di Luca Fumagalli
Ancora oggi, a quasi mezzo millennio dalla scomparsa, ciò che sfugge dell’affascinante vita di Thomas More è il senso del suo martirio. Sebbene siano facilmente comprensibili le ragioni che spinsero il brillante umanista a opporsi alle pretese luciferine di Enrico VIII, allo stesso tempo si fatica a capire come mai un noto riformatore come lui, che tante parole spese per fustigare il malcostume di certa gerarchia ecclesiastica, abbracciò volentieri la morte quando fu l’ora di difendere Roma e il Papa.
Nell’immaginario collettivo More ha vissuto una sorta di scissione, come se il suo sacrificio costituisse una cesura tra il proto-liberale degli anni giovanili e il santo della maturità. Del resto, chiunque abbia avuto occasione di avventurarsi tra i capitoli del suo più noto libro, Utopia, non può non percepire un senso di smarrimento: possibile che un testo come quello, sovraccarico delle ardite congetture di una mente schiettamente rinascimentale, sia stato scritto da chi morì come un fiero cattolico medievale, come l’omonimo Thomas Beckett?
Per risolvere un paradosso tanto complicato ci voleva G. K. Chesterton, il re dei paradossi.
Nella sua lunga carriera l’inglese ha scritto migliaia di pagine, molte delle quali, oltre una preziosa testimonianza di Fede, costituiscono un serbatoio citazionistico praticamente inesauribile. Eppure, strano a dirsi, Chesterton non ha mai dedicato nessun libro a Thomas More, solo un esiguo pugno d’articoli. La qualità dei testi, però, è inversamente proporzionale alla qualità, eccellente come sempre, e la ponderosa densità delle argomentazioni fa comunque ipotizzare che il pregiato autore avesse intenzione di sviluppare ulteriormente il tema, magari in forma di biografia. I numerosi impegni, con tutta probabilità, lo costrinsero a una scelta, e preferì dedicare tempo e spazio a San Francesco d’Assisi e a San Tommaso d’Aquino piuttosto che a More, la cui devozione è molto diffusa in Inghilterra e vanta solide radici.
Per Chesterton More è un diamante: la sua mente riflette le numerose sfaccettature della realtà e non rinuncia a incidere fino a sfregiare la carne morta dell’ingiustizia e del peccato. Era la sua natura, la stessa che lo spingeva a difendere le cause perse, quelle dei poveri e dei deboli, la stessa che in giovane età egli scambiò per vocazione, la stessa che rendeva quello della preghiera il momento più esaltante della giornata. L’abnegazione con cui si spendeva per gli altri era accompagnata dall’umiltà; divenne cancelliere di Enrico VIII nella speranza di condurre il bolso Tudor sulla via della ragione, ma rinunciò senza remore all’incarico quando il progetto si mostrò irrealizzabile. A chi si congratulava con lui dopo un incontro in cui il sovrano gli aveva ripetutamente battuto le mani sulle spalle con bonaria foga, More aveva risposto arcigno: «Se la mia testa gli dovesse procurare un castello in Francia, non si farebbe problema a staccarmela».
L’ironia di More è proverbiale, un tratto che lo accumuna a Chesterton e che costituisce la chiave di volta per comprenderne la complessa personalità. L’universo immaginato in Utopia è infatti una fantasia senza peso, che nulla ha a che spartire con fini apologetici o progetti ideologici: «Thomas More fu quasi l’ultimo a respirare l’aria fresca di un paese incantato dalla libertà … Poteva raccontare le favole che voleva, e la favola non doveva necessariamente avare una morale o una morale immorale». Un atteggiamento quindi diametralmente opposto a quello dei tanti utopisti moderni, animati dalla folle e violenta idea di fare della terra un luogo diverso attraverso la scienza e la tecnica.
Che quello di More fosse un innocuo divertissement lo dimostra, tra l’altro, il fatto che dal suo mondo ideale aveva cacciato gli avvocati – e lui stesso apparteneva a quella categoria – e che, dopo aver ultimato Utopia, passò con grande rapidità a occupazioni più gravi. In un’occasione era addirittura giunto ad affermare di preferire che tutti i propri libri e quelli di Erasmo andassero distrutti piuttosto che, come a quei giorni era verosimile, procurassero danno a qualcuno.
Una mente come un diamante raccoglie i più brillanti scritti di Chesterton dedicati a More, organizzati per argomento e acutamente commentati da Giuseppe Gangale, direttore della rivista di studi moreani «Morìa». Un libro agile, ideale per chi fosse interessato ad approfondire questo strano mostro bicefalo, il dialogo tra antico e moderno instaurato da due brillanti prodotti del cattolicesimo britannico.
Il più grande insegnamento che More ha lasciato ai posteri è che l’importante, nella vita, non è la coerenza – umanamente impossibile – quanto la tensione ideale a Dio che dona senso e spessore alla quotidianità. Come ricorda Chesterton, More perse la testa ma, per sua fortuna, non subì danni.
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