di Marcello Falletti di Villafalletto
Sono trentaquattro poesie che Maria Teresa Santalucia Scibona
ha scritto in un arco di tempo piuttosto vasto che, ora raccolte, certune
rielaborate, con l’allusivo titolo I capricci della luna, in lingua
spagnola e italiana, offre agli estimatori della sua feconda produzione. Stanno
a dimostrare la vasta fama e il ripetuto interesse che la nostra poetessa
senese ha conquistato in lunghi anni di maturata esperienza in campo letterario
e culturale.
Proprio all’inizio della Prefazione
al volume ho scritto: «Mi sovviene, in proposito, la leopardiana lirica Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia, dove il poeta, osservando con
ingenuo stupore l’universo, gli invia angoscianti interrogativi sul mistero
della vita e sul destino dell’umanità. Anche in altra, Alla Luna,
Leopardi, idillicamente, la invoca con memorabili versi, non solamente per
trovare conforto al dolore e rievocando il tempo giovanile: «… La speme e
breve ha la memoria il corso, / Il rimembrar delle passate cose, / Ancor che
triste, e che l’affanno duri»,
in un ricordo amoroso e allo stesso tempo doloroso. Alla stessa maniera,
Maria Teresa si confronta con un passato, proteso verso il futuro, dove “i
capricci” di Selene sono presi a pretesto per imbastire una trama fortemente
esplicativa, simbolica della conoscenza acquisita con il trascorrere degli anni
e, filosoficamente, rivelante il suo personale messaggio che, attraverso
accurati versi, diventa universalmente
cosmologico.
«Forse un giorno / qualche affocato / seme germoglierà /
nel mio sarchiato campo. / Ora valuto i limiti». In pochi versi comincia a prendere visione una
realtà vissuta, nella quale trovano spazio: passato, presente e futuro. «Tu
mi svelasti trucchi / di ermetici anagrammi / che intrigano / sconforti con i
miti, / idiomi e psiche.»,
dove la stessa esistenza, per quanto ardua, si dilegua sinuosa verso nuovi
orizzonti, senza limitati confini. «Ma, l’ottica è diversa / e balbe le
parole / per vette azzurre e inferni. / Persevero tenace, / non demordo e
seguito / con mani insanguinate / a svellere gramigna». La prospettiva è,
complessivamente, differente; le parole potranno essere balbuzienti o incerte,
attraversando il buono, il bello, anche il cattivo, ma perseveranza e costanza
continuano a sostenere l’indomito che, seppur ferito, martoriato, continua a
strappare, sradicando tutto ciò che infesta, frena, pensando di arrestare, o
travolgere, un cammino irrefrenabile. Non è mera euforia, né chimera poetica!
In effetto, questa prima lirica,
potrebbe, da sola, orientare tutto il contenuto del libro; appellandosi a
quelle bizzarrie lunari che non sempre lo sono. E che, anche per altri
scrittori, hanno stimolato coraggiose, imperiture suggestioni, divenute
magistralmente: orizzonti, preferenze stilistiche, alternative esistenziali.
Certamente, affrontando
criticamente un’opera, sia essa letteraria, pittorica, che artistica, ci
sentiamo inadatti a poterlo fare spontaneamente, senza incorrere al personale
sentimento di inadeguatezza e legittimità dell’analisi del bello.»; giustamente
a indicare quanto sia difficile non solamente il giudizio ma la stessa capacità
di cogliere il pensiero e l’intento recondito che spinge il poeta a
verseggiare: senza incappare in errori che possono insorgere quando ci si
spinge a voler immaginare anche quello che l’artista, giustamente, non ha
minimamente sfiorato. Per quanto riguarda Maria Teresa, sono persuaso di aver
colpito nel segno e aver centrato pienamente non solamente le emozioni ma anche
quel giusto recondito che si cela dietro a versi così elevati.
La luna, ancora misterioso
soggetto, con i suoi “attribuiti” capricci, non è altro che l’animo inquieto
del poeta in cerca di se stesso; perdutosi allorquando ha desiderato di
scoprire e svelare l’animo di ciò che lo circonda; di quello che lo stimola a pensare:
fino intromettersi dentro se stesso e proiettandolo, apertamente, verso
un’umanità ferita, confusa, talvolta leggera e assente onde poterlo richiamare
al costante che sembra sfuggire inesorabilmente. E proprio nella lirica “Alla
Luna”, la Scibona, descrivendola in modo aureolato, la promuove a suprema
sovrana dei pensieri umani: Enigmatica luna, / complice astuta / di mutevoli
amori. / Come l’ape regina / di stellati alveari / ammicchi suasiva / al giorno
spossato che muore. / Icari ardimentosi del duemila / vennero a te, languida /
sfinge dei cieli, / a disvelare l’alone di mistero / di cui ti ammanti / col
bruno scialle della notte. // In deserti siderei / d’immota polvere posero /
passi malcerti, fra speranze / e bandiere, prelevando felici / come bimbi
pietre grezze, remote / per carpirne l’essenza / nei giorni vittoriosi del
ritorno. / Ma, per l’uomo romantico, comune / che sogna ancora / al tuo
chiarore antico / lontana inaccessibile rimani, / diafana luna., pur
facendola restare, in fine, semplicemente: pallida, impenetrabile e distaccata
dall’essenza terrena.
L’ammaliante e luminoso corpo
celeste, preso a pretesto, assurge a conflittuale tema dell’intera raccolta;
senza però riuscire a nascondere una più vasta diversificazione che coinvolge
non solamente l’Autore che, attraendo, attraverso un più esteso raggio d’azione
entro il quale si colloca l’intera produzione di Maria Teresa Scibona, arriva a
noi per essere armoniosa poesia dalla quale attingere essenzialità
fondamentali.
Lasciandoci calare nell’attenta lettura
di questa ulteriore opera scopriremo quanto l’umano sentire può spingersi verso
infiniti orizzonti, apparentemente inspiegabili, che vengono con semplicità e
spontaneità a noi consegnati per essere assimilati e vissuti nella loro
universalità.
Dalla mia tana: Una
bufera di malinconia / perturba la siberia del mio cuore. / Come fiera
stanziale svernerò / nel mio ristretto bioma. / Ecco, la valle s’indora / di
ginestre e di trifoglio / il molle prato affolta. // Tenere foglie addensano le
siepi. / Dietro tracce odorose bradi puledri / fremono al morso delle briglie.
/ Dall’esodo migrante, per disgelo / ritornano le rondini. / Ed io dalla mia
tana, più / non vedrò fiorire la primavera.
Non si tratta
dell’angariato “pessimismo” leopardiano”, che apparentemente può sembrare
costernazione, in quanto in esso, recuperiamo i sintomi di un positivo
desiderio che accompagna l’intera silloge verso una terminazione ottimistica e
concreta: dettata e favorita da efficace dottrina e dalla speranza che guidano
ogni anima eletta verso quella soluzione finale che traspare e appare con
rilevante evidenza.
Maria Teresa Santalucia Scibona,
ha ragione, può essere annoverata tra i grandi poeti e pensatori che ci
accompagneranno lungo questo giovane secolo; guidandoci nei meandri di una
letteratura che, all’apparenza, potrebbe sembrare languente ma che grazie anche
a lavori come questo non lo è e non lo sarà affatto.
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