrarsi con il clero diocesano e i nuovi vescovi, i quali, memori della mutua indipendenza dei vicari apostolici, rivendicavano una maggior autonomia.
Sul finire della vita trovò conforto nella profonda amicizia con Henry Edward Manning, suo successore nella sede di Westiminster e difensore dell’infallibilità pontificia durante il Concilio Vaticano I.
Con la morte di Wiseman si concluse la prima fase della rinascita cattolica inglese nel XIX secolo. C’era qualcosa di ingenuo nella sua utopica aspettativa di una conversione in massa degli inglesi, ma resta indiscutibile che compì un grandissimo lavoro che non sarebbe stato possibile senza il suo proverbiale ottimismo.
Wiseman, però, è ricordato, almeno all’estero, soprattutto per essere stato autore del romanzo storico-apologetico Fabiola o la Chiesa delle catacombe (Fabiola: A Tale of the Catacombs), pubblicato per la prima volta nel 1854. Sulla scorta di quanto stava accadendo in Francia, il prelato fu tra i primi autori in Inghilterra, insieme a Newman, a impiegare il moderno strumento letterario come mezzo per difendere le istanze del cattolicesimo. Nacque così il genere del “Catholic Novel”, destinato ad avere grande fortuna per tutto il XIX e il XX secolo.
Perdita e guadagno (Loss and Gain) di Newman, romanzo del 1848, fu il primo esempio in ordine di tempo della nuova direzione intrapresa dagli intellettuali fedeli a Roma, ormai consapevoli che la narrativa poteva vantare una grado di penetrazione nelle masse di gran lunga superiore rispetto al trattato teologico o allo studio accademico. Il libro narra della conversione di Charles Reding, un giovane anglicano, e mostra diverse analogie con la biografia dell’autore. Il 1856 fu invece l’anno del meno fortunato Callista o la Chiesa d’Africa (Callista: A sketch of the Third Century), opera ambientata, come quella di Wiseman, durante l’impero romano, all’epoca delle più violente persecuzioni contro i cristiani
Libri come questi indicarono la via a successivi polemisti del calibro di G. K. Chesterton, R. H. Benson, Bruce Marshall ed Evelyn Waugh, e contribuirono a creare una piccola nicchia culturale per la minoranza cattolica che, da quel momento, iniziò a imporsi sempre più come una variabile imprescindibile nel panorama letterario britannico.Il cardinale N. P. Wiseman
Fabiola – riproposto dalle Edizioni Radio Spada nell’elegante prima traduzione italiana del 1856 – riscosse uno strabiliante successo di pubblico che durò ben oltre la scomparsa dell’autore. Spesso utilizzato per la catechesi dei più piccoli, il romanzo fu tradotto in diverse lingue e ristampato a intervalli regolari. Dal libro vennero tratti due film omonimi, uno del 1918 per la regia di Enrico Guazzoni, e uno del 1949, diretto da Alessandro Blasetti. Nel 1960 Nunzio Malasomma ne girò una versione intitolata La rivolta degli schiavi con Rhonda Fleming.
La storia, che ha luogo nella Roma del 302, è piuttosto lineare ancorché ricca di digressioni e personaggi secondari. Sulla piccola comunità cristiana che vive tra le catacombe e i vicoli bui della capitale imperiale sta per abbattersi una feroce persecuzione. Tra sangue e violenza, in un impero logoro e corrotto, Fabiola, una giovane patrizia pagana amante della filosofia, decide di convertirsi, spronata dall’esempio virtuoso dei martiri, disposti a morire pur di non tradire la loro fede. Ma, come la protagonista scoprirà a sue spese, la via di Cristo è tutt’altro che semplice ed è costellata da continue difficoltà che metteranno a dura prova i suoi propositi.
Al di là delle imprecisioni storiche, della patinatura didascalica e della qualità globale tutt’altro che eccellente, Fabiola riuscì a imporsi come classico della letteratura cattolica per le brillanti intuizioni in esso contenute.
Presentando una fede lontana dall’astratta filosofia, ma fatta d’esempio e testimonianza, Wiseman coglie con rara efficacia il cuore del messaggio cristiano e lui stesso impiega una formula analoga per sensibilizzare il lettore al cattolicesimo. Le lunghe e noiose trattazioni teologiche cedono il passo ai racconti dei martiri che, come un mosaico, completano il quadro della trama principale. Le vicende di San Sebastiano, Sant’Agnese, Santa Cecilia e San Tarcisio si snodano secondo gli stilemi della parabola, offrendo un ritratto immediato di uomini trasfigurati dalla fede, capaci di accogliere la morte col sorriso perché certi dell’amore di Cristo. L’alto valore del loro gesto non ha bisogno di ulteriori quanto inutili orpelli.
Tale soluzione narrativa si rivelò sorprendentemente efficace: basti pensare che la figura di San Tarcisio – il giovinetto che morì per mano pagana nel tentativo di portare l’Eucarestia ai cristiani carcerati – piacque così tanto da farne ritornare in auge il culto in Inghilterra.
L’incontro di Fabiola con il cristianesimo, poi, è descritto con semplicità e freschezza. Quando la ragazza scorge nelle compagne una felicità, un senso di pienezza che le è estraneo, non può fare a meno di chiedersi: «Perché non posso anch’io essere così lieta e contenta come loro?». Aggrappandosi a questa prima intuizione, la cugina Agnese e la schiava Sira la accompagneranno passo dopo passo verso la Chiesa, sfatando i vergognosi luoghi comuni di cui sono vittima i cristiani. Nel momento in cui Fabiola osserverà per la prima volta il mondo intorno a lei con gli occhi della fede, scoprirà un paganesimo disumano, destinato a soccombere e a trascinare con sé nell’oblio tutto l’impero.
In Fabiola il cristianesimo è presentato innanzitutto come rivoluzione dei cuori, in un continuo confronto/scontro con la decadente società romana all’alba del IV secolo. L’impero, infatti, è governato da sovrani volgari, saliti al potere per congiure e tradimenti, circondati da uomini senza scrupoli che desiderano solo accumulare ricchezze in gran quantità.
Nel marasma generale, la piccola comunità cristiana si erge a testimoniare un’umanità diversa, generosa e leale. Non senza una punta di polemica nei confronti di teorie storiografiche allora di moda, Wiseman presenta la «nuova religione venuta dall’Oriente» come l’unica in grado di preservare i valori tradizionali di lealtà e onore che resero grande la latinità. La dignità dei cristiani si esplica tanto nell’assoluta fedeltà di cui sono capaci – siano essi soldati o schiavi – quanto nella straordinaria cura che mettono in ogni loro azione, investendo il quotidiano di una sacralità del tutto inedita. Per esempio, quando il giovane Pancrazio si reca a casa di Diogene, responsabile della gestione dei cimiteri, non può fare a meno di notare la pulizia dell’edificio che contrasta con lo squallore dell’intero quartiere.
L’antica Roma che, come ricordato, fa da sfondo anche a Callista di Newman, offre a un dotto apologeta come Wiseman lo scenario ideale per proporre al lettore un implicito confronto con le tribolazioni subite dalla Chiesa cattolica inglese sin dai tempi della Riforma, costretta anch’essa a condurre per molto tempo un’esistenza catacombale, pagata al prezzo di numerosi martiri.
Nel romanzo, lo scontro tra l’imperatore e il Pontefice propone per la prima volta uno dei temi che diventeranno tipici del “Catholic Novel” a sfondo storico. In queste figure si scorge ancora una volta un parallelo con Enrico VIII e i suoi successori, avversari del Papa e desiderosi, al pari dei sovrani romani, di essere venerati come divinità. La dimensione mondana e quella spirituale della vita trovano in essi una sorta di correlativo oggettivo ed esplicano il conflitto in atto nel cuore di tanti cristiani che vedono la loro fede vacillare innanzi ai primi spargimenti di sangue e alla sfavillante tentazione del denaro.
Wiseman, attraverso un narratore onnisciente che lega i singoli episodi con piglio quasi cinematografico, conduce il lettore al lieto fine. Così come le persecuzioni di Diocleziano anticiparono di pochi anni il regno di Costantino e l’elezione del cristianesimo a religione ufficiale dello stato, allo stesso modo anche il mondo moderno non si deve arrendere a quella disperazione a cui le circostanze sembrano inevitabilmente condurre. Nonostante le tenebre, la luce della Chiesa non smetterà mai di brillare: «Gloriosa Chiesa di Dio! grande nella armonica combinazione di tua unità, tu ti stendi dalle regioni elevate del cielo fin sotto la terra, ovunque geme un giusto nella sua prigione!».
da: www.radiospada.org
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