sabato 31 gennaio 2015

L'autunno del linguaggio e il "bi-sogno" della parola nuova nel progetto poetico-sperimentale di Anna Maria Guidi

di Guglielmo Peralta
 
 
Cosa diversa del linguaggio orale è la scrittura, la quale può prendersi qualche "licenza poetica" e così inventarsi dei neologismi "giocando" con le parole, suddividendole in parti, in misure (aggiunzioni, sottrazioni, sinalefe, sineresi) o praticandovi degli innesti per ottenere nuovi "frutti", per imprimere ai vocaboli significati inediti. Senz'alfabeto, di Anna Maria Guidi, è, innanzitutto, questa libertà della scrittura, che qui assume il carattere della necessità. Neologismi e metalogismi creano l'originalità delle relazioni tra i vari elementi del testo permettendo di oltrepassare le restrizioni linguistiche. Le figure retoriche del suono (allitterazione, assonanza, consonanza, paranomasia) abbondano costituendo un corpus "sin-fonico" che conferisce al testo e all'intera silloge un particolare e gradevole andamento ritmico, quella vivacità, quell' "andante con brio", tipico di una composizione musicale, che sopperisce all'assenza, spesso, di quella "musica" interna, di intima appartenenza e convenienza alla creazione poetica, che si dà per mistero e per miracolo prima delle parole che essa stessa sceglie, compone e dispone. Qui, al contrario, a suonare, in maniera diretta, sono le parole, che si caricano di più sensi creando particolari paesaggi e atmosfere, ("il giallore smunto dell'autunno"; "il mare/rame d'un golgota di vigne/crocifisse alla vendemmia"; "scervella il sole/nell'agostano avvampo/febbra salini afrori/spolpa sfranti sapori/fuoca erbali umidori"...) o assumono un tono granguignolesco aderendo agli aspetti violenti della vita umana e della natura, all'"esistere mortale", al "marasmo carnale dell'esistere", al "cruore", alla lotta per la sopravvivenza, e cogliendo, fotografando, bloccando, nei loro momenti più crudi e cruenti, alcune specie animali e una umanità, di cui la Guidi si fa specchio rappresentandone l'anima dolente e la carne mortale, la quale, in sé unendo eros e thanatos: le pulsioni di vita e di morte, cerca invano di dissimulare la propria caducità sotto la maschera carnascialesca di un'esistenza solo apparentemente felice:
"nugola un carniere di storni/ piume di sangue alla postrema siepe (...) s'appunta al vetro/ la coccinella novembrina/e nell'impari efforzo/vermigliando precipiti discrepa/le ali della vita"; "fuco la vita/feconda e regge/la morte ape regina"; "lombrica il beccaccino/l'umorale turgore/della sapida preda disterrata (...) uccella l'astuto astore/ la sua funèbre ronda/ frecciando la pernice/in un rostro di sangue"; "ferita a morte/s'appiomba l'atra fuliga/alle farnetiche fauci/della canina foia/guizza / (..) l'aspidica erezione/ammorsando il vindice veleno/la gola armata del cacciator proteso:/ingravidato a morte"; "rutilo poltriglio d'agonia/si spasma il rospo/sul ruvido grigiume dell'asfalto:/dopo la curva/beffardi freni istride/il motore assassino"; "cedua rampica il monte/la solenne baldanza della quercia/così l'obliquo struscio/della carne mortale:/materia in maschera/a corto passo a spasso/sull'inteschiato corso/del serotino carnevale"; "rosicando misuro le falcate del tempo/che sulle punte capillare pulsa/il c(r)uore arterioso dell'esistere"; "e qual farnetico segugio senza fiuto/arrancando e annaspando rincorro/il sogno del per ché e per chi corro/seppur di certo so che non distorno/le saturnine voglie/pertuse nelle matrigne doglie/di nostra mortal sorte: cùpida iena che partorisce e cresce/ed al macello pasce ogni carcassa/ben frolla divorata/e indigesta ri-gettata/nell'orbitante vuota ove smalto collassa/il marasmo carnale dell'esistere"
      In questo marasma, anche il sesso diventa una lotta, un "corpo a corpo" che sfinisce gli amanti vinti dal piacere erotico che la volontà di vivere, cieca, irrazionale e, tuttavia, necessaria per la nostra stessa esistenza, richiede, secondo la lezione di Schopenhauer. Vivere è così un "rito" che accomuna "l'umanide ciurma" agli animali ed è un "miraggio", un'illusione di eternità che perpetua il dolore attraverso l'eros privando l'uomo della libertà (pp. 25, 26). Se in questo marasma, se in questo male di vivere c'è un palese richiamo a Leopardi e al "giardino della souffrance", tuttavia, la presenza di Artaud è qui "dichiarata" attraverso i versi di questo autore, tratti dalle Poesie della crudeltà, che Anna Maria Guidi riporta nella sua silloge e che sembrano messi lì a segnare delle sezioni, a fare da introduzione, o meglio, da segnavia ai testi, quasi a indicarne, ad anticiparne il percorso, a tracciare i passaggi decisivi del cammino poetico-linguistico-sperimentale della nostra poetessa. Qui, le parole si fanno corpo e scena della realtà, rappresentata con grande impatto emotivo nei suoi aspetti oscuri e conflittuali, espressa a forti tinte, come nel "teatro della crudeltà" artaudiano, con una partitura linguistica non convenzionale che, se da un lato, tende a provocare la reazione del lettore abituato al linguaggio ufficiale, in cui viene mantenuta la distanza tra segno e realtà, tra parola e pensiero, tra scrittura e vita, anche quando la parola si volge alla poesia e cerca di agguantarla, dall'altro lato, si propone come una lingua nuova, in grado di pro-gettarsi, di andare oltre la semplice funzione comunicativa, oltre l'uso tradizionale del linguaggio per colmare quella distanza e dare all'essere, muto e senza dimora, la sua casa ideale nel linguaggio della poesia, dove lo pensa e lo vuole Heidegger, e verso cui la scrittura della Guidi aspira ad avvicinarsi mettendosi "in gioco", quasi a costituire un sistema di segni, un nuovo "codice" linguistico sopra l'us(ur)ata lingua, raschiata e destinata a scomparire nel palinsesto. L'intenzione della Guidi, allora, non è tanto di creare un nuovo stile e una nuova forma, quanto di investire la scrittura della funzione liberatrice del linguaggio, che è quella di svincolarlo dalla tradizione e, dunque, dal già detto, dalle forme del parlato e letterarie, di "azzerarlo" portando la scrittura oltre di esso, a quel «grado zero», teorizzato da R. Barthes, a partire dal quale essa può ricominciare a "parlare" in una dimensione più autentica e vera.  
      La genesi della parola nuova (o della nuova scrittura) non è facile, perché la scrittura non può ricominciare se non a partire dal "ver(b)o" che la costituisce. Il nuovo corso è un calvario, una passione, un andare "acrobatico" della mente tra "giunchi di parole", a ridosso del silenzio che non riesce a parlare, a ri-trovare il "ver(s)o", il "ver(b)o"; a ridare senso e significato al linguaggio, in cui la verità si dà solo nascondendosi e che solo il sogno intra-vede nell'assenza delle parole, al di là di ogni alfabeto. Tra "ustioni" e "algori", tra "preci" e "croci": tra tensioni ardenti e algidi esiti espressivi, tra sacri tremori e patimenti tarda a fiorire la primavera della nuova scrittura. E quel sogno, allora, è un "bi-sogno" necessario che richiede un lungo cammino - "(t)orme di passi" - attraverso "valanghe" di inutili, vuote parole, in cui quella verità è violata, frammentata, dispersa, per sempre dissipata, ma della quale, tuttavia, è possibile intravedere le orme - quasi un principio, un riflesso della sua luce ("il primo vèr del ver(b)o") -  che la "neve" del silenzio è capace di rilasciare, di riverberare se sappiamo ascoltarlo. Ed ecco!... In virtù del sogno le orme di luce si tramutano in parole: "particole d'aurora" dentro cui "lievita" la celeste ambrosia della poesia: cibo e bevanda di cui si nutre la nostra Ricercatrice, senza mai saziarsene. Perché queste "particole", che rifulgono della sacra luce del "ver(b)o", sono come le ostie, che Anna Maria riceve in comunione. Per cui sempre si rinnova il "bi-sogno" di questo "pane" celeste necessario all'esistenza. (pp. 15, 77, 81).  L' im-pasto linguistico è, dunque, questo atto di comunione mediante cui le parole diventano il nostro corpo e il nostro sangue, ed è noi stessi che offriamo nella comuni(cazi)one che  annuncia e ripete il sacrificio del Cristo. Senz'alfabeto diventa così, ossimoricamente, un laboratorio di parole, dove la parola è "un frullo di poesia" che s'invola come un passero per ritornare al nido e risplendere della luce della verità. (p. 75) E in questa luce, dove le parole ricevono il nuovo battesimo, la nostra poetessa, con atto quasi sacrificale, assume su di sé "la vertigine" del vuoto assoluto del linguaggio che, senza limite, volge al crepuscolo e sbiadisce dissolvendosi nell'albeggiare del verso/verità, che, nel silenzio, "il sogno dice" nell'azzeramento della scrittura, che può così ricominciare a parlare. (pag. 81)

“L’arcobaleno” di Adalpina Fabra Bignardelli

Di Rita Elia

Abbiamo abbandonato per un paio d’ore i nostri ritmi frenetici, il nostro cellulare, la Tv, il computer, tutti quegli strumenti tecnologici che oggi “educano” il mondo e che credo abbiano provocato quel distacco dal nostro profondo dove alberga la spiritualità dell’individuo. Si preferisce cercare al di fuori di sé il senso della vita e ci si rende conto che si rischia di perdere il senso di se stessi, la sintonia tra il cuore e la mente. Nella nostra società, l’individualismo è dilagante, si vanno perdendo i valori della solidarietà ed è proprio in questo momento storico di crisi in tutti i sensi, che l’umanità ha bisogno di poesia,una poesia che abbia funzione pedagogica, che crei occasione di incontrarsi ed incontrarci e credo che meriti il nostro grazie la nostra autrice che oggi presenta la sua terza silloge poetica dal titolo “L’Arcobaleno”. Un titolo felice per indicare la pluralità dei colori della vita e  dei sentimenti umani, la promessa di Dio all’uomo inserito tra cielo e terra.    E a questo proposito voglio leggervi una leggenda legata all’Arcobaleno che ha tanto da dirci e da darci, come la poesia di Adalpina, racchiusa tra le pagine del libro.
“Tanto tempo fa i colori fecero una lite furibonda. Tutti si proclamavano il migliore in assoluto, il più importante, il più utile, il favorito.      
                           
Il VERDE disse: " Chiaramente sono io il più importante. Io sono il segno della vita e della speranza. Io sono stato scelto dall'erba, dagli alberi, dalle piante. Senza di me tutti gli animali morirebbero. Guardatevi intorno nella campagna e vedrete che io sono in maggioranza...”
                                          
 Il BLU lo interruppe: "Tu pensi solo alla terra, ma non consideri il cielo ed il mare!!E' l'acqua la base della vita che viene giù dalle nuvole nel profondo del mare. Il cielo dà spazio, pace e serenità. Senza di me voi non sareste niente...                                                                                                                 " Il GIALLO rilanciò: "Voi siete tutti così seri! Io porto sorriso, gioia e caldo nel mondo. Il sole è giallo, la luna è gialla, le stelle sono gialle. Quando fioriscono i girasoli, il mondo intero sembra sorridere. Senza di me non ci sarebbe allegria... 
                                                                                             
 L'ARANCIONE si fece largo: " Io sono il colore della salute e della forza. Posso essere scarso, ma prezioso perché io servo per il bisogno della vita umana. Io porto con me le più importanti vitamine. Pensate alle carote, zucche, arance, mango e papaia. Io non sono presente tutto il tempo, ma quando riempio il cielo nell'alba e nel tramonto,la mia bellezza è così impressionante che nessuno pensa più ad uno solo di voi..."  
                                           
Il ROSSO poco distante urlò: "Io sono il re di tutti voi. Io sono il colore del sangue ed il sangue è vita, è il colore del pericolo e del coraggio. Io sono pronto a combattere per una causa, io metto il fuoco nel sangue,senza di me la terra sarebbe vuota come la luna. Io sono il colore della passione, dell'amore, la rosa rossa, il papavero.."      
                                                            
Il PORPORA si alzò in tutta la sua altezza. Era molto alto e parlò con voce in pompa magna: " Io sono il colore dei regnanti e del potere. Re, capi e prelati hanno sempre scelto me perché sono il segno dell'autorità e della sapienza. Le persone non domandano... a me essi ascoltano ed obbediscono!..."          
Infine parlò l'INDACO molto serenamente, ma con determinazione:" Pensate a me, io sono il colore del silenzio, voi difficilmente mi notate, ma senza di me diventate tutti superficiali. Io rappresento il pensiero e la riflessione, il crepuscolo e le acque profonde... Voi tutti avete bisogno di me per bilanciare e contrastare, per pregare ed inneggiare alla pace...
"E così i colori continuarono a discutere ognuno convinto di essere superiore agli altri. Litigarono sempre più violentemente senza sentire ragioni. Improvvisamente un lampo squarciò il cielo seguito da un rumore fortissimo. Il tuono e la pioggia che seguì violenta li impaurì a tal punto che si strinsero tutti insieme per confortarsi... Nel mezzo del clamore la PIOGGIA iniziò a parlare:" Voi sciocchi colori litigate tra di voi e ognuno cerca di dominare gli altri...Non sapete che ognuno di voi è stato fatto per un preciso scopo unico e differente? Tenetevi per mano e venite con me". Dopo che ebbero fatto pace, essi si presero tutti per mano. La PIOGGIA continuò: "D'ora in poi, quando pioverà ognuno di voi si distenderà attraverso il cielo in un grande arco di colori per ricordare che voi vivete tutti in pace. L'arcobaleno è un segno di speranza e di Pace per il Domani.....
La Poesia di Adalpina Fabra Bignardelli è un panorama di colori in perfetta armonia, che scivola tra profumi ed essenze, che offre al lettore la bellezza delle parole, il significato della vita, i motivi più alti del linguaggio terreno per una società sempre più bisognosa di trovare nella poesia il proprio habitat delle verità. Una lettura rilassante, omogenea che induce a riflettere, a pensare per sapere guardare la vita con occhi nuovi; un’ossigenante farmaco per il cuore dell’umanità, saggezza di vita che la nostra poetessa ci offre attraverso il suo tessuto di emozioni.
Nel mondo di Seb l’Autrice fa una dedica ad un amico pittore dicendo che egli attraverso i colori, da alle cose le ali dei sogni…d’altronte l’arcobaleno ha sempre affascinato gli uomini per la sua bellezza e la natura misteriosa, ma anche la nostra poetessa crea immagini di vita in “Stella mattutina. Credo che un pittore per lasciarsi ispirare, basterebbe  che entrasse nel tuo mondo, cara Adalpina, in queste pagine del tuo Arcobaleno che abbraccia l’Universo, ponte tra cielo e terra, attraverso la tua spiritualità, profondità, fede e amore per le grandi e le piccole cose… che sai osservare e dipingere attraverso la tua anima.
Chiudo con 5 versi della nostra Autrice della poesia “Ricerca” a pag. 68, che racchiudono il perenne interrogativo dell’uomo in cammino su questa terra
“Ognuno ha il suo cammino
amaro o pur felice
girovagando intorno
cerchiamo in fondo tutti
Il senso della vita”.
                                                                            

venerdì 30 gennaio 2015

Rosita Boschetti, Omicidio Pascoli. Il complotto, Mimesis Roma 2014, p. 160

di Gianandrea de Antonellis

«O cavallina, cavallina storna / che portavi colui che non ritorna!» Questi versi di Giovanni Pascoli, un tempo patrimonio mnemonico di tutti gli allievi delle scuole elementari, si riferiscono al delitto, rimasto impunito, del padre del poeta, Ruggero, amministratore di una tenuta romagnola dei principi Torlonia, che nella sera del 10 agosto 1867 venne assassinato mentre tornava a casa sul proprio calesse. La tragica vicenda di Ruggero e della sua famiglia influì pesantemente sulla psicologia del futuro poeta e nelle menti dei bambini che imparavano i suoi struggenti versi rimaneva stampato il ricordo del nitrito della cavalla, lanciato dalla fedele giumenta quando la madre del giovane Giovanni (non aveva ancora dodici anni al momento del delitto) le sussurrò nell’orecchio il nome dell’assassino («Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: / disse un nome… Sonò alto un nitrito». Ricordato costantemente a scuola, il caso fu invece archiviato in tribunale, in quanto il criminale fu protetto dalla rete omertosa che – in Romagna come in Sicilia – fece scendere l’oblio sull’omicidio.
Ora Rosita Boschetti, direttrice del Museo Casa Pascoli di San Mauro, avvalendosi di inedito materiale archivistico, ha ripercorso le vicende del tempo, spostando l’attenzione dal punto di vista della criminalità comune (vendette di contrabbandieri? offese personali? minacce di licenziamenti in seguito a ruberie scoperte dall’amministratore?) a quello di un delitto attentamente premeditato, su un agghiacciante sfondo politico. La Romagna infatti era (e lo sarebbe ancora stata a lungo) terra di torbidi politici (non a caso da queste parti è ambientato Una tempesta di E. A. Butti, del 1903, unico dramma campestre di un autore settentrionale, che culmina con l’omicidio politico di un proprietario da parte di un agitatore comunista).
Basti pensare che «all’indomani del delitto, i giornali riferirono la notizia laconicamente e senza rilievo poiché né la personalità della vittima, né l’ambiente in cui era stato perpetrato il delitto, e neppure le circostanze, abbastanza consuete, presentavano elementi sensazionali» (p. 69, corsivo nostro). Una consuetudine al delitto che insanguinava una regione, la Romagna, dove esistevano gruppi di mazziniani, eredi delle vendite carbonare, i cui adepti erano vincolati da stretti patti di omertà e di obbligo al delitto.
«Gli anni immediatamente successivi all’annessione al Regno saranno caratterizzati da continui disordini, rivolte, da innumerevoli grassazioni e delitti che resteranno in gran parte impuniti. Nel delicatissimo periodo successivo all’unificazione, l’autorità politica e quella di polizia non saranno in grado di controllare questi fenomeni, per la presenza capillare, specie in Romagna, di vere e proprie sette repubblicane che si ribellavano al nuovo governo di impronta monarchica» (p. 40). A ciò si aggiunse il rincaro del grano,  causato della politica di liberalizzazione dei Savoia.
Ruggero Pascoli, checché ne pensassero i giornali, era un uomo in vista, tutt’altro che ignoto, essendo sindaco del suo paese e consigliere comunale in carica al momento dell’omicidio. Esso rimasto senza colpevoli perché, fin da subito, una rete omertosa evitò qualsiasi testimonianza: la prima deposizione scritta che indicava i colpevoli sparì nottetempo dal tavolo del giudice istruttore, subito rimpiazzato da un collega che ricominciò da capo le indagini, scontrandosi con un muro di silenzio,
Giovanni Pascoli, il poeta, si lamentò per l’intera esistenza che il processo fosse stato bloccato dalla ricerca immediata di un possibile mandante, facendo brancolare nel buio le forze dell’ordine, anziché cercare prima gli esecutori, che la gente del luogo aveva individuato, e da questi risalire a chi li aveva inviati.
Ad oltre centocinquant’anni dal caso la Boschetti è pressoché sicura: si trattò di tal Pietro Cacciaguerra, colui che prese il posto di Ruggero Pascoli quale amministratore dei Torlonia, famiglia francese trapiantata nel Settecento a Roma e divenuta in breve ricchissima e potentissima anche per la bonifica della piana del Fucino (si veda il romanzo Fontamara di Ignazio Silone, che dipinge i recenti principi come particolarmente attenti al denaro, da commercianti e banchieri da poco nobilitati quali erano). Questi si fece aiutare da un certo Achille Petri, che vivendo alla Torre, dove abitavano i Pascoli, ebbe agio di chiedere a Ruggero di farsi venire a prendere alla stazione di Cesena, quel lontano 10 agosto, ma non si fece trovare all’appuntamento. Ecco perché Pascoli padre tornò – da solo – alla masseria, esponendosi al fuoco omicida.
Lo studio della vicenda porta alla luce una serie di collusioni che giustificano l’omertà: dal faccendiere Cacciaguerra al suo primo datore di lavoro, il marchese Guiccioli, già Ministro della Repubblica Romana ed eletto, grazie a brogli del suo dipendente, proprio nello stesso 1867 al Parlamento (dove però si schierò con la vincente Destra storica), che vedeva di buon grado un suo uomo entrare nell’amministrazione Torlonia, per mettersi in affari con il Principe.
Solo con aderenze sociali e politiche di questo tipo e con un settarismo mazziniano che ha i tratti della mafia («sette pseudo politiche, in realtà di grassatori e assassini, della Romagna», p. 53) si possono giustificare continua omertà, carte sottratte ai giudici, indagini sviate o addirittura testimoni chiave uccisi fin dentro il carcere il giorno prima di essere ascoltati in tribunale… Non a caso Giovanni Pascoli disse che si poteva parlare “non di semplice trascuratezza, bensì di vera e propria connivenza” della polizia.
Quindi, se il maggior colpevole risulta Pietro Cacciaguerra, «l’unico a possedere tutti gli strumenti indispensabili al piano delittuoso: la ricchezza, le conoscenze politiche, l’assidua frequentazione dell’ambiente repubblicano, l’ambizione economica, la tenacia e determinazione» (p. 103), l’intero ambiente che gli gira intorno (repubblicani, mazziniani, criminalità comune travestita da politica, deputati, possidenti) viene realisticamente dipinto con tinte fosche dallo studio della Boschetti. Questa era la nuova Italia sabauda, l’Italia liberale, l’Italietta che si apprestava ad attendere la sconfitta di Sedan per aggredire Roma e farne la sua capitale.

TOMMASO ROMANO, Contro la rivoluzione la fedeltà. Il marchese Vincenzo Mortillaro cattolico e tradizionalista intransigente (1806-1888), Isspe, Palermo 2012

di Melo Freni
 
Chi era Vincenzo Mortillaro? Pochi ri- corderanno l’autore dello storico dizio- nario della lingua siciliana pubblicato a Palermo in tre edizioni, fra il 1838 ed il 1876. Ma la figura dell’uomo è molto più complessa ed accanto all’intellettuale (ara- bista, astronomo, matematico, docente universitario, retore, prolifico scrittore di letteratura e di scienza) sono da tenere in conto le attività dell’ideologo, dello sta- tista e del politico (nel 1848 venne elet- to alla Nuova Camera dei Pari dal ceto nobile ed ecclesiastico) che lo distinsero contro l’andazzo dei tempi, quindi con- tro Garibaldi, contro il Risorgimento, contro l’unità (frutto utopico della inna- turale unificazione), da borbonico ed in- dipendentista convinto, tutt’altro che cor- rivo ma aperto all’idea di un assetto con- federale garante delle autonomie ed in questo, con evidenza, modernissimo. A ridargli luce e visibilità è adesso un bel saggio dello studioso palermitano Tommaso Romano, edito dall’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, il cui sottotitolo è già rivelatore: Contro la rivoluzione, la fede. Il marchese Vincenzo Mortillaro cattolico e tradizionalista intran- sigente   (1806-1888).
Come sottolinea Paolo Pastori nella sua Introduzione: «La rilettura della nostra storia nazionale va al di là di antichi e re- centi manierismi celebrativi: l’importan- za del libro di Romano sta, infatti, nella novità di presentare, con dovizia di rife- rimenti e scritti originali, l’interprete di un dissenso che la storia, altrimenti uniformata alle ufficiali celebrazioni, ha del tutto oscurato». E per farlo, l’autore ripropone un ricco compendio storico- ideologico del tempo, del pensiero libe- rale dei legittimisti di parte borbonica a partire dalla Costituzione del 1812, de- gli antirivoluzionari del 1840 e del 1860, dei difensori di un assetto che poneva la Sicilia alla pari nella diplomazia europea, personaggi di un’opposizione colta, atti- va e responsabile, che corrispondeva a quella romana ed europea posta a difesa della fede e di una ragione diversa da quella dei sofisti e degli empi, animati da una “smania selvaggia”: è chiaro il ri- ferimento agli Enciclopedisti, come una sfida. E fa bene Tommaso Romano a so- stenere l’autorevolezza del nostro ricor- dando i rapporti personali ed epistolari che intrattenne, fra gli altri, con Leopardi, con Angelo Mai, con Massimo D’Azeglio e Domenico Guerrazzi, col Tommaseo e con Gregorovius, con Carlo Botta e Cesare Cantù, col grande amico e suo strenuo so- stenitore Lionardo Vigo. È lecito chie- dersi: come mai la storia ufficiale, scrit- ta sempre dai vincitori, può arrivare a tan- to discrimine? E il monito valga per sem- pre, anche per oggi, e vada a Tommaso Romano il merito per quanto, riaprendo alla figura di un protagonista “contro” restituisce alla completezza della storia. Il libro contiene anche un’antologia de- gli scritti di Vincenzo Mortillaro con profonde riflessione sui primi decenni dell’unità d’Italia. Detta antologia, sot- tolinea ancora Pastori: «è il recupero di un ciclo dentro il grande ciclo della no- stra storia, a partire dalla crisi dello Stato unitario, da quella Belle époque nelle cui pieghe dietro feste, cortei, celebrazioni e monumenti si ignorava la questione so- ciale, il crescere di un o scontento di mas- sa, sintomo peraltro di un’anteriore e pre- gressa perdita di contatto con i valori fon- danti della politica. C’è una diseducazio- ne di massa – che Mortillaro già ricono- sceva nello Stato unitario – oggi divenu- ta planetaria. Una diseducazione camuf- fata da cultura avanzata, un tremendo in- sieme di démi-lumières arroccato dietro e muraglie di carta, di diplomi di vario livello, di “eccellenze culturali” Tanto più scadenti di significato e valore quanto più altisonante è il titolo che si pretende di legittimare».

Pochi libri lasciano un segno profondo fra la narrativa odierna (Recensione di Tommaso Romano)

di Tommaso Romano

Il crollo della grande capacità di narrare dell’uomo, del mondo e dell’eterno, di indagare ragioni, di abbandonarsi all’immaginazione, di metastorizzare gli eventi, di fornire motivazioni, segni, punti di riflessione.
Certamente il romanzo di Piero Vassallo Un treno nella notte filosofante (Solfanelli, Chieti, 2013) è in totale controtendenza, in positivo stupore l’esito letterario che ci propone, in convincente sintesi l’architettura che regge tutto l’assunto.
Diciamolo subito, il romanzo filosofico di Vassallo non è adatto ai più, sconsigliabile per spiriti belli, ecumenici pacifisti e mistificatori di verità. Come una somma letteraria Vassallo – ormai consapevole della stazione alla grande Opera, dall’alto del notevole lavoro dottrinale, filosofico e di implacabile e acido polemista indomito – sciorina le sue certezze in un mondo che sospetta dominato da un leviatano abile, mellifluo e implacabile, un grande fratello che ci richiama ad Orwell ma anche alla Città del Sole di Tommaso Campanella, che di totalitarismi e controlli ne teorizzava non pochi.
La vicenda si snoda fra l’arresto di un treno che nella notte smette di correre verso una meta definita arenandosi nel neoparadiso delle schiavitù imposte dall’alto, da abili nuovi – vecchi filosofanti appunto, che gnosticamente imperano, imponendo a pochi prescelti le nuove iniziazioni a sfondo sessuale-orgiastico, per “illuminazioni” che conducono al sottosuolo dell’anima.
Un pugno di resistenti prima in modo volontaristico poi prendendo coscienza per una liberazione possibile, si fa guidare dalla determinazione di uno di essi, cosciente fino all’inizio del baratro e dell’inganno.
Vassallo sfodera gli artigli, come sempre sa fare, mostrando una fluente e accattivante affabulazione anche nel rischioso tessuto narrativo, ma appunto non rinunciando alle sue profonde convinzioni etiche, al travaglio metafisico che porta certezze nella trascendenza.
Smaschera gli inganni che trova nella realtà attuale trasfigurando i suoi personaggi, aguzzini e nuovi Rasputin compresi nell’avventura distruttiva del nichilismo senza orizzonti vitali.
Una risposta autorevole, forte, alla morte annunciata del romanzo schiavo adesso del pensiero debole e delle trame mortifere.
Opera di estremo rilievo, pietra miliare per ricomporre un tessuto slabbrato e in piena decadenza, Vassallo ci consegna un romanzo di lunga durata, paradigmatico, capace di suscitare vertigini e meditazioni metafisiche senza sfuggire alle urgenze e alle sfide terribili che la storia ci pone.

mercoledì 28 gennaio 2015

La mostra fotografica di Nino Bellia a Bagheria

Mostra fotografica personale di Nino Bellia presso il Pub Public di Bagheria (Via Quattrociocchi n. 24) . La mostra , dal Titolo “Nei Luoghi della solitudine”si compone di n. 22 foto in BN e si potrà visitare tutti i giorni, dal 29 gennaio 2015, dalle ore 18.00 alle 24.00 con ingresso libero. La mostra è patrocinata dalla Unione Italiana Fotoamatori.

Pubblichiamo un testo d Francesco Federico



Il Verismo fotografico di Nino Bellia
di Francesco Federico


Al “Pub Public” di Bagheria, al numero 24 di via Quattrociocchi, è in corso di svolgimento dal 29  gennaio fino all’11 febbraio la mostra d’Arte fotografica del Maestro Nino Bellia, nato a Motta S.Anastasia-Catania e residente a Santa Flavia, attivo Presidente Nazionale UIF (Unione Italiana Fotoamatori) dal 2007. Il titolo dell’antologica: “Nei luoghi della solitudine” (1990-2014) presenta 22 fotografie in bianco/nero, stampate in bagno chimico senza ulteriori manipolazioni informatiche, sintesi qualificante del suo notevole lavoro creativo che, con assidua ricerca tematica e tecnica, si svolge da oltre cinquant’anni.
I suoi fotogrammi, misurati e incisivi, mostrano i volti di donne e di uomini coinvolti dalla temporalità e dalla corrosione del tempo, e invitano a riflettere sulle difficoltà del vivere, soprattutto nei campi assolati e nei territori dell’universo siciliano. Ed è dai loro volti scarni; dai loro sguardi pensanti; dalle loro mani tormentate dai disastri di linee venose in tensione; dalle loro immagini piegate sulla terra argillosa; che trasudano le loro sofferenze e i loro silenti sacrifici, ovvero le loro storie umane percepite e sapientemente recuperate dall’oblio, che Bellia non esclude dalla nostra memoria storica e dal nostro presente. Ma Nino Bellia, come pochissimi artisti che colgono l’essenza spirituale universale dalla espressione dei particolari viventi, canta la vita e pone all’attenzione e alla nostra comprensione “il disagio” che diviene documento senza enfasi alcuna, capace di donarci ulteriori riflessioni, ma anche per ammonirci sulla esuberante effimera civiltà consumistica, che esclude “i vinti” direi “ i non protagonisti” del duro quotidiano lavoro.
In questi freddi e piovosi giorni di gennaio, Nino Bellia mi accoglie nel suo gradevole studio con la solita cortesia, e mi parla dei grandi fotografi italiani che ha conosciuto nei loro “workshop” tenuti in Sicilia sul finire degli anni Ottanta: Gianni Berengo Gardin, Mauro Vallinotto, Ernesto Bazan, Franco Villani e Maurizio Ascoli; del suo lavoro e delle tantissime iniziative dove ha esposto ed espone le proprie immagini, in Italia e all’estero: Austria, Polonia, Brasile; al Centro Culturale italiano di Stone Park (Chicago, Illinois-USA negli anni 2005, 2006 e 2008); al Museo Guttuso di Villa Cattolica di Bagheria, prestigioso luogo d’Arte dove sono già esposte alcune fotografie di questa significativa antologica; a La Plata (Argentina), ma soprattutto mi sussurra a bassa voce, e con grande emozione: “Queste immagini sono il mio migliore testamento, questa è una selezione di circa 50 foto scattate nella nostra Sicilia. Sono queste figure anonime che ci donano tutta la loro umiltà, tutto il loro muto eroismo”.   



LE SINGLOSSIE SENZA IMMAGINI DI APOLLONI NARRATORE-SAGGISTA

di  Matteo Veronesi

Si dovrà, un giorno, pienamente riconoscere (come del resto è in parte già stato fatto) l'importanza storica dell'Antigruppo Siciliano, di cui Ignazio Apolloni fu uno dei principali esponenti, e certo (grazie anche al sodalizio intellettuale con Vira Fabra, vera coscienza teorica del movimento, e pensatrice, in sé, di spessore assoluto) quello più culturalmente consapevole, e attento alle interazioni e alle contaminazioni fra linguaggi diversi.
Chi riapra, oggi, i corposi volumi delle antologie dell'Antigruppo si troverà di fronte alle testimonianze (programmaticamente eterogenee, fra movenze tardo-ermetiche, istanze neo-realistiche, influssi della beat generation d'oltre oceano e, più raramente, sperimentalismo formale riconducibile alla lezione delle avanguardie storiche) di un movimento autenticamente d'avanguardia, autenticamente mosso da una volontà di rinnovamento e di rottura degli schemi, e che, proprio per questo, tendeva ad abbattere, secondo una logica dell'inclusione e della fusione corale, le rigide barriere tra correnti, indirizzi, scale di valori (anche a costo di correre, consapevolmente e provocatoriamente, il rischio, segnalato da Giuseppe Zagarrio, di scivolare nell'anarchismo culturale, di legittimare un sottobosco di spontanea ed irriflessa creatività popolare).
Fin dalle pagine iniziali dell'antologia Antigruppo 73 venivano elogiate, per opera di Santo Calì, «le astromalie / d'Ignazio Apolloni distillate alla fiamma / del verbo equivoco/inequivoco»: il Verbo era rivelazione e insieme stridio fonosimbolico, discorso e insieme azzardo dell'annientamento del senso: «Christus-Shyryn-Ipotesi a dare un senso al nonsenso / dell'esistere a giustificare la nostra / alcaica “stasis” [inerzia=rivoluzione] / questo affaticarci infruttuoso al riparo / del fragile scudo della parola ambigua» (stasis è, in greco, conflitto e insieme presa di posizione, dunque immobilità e sfumatura, punto fermo e scontro, fissità del segno e dialettica diveniente del discorso).
In quel volume, versi dello stesso Apolloni raffiguravano la medesima ambivalenza, la medesima compenetrazione o circolarità degli opposti, Essere e Nulla, Tutto e Niente: «NEL TEMPO / ogni storia ha la sua morte, la sua vita, il suo inizio / l'inizio del tempo / la vita / la morte / la». Quel Tempo assoluto e insieme relativo è quello della poesia che fonde parola ed immagine, che sopprime il prima e il poi, che fonde e confonde e fa implodere le dimensioni dell'esperienza e del vissuto.
E si nota, analogamente, scorrendo le pagine di quelle antologie, un duplice senso, da un lato di stasi, dall'altro di moto e di rinnovamento, da un lato di angoscioso ripetersi, dall'altro di volontà di frattura e palingenesi. Il paesaggio siciliano, così arido, aspro, ostile, quasi allegoria dell'immutabilità e dell'inamovibilità di un destino («Bruceremo / così sognando il fuoco alla vittoria / dentro la grande notte, anche se insonni / vigileranno gli astri la memoria / della vicenda alterna che s'eterna / sopra l'antico rito del dolore», scrive Zagarrio in versi di tono montaliano), sembra contrastare, e nello stesso tempo rendere, per opposizione, più vivi, quei moti di colore, d'insofferenza e di rivolta che trovavano espressione nelle variopinte e dinamiche provocazioni creative dell'Antigruppo.
Gli astri, che ad Apolloni ispirano le sue analogiche ed immaginose astromalie, in Zagarrio vigilano, invece, nel loro assiduo, dantesco o leopardiano, ripetersi di «eterni giri», i cerchi e le fasi di un'immutabile e fatale vicenda storica e cosmica, la «vicenda alterna che s'eterna». Su tutto, l'immaginario mallarmeano degli astri, quasi, come costellazione luminosa di significati, come configurazione di segni luminescenti e balenanti, che l'occhio dell'interprete cerca, forse invano, d'inseguire e tracciare. Il poeta è preso, per citare il Valéry discepolo di Mallarmé, «dans le texte même de l’univers silencieux», ed innalza «une page à la puissance du ciel étoilé», diviso come l'uomo di Pascal fra il Tutto e il Nulla, sospeso e come lacerato «tra due infiniti».
In questa duplicità, del resto, incardinata saldamente nello specifico della realtà siciliana, si riflette la stessa ambivalenza ontologica di ogni arte d'avanguardia: da un lato, in quanto avanguardia, volta alla consumazione del passato, quasi al rogo purificatore, allo strappo, alla lacerazione; dall'altro, in quanto arte, in quanto segno tratto ritmo forma inscritti in qualche modo in una umana o fenomenica natura, l'avanguardia stessa è inevitabilmente legata ad un orizzonte di eventi e di significati che la trascende, ad una misura tendente ad una qualche possibilità di permanenza e di reiterazione.
Tutti questi chiaroscuri e queste tensioni riaffiorano nelle “singlossie senza immagini” di Apolloni prosatore. Singlossie senza immagini perché, se da un lato nel romanziere manca l'aspetto verbo-visivo in senso proprio, ossia la materiale compresenza e l'interazione della parola e dell'immagine sulla pagina, dall'altro la parola racchiude in sé una ricchissima potenzialità di evocazione visiva, di associazione analogica, che si spinge fino ad un vero e proprio pensiero per immagini, ad una sorta di postmoderna rivisitazione della tradizione manieristica e barocca degli “emblemi” e delle “imprese”.
Nei Racconti cinematici e cinematografici, l'autore chiarisce, e insieme problematizza, quasi a voler depistare, com'è sua consuetudine, il lettore ed il critico, fin dalle pagine introduttive, la propria concezione dell'accadere storico e insieme della narrazione. Nell'epoca della fluidità, della mutevolezza, della «modernità liquida», della «fine delle grandi narrazioni», come sono state definite, sembra che ogni codice, ogni canone o criterio per l'ordinamento e l'interpretazione degli eventi siano venuti a mancare.
Ecco allora che la forma forse più consona diviene quella del racconto frammentario, paradossale, surreale, che gioca con la fragile e rarefatta coerenza interna del meccanismo narrativo per far sfumare gli eventi narrati o sognati in un limbo versicolore e duttile, diviso fra la realtà e l'illusione.
Emblematica la figura del protagonista di Alpenschaft, che in un contesto mitteleuroopeo, vagamente manniano, diviene, paradossalmente (con una originale variazione su un tema antico, che risale almeno a Plauto, quello del doppio), un sosia di se stesso, fino a confondere in sé, e nello sguardo dell'altro, e dunque di noi lettori, identità e alterità, e a proiettare come un'ombra questa duplicità inquietante e perturbante anche su ciò che entra in contatto con lui, che si avvicina alla sua ambivalente ed indefinibile sfera ontologica e conoscitiva, sugli oggetti uni o multipli della sua conoscenza e del suo amore: quasi un Monsieur Teste di Valéry in cui però il cristallo della visione razionale e della lucida riflessione si sia increspato e sdoppiato fino a divenire un prisma indecifrabile.
Dalla letteratura d'avanguardia, e forse anche dalla psicanalisi, deriva il gusto paradossale delle associazioni di parole veicolate da affinità di significato, e che, in virtù del pensiero per immagini, si traducono in accostamenti repentini ed imprevedibili di situazioni, luoghi, figure, movimenti, con sequenze e catene associative che paiono, a volte, come nella stagione dell'Antigruppo, evocare, e insieme esorcizzare attraverso l'ironia, un ultimo, definitivo nonsenso di ogni cosa, un Tutto-Nulla originario ed ultimativo, datore e negatore di significato.
«Alla fine la facemmo franca: e infatti finimmo in una zona franca. Da lì passammo in Francia. (...) Il resto fu cosa da nulla». «Finisce che il finito finisce e ora si tratta di forare l'infinito», anche a costo dell'annientamento, come nel caso di un personaggio che (come in Poe, o come in alcuni Poemetti di Pascoli) si avvia, in cerca d'assoluto, verso l'estrema rarefazione del mondo iperboreo.
Il narratore-personaggio, anzi l'autore-personaggio stesso, parlando di sé o del suo doppio, in terza persona, si immerge e si addentra «in un fiume di parole popolato da pesci guizzanti»: qualcosa di simile, forse, al riverrun e al meandertale, al fiumetrascorrente e al primordiale-racconto-labirinto, del Joyce di Finnegans Wake, anche se in modo più sorvegliato, senza che il senso primario sia mai totalmente annientato, né le strutture narrative completamente sovvertite.
I Racconti patafisici e pantagruelici confermano quanto il racconto sia, come genere, particolarmente consono alla vena surreale e spiazzante dell'autore. Fin dal titolo, essi rinviano da un lato alla bizzarria, alla trasgressione, alla provocazione concettuale (rappresentate emblematicamente da Ubu Roi di Jarry, crocevia di décadence ed avanguardia), dall'altro all'abbondanza, all'esuberanza, al tumulto e al turgore (ma sempre, ad un dato momento, sorvegliati e frenati dalla consapevolezza critica) dei temi e delle voci.
Il fiume del tempo di classica memoria è divenuto ormai una «piscina per i tuffi nel passato», in cui (quasi come nella rappresentazione albertiana ed ariostesca del mondo della luna, in cui finiscono, e vanno forse perse una seconda volta, e per sempre, per poter essere recuperate solo con la fantasia e l'illusione, tutte le cose perse sulla terra) i ricordi i volti gli eventi hanno forma di bolle evanescenti, gonfie di «fiato caldo» o di «parole senza senso», nullificazioni l'uno e le altre, rispettivamente, dell'essenza vitale e dell'espressione del significato. Inutile, in quell'ammasso, «decifrare i conati di pensiero». Meglio cercare di scinderne e disvilupparne, a fatica, qualche singolo frammento, qualche particolare prospettiva.
La stessa nobile concezione agostiniana e poi bergsoniana del tempo interiore, del tempo distentio animae, che scorre e fluisce e viene percepito e conosciuto in interiore homine, finisce per perdersi in una mise en abŷme degna di Borges. «Se si nega il tempo (e valenza di verità alla Storia) si può collocare in un qualsiasi momento una storia tutta inventata». «Non si potrà colmare il vuoto del passato se non affidandosi alla fantasia».
Ed è stata proprio la fantasia, colmando il vuoto del tempo, a collocare nel tempo l'incontro immaginario che ha offerto l'occasione per questa straniata riflessione sul tempo. Il tempo cresce e si svolge su se stesso, di se stesso si nutre, se stesso chiarifica ed offusca.
I Caldei, nei loro sconfinati deserti (ed emerge, qui, la fascinazione dell'autore per le civiltà antiche, rievocate in modo libero ed immaginoso), contemplarono i cieli, e diedero un nome e un ordine agli astri. Fu proprio quel vuoto a permettere loro di costruire immensi templi di pensiero. In ogni caso, non avrebbero impiegato «i tempi morti a tentare di vincere la morte». L'otium dei classici è ormai il moderno «tempo morto»; ed è vano impiegarlo per costruire una presunta eternità di pietra. Meglio perdersi nel cosmo, affidarsi a quella contemplazione del Tutto la quale coincide con un abbandono al Nulla; meglio afferrare l'istante eterno che è manifestazione mobile, epifania transeunte, immobile e pura, dell'eterno.
Per inciso, un altro scrittore legato all'avanguardia meridionale, (se questa etichetta ha un qualche significato: ad un'avanguardia che sa fondere la solarità e l'accesa intensità sensoriale del Mediterraneo, il «vento del Sud forte di zagare», come diceva Quasimodo, con il raccoglimento e il travaglio del lavorio stilistico), Antonio Spagnuolo, ha saputo, con La mia amica Morel e altri racconti, trasfondere nella forma della narrazione breve una stessa vena, uno stesso sguardo – più melanconici, però, che estrosi, più sofferti che ironici – surreali, stranianti, e insieme lirici, fra distorsione temporale, contaminazione abissale di cronotopi, intreccio e confusione delle coordinate, da un lato; e, dall'altro, persistente ricerca di un'armonia e di una bellezza perenni, classiche, in cui placare ad un tempo il senso estetico e l'estasi carnale. «Chi scrive etrusco stabilisce la sua dimora in transistenza e indugia per osservatori al rituale malcelato libito esclusivo ... un vera storia di diritto e fondazione, innanzi tutto procedere fra la conversazione del significabile e il parricidio incommensurabile». E, alla violenza sacrificale del mito fondatore, del racconto originario, del Verbo rivelato, si giustappone la paziente, interiore, lirica creazione, attraverso il filtro memoriale, del mito individuale, del vissuto soggettivo: «Tavolta il nostro pensiero, le coincidenze disseminate nella vita quotidiana, le incredibili distorsioni del tempo sprofondano in noi stessi e sono sufficienti a costruire una favola»).
Prendono forma ed espressione, sulla pagina di Apolloni, un cronòtopo, uno spazio-tempo, affini a quelli della fisica quantistica e delle cosmologie ed epistemologie relativistiche. Proprio i rapporti fra quella visione del cosmo, e dello stesso operare scientifico, e alcune forme particolarmente stranianti, disorientanti, ed apparentemente aleatorie, dell'arte e della poesia contemporanee erano stati evidenziati da Vira Fabra nelle sue densissime pagine teoriche, spesso veri e propri poèmes critiques nel senso di Mallarmé, di una genialità assoluta, di un repentino e densissimo valore rivelativo. «Il vagare della forma nello spazio che ha assimilato la turbolenza dell'avanguardia, per trasporne i sintomi più eccitanti nel magma temporale di sedimentate formazioni geologiche esplosive», per citare proprio le parole di Vira Fabra, rappresenta la più alta e completa fusione di concezione e percezione del tempo da un lato, lavorio formale e rappresentazione dall'altro.
I romanzi, in particolare Gilberte e Lady Macbeth, rappresentano un ampliamento, una dilatazione e uno sviluppo, per successive aggiunte, per sovrapposti intarsi, per catene d'immagini che rampollano dalle immagini, parole che germinano dalle parole in riflessi e giochi d'eco, periodi che s'intrecciano ai periodi alimentandosi gli uni degli altri e chiarendosi o complicandosi, e coimpicandosi, gli uni gli altri, della cosmogonia, o cosmoagonia, della visione del mondo, o della provvisoria dissoluzione di ogni visione del mondo, di cui i racconti costituivano il preannuncio e lo specimen.
Come un'Erodiade di Mallarmé o una Giovane Parca di Valéry (ma certo meno algide, più briose ed ironiche, di quelle, eppure ugualmente intellettuali, ugualmente complesse ed inafferrabili), le due figure femminili sono, in definitiva, direbbe Borges lettore di Dante, «trame di parole», quasi impalpabili eppure vivissime, irreali eppure capaci di suscitare nel lettore un amore e un desiderio indefinibili: figure di donne che l'immaginazione e la penna dello scrittore paiono rincorrere ed inseguire nel momento stesso in cui le tratteggiano, e che egli sembra aver già trovato dentro di sé – come desideri idee concezioni fantasmi – pur essendone, nel contempo, perennemente in cerca; disincarnate incarnazioni di un'idea di poesia, di una visione, o di un'impossibilità di univoca visione, del mondo, di un paradigma conoscitivo (che può essere quello della cibernetica come della teoria dell'informazione – in particolare per la nozione di entropia, di informazione quale funzione, diretta o inversa, del disordine – o delle cosmologie relativistiche). Quasi come l'Orlando di Virginia Woolf, che insegue se stesso, o se stessa, attraverso le epoche, rincorre il proprio fantasma rovesciato, la traccia impossibile ed inafferrabile della propria incarnazione.
Con un artificio metanarrativo di sapore sterniano, giocando con l'atto stesso del costruire la trama e con l'intersezione, la sovrapposizione e l'interazione di tempo della storia e tempo del racconto, l'autore sembra condurre il meccanismo della narrazione allo stallo, alla reductio ad absurdum, così come al teatro non può che conseguire «l'implosione verso il silenzio», e l'immagine cinematografica tende a dissolversi nell'«opacità della memoria» e nell'«asfissia». Ma ecco che, proprio quando sembra essere destinata alla nullificazione, alla stasi, all'ammutolimento, la narrazione riparte, rinasce inesauribilmente da se stessa di se stessa sempre andando in cerca, e i personaggi i fatti i volti gli eventi i paesaggi le parole si affollano, come ha dichiarato lo stesso autore, a «popolare il vuoto» (cfr. S. LANUZZA, Dall'isola universale. Scrittura e voce di Ignazio Apolloni, Arianna, Geraci Siculo 2012, p. 84: ma il libro è utile, in generale, per un quadro d'insieme dell'autore, fra scrittura e arti figurative, fra estetica e società). La narrazione, del resto, nasce ed esiste per cercare di esorcizzare la morte, per rimuovere lo spettro del silenzio, per accendere ed animare la notte del ricordo, che resterebbe altrimenti spopolata e spenta. Anche di fronte all'abisso, allo smarrimento, all'orrore e all'errore, all'apparente non senso, lo scrittore non può che continuare ad agitare le armi innocenti dell'ironia, dell'intelligenza, della parola. Il romanzo Gilberte, forse l'opera dell'autore più equilibrata, meditata e sostanziale, è certo una grande costruzione letteraria, un vasto ingranaggio d'affabulazione. Eppure, essa evoca da lontano, con una sorta di malinconia pudica, di lieve e atroce distacco, la tragedia delle persecuzioni antiebraiche, che di per sé vanificherebbe, o parrebbe vanificare – pur nella prismatica evanescenza di ogni accadere storico, o forse proprio in virtù di essa – qualsiasi discorso narrativo, qualsiasi tentativo di riordinare o di elucidare gli eventi attraverso la scrittura. L'ambiguità, la polisemia, la polifonia – tutti elementi che di per sé si traducono in un effetto straniante e spiazzante – divengono invece, qui, in pari tempo, programmaticamente, segni e manifestazioni non dell'ingannevolezza o della mistificazione, ma della perenne vitalità, della continua creazione, del romantico genio, insiti nel linguaggio. Gilberte è, al suo nascere davanti all'immaginazione, alla vis imaginativa, dell'autore, secondo una simbologia ebraica che rimonta alla mistica de Liber Zohar, luce e miele, radiosità e dolcezza, ineffabile dissolversi di parvenze e ricomporsi di forme e di contorni. La costruzione di un personaggio, la rievocazione e l'intreccio delle sue memorie, sono un lungo viaggio, che presuppone, prima di partire, un «lasciare sedimentare la memoria», il recupero di una «purezza fantasmatica». Ma l'«olocausto delle memorie» potrebbe infine essere inutile; lo sbocco ultimo potrebbe essere il riconoscimento, anch'esso ebraico, della vanitas vanitatum, dell'«assoluta vanità della ricerca». Lo sguardo del narratore, proprio per questo, «indaga la superficie delle cose come se al fondo non ci fosse nulla». Questa profondeur de la surface, questo come se, questo quasi-nulla, questa «arte del nonostante» diceva Lukács, sono tutto ciò che la letteratura può opporre al nulla della storia e all'abisso dell'insensatezza. Pur “patafisico” e “pantagruelico”, pur ironico, antiretorico e straniante, Apolloni finisce dunque per affrontare, senza risposte univoche e definitive, senza «la formula che mondi possa aprirci» – lui «prigioniero delle parole», e per ciò stesso pronto ad immergersi nel «tempo senza tempo» della narrazione, nella mobile immobilità, nella fluente imago aeternitatis, del discorso – , il senso ultimo dell'esistenza, della storia e, di riflesso, della letteratura.

Dall'Accademia Teretina

I relatori che si sono alternati al micofono per illustrare alcuni articoli presenti nel Numero Unico  2013 ANNO XXIV, sono stati rispettivamente i professori Cinzia Dichiara, Lubiana Cianciulli, Umberto Caperna, Segretario dell'Accademia e Lino Di Stefano Presidente della stessa. La prima, ha relazionato sull'Abate Francesco Palatta - di Castro di Volsci (Frosinone) - musicista nel XVIII, Direttore 'pro tempore' della Cappella Sistina e autore, tra l'altro, dell'inno a due voci con organo di 'Alma Redemptoris'Mater' e di un canto polifonico a quattro voci in 'Missae elevatione'. La seconda mercé un'ampia panoromica, ha trattato sia del saggio del presidente su 'Luigi Pietrobono dantista', sia degli articoli di Umberto Caperna su Ungaretti e sulle guerre sannitiche nonché sullo scritto di Delfina Ducci su un libro del prof. Caperna su Riccardo da San Germano. Il Segretario dell'Accademia si è invece soffermato su vari temi come quello sul libro di Domenico Rotundo inerente alla presenza di S. Salome ad Oplontis  e su altri argomenti come, ad esempio, quello su M. T. Mariconda relativo al folklore nel frusinate e quello su Maestro Giuliani inerente agli amici del Coro dell'Unitré. Infine, sull'articolo di L. Quattrocchi sul Mahatma Gandhi. Ha chiuso gli interventi il Presidente il quale ha affrontato, brevemente, l'articolo di Massimo Sergio su un episodio avvenuto agli inizi degli anni Sessanta nel Licero classico 'N. Turriziani' di Frosinone. Episodio - riguardante un tema assegnato da un giovane docente agli alunni e da affrontare , 'ad libitum', o da un versante di destra oppure da una prospettiva di sinistra - che fece scalpore, da una parte, perché strumentalizzato dalla stampa locale e suscitò, dall'altra, aspre polemiche visto l'intervento di ispettori ministeriali. Il tutto risoltosi in una bolla di sapone

INTERVENTO DI ARTURO DONATI - "IL SISMOGRAFO E LA COMETA" di TOMMASO ROMANO

Dopo aver pubblicato l' intervento di Maurizio Massimo Bianco sul libro "Il sismografo e la cometa" segnaliamo l'intervento di Arturo Donati svolto il 12 gennaio 2015 u.s. sul medesimo libro


lunedì 26 gennaio 2015

Ombre sulla luna di Giusi Alesi: una porta verso il domani

 di Giuseppe La Russa

Una poesia declinata al domani: può davvero pensarsi così l’opera in versi di Giusi Alessi, in particolar modo quella che si staglia sulle pagine della raccolta Ombre sulla luna. La lettura di questi testi è continua attesa di un avvento, di un’epifania, di un silenzioso evento che sconvolga, metafora, certamente, dell’esistenza umana che tendiamo, quasi sempre, ad immaginare “al futuro”. Le parole, vaghe e concrete al contempo, offrono dunque questa stretta compenetrazione tra arte e vita, tra una poesia che sembra correre sempre su un filo sospeso, perennemente in attesa e la vita umana che il più delle volte guardiamo non nel frangente presente, ma che tendiamo ad immaginarla al futuro.
Si chiede Giusi Alessi: «Domani forse…/ ma cos’è domani?/»
Domani forse… Sembra la tendenza tipica dell’uomo a rinviare a tempi più propizi le decisioni più difficili, la propensione a procrastinare e che fa vivere spesso un’attesa vana, vuota. Si leggano altri lacerti di testo: «Avvolgo/ il mio respiro/ nell’attesa/ spiando/ la tua sete/ d’amore», oppure «Compromessa/ da parole inutili/ vuoti, astrusi/ e sognare/ di vivere il sole/ la speranza/ mentre/ giorni ubriachi/ tentennano/ nella preziosità/ di un mondo/ da scoprire». Si tratta, forse, di una paura, tutta umana, del tempo presente, come si può leggere in un altro pregnante testo: «Ore che scorrono/ lente/ tentennanti/. Paura/ del tempo reale/ logorio/ vite intossicate/ inesorabili/ giorni sul nascere»; una poesia, dunque, che tende al domani caricandosi sulle spalle un passato che è sempre presente, che plasma i giorni presenti. Un passato ricordato a volte con nostalgia («Dove sono/ gli anni innocenti/ […] catapultati nei giorni a venire/ di donna/ mai bambina»), a volte, leopardianamente, come latore di immagini sfocate e perciò atte a stimolare l’immaginazione, l’illusione.
Leggere le poesie di Giusi Alessi porta ad immergersi in un tempo che è un “non tempo”, in cui la dimensione presente, l’atto concreto ed esperibile appare in un primo momento bandito, in cui l’azione è giocata su questo altalenarsi tra passato e futuro. Il tempo diventa il giudice fidato ed incorruttibile di ogni movimento, ed è un tempo spesso mitico, ancestrale, senza precisi riferimenti: non a caso una delle poesie chiave, quella che reca tra i versi il titolo della raccolta, si intitola Ripetersi e così risuona: «Ripetersi/ ritrovarsi/ spiagge bianche/ orme/ le mie le tue/ orizzonti di sospiri/ ombre sulla luna».
Ma proprio questo testo scioglie, probabilmente, il significato generale dell’opera: sembra di leggere, in questo testo, la capacità da parte dell’autrice di accogliere ogni aspetto che il Tempo (qui volutamente in maiuscolo) è capace di donare; e quando parliamo di Tempo lo intendiamo coniugato sia al passato che al futuro, ma le orme di cui l’autrice parla – i passi del tempo – sono inevitabilmente visibili hic et nunc, qui ed ora, altrimenti non sarebbero nemmeno delle orme, dei segni evidenti agli occhi dell’autrice. Ecco dunque che, quasi miracolosamente, quell’epifania c’è, il presente appare in tutta la sua concretezza e sa, a quel punto, aprirsi al domani.
La malinconia sembra spesso pervadere la pagina, ma la poesia di questi testi si gioca proprio sull’attesa. Perché l’attesa di un domani deve essere necessariamente una porta spalancata alla speranza: non esiste speranza senza domani e domani senza speranza. Ma l’attesa del domani presuppone un’attesa che sia presente, che ci sia, che sia vigile ed attenta. Il terzo piano temporale, quello che appariva lontano, eccolo nel testo chiave della raccolta: è un momento che scorre silenzioso, che viene percorso, agostinianamente, nell’animo e attraverso l’animo, ma che è conditio essenziale per schiudere i battenti al futuro.
Così, nella nostalgia e malinconia generale, che sono comunque presenti e che danno spesso uno spaccato di tristezza, fa capolino un barlume di luce, si lasciano intravedere gli occhi del tempo, gli occhi dei giorni «che cercano inventano i sogni di un nuovo giorno», nell’attesa, non vana, di una Speranza che da lontano si lascia intravedere, che arriverà silente un giorno… domani, forse… Ma cosa è, in fondo, domani?

domenica 25 gennaio 2015

Presentazione "Il sismografo e la cometa" (Tommaso Romano, Palermo 2014)

Come annunciato si è svolta la presentazione a Paermo,nella prestigiosa Sala delle Lapidi del Comune,del nuovo libro della collezione del mosaicosmo di Tommaso Romano ''Il sismografo e la cometa'' edito dall'ISSPE,con la partecipazione di oltre 150 ospiti.Il Consigliere Comunale avv. Giulio Cusumano ha introdotto e donato una Targa a Romano a nome della Citta',sono intervenuti Giuseppe Bagnasco,Umberto Balistreri, Maurizio Massimo Bianco,Arturo Donati,alla Presidenza Ciro Spataro,Elide Triolo,Vito Mauro,Maria Patrizia Allotta,Pippo Romeres ha letto spendidamente 30 testi lirici di poeti e 2 di Romano,mentre applauditissimo il maestro Francesco Maria Martorana ha dato un saggio di pezzi di chitarra classica fra cui uno inedito composto per Tommaso Romano.Pubblichiamo di seguito l'intervento di notevole spessore del prof. Maurizio Massimo Bianco ricercatore di lingua e letteratura latina all'Universita' di Palermo,autore di preziosi saggi e traduzioni,si occupa prevalentemente di commedia e retorica del mondo antico,nonchè di biografia,storiografia e antropologia. (Vito Mauro)




di Maurizio Massimo Bianco
Quelli di Tommaso Romano sono per così dire dei veri e propri libri a mosaico, dei metalibri, costruiti talora intorno e a premessa ad altri libri, attraverso un labirinto spesso e sorprendente di ricerche e di percorsi. Aprono curiosità, introducono ad universi paralleli, danno conferme, sviluppano revisioni.
La collana del Mosaicosmo è giunta ora al suo dodicesimo volume. Un traguardo ambizioso che dimostra come il percorso culturale di Tommaso Romano sia ancora fertile, ancora destinato a dare fruttuose interpretazioni della realtà e della sua misteriosa articolazione. Non a caso la collana è intitolata ad uno splendido neologismo, Mosaicosmo. Ne spiega molto bene il senso Ida Rampolla Del Tindaro, utilizzando gli stessi chiarimenti di T.R.: «la tessera del mosaico rappresenta […] la sintesi simbolica che la vita dell’uomo sviluppa nei suoi atti, nella sua coscienza, nella profondità del suo essere, che è unico ma fa parte di un insieme e non è mai avulso da un contesto in cui tutto, anche una particella infinitesimale come un tassello, ha un senso e si proietta verso il mistero. Ogni essere umano è dunque indispensabile nell’economia del creato e ogni uomo […] ha una sua missione da compiere». L’occhio di Tommaso Romano, guidato da sensibilità e formazione, indaga su alcune corrispondenze, per dirla in termini baudelairiani, cerca di intuire alcuni legami tra le tessere del tempio della Natura. Non si tratta mai di un lavoro di cucitura ma di uno sguardo di ricomposizione, che tiene insieme molteplicità e unità
Innanzitutto il titolo, Il sigmografo e la cometa: come talora T.R. ama fare, il titolo non è mai del tutto espressamente spiegato all’interno del volume; qualcuno, ad esempio, si continua ancora ad interrogare su cosa esattamente significhi L’isola Diamascien. Ma i titoli - ce lo insegna Genette – sono soglie, ci portano già dentro il testo, anche quando semplicemente producono interrogativi, certezze o fraintendimenti, perché un libro, prima ancora che dell’autore, è soprattutto di un lettore. Quello che subito balza all’occhio è l’ossimoro di questa espressione: da un lato c’è il sismografo che registra e presuppone il sisma, il movimento, la distruzione; dall’altro c’è la cometa che segna la strada, indica una via, dà certezze. È un ossimoro orientato in positivo, perché la cometa segue il sismografo e non il contrario: non si ignora la slavina, il clima ‘apocalittico’ (come lo definisce lo stesso T.R.), ma si consegna al lettore un’occasione, una possibilità, un percorso di salvezza. La cometa è un simbolo straordinario, sacro e profano al contempo, che riesce a riscattare con la sua aura poetica anche molti messaggi prosaici.
Il libro si articola in 5 sezioni, che in qualche modo prospettano campi di indagine diversi ma che inevitabilmente, nel quadro del mosaico, finiscono per richiamarsi tra loro.
La prima parte, intitolata LA TRADIZIONE E LA DERIVA APOCALITTICA, è aperta da un lungo saggio, inedito, sulle LINEE ANTIMODERNE PER I CAVALIERI ERRANTI DELL’IDEALE. Si tratta di un’ampia riflessione sul nostro tempo e sulle sue prospettive, in un’epoca segnata dalla crisi delle istituzioni politiche, economiche e spirituali. T.R. parla di clima apocalittico, anche se non si lascia mai tentare dal nichilismo. Contro questo quadro desolante vengono chiamati in causa, con una bella allusione donchisciottiana, i cavalieri erranti dell’ideale, ovvero quella resistenza, apocalittica e controrivoluzionaria, che è individuata, con una felice metafora, nelle microcomunità agricole degli uomini di cultura e nell’azione coraggiosa dei piccoli gruppi. T.R. non risparmia critiche, talora con sottile ironia, nemmeno ai cavalieri mancati, anche a quei Pastori di anime che, a suo avviso, hanno in qualche maniera rinunciato alla resistenza.
Al centro delle pagine di T.R. c’è proprio l’idea di progresso, che, come egli bene sottolinea, a partire dall’epoca post-illuministica si è trasformata in una vera e propria ideologia, in una sorta di fede unilaterale che, quasi secondo un fondamentalismo rovesciato, oggi non ammette infedeli: non si può non credere nel progresso. Nel saggio invece si insiste sulla necessità di un ripensamento radicale della modernità, che possa comportare una resistenza etica ma anche «spazi autarchicamente e umanamente tollerabili, anche in senso geopolitico». In questo sisma la cometa è rappresentata dal sacro; come afferma l’autore, «“Rivestirsi” di sacro è possibile, ma è anche arduo. Il sacro è comunque già nell’uomo imago Dei, è nella natura imago Dei, è nel cosmo imago Dei. Basta saperlo scrutare e coglierlo, il sacro, attraverso la direzione di pastori e guide all’altezza del compito tanto immane […] senza sincretismi e senza falsi pietismi».
La riflessione di T.R. si avvale, comunque, in maniera evidente delle sue risorse di storico e filosofo e delle sue competenze di politico. Al disastro, al terremoto, morale ed economico, si oppone una scia di luce, un percorso ideale, valido per i piccoli cavalieri ma anche per chi agisce da protagonista. A loro l’autore si rivolge nelle considerazioni conclusive: «Il protezionismo non deve essere un tabù, è la sola strada maestra possibile. Questo non significherà chiudere ermeticamente le frontiere ai nostri esportatori (pochi, in pochi settori e ormai marginali nello scacchiere mondiale) e a chi vuole introdurre i suoi prodotti in Italia. Bisognerà incoraggiare, promuovere, controllare e agevolare il mercato interno, con condizioni precise da imporre al liberismo e al mercatismo imperanti, per l’import-export».
IL SUD, L’ITALIA, LA NOSTRA STORIA: UNA NECESSARIA CHIARIFICAZIONE è il
secondo saggio della prima parte, anch’esso parzialmente inedito.
Viene chiarita l’occasione di questa riflessione, scaturita da una domanda insistente che è stata rivolta a T.R. dopo la pubblicazione del suo saggio su Vittorio Amedeo di Savoia Re di Sicilia. Lui stesso la sintetizza: come si può essere revisionisti rispetto al Risorgimento e poi scrivere un’opera sui Savoia? La riflessione che ne viene fuori è davvero straordinaria, perché non si limita soltanto a chiarire obiettivi e senso dell’indagine storiografica, che ovviamente avviene al di là delle nostre convinzioni, anzi avviene anche e soprattutto proprio fuori da ogni nostro pre-giudizio, ma diventa occasione per aprire altre interessanti considerazioni e porre nuovi quesiti. L’appartenenza, che sia essa politica, sociale o economica, non può mai portare all’ingenua illusione dell’esistenza di un sistema perfetto: e l’assenza di un bene terreno assoluto – mi si passi l’espressione – finisce per negare, in una sorta di manicheismo rovesciato, l’esistenza di un male terreno assoluto. Ci sono i buoni e i cattivi processi della storia: lo storico (ma si potrebbe aggiungere anche il politico, il filosofo) che, guidato da moralismo e partigianerie, guardasse a questi processi in maniera unidirezionale, finirebbe per tradire il suo stesso mandato scientifico. Il confronto tra alcune posizioni dei Savoia e dei Borbone, che T.R. tratteggia con una semplicità disarmante, non lascia dubbi sulla prospettiva con cui vanno misurati gli eventi e che lo stesso autore sintetizza con una definizione di Franco Cardini: «La storia, come indagine razionalmente e sistematicamente condotta su fatti, istituzioni e strutture del passato, non può essere altro che rilettura, reinterpretazione e quindi revisione continua di giudizio e di interpretazioni precedenti». Avere messo in luce le storture del processo di unificazione italiano non significa pretendere un antistorico rovesciamento degli eventi ma una più rivoluzionaria affermazione della verità storica, come necessaria per ripensarci sia oggi che domani. E come è il domani ripensato da T.R.? Ce lo dice lui stesso: «Ciò che conta, allora, è la riconquista della regalità a tutti i livelli, per ridare unità e dignità ad un popolo che l’ha perduta in quasi settanta anni di repubblica e di malgoverno, di mafie e malaffare».
Nel saggio RENDICONTI E PROSPETTIVE TRADIZIONALPOPOLARI si dipinge il bisogno di una “meta politica”, di un otium fruttuoso, che chi ha esperienza politica (e in questo caso il riferimento è alla stagione del partito Tradizional Popolare) ha il dovere di praticare. Quasi seguendo idealmente la lezione sallustiana, si evidenzia l’esigenza di mettere a disposizione il proprio patrimonio di idee ed esperienze, di vocazione e di cultura in tutti i modi possibili. «Essere lievito di progetto, prospettiva, programma, saper analizzare, formare, indirizzare non sarà - come non è stato - effimero modo di essere e agire».
Di questo patrimonio T.R. dà subito prova nel saggio successivo, dove, a partire dall’analisi di Agostino Portanova, egli riflette sulla parabola politica italiana dagli anni ottanta al primo governo Berlusconi, mettendo bene in luce tutti gli aspetti delle nostra ‘democrazia difficile’. La Seconda parte del libro è chiamata FRA STORIA, STORIOGRAFIA MUNICIPALE E BENI CULTURALI. Dietro ogni riflessione si scorge la fatica intellettuale ma si intravvedono anche le reti culturali che legano l’autore al suo territorio.
L’interesse per la simbologia emerge con evidenza in METASTORIA E SIMBOLO NEL NODO DI SALOMONE SECONDO PIPPO LO CASCIO ma anche in FARI E FANALI DI SICILIA,
dove si sottolinea la dimensione lirica dei fari, che, in analogia con la cometa, sono simbolo della luce e del giusto cammino, oltre che materia di interesse storico, architettonico, strategico.
I saggi LEONFORTE DEL SEICENTO NELLE RICERCHE DI NINO PISCIOTTA e ancora PER CRUILLAS: FRAMMENTI DI STORIA MUNICIPALE danno occasione a T.R. di rivendicare la nobiltà della storiografia municipale, ormai lontana dalle sommarie storie locali dei maestri, farmacisti e notai dall’Ottocento. Come egli stesso conferma, «la nuova Storiografia Municipale oggi è come una vera e propria scienza storica che segue… tutti i riferimenti utili alla ricostruzione della vicenda comunitaria».
Una forte convinzione, ovvero che «la cultura è anzitutto (anche nei suoi esiti concreti) anima che vive nelle cose oltre che nell’umano e nel mondo» è quella che sta alla base delle riflessioni proposte in UNA GUIDA ESSENZIALE PER I BENI CULTURALI.
Nella terza parte, dove Romano va esplicitamente ALLA RICERCA DELLA PAROLA AUTENTICA, troviamo molti saggi, brevi e ricchi.
In questa sezione T.R. dà prova della sensibilità che lo guida a leggere il panorama culturale in cui si muove. Chi sfoglia queste pagine riesce facilmente a capire come siano plurali e articolati gli interessi dell’autore, uomo di cultura ma soprattutto uomo innamorato della ‘parola autentica’, quella capace di tracciare disegni e che non rinuncia alla ricerca della verità. Molto raffinate le considerazioni sull’INIpoesia di Antonino Russo, sul profondo pathos di Stefano Lo Cicero, sulla lingua variopinta e ironica di Vito Conigliaro, sulle parole pulsanti e “scandite come lama” di Francesca Guajana e sull’opera di Dino Grammatico (“AD OGNI AVVENTO” DI DINO D’ERICE) e sulla dimensione totalizzante della poesia di quest’ultimo, intesa come poesia del ‘noi’, della coralità, che consacra il poeta come poeta dell’eticità. La lettura critica delle poesie di Michele Sarrica è, ancora, portata avanti con estrema sicurezza e sintetizzata efficacemente come frutto di un’anima sacrale, per la quale la religio è congiunzione e non laccio. Nell’opera di Pasquale Attard, T.R. vede con lucidità il tema della parusia, per mezzo della quale – come egli sottolinea - il Regno di Dio viene a congiungere i cieli e la terra.
Ancora in questa parte, volendo non trascurare nulla, equilibrato e profondo è il ritratto dell’opera di Salvatore di Marco (LE RIVISITAZIONI CRITICHE E BIOGRAFICHE DI FIGURE NOTE E DIMENTICATE DELLA CULTURA SICILIANA NELLA RICERCA LETTERARIA DI
SALVATORE DI MARCO), di cui T.R. ricostruisce formazione e interessi, dimostrando la sensibilità e la misura di chi sa esplorare anche terreni scomodi o semisconosciuti.
Romano propone in questa sezione anche una lucida lettura dell’epistolario di Salvatore Li Bassi al padre Matteo La Grua, inquadrandolo come «un viaggio interiore di purificazione, di bellezza verso la Luce», un viaggio concepito all’interno di quella dimensione cristocentrica che è alla base del pensiero libassiano. Viene sottolineato opportunamente come la «scrittura della vita non è solo un cumulo di occasioni», perché noi non siamo nel mondo per caso.
Una quarta sezione, intitolata PER CAUSA D’ARTE, mostra ancora le competenze e la passione di
T.R. per l’universo artistico e conferma, qualora ce ne fosse bisogno, la grande versatilità dei suoi interessi. Chi ha frequentato il suo studio non fatica a comprendere come per Tommaso Romano non sia davvero possibile creare barriere tra arte e storia, tra poesia e filosofia, tra formazione e politica: tutto si sintetizza nella sua sete di conoscenza, che non è mai sterile ma concepita sempre come condivisione di spazi, come occasione per capirsi e per capire. In questa parte troviamo riflessioni su Giuseppe di Giovanni, dove il tema della luce viene interpretato anche come proiezione metafisica, su Angelo Denaro, di cui viene ricostruito tutto il percorso artistico, sui disegni di Giuseppe Alletto, sui ‘santini, di cui si coglie il valore spirituale, culturale ed etnoantropologico, sulla raccolta fotografica di Umberto Balistreri dedicata ad un’Aspra policroma.
Un’ultima sezione è poi dedicata a quelli che T.R., con un titolo ad effetto, chiama FIGURE E PERSONAGGI NEL CAMMINO. In questo universo ritroviamo pagine indirizzate a Francesco Brancato, Michele Pantaleone, Renzo Mazzone, Francesco Carbone, Ludovico Gippetto, Sergio Ceccotti.
Il libro è chiuso da un denso saggio di IDA RAMPOLLA DEL TINDARO, che ricostruisce con lucidità il percorso bibliografico, e quindi intellettuale, dell’autore.
Per chiudere questa breve scheda, mi piace utilizzare un’affermazione contenuta in questo stesso volume, un’affermazione che bene traduce il senso e lo spirito della comunione intellettuale, della circolazione di idee, della condivisione di saperi che da sempre guidano l’azione culturale di T.R., convinto che solo i fili bene intrecciati producono un ottimo tessuto.
«Ciò che connota una comunità sono i legami, non solo di nascita o parentali ma anche di intendimenti, stili e memorie. La comunità, infatti, non è un semplice agglomerato confuso e indistinto, indifferente e freddo a ciò che si muove, germoglia o perisce. Certamente è molto di più. È un destino comune, direi, che costruisce ponti e non cinte murarie, che si riconosce nell’auspicare il meglio per la polis, nella sua totale interezza, che ha una fede uguale, una speranza profonda, una solidarietà operosa, vigile».

Recensione "I Vichinghi in America"

di Fabio Bozzo

Analizzare la Storia umana attraverso gli effetti che su di essa hanno avuto le mutazioni climatiche, è l'obbiettivo dell'autore di questo libro: opera breve, essenziale, divulgativa, ma consigliata a tutti coloro i quali vogliano comprendere le inevitabili connessioni intercorse, nei secoli, tra forze della natura e volontà degli uomini.
Alberto Rosselli, storico e giornalista già noto, tanto al grande pubblico, quanto all'ambiente accademico, per le sue opere rigorose e politicamente fastidiose, ci porta questa volta a navigare insieme ai pirati-esploratori scandinavi che solcarono l'Atlantico settentrionale nei quattro secoli a cavallo del primo millennio dopo Cristo, con uno stile sintetico, sobrio e tale da soddisfare sia lo studioso più intransigente che l’appassionato.
Dalle pagine di questo libro si evince che gli arditi viaggi per mare compiuti dagli avventurieri iperborei furono resi possibili da molti fattori di natura meteorologica soprattutto, ma anche tecnologica. Partiamo dall’elemento ‘naturale’. Ciò che spinse i vichinghi ad ampliare i loro orizzonti di scoperta fu, innanzitutto, una fase temporanea, ma a dire il vero relativamente breve, di riscaldamento, noto come “optimum climatico medievale”: fenomeno che produsse un significativo innalzamento della temperatura nell'emisfero settentronale del pianeta. Tale surriscaldamento (torneremo a breve su questo termine) fece si che, nel periodo compreso, all'incirca, tra il 900 ed il 1250 d.C., la temperatura media salisse di circa quattro gradi: escursione termica che determinò lo scioglimento di notevoli porzioni di banchisa artica. Questa era calda, alla quale fece seguito un periodo decisamente più freddo ed umido che, tra l’altro, contribuì al regresso agricolo ed economico del XIV secolo, favorì, inoltre, un incremento delle terre coltivabili e di quelle adatte all'allevamento e, di conseguenza, un maggiore incremento demografico. Ora, questa favorevole congiuntura climatica spinse i popoli scandinavi (e non solo) a cercare nuove terre e, soprattutto, nuovi insediamenti oltre Oceano: necessità indotta dall’improvviso sovraffollamento e dal tradizionale, sfavorevole rapporto tra aree agricole disponibili (ci riferiamo sempre alla penisola scandinava). Secondo, importante fattore destinato, assieme al clima, a favorire i vichinghi nei loro lunghi viaggi per mare fu l’elevato livello raggiunto, nel IX secolo, dall’industria navale scandinava: industria cantieristica in grado di mettere a punto imbarcazioni molto adatte alla navigazione d’altura, come i leggendari drakkar e knorr. Grazie al testo di Rosselli, possiamo anche esplorare il percorso storico ed evolutivo di queste imbarcazioni, che, nel volgere di quattro secoli, si trasformarono da semplici canoe in gioielli della tecnica nautica in grado di raggiungere l’Islanda, la Groenlandia e Terranova. Merito dell'autore è, a tale proposito, quello di garantire al lettore una buona scorta di informazioni, senza però esondare in noiosi e non del tutto necessari tecnicismi.
Volontà d'acciaio, conoscenze marinaresche adeguate, mezzi d'avanguardia e condizioni meteo straordinariamente favorevoli: questi furono gli ingredienti dell'epopea e dell’espansionismo oceanico vichinghi. Tuttavia, allorquando il clima – si badi, in modo del tutto naturale e ciclico - tornò a raffreddarsi, questa grande avventura iniziò a declinare. Con l’abbassarsi delle temperature (fenomeno che ebbe il suo inizio intorno al 1250) le rotte che univano la Norvegia all’ Islanda e alla Groenlandia meridionale si interruppero, causando l'estinzione degli insediamenti vichinghi groenlandesi, già insidiati dagli attacchi delle tribù eschimesi calate dalle lande settentrionali dell’immensa isola proprio in seguito all’irrigidirsi del clima. Ma come si è detto, il testo di Rosselli si incentra, soprattutto, sull’analisi dei cambiamenti climatici, ciclici, verificatisi nel corso dei secoli: mutazioni ripetute, e che continueranno a ripetersi, in quanto insite nel ciclo naturale. Il tutto, a sfatare, almeno in parte, la convinzione – quella espressa dagli attuali climatologi ‘catastrofisti’ (spinti, spesso, da interessi poco chiari) – circa un’inarrestabile inaridimento dell’intero globo. Se è, infatti, vero che il progresso umano ha surriscaldato la terra, è altrettanto vero che, a partire dalla metà del XIX secolo, siamo entrati in una nuova fase di ‘optimum climatico’: fenomeno che ha fatto, e sta facendo, la sua parte nell’innalzamento medio delle temperature. Detto questo, l'autore, con l'onestà intellettuale che lo contraddistingue, non opta per un attacco frontale ai ‘catastrofisti’ che imperversano su tutti i media, bensì, più pacatamente preferisce spiegare che, alla luce degli eventi passati e senza ignorare la rilevanza delle azioni antropiche, questo nostro pianeta risulta molto più grande, autogestito e meno schematizzabile di quanto i sostenitori del “socialismo climatico-ecologico” vorrebbero fare credere. Per ultimo, il testo di Rosselli porta il lettore più attento ad una particolare considerazione che spazia dalla Storia, alla spiritualità e, forse, ad una nuova presa di coscienza. Tale considerazione non giunge automaticamente, ma si fa strada nel lettore progressivamente, come un sano germe, quello della legittima, ragionata e disinteressata analisi, dissociante, per sua stessa natura, da quella conformista e politically correct, ormai in voga da troppi decenni. Come abbiamo visto la cultura vichinga - norrena non si fece cogliere affatto impreparata dal grande appuntamento con la Storia, tanto da farci credere ad una sorta di nostra occidentale predestinazione, tipica di chi ha sempre saputo affrontare l’’oggi’, sempre denso di ogni imprevisto, senza mai abbandonarsi a quella sorta di ‘ripiegamento’ intellettuale, di matrice ‘progressista’, ideale a condannare, anche attraverso un’accurata disinformazione, ogni realtà effettuale.

Recensione “A buela è”

 di Franco Trifuoggi

Con questo elegante volume (“A buela è”, Thule, Palermo 2014) Giusi Lombardo si propone – come scrive Biagio Scrimizzi nella lucida e dotta introduzione – di “concorrere a conservare, divulgare, tramandare un prezioso patrimonio di cultura popolare”: opportunamente egli cita, al riguardo, giudizi del filologo Ernesto Monaci (“…la favella appresa nel seno della nostra famiglia non è meno degna di rispetto che la lingua da apprendersi nelle scuole…”) e del demopsicologo Giuseppe Pitré (“Nel dialetto è la storia del popolo che lo parla…”). Per tale finalità il libro appare non solo un testo gradevole e interessante, ma anche un atto di amore per la sua Sicilia dell’autrice, convinta che perdere “le proprie tradizioni linguistiche, i dialetti, sia in ogni modo una menomazione”, che alcune forme dialettali “rendono l’idea solo quando siano espresse nella lingua madre”, e studiosa di esortare i lettori a “mantenere integre le tradizioni del popolo siciliano”. Non senza ragione, quindi, al volume è stato assegnato il Premio “Asprazzurra 2014” per la difesa dell’identità siciliana.
Il titolo si ispira a un gioco di bambini, il nascondino, e costituisce un invito a “cercare, a scavare forse, nelle nostre origini” per ritrovare conoscenze che il passare del tempo rischia di far dimenticare. E Giusi Lombardo, palermitana, appassionata cultrice della letteratura di tutti i tempi, e responsabile di agenzia di Poste Italiane, trasfonde nel libro, in una con il frutto dei suoi studi – dichiarati nella nota bibliografica -, anche l’ esperienza della sensibilità della gente acquisita attraverso il quotidiano contatto con le persone.
L’opera, impreziosita dalle riproduzioni di cartoline degli inizi del Novecento e di pregevoli dipinti di Giovanni Campo, Attilio Guccione, Girolamo Di Cara e Pippo Madè, è articolata in sei sezioni, la prima delle quali dedicata ai proverbi e motti popolari, “frasi e arguzie…dettate dall’esperienza dei nostri progenitori” - di cui fornisce anche la traduzione italiana –, precedute da una sobria presentazione. Sono tra i più noti, come “Fare aricchia di mercanti” o “Cu pecura si fa, lupu s’à mancia”. Nella seconda parte l’ autrice traccia una breve storia della lingua siciliana, raccordandola alla storia delle varie dominazioni straniere, per concludere circa la facilità di riscontrare parole siciliane che hanno origine dall’arabo, dal francese, dallo spagnolo etc., e ne offre una significativa esemplificazione: sciarra – dall’arabo sciarrah, rissa,litigio; cantaru – dal greco kantharos, vaso,brocca; accattari - dal francese acheter; addunarisi – dallo spagnolo adonar-se, accorgersi. Ad essa fa seguire alcune espressioni tipiche, che nella loro intonazione (“ironica, garbata, insolente, etc.”) ci dànno “l’esatta misura di ciò che s’intende dire e di come lo si vuole dire”: è il caso di lemmi come sabbinirica!, salutamu!, antura, ammucciuni, cacciu muschi, vagnarici li manu.
Il terzo comparto ci presenta filastrocche e poesie, alcune delle quali – precisa la Lombardo – “opportunamente musicate, sono diventate piacevolissime ninne-nanne”. Il repertorio si apre con il ritornello che accompagna il girotondo: “Oggi è duminica / tagghiamu la testa a Minica, / Minica un c’è, / tagghiamu la testa o re, / u re è malatu, / tagghiamu la testa ’o surdatu, / u surdatu va a la guerra, / tutti giù in terra”. E si adorna di liriche di autori come Nino Martoglio, Ignazio Buttitta e Linda Lombardo. In un testo di questo genere non può mancare il personaggio di Giufà, semplicione e insieme non privo di furberia, che è protagonista dlela quarta sezione, con varie saporose novelle, alcune tradotte in italiano (come Giufà e la luna, Giufà acquista il suo asino, Giufà e i ceci), altre in dialetto (come Giufà, tirati a porta e Giufà e la ciocca). Ma non mancano, nella quinta sezione, altri grandi scrittori siciliani, come Luigi Capuana e Giuseppe Pitrè, presenti con alcune celebri fiabe e racconti: Spera di sole; La figlia del re; L’albero che parla; Le arance d’oro, del primo; Il vecchio avaro; Le nozze della principessa e del ladro; La gobbetta; Le mie tre belle corone, del secondo: delle quali quasi ognuna caratterizzata da una popolaresca clausola a sorpresa, in rima (“… sposò il re di Francia. E noi restiamo a grattarci la pancia”).
L’ultimo comparto, poi, è consacrato a miti e leggende di Sicilia. Ed ecco tre miti che “parlano…della Sicilia come qualcosa che è sorta per volere degli dei”: Palikos; Deli e Plutone; La leggende del gigante Tifeo. Conclude il libro la leggende di Colapesce, “protagonista di innumerevoli storie tramandate poi di padre in figlio”.
È, dunque, questa, un’opera organica, ben calibrata, in cui la Lombardo accompagna il lettore con garbo e discrezione, disposando opportunamente la sobrietà delle note storiche alla dovizia dell’esemplificazione, e non lo aduggia con ingombranti argomentazioni critico-filologiche, ma preferisce lasciare a chi legge il pieno, personale godimento dei testi presentati e insieme la facoltà di ricavarne consapevolezza ed orgoglio della sua sicilianità. Un libro veramente meritorio, quindi, che può essere particolarmente utile – come nota il prefatore – ai giovani che ignorano quelle tradizioni, e non conoscono il “colorito quanto vivace e melodioso dialetto” siciliano; così come può giovare “a tutti coloro che, lontani dalla nostra terra, ne hanno nostalgia”. Ma che può suscitare vivo interesse, apprezzamento e divertito consenso anche in lettori non siciliani, contribuendo parimenti a far loro meglio conoscere le tradizioni e la lingua di un popolo schietto e generoso.

sabato 24 gennaio 2015

Recensione “La vita dell’Essenza sfiorata dall’Ombra” (Mela Mondì Sanò)





di Maria Elena Mignosi Picone

Mela Mondì Sanò ci offre un libro di poesie (più di settanta), dal titolo “La vita dell’Essenza sfiorata dall’Ombra”.
E’ la sua, una poesia di ampio respiro, che abbraccia sia tematiche personali e familiari, che sociali e politiche, toccando i più svariati argomenti, dalla storia e dalla civiltà antica, classica e non, alla globalizzazione, alla tecnologia virtuale; affrontando con discernimento e critica, sempre fine ed elegante, sana e costruttiva, problematiche difficili e complesse.
E’ una poesia di ampio spessore, ove Mela Mondì Sanò, già autrice di un poderoso bel romanzo, e di varie altre poesie, riversa qui tutta la sua esperienza di donna: moglie, madre, direttrice didattica; donna aperta alle istanze sociali, ricca di cultura e di carica umana.
E’ una voce la sua, alta e umile nello stesso tempo, profondamente sensibile alle sofferenze degli uomini, soprattutto dei perseguitati e degli emarginati; attenta e sollecita nel cogliere anche le loro più intime pieghe dell’animo, partecipe consapevole, della sofferenza dai volti più svariati.
La sua poesia è lo specchio del dolore cosmico, spesso sottaciuto e nascosto, che spesso si scontra con l’indifferenza più fredda e totale.
E’ la voce di un’anima che vive sino in fondo la sua epoca, un’anima profondamente sensibile, ricca di senso di umanità, e che porta in evidenza, aspetti della vita che rimangono nel silenzio e nella noncuranza.
Sbalza in tutta la sua drammaticità il contrasto, a sfondo filosofico e teologico, nell’essere umano, tra esistenza e essenza.
L’Essenza, che a buona ragione è meglio scrivere a carattere maiuscolo perché in essa c’è l’impronta divina, è di ogni uomo la sua finalità, il motivo per cui Dio lo ha creato; potremmo chiamarla la sua vocazione, qualunque essa sia, o se vogliamo, missione, o semplicemente ruolo o realizzazione. E’ l’attuazione nella vita del disegno che Dio ha per ogni uomo, che è creatura divina, credente o non credente che sia.
Questa è L’Essenza; il nucleo più intimo e profondo della persona, che è auspicabile, anzi è doveroso, si attui nella esistenza.
Ma non sempre l’Essenza è favorita dall’esistenza. Anzi essa spesso incontra ostacoli, più o meno, proprio dall’esistenza, cioè dalle condizioni di vita in cui l’essere umano, sacro nella sua Essenza impressagli da Dio, si trova a dover vivere.
Ecco è proprio questo il fulcro della poesia di Mela Mondì Sanò, che già nel titolo “La vita dell’Essenza sfiorata dall’ombra”, esprime il dramma che più o meno ogni essere umano vive, tra Essenza e Esistenza.
Un dramma che non sempre viene alla luce, anzi spesso ignorato.
L’autrice, Mela Mondì Sanò, ha il merito, con la sua poesia, di averlo richiamato accoratamente all’attenzione, e di averlo fatto sbalzare in evidenza, nella sua radicalità, non solo semplicemente umana, ma sacra.
E’ il dramma della fame, della povertà, della miseria; della violenza, della guerra, dell’ingiustizia; dell’egoismo, della crudeltà. In una parola, della disumanità. Disumanità che è la diretta conseguenza del fatto che l’uomo si è svincolato dalla fede , ha abbandonato come sua àncora, Dio.
E oggi questa disumanità si avverte, sia nelle grandi che nelle piccole cose, sia in ambito sociale e politico, che in quello personale e familiare.
E’ quella di Mela Mondì Sanò una poesia scritta col cuore, una poesia che rapisce e coinvolge, e che, lungi dal sentimentalismo, sa fondere mirabilmente insieme, pensiero e sentimento, raggiungendo vette di alta poeticità.