sabato 28 maggio 2016

Maria Teresa Santalucia Scibona, "Los Caprichos de la luna" (Grupo Editorial Sial Pigmalión)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Sono trentaquattro poesie che Maria Teresa Santalucia Scibona ha scritto in un arco di tempo piuttosto vasto che, ora raccolte, certune rielaborate, con l’allusivo titolo I capricci della luna, in lingua spagnola e italiana, offre agli estimatori della sua feconda produzione. Stanno a dimostrare la vasta fama e il ripetuto interesse che la nostra poetessa senese ha conquistato in lunghi anni di maturata esperienza in campo letterario e culturale.
     Proprio all’inizio della Prefazione al volume ho scritto: «Mi sovviene, in proposito, la leopardiana lirica Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove il poeta, osservando con ingenuo stupore l’universo, gli invia angoscianti interrogativi sul mistero della vita e sul destino dell’umanità. Anche in altra, Alla Luna, Leopardi, idillicamente, la invoca con memorabili versi, non solamente per trovare conforto al dolore e rievocando il tempo giovanile: «… La speme e breve ha la memoria il corso, / Il rimembrar delle passate cose, / Ancor che triste, e che l’affanno duri», in un ricordo amoroso e allo stesso tempo doloroso. Alla stessa maniera, Maria Teresa si confronta con un passato, proteso verso il futuro, dove “i capricci” di Selene sono presi a pretesto per imbastire una trama fortemente esplicativa, simbolica della conoscenza acquisita con il trascorrere degli anni e, filosoficamente, rivelante il suo personale messaggio che, attraverso accurati versi, diventa universalmente cosmologico.                                  
«Forse un giorno / qualche affocato / seme germoglierà / nel mio sarchiato campo. / Ora valuto i limiti». In pochi versi comincia a prendere visione una realtà vissuta, nella quale trovano spazio: passato, presente e futuro. «Tu mi svelasti trucchi / di ermetici anagrammi / che intrigano / sconforti con i miti, / idiomi e psiche.», dove la stessa esistenza, per quanto ardua, si dilegua sinuosa verso nuovi orizzonti, senza limitati confini. «Ma, l’ottica è diversa / e balbe le parole / per vette azzurre e inferni. / Persevero tenace, / non demordo e seguito / con mani insanguinate / a svellere gramigna». La prospettiva è, complessivamente, differente; le parole potranno essere balbuzienti o incerte, attraversando il buono, il bello, anche il cattivo, ma perseveranza e costanza continuano a sostenere l’indomito che, seppur ferito, martoriato, continua a strappare, sradicando tutto ciò che infesta, frena, pensando di arrestare, o travolgere, un cammino irrefrenabile. Non è mera euforia, né chimera poetica!
     In effetto, questa prima lirica, potrebbe, da sola, orientare tutto il contenuto del libro; appellandosi a quelle bizzarrie lunari che non sempre lo sono. E che, anche per altri scrittori, hanno stimolato coraggiose, imperiture suggestioni, divenute magistralmente: orizzonti, preferenze stilistiche, alternative esistenziali.
     Certamente, affrontando criticamente un’opera, sia essa letteraria, pittorica, che artistica, ci sentiamo inadatti a poterlo fare spontaneamente, senza incorrere al personale sentimento di inadeguatezza e legittimità dell’analisi del bello.»; giustamente a indicare quanto sia difficile non solamente il giudizio ma la stessa capacità di cogliere il pensiero e l’intento recondito che spinge il poeta a verseggiare: senza incappare in errori che possono insorgere quando ci si spinge a voler immaginare anche quello che l’artista, giustamente, non ha minimamente sfiorato. Per quanto riguarda Maria Teresa, sono persuaso di aver colpito nel segno e aver centrato pienamente non solamente le emozioni ma anche quel giusto recondito che si cela dietro a versi così elevati.
     La luna, ancora misterioso soggetto, con i suoi “attribuiti” capricci, non è altro che l’animo inquieto del poeta in cerca di se stesso; perdutosi allorquando ha desiderato di scoprire e svelare l’animo di ciò che lo circonda; di quello che lo stimola a pensare: fino intromettersi dentro se stesso e proiettandolo, apertamente, verso un’umanità ferita, confusa, talvolta leggera e assente onde poterlo richiamare al costante che sembra sfuggire inesorabilmente. E proprio nella lirica “Alla Luna”, la Scibona, descrivendola in modo aureolato, la promuove a suprema sovrana dei pensieri umani: Enigmatica luna, / complice astuta / di mutevoli amori. / Come l’ape regina / di stellati alveari / ammicchi suasiva / al giorno spossato che muore. / Icari ardimentosi del duemila / vennero a te, languida / sfinge dei cieli, / a disvelare l’alone di mistero / di cui ti ammanti / col bruno scialle della notte. // In deserti siderei / d’immota polvere posero / passi malcerti, fra speranze / e bandiere, prelevando felici / come bimbi pietre grezze, remote / per carpirne l’essenza / nei giorni vittoriosi del ritorno. / Ma, per l’uomo romantico, comune / che sogna ancora / al tuo chiarore antico / lontana inaccessibile rimani, / diafana luna., pur facendola restare, in fine, semplicemente: pallida, impenetrabile e distaccata dall’essenza terrena.
     L’ammaliante e luminoso corpo celeste, preso a pretesto, assurge a conflittuale tema dell’intera raccolta; senza però riuscire a nascondere una più vasta diversificazione che coinvolge non solamente l’Autore che, attraendo, attraverso un più esteso raggio d’azione entro il quale si colloca l’intera produzione di Maria Teresa Scibona, arriva a noi per essere armoniosa poesia dalla quale attingere essenzialità fondamentali.
    Lasciandoci calare nell’attenta lettura di questa ulteriore opera scopriremo quanto l’umano sentire può spingersi verso infiniti orizzonti, apparentemente inspiegabili, che vengono con semplicità e spontaneità a noi consegnati per essere assimilati e vissuti nella loro universalità.
     Dalla mia tana: Una bufera di malinconia / perturba la siberia del mio cuore. / Come fiera stanziale svernerò / nel mio ristretto bioma. / Ecco, la valle s’indora / di ginestre e di trifoglio / il molle prato affolta. // Tenere foglie addensano le siepi. / Dietro tracce odorose bradi puledri / fremono al morso delle briglie. / Dall’esodo migrante, per disgelo / ritornano le rondini. / Ed io dalla mia tana, più /  non vedrò fiorire la primavera.
     Non si tratta dell’angariato “pessimismo” leopardiano”, che apparentemente può sembrare costernazione, in quanto in esso, recuperiamo i sintomi di un positivo desiderio che accompagna l’intera silloge verso una terminazione ottimistica e concreta: dettata e favorita da efficace dottrina e dalla speranza che guidano ogni anima eletta verso quella soluzione finale che traspare e appare con rilevante evidenza.

     Maria Teresa Santalucia Scibona, ha ragione, può essere annoverata tra i grandi poeti e pensatori che ci accompagneranno lungo questo giovane secolo; guidandoci nei meandri di una letteratura che, all’apparenza, potrebbe sembrare languente ma che grazie anche a lavori come questo non lo è e non lo sarà affatto.

venerdì 27 maggio 2016

Tommaso Romano, "Café de Maistre" (Ed. ISSPE)

di Sandra Guddo


Una cornice elegante, lungo il Foro Italico, a due passi dal mare, lontano dal chiassoso,  imbarazzante ed ordinario tempo delle chiacchiere di  opinionisti à la page , è il “ Cafè de Maistre “,  sagacemente intitolato ai fratelli Joseph e Xavier De Maistre così diversi tra loro da potersi contrapporre, in una dialettica stringente, come tesi ed antitesi.
Probabilmente è questo il motivo per cui il cafè è stato intestato a loro in quanto rappresenta la metafora di un luogo simbolico ed immaginifico, di uno spazio mentale dove sarà possibile, in compagnia di un panormita inattuale come si definisce Tommaso Romano, accomodarsi su una sedia di paglia viennese davanti ad un tavolino Ducrot  per dissertare liberamente di filosofia o di teologia, di poesia o di narrativa, di pedagogia o di storia, di musica o di pittura, di cinema o di teatro, senza rincorrere il politicamente corretto per apparire a tutti i costi  un intellettuale  alla moda, salito sulla giostra della vanità in cerca di plausi e di  ipocriti consensi, ignorando che, come saggiamente scriveva Victor Hugo,  spesso il successo non equivale al merito e che non sono “ i palcoscenici agghindati alla festa dell’ipocrisia”  le piazze o gli stadi pieni di folla delirante a decretare i meriti di una persona anche se ne rappresentano un importante indicatore. Ammonisce T. Romano “ i conti non fateli con le folle, li farete col Padre Eterno “.
Il café de Maistre è come un fortino, ultimo baluardo  di resistenza contro l’invasione dei nuovi barbari nei cui confronti occorre prendere posizione, avere il coraggio di dissentire e di dissertare fuori dal coro degli adulatori corrotti, dei beoti acquiescenti, del peggior buonismo, del falso intellettuale che opera in nome di un pasticciato sincretismo svuotato di ogni valore oppure agisce in nome di un frainteso spirito di tolleranza a tutti i costi e di una fuorviante, tragica interpretazione del principio di libertà di espressione attribuita, forse a torto, a Voltaire, considerato il padre dell’Illuminismo.
Coerentemente con i suoi principi, T. Romano interviene dal suo blog ( Mosaicosmo-Romano) sul caso Messori- Boff, esponendosi in prima persona e prendendo decisamente posizione, confortato da Lucio Zinna, insigne intellettuale e poeta il quale, in una lettera pubblicata per intero nel presente volume, condivide la posizione di T. Romano, affermando quanto siano centrali e fondanti per una vera Unione Europea, i valori della Chiesa cattolica che oggi si trova ad un bivio e dovrà scegliere tra il principio di tolleranza a qualsiasi costo, tanto per stare al passo con i tempi che cambiano o la salvaguardia di quegli stessi principi che sono fondanti  dell’identità non soltanto della Chiesa ma dell’ Europa stessa !
 Il cafè De Maistre rappresenta “  un rettangolo di ammutinamento”, un luogo di difesa della nostra Tradizione che non può cedere il passo ai burattinai dei poteri occulti che si nascondono dentro le potenti organizzazioni delle multinazionali che, attraverso un processo di appiattimento, depauperamento ed annichilimento dei valori legati alla nostra Tradizione, ci impongono modelli di comportamento basati sulla omologazione, annullando le peculiarità di un popolo . Ed è questo che fa più paura: assistere quasi del tutto impotenti, al diffondersi di mode, gusti, abitudini e  stili di vita condizionati dalla pubblicità che, con i suoi messaggi sublimali, impone i  prodotti della globalizzazione a scapito delle nostre migliori tradizioni oltre che delle economie locali. Contro tale tendenza, viene auspicato  in particolare “  una rinascenza del Sud … basata sulla riscoperta, rivalutazione e coraggiosa riaffermazione del nostro passato e delle nostre radici” al di fuori della retorica “ nostalgia del bel tempo andato “ che ci possa sostenere nella riscoperta del “ senso dell’appartenenza “.
In tale contesto anche il ruolo sociale dei poeti, un tempo paladini delle tradizioni popolari che si tramandavano dai padre ai figli attraverso i loro canti, sembra essere in crisi  “ poiché si è perso il senso e l’appartenenza alla comunità, in nome di un livellante e falsamente umanitario globalismo “. L’ intervista a Mario Luzi del 1989 costituisce un’interessante occasione per tracciare la fenomenologia della lirica chiarendo  la funzione altissima che essa svolge presso i popoli come stimolo per le coscienze addormentate e come pungolo ad una visione dell’umanità che non deve perdere la sua vera identità spirituale: la poesia etica e religiosa  “  di annuncio oltre che di denuncia “ che non è in contrapposizione con la Tecnica purché se ne faccia un uso adeguato.
Il cafè non è soltanto un luogo di resistenza ma è soprattutto un luogo di accoglienza di quanti credono ancora nei valori fondanti della nostra spiritualità e li manifestano, senza timore, con le loro opere, le loro proposizioni ed azioni, rifiutandosi di trasformarsi in grottesche “ maschere pirandelliane , in caricature  …  e prodotti assortiti di pseudo umanità “ .
 Così va accolto in questo luogo spirituale Padre Giuseppe Rizzo di Ciminna , sospettato di modernismo e di rosminianesimo filosofico, che, a seguito di un’ingiunzione della curia palermitana, è stato esule nella sua stessa cittadina natale. Oggi è stato riabilitato e beatificato, a seguito di un’attenta revisione della sue opere dalle quali emergono chiaramente le sue posizioni sempre rispettabili che affondano le loro radici nella filosofia cristiana di Antonio Rosmini. Una lettera ritrovata da Vito Mauro, nell’Archivio Storico Diocesano della Curia di Palermo, getta nuova luce sui rapporti tra questa e il clero di Ciminna. Ciò a riprova, semmai ce ne fosse bisogno, che Tommaso Romano, per ristabilire verità storiche dimenticate, fuorvianti o mistificate, utilizza rigorosamente il metodo euristico della ricerca supportandolo con documenti certi ed inoppugnabili. Il suo rigore e la sua onestà intellettuale non potrebbero consentirgli di fare diversamente.
Ma la sua preoccupazione più che legittima è rivolta soprattutto ai giovani, consapevole dei limiti  di un sistema educativo che, per le sue grossolane inefficienze acutizzate dalle rovinose riforme di questi ultimi anni, non può garantire e sviluppare nei tempi e nelle modalità dovute, la loro formazione umana ed intellettuale. I giovani sono bombardati da messaggi fuorvianti e spesso contraddittori che generano in loro soltanto confusione dove tutto viene messo in discussione perfino il concetto di genitorialità.
Sarebbe opportuno, a mio avviso, soffermarsi sull’etica della responsabilità, parola sconosciuta ai molti nuovi profeti, ampiamente spiegata dal filosofo tedesco Hans Jonas  nel suo libro “ Il principio della responsabilità “ ( 1979 ) , che egli applica all’ecologia ed alla bioetica. Egli afferma che non si può agire in modo disastroso  per la conservazione dell’ Ambiente e dello stesso Genere Umano, in nome della Tecnica, che si è sviluppata in modo sorprendente in questi ultimi decenni anche se la cosa in sé  è sicuramente positiva; non si può utilizzare la tecnologia senza considerare gli effetti che potrebbero risultare esiziali per la nostra stessa sopravvivenza. Appare perciò indispensabile declinare il nuovo imperativo categorico dell’Etica della Responsabilità: “ Agisci in modo che gli effetti delle tue azioni siano sempre compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana. “  Occorre con urgenza rifondare un’etica cosmica con la quale affrontare i problemi che il terzo millennio ci prospetta.
Lo stile brillante, la dialettica sagace, a volte pungente ed ironica, caratterizza  la narrazione del presente volume che procede sapientemente per analisi e sintesi in quanto, pur  essendo una scrittura necessariamente veloce che ci propone parecchi  artisti di grande spessore, non  risulta mai affrettata o superficiale ; al contrario la capacità di analisi del suo autore si combina in un’alchimia perfetta che soltanto pochi posseggono, con la capacità di saper sintetizzare, con essenziali ed equilibrate parole, tutto ciò che d’ importante c’è da sapere sull’ artista preso in esame che viene contestualizzato nell’ ambientazione delle relazioni umane, sociologiche e storiche in cui si è formato, in sintesi , nel suo microcosmo.

Sfogliare questo libro, intenso e bellissimo, ricco di vibrazioni messianiche ed escatologiche,  è come aprire uno scrigno pieno di gioielli rari e preziosi tra i quali è quasi impossibile scegliere il più bello ed è per questo che, per non offendere alcuno, tralascerò di citare i nomi prestigiosi delle donne e degli uomini, presenti nel “ Cafè de Maistre” , che hanno dato, con le loro opere e con l’esempio di vita, testimonianza  della fervida attività culturale che la generosa terra di Sicilia, pur con tutti i suoi limiti, produce e che ci fa sperare, nonostante “ mala tempora currunt “, nonostante l’ attuale condizione  culturale globalizzata  e disumanizzata, lontana dalla Tradizione,  in un mondo migliore. 

da: "Rassegna Siciliana di Storia e Cultura", n. 41 - 42, 2017

giovedì 26 maggio 2016

Perdere la testa senza subire danni: Thomas More raccontato da G. K. Chesterton

di Luca Fumagalli

Ancora oggi, a quasi mezzo millennio dalla scomparsa, ciò che sfugge dell’affascinante vita di Thomas More è il senso del suo martirio. Sebbene siano facilmente comprensibili le ragioni che spinsero il brillante umanista a opporsi alle pretese luciferine di Enrico VIII, allo stesso tempo si fatica a capire come mai un noto riformatore come lui, che tante parole spese per fustigare il malcostume di certa gerarchia ecclesiastica, abbracciò volentieri la morte quando fu l’ora di difendere Roma e il Papa.
Nell’immaginario collettivo More ha vissuto una sorta di scissione, come se il suo sacrificio costituisse una cesura tra il proto-liberale degli anni giovanili e il santo della maturità. Del resto, chiunque abbia avuto occasione di avventurarsi tra i capitoli del suo più noto libro, Utopia, non può non percepire un senso di smarrimento: possibile che un testo come quello, sovraccarico delle ardite congetture di una mente schiettamente rinascimentale, sia stato scritto da chi morì come un fiero cattolico medievale, come l’omonimo Thomas Beckett?
Per risolvere un paradosso tanto complicato ci voleva G. K. Chesterton, il re dei paradossi.
Nella sua lunga carriera l’inglese ha scritto migliaia di pagine, molte delle quali, oltre una preziosa testimonianza di Fede, costituiscono un serbatoio citazionistico praticamente inesauribile. Eppure, strano a dirsi, Chesterton non ha mai dedicato nessun libro a Thomas More, solo un esiguo pugno d’articoli. La qualità dei testi, però, è inversamente proporzionale alla qualità, eccellente come sempre, e la ponderosa densità delle argomentazioni fa comunque ipotizzare che il pregiato autore avesse intenzione di sviluppare ulteriormente il tema, magari in forma di biografia. I numerosi impegni, con tutta probabilità, lo costrinsero a una scelta, e preferì dedicare tempo e spazio a San Francesco d’Assisi e a San Tommaso d’Aquino piuttosto che a More, la cui devozione è molto diffusa in Inghilterra e vanta solide radici.
Per Chesterton More è un diamante: la sua mente riflette le numerose sfaccettature della realtà e non rinuncia a incidere fino a sfregiare la carne morta dell’ingiustizia e del peccato. Era la sua natura, la stessa che lo spingeva a difendere le cause perse, quelle dei poveri e dei deboli, la stessa che in giovane età egli scambiò per vocazione, la stessa che rendeva quello della preghiera il momento più esaltante della giornata. L’abnegazione con cui si spendeva per gli altri era accompagnata dall’umiltà; divenne cancelliere di Enrico VIII nella speranza di condurre il bolso Tudor sulla via della ragione, ma rinunciò senza remore all’incarico quando il progetto si mostrò irrealizzabile. A chi si congratulava con lui dopo un incontro in cui il sovrano gli aveva ripetutamente battuto le mani sulle spalle con bonaria foga, More aveva risposto arcigno: «Se la mia testa gli dovesse procurare un castello in Francia, non si farebbe problema a staccarmela».
L’ironia di More è proverbiale, un tratto che lo accumuna a Chesterton e che costituisce la chiave di volta per comprenderne la complessa personalità. L’universo immaginato in Utopia è infatti una fantasia senza peso, che nulla ha a che spartire con fini apologetici o progetti ideologici: «Thomas More fu quasi l’ultimo a respirare l’aria fresca di un paese incantato dalla libertà … Poteva raccontare le favole che voleva, e la favola non doveva necessariamente avare una morale o una morale immorale». Un atteggiamento quindi diametralmente opposto a quello dei tanti utopisti moderni, animati dalla folle e violenta idea di fare della terra un luogo diverso attraverso la scienza e la tecnica.
Che quello di More fosse un innocuo divertissement lo dimostra, tra l’altro, il fatto che dal suo mondo ideale aveva cacciato gli avvocati – e lui stesso apparteneva a quella categoria – e che, dopo aver ultimato Utopia, passò con grande rapidità a occupazioni più gravi. In un’occasione era addirittura giunto ad affermare di preferire che tutti i propri libri e quelli di Erasmo andassero distrutti piuttosto che, come a quei giorni era verosimile, procurassero danno a qualcuno.
Una mente come un diamante raccoglie i più brillanti scritti di Chesterton dedicati a More, organizzati per argomento e acutamente commentati da Giuseppe Gangale, direttore della rivista di studi moreani «Morìa». Un libro agile, ideale per chi fosse interessato ad approfondire questo strano mostro bicefalo, il dialogo tra antico e moderno instaurato da due brillanti prodotti del cattolicesimo britannico.
Il più grande insegnamento che More ha lasciato ai posteri è che l’importante, nella vita, non è la coerenza – umanamente impossibile – quanto la tensione ideale a Dio che dona senso e spessore alla quotidianità. Come ricorda Chesterton, More perse la testa ma, per sua fortuna, non subì danni.

mercoledì 25 maggio 2016

Gennaro Sangiuliano , "Putin. Vita di uno Zar" (Ed. Mondadori)

di Annamaria Nazzaro

Vladimir Vladimirovic Putin, l'uomo che nasconde, al tempo stesso, forza politica e debolezze umane, dietro uno sguardo di ghiaccio. Occhi chiarissimi che fanno da frontiera al suo animo, ma che ne lasciano, comunque, aperta una porta. Piccolo per corporatura, grande per determinazione.
Freddo ed implacabile nelle decisioni, umanamente amante ed affettuoso nelle sue relazioni personali. Non dimentica mai né l'affronto, né l'amicizia. Abituato al silenzio delle steppe russe, alle albe troppo precoci e limpide, alle notti senza fine, dice di se stesso e del suo Popolo che "il loro cammino è tra le tenebre".
Tra le tenebre, Vladimir Putin ha saputo percorrere la strada della stabilità economica e sociale, in un valzer di alleanze e collaborazioni, talvolta discutibili. Ha, comunque, strappato - senza indugio e con ogni mezzo - la Russia alla criminalità post-sovietica. Ha saputo preservare l'identità spirituale, culturale e nazionale del Paese, mettendo in atto un coraggioso tentativo di resistere all'americanizzazione ed alla globalizzazione. Ha regalato alla sua Patria il "rinascimento nazionale e tradizionale", recuperando la memoria storica e ridisegnando l'identità dei Russi.
Improvvisamente asceso sul palcoscenico mondiale, il "nuovo Zar" ne condiziona - da più di un decennio - la politica internazionale, tanto da essere definito "l'uomo più potente del mondo" (Forbes). Sicuramente, il più temuto.
Nato in una kommunalka di una Leningrado staliniana ed ancora semidistrutta dalla guerra, battezzato in gran segreto dalla madre contro l'ateismo patriarcale e di Stato, membro del potentissimo KGB sovietico e del FSB russo, collaboratore di uomini di stato che - oggi - la storia relega in un passato scomodo, Vladimir Putin non ha mai rinnegato o taciuto il suo operato, consapevole del giuramento di fedeltà a se stesso ed alla Russia.
Come su una scacchiera, abilmente, gioca con la strategia dell'arrocco: Presidente e Primo Ministro, a seconda delle esigenze della sua Patria, sempre fedele alla Costituzione. Mai, però, gioca con le parole.
Appartiene alla sua Madre Terra. Non dimentica il passato e la tradizione, ma guarda negli occhi il futuro, tenendo a mente che, in un momento di transizione post-ideologica e di ricerca di nuove basi morali, bisogna ricorrere alla riscoperta delle proprie origini religiose. Del resto, a conferma della sua personalità, non rinnega nemmeno il Comunismo, alla cui scuola si è formato non senza contraddizioni. La sua azione politica è, oltremodo, discussa: tra stereotipi e pregiudizi, tra la Crimea e la Siria, Vladimir Putin è l'uomo più temuto da tutte le "democrazie". È il potere. Enigmatico e complesso, vive imperturbabile tra le matrioske di una Russia rinata. Chi è questo misterioso Zar?
Senz'altro, ancora oggi, Vladimir Putin è la Russia. È lo Zar del nuovo umanesimo russo: il suo ritratto trova posto tra i Re ed i Condottieri nel Foyer Malachite, policromo corridoio che conduce alla Sala S. Andrea del Gran Palazzo del Cremlino. È l'uomo che ha restituito l'anima ai Russi.
"È l'anima della Russia, la sua passione, il suo tumulto, la sua sconcertante misura di bellezza e di infamia: in lui non c'è traccia di quella precisa divisione tra bene e male, alla quale siamo abituati": l'anima russa secondo Virginia Woolf sembra scritta per lui.
Vladimir Vladimirovic Putin, con i suoi misteriosi occhi di ghiaccio, guarda al futuro lontano, come un cavaliere di bronzo venuto dal passato.

martedì 24 maggio 2016

Tommaso Romano, "Giuseppe Rizzo" (Ed. ISSPE)

di Piero Vassallo

“L'opera di Giuseppe Rizzo manifesta in piena luce da un lato il tendere infinito della mente nella ricerca della Verità, dall'altro caratterizza in maniera inequivocabile questo divenire della mente, perché il significato lo riceve dalla luce della Verità totale alla cui comprensione si sforza pervenire.
 Giulio Bonafede


 Simile alla inconscia zagaglia di carducciana memoria, il piombo rovesciato su Giovanni Gentile dal gapista e pistolero fiorentino Bruno Fanciullacci avviò la calunnia e ispirò l'epurazione implacabile delle filosofie irriducibili all'utopia marxiana e al suo desolante esito crepuscolare.
 Ebbe inizio in quel tragico e oscuro 1944 il progetto degli oscurantisti, che hanno usato l'armato ma inconsapevole apparato culturale dei comunisti per sguinzagliare e promuovere i tenebrosi pensieri giacenti nel sottobosco esoterico e indirizzarli all'esito fumoso, ultimamente leggibile nei libri prodotti dalla squillante spocchiaadelphiana.
 Sugli autori irriducibili alla rivoluzione esoterica si è abbattuta, infatti, la severa e implacabile intolleranza di una censura protetta dal metafisico preservativo antifascista.
 Di qui il suggerimento di rileggere i testi dei protagonisti del vivace ma cortese dibattito che oppose i pensatori di scuola gentiliana ai filosofi d'ispirazione cattolica. Una vicenda sgradita agli esponenti della cultura in corsa illuminata – da Benedetto Croce a Monica Cirinnà e a Roberto Calasso - nell'interminabile dopoguerra.
 Alla faticosa impresa finalizzata alla ricostruzione di una importante pagina della storia filosofica italiana si è da tempo dedicato un allievo sagace e fecondo continuatore dell'opera di Giulio Bonafede, Tommaso Romano.
 Intrepido e ostinato visitatore della tradizione italiana calunniata, censurata e oscurata dal potere esercitato dai maghi freneticamente attivi nei vespasiani democratici, Romano esplora le pagine scomode della storia della filosofia.
 La più recente e impegnativa opera di Romano (edita in Palermo dall'Isspe) è dedicata alla discoverta del pensiero di un dotto sacerdote, Giuseppe Rizzo (1878-1933) filosofo rosminiano e canonico di Ciminna, un autore ingiustamente sottovalutato dalla storiografia d'ispirazione laicista e/o neo-modernista.
 Alla formazione filosofica di don Rizzo contribuirono alcuni illustri docenti dell'università di Palermo, interpreti di correnti di pensiero con le quali il sacerdote di Ciminna dovette misurarsi: il neo idealista Giovanni Gentile, e i positivisti Cosmo Guastella, Giovanni Antonio Colozza e Giuseppe Tarozzi.
 Rizzo fu stimato tuttavia da Gentile, che gli assegnò, quale argomento della tesi di laurea, Il problema del bene e del male e la Teodicea di Rosmini nella storia della filosofia.
 Romano rammenta, opportunamente, che “il giovane studioso di Ciminna si porrà lontano dalla filosofia dell'Idealismo e del Positivismo, allora egemoni”.
 Fu a Beato Antonio Rosmini cui don Rizzo fece costante riferimento, senza peraltro (rammenta opportunamente Romano, che al proposito cita un saggio di Michele Federico Sciacca) “diventare divulgatore pedissequo ma inserendo personali notazioni, osservazioni, innovazioni e varianti, non certo di scarso rilievo e interesse”.
 Lo storico Salvatore Corso ha dimostrato che don Rizzo intendeva “stabilire la concretezza e la stabilità del pensiero rosminiano in paragone con l'astrattismo dell'Idealismo e del semplicismo del materialismo”.
Pertanto saggio di Romano costituisce un prezioso contributo alla discoverta di un autore ingiustamnente sottovalutato e affondato nel gorgo del cattolicesimo spensante.

lunedì 23 maggio 2016

Nino Agnello, "Per sopravvivere al silenzio" (Ed. Thule)

di Giovanni Taibi

L’esigenza di lasciare tracce del proprio passaggio della nostra avventura mondana  è sempre stata connaturata nell’uomo, sin dai tempi in cui si circondava nelle caverne di graffiti che rappresentavano scene di vita familiari e volti amici e i primi ideogrammi con cui ingenuamente esprimeva i propri sentimenti. Questi altro non sono che gli antenati della parola scritta che ha permesso all’uomo di tramandare ai posteri le sue memorie e i suoi accadimenti. La Parola per sopravvivere all’oblio e al silenzio che inevitabilmente rischia di essere il nostro destino.
È questo il senso ultimo del nuovo libro del prolifico scrittore, poeta e saggista agrigentino Nino Agnello “Per sopravvivere al silenzio” ( Edizioni Thule 2012 Euro 15,00 ).
“Un segno è già una parola vera che durerà nel tempo” (cfr pag. 5) è l’incipit della prefazione di Tommaso Romano. “Nino Agnello, continua Romano, è un credente nella parola come manifestazione del profondo, nello spirito, nell’Amore che dall’identità sa inverarsi nell’universalità”( Ibidem).
Con uno stile ammaliante, pur nella sua plastica semplicità, l’autore ci conduce dentro la grande casa dei suoi ricordi, già dalla prima fanciullezza, alla scoperta di un mondo ormai scomparso, di personaggi amati e ormai perduti nella realtà ma non nella memoria, dei suoi spostamenti in giro per l’Italia per seguire la sua carriera di docente, per obblighi familiari o semplicemente per diletto. Ma dovunque andasse “mi seguiva e mi confortava la poesia come compagna sempre disponibile al sostegno morale, all’aiuto per impadronirmi di uno stile personale ( Cfr pag. 29 ).
A darci ulteriore aiuto nel dipanarsi dei suoi ricordi, Nino Agnello ha sapientemente diviso il volume  in tre parti intitolandole Res familiares, Res Amicales e Res Sapientiales, in omaggio alla cultura latina e generalmente classica di cui il nostro si è nutrito l’anima.
Nel libro di Nino Agnello si respira ad ogni pagina un senso di umanità che ha del prodigioso. Ricordando un amico medico, Vincenzo Terrana, così dice a proposito della sua missione : “Sconfiggere l’utilitarismo e lo sfruttamento del dolore altrui: a questo pensava e rivolgeva ogni giorno la mente, e sconfiggere anche il dolore, la sofferenza, anche l’ignoranza: e godeva se altri a ciò si adoperassero.” ( cfr pag. 33)
O ancora “Che vale la scienza se non alleggerisce il peso del dolore, che vale il dono della parola se non toglie ombre dalla mente e dal cuore di chi soffre nelle angustie della tristezza o nel buio dell’ignoranza o anche della sudditanza ?” ( cfr pag. 34) .
Non è difficile trovare echi di foscoliana memoria a proposito del compito supremo della poesia di saper eternare il ricordo di un uomo. Ricordando un altro amico poeta, Gigi Peritore, nell’anniversario della scomparsa: “Per me che lo avevo detto vivente nel mio volume antologico Agrigento in versi, poteva continuare a dirsi vivente …perché così a tutti appariva potendosi ancora quasi sentire il suo respiro, l’alito della sua presenza in mezzo a noi che…risentivamo l’eco calda e pastosa della sua voce, dei suoi versi, della sua prosa.” ( cfr pag. 35) 
Perché l’amicizia, quando è vera e sincera, supera i confini materiali e mortali e si mantiene nel tempo. Diceva ancora Foscolo nei Sepolcri “Sol chi non lascia eredità d’affetti/ poca gioia ha dell’urna” ( cfr vv 42,43).
Tante dunque sono le figure di amici che a vario titolo compaiono nella seconda sezione Res Amicales, da un lato rimpiante ma dall’altro amate come se fossero ancora presenti in carne ed ossa.
Non poteva mancare nelle memorie di un uomo che ha trascorso tutta la sua vita professionale a scuola un capitolo dedicato al mondo dell’insegnamento. È la terza parte Res Sapientiales, dove l’autore fa rivivere i suoi trascorsi scolastici non disdegnando di inserire commenti su fatti personali anche cuiriosi.
Ma la parte più apprezzabile del capitolo è quella in cui Agnello, molto in anticipo sui tempi, lamenta due gravi problemi legati all’insegnamento della letteratura italiana. La prima riguardava gli autori del Novecento non si affrontavano affatto. “Avevo conosciuto colleghi che si fermavano ancora a Carducci ignorando Pascoli e tutto il resto.” ( cfr pag. 79 ) Per questo lui già nel primo biennio introduceva lo studio di autore del Novecento.
La seconda questione riguarda lo studio del testo letterario, in particolare quello poetico,  in maniera analitica e scientifica. I manuali erano ancora fermi alla sola parafrasi ignorando la metrica, la sintassi e l’uso delle figure retoriche.
Così afferma Agnello “Avevo trovato da solo il sistema, per cui per me era un grande piacere farne edotti alunni e anche colleghi vicini e lontani, che lo apprendevano con meravigliato stupore.” ( Cfr. pag. 79) 

A Spazio Cultura "Poesia-Incontro" con Giorgio Barberi Squarotti, Relatori Elio Giunta e Francesca Luzzio, Mercoledì 25 Maggio alle 17:30


domenica 22 maggio 2016

Serena Lao, "Note di parole" (Ed. Thule)

di Maria Elena Mignosi Picone

Dopo la prima silloge di poesie in dialetto siciliano, “Cantu la libbertà ca m’apparteni”, Serena Lao, artista poliedrica: poetessa, romanziera, cantante, attrice e, come ella stessa si definisce “cantastorie della modernità, ci offre un’altra silloge di poesie, questa volta in italiano, dal titolo “Note di parole”. Diversa è questa dalla prima, in quanto maggiormente rivolta alla interiorità, più spirituale diciamo, ma che rivela una certa continuità con la precedente, nell’elemento a lei tanto caro, e che persegue con tanto ardore, la libertà. Dice infatti qui: “La libertà dell’anima la inseguo senza tregua”.
Su questo filo la poetessa imbastisce e riflette i vari moti dell’animo, i suoi impulsi, i suoi fremiti, addentrandosi in profondità nei meandri dello spirito, seguendone l’evoluzione, la crescita, la purificazione fino a che le parole, con cui esprime tutto ciò, si fanno esse stesse note, diventano musica  perché l’anima, nella libertà ritrovata, canta.
È un processo di rigenerazione che l’Autrice segue, nel quale ogni essere umano si può rispecchiare, perché è proprio dell’uomo avvertire in sé la pesantezza della terra, se così possiamo dire, per liberarsene e raggiungere vette di alta spiritualità. Serena Lao, palermitana, dal suo “angolo di mondo” fatto di “Cime lontane di monti boschivi… Castello Utveggio di sera illuminato appollaiato… sul promontorio di Monte Pellegrino… Tegole rosse logorate dal tempo…”, dal suo “angolo di mondo”, che le consente di osservare cose che le rievocano l’ambiente della sua infanzia, cioè il caratteristico quartiere popolare di Ballarò, da lì rivive sensazioni passate: “E perdersi in suggestioni antiche / di autunni caldarroste e bancarelle… sgranare gli occhi come una bambina / scrutando i mille colori dei fuochi artificiali”. Colori, suoni, sapori, l’accompagnano sempre nella sua vita, li porterà sempre dentro di sé. La copertina stessa del libro richiama il suo luogo di origine con la fruttiera di mele rosse e gialle, e la figura di una donna popolana che suona la chitarra, in uno sfondo dove risaltano il colore rosso cupo e il giallo ocra. È un dipinto del pittore Franco Lo Cascio che ben rievoca Serena Lao di Ballarò, e ce la presenta nella sua peculiarità.
Ballarò Ella lo porta dentro il cuore. Ma soprattutto dal suo “angolo di mondo” osserva: “Ora un raggio di sole tiepido si posa / sul mandorlo appena appena in fiore” e continua: “Una pianta di fresia qui sul davanzale / con il suo profumo intenso ed inebriante / annunzierà l’arrivo della primavera”. Ecco la primavera. Così è intitolata un’altra poesia, tra le prime della silloge. “La natura lentamente / si desta  dal lungo letargo. / Tra poco odori e colori inebrianti / invaderanno i sensi… Il cuore si schiude a nuove promesse”. E in questa stagione il pensiero di Serena Lao non può non andare ad una presenza che è stata determinante per la sua vita artistica, Rosa Balistreri - nata il 21 marzo, primo giorno di primavera - “il mio pensiero va a te / parto riuscito della bella stagione / essenza bizzarra e fantasiosa / miscuglio di audacia e di passione”. Versi sentiti e delicati continua a rivolgerle: “a chi del tuo canto non può fare a meno / regali voli pindarici e armonie stridenti” aggiungendo: “La tua voce inonda l’aria con il suo richiamo / seducendo come sirena incantatrice… come fiore con il suo profumo / come Rosa che di tutte rose sei regina”.
Non a caso una particolare attenzione è rivolta da Serena Lao alla Primavera. Perché la Primavera, che è la stagione del risveglio, la poetessa la fa assurgere a simbolo del risveglio dell’anima. Diventa metafora della rinascita spirituale.
Nella poesia “Nei labirinti dell’ignoto”, che apre la silloge, quasi un proclama vi troviamo: “… mi ritrovo immersa nella profondità dell’animo /… libera mi smarrisco / nei dedali arcani della mente” e nella poesia che immediatamente segue, dal titolo “Amo”, confessa: “Amo / la mia amata solitudine / ... dove immergermi /  e purificarmi… riscoprendo interiorità… / Amo /  i risvegli silenziosi …/ Amo / i lunghi soliloqui a tu per tu / con il mio io profondo”.
Solitudine, silenzio favoriscono la vita interiore e in questi la poetessa si distende beata: “Finalmente posso sentirmi libera”.
Ma perché Serena Lao cerca tutto questo? Per una finalità ben precisa: “… per restituire allo spirito inquieto / il primordiale equilibrio a lungo cercato”. È questo oggi il suo ideale di vita che nel travagliato percorso terreno ha tanto perseguito ma invano: “Ti ho cercato nelle parole della gente / nell’espressione di due occhi… Ti ho cercato tra i petali di un fiore… Ti ho cercato fuori e dentro di me. / Ho speso la mia vita inutilmente. / Io… non  ti ho trovato mai!” Della felicità a lungo cercata afferma nella poesia “Meteora”: “La felicità / è un alito di vento / … È una piacevole ebbrezza / edificata sull’effimero /… offrendo l’abbaglio dell’eterno / ingannevole prospettiva / di mendace verità”.
La poetessa ora non si contenta più. Aspira ad altro. “… rincorro i segni / di un mutamento radicale… / anelando a una catarsi”, come afferma nella poesia “Inquietudine”. Ecco la primavera dell’anima. “Risvegli dell’anima / in un mattino assolato / nuova linfa e nuove energie / danno la giusta traiettoria”. In “Suggestioni” leggiamo: “… riaffiorano svelando concetti e visioni / profumi lontani e suoni di ciaramelle. / Girandole di emozioni ruotano vorticosamente / e si confondono eccitando l’inconscio. / Emergono inattese suggestioni / che in un tripudio di suoni e canzoni / allontanano dal baratro della morte / e offrono in dono l’eternità”.
Ecco, è questo il suo ideale di ora, non terreno, ma un ideale che abbia sapore di vita eterna. Sapore di verità, di amore. In “Itinerari dell’inconscio afferma: “Il sogno / complice di un’insolita realtà / verrà incontro / per svelare misteri mai svelati. / L’atomo piccolo e lontano / crescerà a dismisura / e lasciando la sua materia / attraverserà leggero / le porte dell’infinito”. Ecco, il senso dell’infinito si accompagna a questa ricerca di verità, di elevazione. In “Sogni”: “…fioriscono in te fiduciosi presagi / di un futuro intessuto di nuovi colori”.
Inoltre profonda è la sofferenza di Serena Lao nel constatare che la libertà, specialmente dello spirito, quella interiore, viene conculcata nell’annullamento della volontà a causa della violenza, dell’oppressione: “Come una marionetta nella tue mani… / Come una bambola inanimata e muta / me ne sto nel mio cantuccio di dolore”. Il simbolo poi dell’essere umano annichilito nell’anima sembra essere Charlot, “omino buffo dall’andamento tremulo / … dallo sguardo stralunato / … Pagliaccio senz’anima”. Quando la volontà è repressa, qualunque ne sia il motivo, l’anima, costituita da intelligenza e volontà, è spenta. L’uomo è morto. Anche se vive.
Così capita pure a quelle persone affette da disagi psichici, nelle quali lo spirito d’iniziativa, la decisione, sono spenti. In “Angelo” la poetessa scrive: “Vorrei attraversare i tuoi pensieri / smarriti alla naturale conoscenza / e vaganti in labirinti ovattati e bui / per cercare l’origine di quel torpore / che rende identiche le tue giornate”. O in “Extrema ratio” “freddo nelle ossa / vuoti mentali / la tenebra mi avvolge / in un abbraccio fatale / che mi trascina / in un gorgo profondo”.
La sofferenza della poetessa, animo sensibile e delicato, capace di compenetrarsi a fondo nel dolore altrui, si fa acre e pungente di fronte alla violenza sulla donna, che diventa minacciosa per la vita stessa. In “Vortice insano” troviamo queste parole: “… le mie fragili illusioni / … contrapposte all’assillo giornaliero /della ferocia dei tuoi gesti / riservati a me” e continua: “Il tuo sentimento malato ormai trasuda di quella violenza selvaggia malcelata / che si camuffa sotto la definizione impropria / della parola abusata e profanata amore”. E questa è la situazione atroce della donna che così vive: “Convivo con la paura di un tuo atto insano / … consapevole del rischio a cui mi sottopongo”. E quel che è veramente assurdo: “Un luccichio squarcia il velo nero della notte / mentre stai per infliggermi l’assurda punizione / per la mia sola ed unica colpa di avere amato te”. Ancora in “Piccolo uomo” la figura dell’individuo alienato diviene protagonista dei suoi versi: “… il tuo sguardo sospeso e assente /… io e te piccolo uomo di galassie lontane. / L’incomunicabilità del pensiero / costruisce eterne inaccessibili barriere / e allontana qualsiasi forma d’intesa”. Il mancato esercizio della libertà, o per cause estrinseche come per mano di altri, o per cause intrinseche cioè per difetti di costituzione, rende isolati dagli altri, o quantomeno blocca quel processo di interscambio di idee, di pensieri, sentimenti, inficiando le relazioni con i propri simili, che risultano perciò innaturali, fredde e vuote.
Serena ama a tal punto la libertà (e parliamo qui specialmente di quella interiore), che è causa di afflizione profonda per lei il vederla violata, spenta e repressa. In “Perché” leggiamo: “Angelo e demone / in perenne conflitto / tra intesa e squilibrio /… Il tuo alito vitale / non applica volontà / … E ti smarrisci a cercare te stesso / nell’intreccio di umane follie”.
Quando nell’uomo la volontà è spenta, e di conseguenza la libertà è repressa - non morta perché essa nasce e muore con lui -  solo allora l’uomo è morto. E allora è proprio da qui che prende l’avvio il processo di rigenerazione, di rinascita di un essere umano per potersi dire veramente persona.
La persona, infatti, è libera, è vivida; è aperta agli altri, pronta a vivere la vita in pienezza, nell’amore verso se stessa e verso chi la circonda.
Ed è questo che Serena Lao si prefigge in “Note di parole”: la rinascita della persona, dalla morte alla vita, partendo dalla rigenerazione dell’anima.
E come negli altri così in sé. Questo vale per la stessa poetessa. Perché tutti, chi per un motivo chi per un altro, chi più chi meno, ne abbiamo bisogno.
Ecco allora entriamo nel vivo dell’opera. “La catarsi è arrivata / dolce improvvisa / malinconica quieta. / Tutto ha un senso ora. Anche il buio”.
La catarsi. La rigenerazione. La freschezza. La vitalità dell’anima. “Fioriscono in te fiduciosi presagi / di un futuro intessuto di nuovi colori / allora ti fermi a pensare al domani / ma il domani è già qui con il tuo presente / cosparso di giorni da vivere e da scoprire”. “Parole parole… Ora che tutto tace… / il mondo lo guardi da supreme alture / e sgombro da inutili fardelli / puoi finalmente librarti / nell’aria tersa / conquistando  una libertà /  mai conosciuta”. E aggiunge: “Una luce improvvisa / offre positive attese / al domani incipiente / rischiarando sogni e pensieri” e continua: “avida di stimolanti emozioni / amo la vita e i suoi giorni mai eguali. / Accolgo con un sorriso /  il giorno che nasce / e fiduciosa mi aggrappo / a possibili nuovi risvolti / che schiudano le porte  / a un’autentica rigenerazione”. E ribadisce: “La libertà dell’anima / la inseguo senza tregua / cercando redenzione”. Ecco è qui il punto centrale di tutta l’opera. Il nucleo. La ricerca cioè della redenzione a  partire dal risveglio della libertà.
“Parole parole…” È da qui che anche le parole si ravvivano, acquisiscono un nuovo suono, vibrano di vitalità. Si fanno frementi e vibranti, si fanno suono, musica, note. Perché la libertà si è risvegliata. La redenzione è in atto. “… evoluti percorsi / che conducano verso / un’immortale profondità”.
L’infinito, l’eterno, si fanno strada nell’animo di Serena Lao. Il senso. Il mistero dell’aldilà l’attrae e si chiede: “… chissà cosa c’è al di là del cielo”. Il suo pensiero si dilata nello spazio, nel tempo e oltre il tempo.
Corre all’infinito. “Finalmente posso sentirmi / libera e parte integrante / dell’infinito / e percepire la Tua Presenza”.
Qui si acquieta la sua anima: “E là dove tutto ha origine e tutto finisce / in una sequenza di ineffabili proiezioni / darò tregua al faticoso peregrinare / per restituire allo spirito inquieto / il primordiale equilibrio a lungo cercato”. “Scalerò alture impervie  / per giungere poi sulla vetta”.
Serena Lao crede nella rinascita, e così la speranza, l’alba di un nuovo giorno riaffiorano in lei. “Ma l’uomo rinasce ogni dì / riedificando l’istante / l’alba segna il confine / tra il bene e il male / le barriere si infrangono / tra varchi di attuabili mete”.
Bellissima la certezza, la sicurezza, la fiducia, nella rigenerazione che alla fine si esplica nel suo trionfo con l’annientamento della paura. “Un giorno / saluterò il Creato e me ne andrò. / … percorrerò spazi e universi ignoti / che mi riconducano all’origine del bene / dove sperare non è solo utopia / e non avrò paura” e continua “E scruterò l’incanto di eterne primavere / l’alba sarà un tutt’uno col tramonto / le tenebre non scenderanno mai / e non avrò paura”. E conclude “Quel giorno / finalmente sarò libera / e non avrò più paura!”
La paura infatti è connessa alla mancanza di libertà. Nell’acquisizione piena della libertà la paura scompare, cessa del tutto. Ma noi crediamo che Serena Lao, nel momento in cui dice “Un giorno”, però tutto questo lo stia vivendo sin da ora, magari certamente con la limitatezza delle cose della terra. Crediamo che la paura non ce l’abbia più sin da ora. La rigenerazione infatti è in atto. Ella afferma: “La catarsi è arrivata”. La primavera è fiorita.
Quell’anelito al nuovo, al risveglio, ha trovato il suo sbocco. L’anima canta. Le parole si fanno musica, le sillabe vibrano di melodia. Tutto è diventato: “Note di parole”!
Ora, passando ad esaminare la sua opera sotto l’aspetto stilistico, notiamo che Serena Lao, anche quando si riferisca non a sé ma ad altri, ama spesso esporre tutto in prima persona. Ella infatti, se ad esempio canta di santa Rosalia,  vi si impersona totalmente, espone i fatti come se fosse la protagonista della storia. C’è una immedesimazione completa. Ora l’uso che ne fa Serena Lao in poesia, discostandosi dagli altri poeti, che non usano così, della prima persona, immedesimandosi nel personaggio in questione, ci testimonia della vera essenza di Serena Lao, che è quella della cantastorie. Allora possiamo affermare che ella non è un’artista poliedrica, o quantomeno lo è solo apparentemente, perché poliedrico è colui che è scienziato, ed è pure pittore, poeta, ma in lui ogni arte non ha niente a che vedere con l’altra, sono come dei compartimenti-stagno. Non è così per la nostra autrice, in cui l’essere poetessa, romanziera, cantante, attrice, confluiscono tutti nella figura della cantastorie, perché la cantastorie è nel contempo e poetessa, e romanziera, e cantante e attrice. Dunque Serena Lao non è un’artista poliedrica, è unitaria. È la cantastorie nel senso più nobile del termine. E non riesco a comprendere perché l’arte del cantastorie talvolta venga considerata da taluni un’arte minore, quando il cantastorie ha invece qualcosa in più del semplice poeta o scrittore. Ha il canto e ha l’arte drammatica. È dotato di voce, come in Serena Lao, voce calda e vellutata dal timbro inconfondibile, una voce unica, di giusta intonazione e ancora ricca di pathos, pathos in lei, in particolare, suscitato e alimentato dall’essere nata a Ballarò, e anche questo è segno della sua direi proprio “vocazione” a fare la cantastorie. E vorrei azzardare una ipotesi: forse Serena Lao ha la missione di nobilitare l’arte del cantastorie, e attraverso questa anche edificare la gente, perché l’arte nobilita l’uomo. Così io vedo Serena Lao: con le braccia spalancate, librarsi possente nella sua figura, tra i rioni della vecchia Palermo, mentre la sua voce si diffonde nell’aria a scuotere gli animi assopiti e stanchi. Sarà un sogno? Chissà! A lei la decisione.
Ma sarebbe l’onore della nostra città. Serena Lao, la Cantastorie di Palermo!

venerdì 20 maggio 2016

Giovanna Fileccia, "La giostra dorata del ragno che tesse" (Ed. Simposium)

di Maria Elena Mignosi Picone

Dopo la prima raccolta di poesie, “Sillabe nel vento”, Giovanna Fileccia ce ne offre un’altra, dal titolo, per la verità, Piuttosto enigmatico e sibillino, “La giostra dorata del ragno che tesse”. Di fronte a questo titolo, così complesso e in cui c’è evidentemente tutto un simbolismo, ci viene spontaneo chiederci: “Ma che cosa vuole intendere l’autrice con queste parole?”
Andiamo allora a scoprire il significato metaforico, partendo proprio dal titolo, perché in questo è sempre racchiuso il significato del libro.
Innanzi tutto prendiamo l’avvio da una poesia che è come la chiave per entrare in questo mistero, ed è “Guscio di lumaca”, che troviamo proprio quasi all’inizio, e in cui la poetessa pone questo dilemma: “E’ meglio morire per vivere meglio?”; ma noi non potremmo comprendere il senso di questo interrogativo se non rivolgiamo l’attenzione ad un episodio della vita dell’autrice, cui ella si riferisce nella poesia “Artiglio sulla schiena”, dove dice: “Uccello rapace dai malefici artigli…L’aquila poggiata sulla schiena aspetta che io diventi evanescente”. Allude qui al disagio provato nell’impatto col nuovo ambiente quando, essendo lei ragazzina, la sua famiglia si trasferì da Palermo a Cinisi per motivi di lavoro del padre, ed ella ne soffrì tanto che ne risentì perfino la sua salute. In seguito i medici addirittura le sconsigliavano il matrimonio. E qui subentra il dilemma: “E’ meglio morire per vivere meglio?”, cioè rassegnarsi ad una vita grigia ma tranquilla o non piuttosto affrontare il rischio in vista della felicità? Giovanna coraggiosamente sceglie per il matrimonio. Si sposa e diviene pure madre.
Nella poesia “Il guscio di lumaca” immagina però di avere preso la decisione contraria: “Scambiai di posto con colei che uscendo sussurrava: “per vivere meglio è meglio morire”. E così mi ritrovai bloccata in una vita non mia, mentre la lumaca col filo di bava usciva dal tranquillo viale dell’andare sicuro avviandosi libera per la sua strada. Ed io, scaraventata nel guscio, vissi al suo misero posto. E ancora dimoro in porto sicuro dove il coraggio è nato già morto”. Certo neanche la natura vuole questo. Infatti: “La madre Terra piangente sorella urla dolore per la sua prole. Mi domanda con nenia struggente: “E’meglio morire per vivere meglio?”
La vita allora può essere rischiosa, presentare incognite, svolgersi labile e precaria come “Sul pericolante ponte in bilico tra corde oscillanti”.
E qui cade a proposito il ragno, questo esserino che sospeso nel vuoto oscilla sempre, pare che debba cadere da un momento all’altro, fragile e tremolante, ma che con tenacia laboriosità e pazienza tesse una tela fatta di fili sottili che formano  dei pieni e dei vuoti, anch’essa labile e caduca.
Fuor di metafora, il ragno che tesse la ragnatela simboleggia l’uomo che costruisce la sua esistenza con tenacia laboriosità e pazienza, una esistenza però non piatta ma costituita da pieni e da vuoti, cioè da gioie e dolori, lacrime e sorrisi. Una esistenza piena di trepidazione e di gioia.
Ora quale cosa meglio della giostra può esprimere trepidazione e gioia? La giostra ne è proprio l’emblema. E’ l’emblema della vita. E’, come dice Giovanna, il Tutto che attornia, dove confluiscono le esistenze di tutti gli uomini. Ciascuno poi ha il proprio Tutto che l’attornia, costituito dal proprio ambito, parentela, amicizia, e così via, pubblico anche, nel caso di un artista.
La giostra è fatta di tempo e di luogo. Fatta di tempo: giri e giri, generazioni e generazioni di bambini che si susseguono nel salire. Fatta di spazio: il Tutto che attornia non è solo costituito dall’elemento umano, ma anche dalla natura in cui si è immersi.
E la vita è sempre un “Muoversi tra tempo e spazio oscillando in bilico”.
Questi corsi e ricorsi di generazioni seguono un movimento a spirale. E qui si rivela la visione ottimistica dell’autrice che vede la vita sempre in continua evoluzione: “Il tempo scorre e continuo a vedere bambini in scena, nascosti in conchiglie dai gusci a spirale”.
Ma anche di fronte alla giostra i bambini si trovano di fronte ad un’alternativa: salire o non salire? Coraggio o paura? “Aspettando chela giostra del divenire si fermi, e loro possano finalmente decidere se vivere o d’inezia morire”.
Ma ella esorta: “Salite sulla giostra del divenire, dove l’andare è più importante del dire”. Dove il vivere è più importante del discorrere.
Ora però attenzione: questa giostra non è una giostra qualunque, è una giostra dorata. E se in una giostra tutti salgono, buoni e cattivi: chi onora, chi perdona, chi vuole andare all’indietro (pensare al passato), però sulla giostra dorata sale solo un determinato tipo di persone. E se la giostra indica gioia, la giostra dorata indica più che gioia, felicità! Non dunque la gioia superficiale, effimera e fallace (in una mente perversa anche la soddisfazione di una vendetta può essere una gioia), ma la gioia , che è felicità, che proviene dalla scelta del bene, dalla scelta dell’amore. 
Allora il Tutto che attornia, nella giostra dorata, è un regno d’amore, amore in tutte le sue sfaccettature: rispetto, considerazione, sollecitudine, solidarietà, e così via. E amore non solo fra gli esseri umani, ma fra tutti, e anche verso la natura. Nella poesia “Solitudine” leggiamo: “Siamo soli e non lo siamo. Il Tutto che attornia risana ferite attraverso la bellezza. IL Creatore invita: “Guàrdati intorno, o uomo, non sei solo, abbi cura della natura ed essa ti ricambierà con amore” e continua: “Se aneli un abbraccio, alza gli occhi e guarda oltre te stesso: scoprirai l’Amore del mondo”.
Nel Tutto che attornia, nella giostra, c’è un fulcro, che ha anch’esso un significato metaforico: tra tutti gli esseri umani che ci circondano ce ne sonoi alcuni che costituiscono il nostro punto di riferimento, come la famiglia. Giovanna così scrive: “A mio marito Alessandro e ai miei figli, punti cardini che mi completano; loro rappresentano il fulcro, attorno al quale gira la mia giostra”; sono il “Perno attorno al quale la giostra, veloce, va bramando l’asse dell’equilibrio”.
Così quel mondo, che prima non riusciva a signoreggiare ( “mondo, mondo, sèguiti a sfuggirmi mentre cerco di afferrarti”) quel mondo con cui non riusciva a sentirsi in armonia, , ora invece lo guarda con occhi d’amore e se ne sente pure ricambiata. E in questo certamente un ruolo fondamentale ha avuto il marito, il fulcro della sua vita: “è attraverso altri occhi che vedo il mondo adesso; il mondo mio, attraverso gli occhi tuoi , adesso è” E ancora gli si rivolge così: “Ti riconosco. La tua voce vibra con la mia. Anticipi i miei pensieri…concludi i miei pensieri, che aleggiando nell’aria mi ricordano che io attraverso te esisto”.
E il mondo è anche la natura. Pure verso di questa ha accenti di ammirazione e quasi di ebbrezza: “Applaudi al cielo e alla terra. Ammira il Tutto che ti attornia. Inèbriati di beata esistenza. Ubriàcati di gioconda presenza. E ama…come non hai mai amato”. E l’amore che si dà ritorna: “Con giocosa meraviglia dona amore e il suo amare a lei torna”.
In definitiva noi potremmo tradurre il titolo “La giostra dorata del ragno che tesse”, al di fuori della metafora, con questa espressione: “La vita felice dell’uomo che costruisce la sua esistenza, secondo scelte di bene, scelte di amore”.
Non sempre è così però. E la poetessa constata che “Bene, buon senso e calore umano gettati in un fosso” e vede “ Orecchie chiuse all’ascolto Bocche chiuse al conforto mani chiuse all’abbraccio occhi rifiutano di guardare l’altro”. E chiede all’uomo: “Perché uccidi con leggerezza?” E indignata prorompe: “Fèrmati. Perché usi il libero arbitrio contro te stesso?”
Ecco, l’uso del libero arbitrio può andare in due direzioni: verso il bene o verso il male. L’insieme allora delle poesie che riguardano la malvagità umana, e che sembrano stonare a tutta prima con la giostra dorata, invece non risultano avulse dal contesto, ma sono assolutamente pertinenti e rappresentano come una contro testimonianza , una testimonianza in negativo, della giostra dorata.
E questo contribuisce all’unità dell’opera, dove unità significa compattezza nel concepimento dell’intera opera, significa che non ci sono divagazioni, dispersioni  di idee. E l’unità è arte, fa l’arte. Perciò possiamo concludere che la poesia di Giovanna Fileccia è arte.
Il nucleo poi di tutta l’opera, il punto focale, sembra essere proprio l’uso del libero arbitrio, che sta alla radice di tutto, proprio cioè la scelta, che sprofondando le radici nell’animo di Giovanna, ne sia ella consapevole o no, può essere stata la molla, la scintilla, che ha fatto scattare in lei il concepimento di quest’opera. Ne sia stato il motivo ispiratore. E collima ancora con il messaggio che scaturisce che ce lo conferma: “Salite sulla giostra del divenire”.
E’ un invito a scegliere con coraggio, a operare , a vivere, senza tirarsi indietro, nelle scelte di bene evidentemente.
Giovanna, donna intraprendente e coraggiosa, iasima la viltà, l’indifferenza, l’inezia. Schietta e generosa, detesta l’egoismo e l’ipocrisia. Il suo sdegno comunque non è sterile e si apre alla speranza. Ne “La casa di Tano” dice: “Capto voci d’odio del passato dedico voci d’amore al presente immagino voci di speranza nel futuro”. Ella condanna la violenza e l’oppressione; il suo animo sensibile e pietoso la induce a compenetrarsi nel dolore di chi subisce, ed è pronta a soffrire con chi soffre, a piangere con chi piange. Lamenta “dove sia finito il senso fraterno di tendersi la mano nel momento del bisogno”.
Ora, come il tema del male forma un tutt’uno con la giostra dorata, così è per il tema dell’arte, della poesia. Afferma infatti Giovanna: “Anche il poeta è un ragno che tesse” e aggiunge: “Mi piace pensare alla poesia come una ragnatela di parole, con gli spazi vuoti, intervallati da versi e strofe”. E osserva: “Gli artisti, proprio come il ragno, tessono la propria tela, ognuno con il proprio strumento: il pittore con i colori, lo scultore con l’argilla, il musicista con le note musicali, e così via”. E come la giostra è sempre uguale e sempre diversa, così Giovanna sente se stessa come poetessa: “Frammenti vetrosi riflettono parvenze di mille me stesse, tutte uguali eppure diverse” e ribadisce ancora: “Pezzetti di vetro …Raccontano storie di mille me stesse, tutte uguali eppure tutte diverse”. Questo perché la poesia di lei è sempre in evoluzione. Scrive: “Ma è giusto dirti che tutto è in perpetuo movimento”. Una poesia, la sua, sempre in moto, come la giostra: “…perdermi tra i meandri della mente percorrendo dedali intricati, grovigli creativi, labirinti dai mutevoli ideali”. Possiede uno spirito creativo effervescente, in ebollizione, è un vulcano, un fiume in piena. Ma i suoi versi non sono irruenti o impetuosi, anzi soavi e e delicati. Dice: “scrivendo versi fragili come piume e foglie (come i fili della ragnatela), celando tra pause e spazi molto più di quel che dice”. La sua poesia è appunto come la tela del ragno, aerea, fragile, dove anche i vuoti sono pregni di un significato recondito: “Svolazzano colori, emozioni compresse in fluenti estensioni” Talora il senso è un po’ vago, ma ella affida i suoi versi alla libera interpretazione: “Rimuovo le parole lasciando il colore libero di espandersi nella interpretazione”. Ma sempre i versi vibrano dei palpiti del cuore: “fluenti emozioni piene di un sé vibrante” dice.
Talora c’è nella sua poesia un non so che di teatrale. In quella intitolata “Scena”, così scrive: “…il cuore batte. Tam Tam di vita. Si va in scena. Note vibrano, raccontano d’aria, d’allegria, di morte di gioia di stupore di sensi d’amore, di terre specchiate in mari a colori” mentre “Fili avvolgon la platea. E piove su visi grondanti emozioni”. E così come avviene nel teatro, dove si ha di fronte la platea, Giovanna Fileccia, con la poesia, sente viva l’esigenza di comunicare col pubblico, e di coinvolgerlo: “…mentre affidavo trecce di pensieri al vento affinchè raggiungessero ogni luogo nascosto, ogni creatura vivente”. La sua poesia si apre allora ad un afflato cosmico: “…e mi aggrappai alle trecce, e lì stetti ad ascoltare il linguaggio universale”. La poesia accomuna tutti, perché siamo tutti fatti della stessa pasta; unisce tutti i popoli della terra, così come unisce terra e cielo: E’ anche riflesso di cielo. La poesia infatti riflette verità, bontà e bellezza, che sono prerogative di Dio: “…non piangere o luna la mia urgenza del nuovo che vortica nell’essenza divina”.
La poesia di Giovanna Fileccia è anche originale, personale direi, inconfondibile, sia per il contenuto che per la forma. L’andamento dei versi talora si distacca dagli schemi convenzionali, e fluttua libero nel foglio in un movimento ondoso, quasi a seguire i palpiti del cuore; il verso talora un po’ teatrale, scorre agile e veloce, con immediatezza e vivacità. Lo possiamo notare in “Desiderio d’allegria: “Basta piangere! Di gioia vorrei ridere. Come posso fare? Bandendo la tristezza, lasciando fluire, quella brezza d’aria pura che sommessa fuoriesce incalzando l’onda scura”.
Ora tutta la poesia di Giovanna Fileccia è di buon tono, forbita ed elegante, attraente e suggestiva. Anche i titoli sono molto poetici: “L’ombroso azzurro”, “Melodia silente”, “Fiore di mare”. Uno stile che è un ricamo. Afferma: “Spesso paragono la scrittura ad un ricamo prezioso; piccoli punti che fanno affiorare un disegno ben definito; una nave che lascia la scia, un gabbiano che stride nel cielo…”Uno stile soave e delicato, che riflette un animo puro, capace di stupore,come quello di un infante. Mi ha colpito una frase in un libro di poesie in dialetto che ho recensito tempo fa, in cui l’autore  osservava: “U pueta avi l’occhi di nutricu”. E questo si addice perfettamente a Giovanna Fileccia.
E come il bimbo guarda verso la sua mamma. Così alla si rivolge alla madre nella dedica in esergo al libro: “E al Ragno, madre amorevole, che protegge con la sua ragnatela”.  Inoltre ci confida la nostra poetessa: “Da qualche tempo ho la sensazione che sopra la mia testa ci sia un invisibile ragno che tesse una ragnatela. Spesso ho la sensazione che questo ragno invisibile si diverta a creare situazioni che all’apparenza non hanno alcun senso
 Ma a distanza di tempo si rivelano essere decisivi per il mio percorso artistico”. E questo ragno che sovrasta la giostra, che sta al disopra del Tutto che attornia, veglia e protegge, guida e dirige l’umanità che ne sta al di sotto.

Un’idea simile la troviamo nella deliziosa poesia, quasi un poemetto, che chiude tutta l’opera, “La mano dorata”. Anche qui il ragno ha la funzione di proteggere e difendere l’umanità. E’ una suggestiva immagine. Negli ultimi versi Leggiamo infatti: “…il ragno continuò a tessere la sua ragnatela che oltre ai raggi del sole, arricchì di polvere di luna, di pioggia cristallina, di vento di frescura e di bontà divina. E ancora oggi, nelle notti di luna piena si intravede la mano perlacea, intessuta dal ragno, a illuminar la sera”.

mercoledì 18 maggio 2016

Enza Sanna, "Frammenti Lirici" (Ed. A.G.A.R.)

di Sandra Guddo 

All’interno di un’originale riquadro narrativo, arricchito dalle immagini dei dipinti di celebri pittori attivi tra le metà dell’ottocento, in pieno clima romantico, e i primi anni del novecento, si snocciolano come preziose perle , le poesie di Enza Sanna, suddivise in quattro cornici : Nelle pieghe dell’anima, Del quotidiano, Dettagli, La parola irrelata.
Ho preferito chiamarli cornici, anziché sezioni, come sarebbe stato ovvio, perché si ha l’impressione, sfogliando le pagine di questo incantevole volumetto, pregevole anche per la veste grafica, di essere dentro una galleria d’arte tra le opere immortali di Renoir, di Tissot, di Manet o di Corcos. solo per citarne alcuni mentre, in copertina, è possibile ammirare “ Idillio” di William Bourguereau. Tale scelta, dopo avere letto per intero il volumetto, apparirà l’unica possibile, in perfetta sintonia con il pensiero di Enza Sanna  .  Anche le liriche della nostra poetessa sono vere opere d’arte che sfidano il tempo e varcano quella soglia sottile ed evanescente che separa l’empirico dal trascendente in una sfida che non si affida alla tecnologia, né alla scienza ma all’arte, l’unica che può dare accesso all’immortalità.
La lirica della poetessa genovese sfocia libera e fluente dalla sua anima, sorretta però da una solida intelaiatura filosofica che non riesce a soffocare il suo impulso creativo, il suo linguaggio essenziale ma modulato e morbido come le pieghe dell’ abito di seta, indossato dalla pittrice rappresentata nella celebre tela da Eduard Manet  che Enza Sanna ha voluto inserire nella sua raccolta, a testimonianza che la bellezza è l’unico vero oggetto dell’arte, sia essa poesia o pittura o musica e che la “ bellezza ha sempre e comunque un profilo etico. “
 In altre parole, non è possibile scindere il bene da ciò che è artisticamente valido ed ha quindi, nella sintesi kantiana, valore universale.
Il titolo che l’autrice ha scelto per la sua opera “ Frammenti Lirici “ potrebbe indurre il lettore a ritenere che si tratti essenzialmente di una leggiadra raccolta di  liriche, invece c’è molto di più: attraverso le sue poesie si ha come l’impressione di salire, gradino dopo gradino, in cima ad una scala e, arrivati lassù, sia possibile contemplare, nel suo insieme, la complessità del suo sentire, un viaggio nelle pieghe dell’anima.
Il tema del viaggio, a mio parere, è centrale nel pensiero di Enza Sanna, allorché invita il navigante a  godere dello stesso navigare senza fretta verso la meta, seppure agognata :“ Non affrettare il viaggio / tu che soffri, ignaro d’ogni sosta, d’ogni tregua / i ritmi del presente, senza farne ammenda . “
Altro tema caro alla poetessa è l’amore che nutre per la sua bellissima terra: la Liguria, che Ella, appropriatamente, definisce “ Terra degli dei e dei poeti “  concordando con il celebre poeta, suo conterraneo, Eugenio Montale. Con uguale potenza descrittiva, permeata da un delicato lirismo, la poetessa afferma : “ La consapevolezza del bello in natura / ti fa partecipe come fosse crearla . “
Questo tema si trova diffuso in molte altre poesie ma  una in particolare mi ha colpita: “ Rivelazione “ che va letta e gustata tutta d’un fiato, talmente i versi si susseguono veloci ma incisivi, mai affrettati o superficiali: una visione complessiva come la tela del pittore che ritrae nel suo insieme tutti gli elementi del creato: il cielo, la terra con il “ mandorlo in festa “ , il mare e “ sul mare un’ ala graffia l’onda e subito risale “ la luce pallida della luna, le montagne e i fiumi e il “ vento del primo mattino “. A fianco della poesia , a testimoniare l’esuberante bellezza della natura, esplode con i suoi colori smaglianti, la tela di Pierre Auguste Renoir “ In estate “ ( 1868 ) .
Sulla base della convinzione, prettamente gnoseologica, che tutto in natura sia destinato a dissolversi nel suo continuo ed inarrestabile fluire e deperire, come “ pànta rhei “, nucleo centrale della filosofia del presocratico Eraclito, si afferma forte l’istanza dell’eterno.
L’esigenza, per noi poveri  mortali, confinati in un limitato arco spazio - temporale, di divenire, in qualche modo, immortali, non può essere convalidata dalla “ scienza né dalla conoscenza “ ma può essere sostenuta soltanto dall’ “ arte testimone della grandezza dell’uomo “
 ( … ) espressione profonda del suo animo /  che proviene dallo spirito / da una scintilla d’immortalità / dal segreto divino che lo ha segnato. Solo il bene e il bello han valor d’eternità”.
Non possiamo che concordare con Enza Sanna della quale si apprezza la sobrietà e la profondità del suo sentire.

Sandra Guddo