sabato 28 maggio 2016

Maria Teresa Santalucia Scibona, "Los Caprichos de la luna" (Grupo Editorial Sial Pigmalión)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Sono trentaquattro poesie che Maria Teresa Santalucia Scibona ha scritto in un arco di tempo piuttosto vasto che, ora raccolte, certune rielaborate, con l’allusivo titolo I capricci della luna, in lingua spagnola e italiana, offre agli estimatori della sua feconda produzione. Stanno a dimostrare la vasta fama e il ripetuto interesse che la nostra poetessa senese ha conquistato in lunghi anni di maturata esperienza in campo letterario e culturale.
     Proprio all’inizio della Prefazione al volume ho scritto: «Mi sovviene, in proposito, la leopardiana lirica Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove il poeta, osservando con ingenuo stupore l’universo, gli invia angoscianti interrogativi sul mistero della vita e sul destino dell’umanità. Anche in altra, Alla Luna, Leopardi, idillicamente, la invoca con memorabili versi, non solamente per trovare conforto al dolore e rievocando il tempo giovanile: «… La speme e breve ha la memoria il corso, / Il rimembrar delle passate cose, / Ancor che triste, e che l’affanno duri», in un ricordo amoroso e allo stesso tempo doloroso. Alla stessa maniera, Maria Teresa si confronta con un passato, proteso verso il futuro, dove “i capricci” di Selene sono presi a pretesto per imbastire una trama fortemente esplicativa, simbolica della conoscenza acquisita con il trascorrere degli anni e, filosoficamente, rivelante il suo personale messaggio che, attraverso accurati versi, diventa universalmente cosmologico.                                  
«Forse un giorno / qualche affocato / seme germoglierà / nel mio sarchiato campo. / Ora valuto i limiti». In pochi versi comincia a prendere visione una realtà vissuta, nella quale trovano spazio: passato, presente e futuro. «Tu mi svelasti trucchi / di ermetici anagrammi / che intrigano / sconforti con i miti, / idiomi e psiche.», dove la stessa esistenza, per quanto ardua, si dilegua sinuosa verso nuovi orizzonti, senza limitati confini. «Ma, l’ottica è diversa / e balbe le parole / per vette azzurre e inferni. / Persevero tenace, / non demordo e seguito / con mani insanguinate / a svellere gramigna». La prospettiva è, complessivamente, differente; le parole potranno essere balbuzienti o incerte, attraversando il buono, il bello, anche il cattivo, ma perseveranza e costanza continuano a sostenere l’indomito che, seppur ferito, martoriato, continua a strappare, sradicando tutto ciò che infesta, frena, pensando di arrestare, o travolgere, un cammino irrefrenabile. Non è mera euforia, né chimera poetica!
     In effetto, questa prima lirica, potrebbe, da sola, orientare tutto il contenuto del libro; appellandosi a quelle bizzarrie lunari che non sempre lo sono. E che, anche per altri scrittori, hanno stimolato coraggiose, imperiture suggestioni, divenute magistralmente: orizzonti, preferenze stilistiche, alternative esistenziali.
     Certamente, affrontando criticamente un’opera, sia essa letteraria, pittorica, che artistica, ci sentiamo inadatti a poterlo fare spontaneamente, senza incorrere al personale sentimento di inadeguatezza e legittimità dell’analisi del bello.»; giustamente a indicare quanto sia difficile non solamente il giudizio ma la stessa capacità di cogliere il pensiero e l’intento recondito che spinge il poeta a verseggiare: senza incappare in errori che possono insorgere quando ci si spinge a voler immaginare anche quello che l’artista, giustamente, non ha minimamente sfiorato. Per quanto riguarda Maria Teresa, sono persuaso di aver colpito nel segno e aver centrato pienamente non solamente le emozioni ma anche quel giusto recondito che si cela dietro a versi così elevati.
     La luna, ancora misterioso soggetto, con i suoi “attribuiti” capricci, non è altro che l’animo inquieto del poeta in cerca di se stesso; perdutosi allorquando ha desiderato di scoprire e svelare l’animo di ciò che lo circonda; di quello che lo stimola a pensare: fino intromettersi dentro se stesso e proiettandolo, apertamente, verso un’umanità ferita, confusa, talvolta leggera e assente onde poterlo richiamare al costante che sembra sfuggire inesorabilmente. E proprio nella lirica “Alla Luna”, la Scibona, descrivendola in modo aureolato, la promuove a suprema sovrana dei pensieri umani: Enigmatica luna, / complice astuta / di mutevoli amori. / Come l’ape regina / di stellati alveari / ammicchi suasiva / al giorno spossato che muore. / Icari ardimentosi del duemila / vennero a te, languida / sfinge dei cieli, / a disvelare l’alone di mistero / di cui ti ammanti / col bruno scialle della notte. // In deserti siderei / d’immota polvere posero / passi malcerti, fra speranze / e bandiere, prelevando felici / come bimbi pietre grezze, remote / per carpirne l’essenza / nei giorni vittoriosi del ritorno. / Ma, per l’uomo romantico, comune / che sogna ancora / al tuo chiarore antico / lontana inaccessibile rimani, / diafana luna., pur facendola restare, in fine, semplicemente: pallida, impenetrabile e distaccata dall’essenza terrena.
     L’ammaliante e luminoso corpo celeste, preso a pretesto, assurge a conflittuale tema dell’intera raccolta; senza però riuscire a nascondere una più vasta diversificazione che coinvolge non solamente l’Autore che, attraendo, attraverso un più esteso raggio d’azione entro il quale si colloca l’intera produzione di Maria Teresa Scibona, arriva a noi per essere armoniosa poesia dalla quale attingere essenzialità fondamentali.
    Lasciandoci calare nell’attenta lettura di questa ulteriore opera scopriremo quanto l’umano sentire può spingersi verso infiniti orizzonti, apparentemente inspiegabili, che vengono con semplicità e spontaneità a noi consegnati per essere assimilati e vissuti nella loro universalità.
     Dalla mia tana: Una bufera di malinconia / perturba la siberia del mio cuore. / Come fiera stanziale svernerò / nel mio ristretto bioma. / Ecco, la valle s’indora / di ginestre e di trifoglio / il molle prato affolta. // Tenere foglie addensano le siepi. / Dietro tracce odorose bradi puledri / fremono al morso delle briglie. / Dall’esodo migrante, per disgelo / ritornano le rondini. / Ed io dalla mia tana, più /  non vedrò fiorire la primavera.
     Non si tratta dell’angariato “pessimismo” leopardiano”, che apparentemente può sembrare costernazione, in quanto in esso, recuperiamo i sintomi di un positivo desiderio che accompagna l’intera silloge verso una terminazione ottimistica e concreta: dettata e favorita da efficace dottrina e dalla speranza che guidano ogni anima eletta verso quella soluzione finale che traspare e appare con rilevante evidenza.

     Maria Teresa Santalucia Scibona, ha ragione, può essere annoverata tra i grandi poeti e pensatori che ci accompagneranno lungo questo giovane secolo; guidandoci nei meandri di una letteratura che, all’apparenza, potrebbe sembrare languente ma che grazie anche a lavori come questo non lo è e non lo sarà affatto.

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