martedì 17 maggio 2016

Serena Lao, "Note di parole" (Ed. Thule)

di Maria Patrizia Allotta

    La locuzione latina Nomen omen, tradotta letteralmente, significa “il nome è un presagio” oppure “sorte nel nome” e deriva da un’antica credenza appartenente ai romani secondo i quali nel nome della persona fosse già indicato il suo destino.
   Sembrerebbe però che questo precetto non valga per Serena Lao.
    Infatti, considerando il significato analogico o figurato dall’aggettivo latino serenus riferito al cielo “chiaro, diafano, limpido”, il nome Serena dovrebbe indicare, appunto, serenità, tranquillità, pace.
   Ma l’Autrice della silloge dal titolo Note di Parole - nonostante il significato chiaro e rincuorante del suo nome - va contro tendenza, essendo incline, per sua stessa natura, a duellare insistentemente contro se stessa, contro gli altri e, quando necessario, contro l’intero universo, dando spazio così a un tipico chiaroscuro esistenziale d’indicibile intensità che la rende fortemente singolare.  
    Ora, infatti, la vediamo brillare, infinitamente felice, tra i vicoli della sua indimenticabile Ballarò circondata da allegri catasti di frutta e verdura, insieme ad antiche sagome familiari dalle voci insolite, tra remoti ricordi e vecchie reminiscenze che Le toccano il cuore e Le accarezzano l’anima, ora la cogliamo in un “regno tutto raso al suolo”, dove il “futuro incerto fa dubitare dell’esistenza” e “un destino segnato” fa piegare “la speranza all’oscurità assoluta”; ora la scopriamo protagonista del 390° Festino come ideatrice e vocenarrante dell’intera vicenda umana e spirituale della sua amatissima “Santuzza”, applaudita da un pubblico trepidante, circondata d’affetti e assediata da sinceri complimenti, ora l’avvertiamo tra “aspre tempeste” e “risvegli silenziosi”, “accecata da falsi miraggi”, imbrogliata in un mondo che non Le appartiene perché fatto di malvagità e mestizia, dolore e tristezza, volgarità e nichilismo; e ancora, ora la intravediamo come poetessa, attrice, cantastorie ma soprattutto instancabile ambasciatrice delle tradizioni popolari con l’unico intento di tutelare e diffondere la bellezza e l’autenticità della lingua siciliana, ora, con il cuore infranto, la scorgiamo “sola e straniera” tra “parvenze di attuati sogni”, calata in una “fallace realtà” dove ricerca “redenzione” o magari lievi “oasi di pace che leniscano ferite” per riscontrare, invece, un’ “esistenza priva di significato”, ricca di “silenzi” e “bugie” …. che pure servono “per non morire” del tutto; infine, ora la cogliamo coperta dalle sue sudate carte, intenta alla studio e concentrata nella ricostruzione demoantropologica musicale del suo popolo, cinta dall’alto magistero ideale o reale di artisti quali Nino Martoglio, Ciccio Busacca  e Rosa Balistreri, tutta presa dal componimento di canti siciliani e dalla stesura delle sue “operine”, ora le percepiamo tra le sue  “sbiadite memorie” accompagnate da quei  “lunghi soliloqui a tu per tu”, immersa in un’ “amata solitudine che come materne braccia (…) cinge e consola offrendo quieti mari traboccanti di pace”.
    “Amata solitudine”, si diceva sopra, che inevitabilmente riconduce alle parole di quel Petrarca “solo e pensoso”, il quale, nonostante la labilità di ogni suo sogno, nonostante l’amarezza provata, nonostante il disinganno, riesce tuttavia ad affrontare il corso della vita a testa alta, proprio come la nostra Serena Lao, la quale, intessuta fortunatamente di celesti ricordi, ricca di evanescenti ma importanti amori, strutturata in quei valori etici ed estetici eterni, malgrado tutto, condivide e sposa una coraggiosa sussistenza. 
    E in effetti, così come avviene per l’autore del Canzoniere, anche le liriche di Serena Lao ci riconducono al travaglio della sua avventura vitale - tutt’altro che rettilinea - perché incessantemente fluttuante tra i beni materiali e quelli incorporei, mondani e spirituali, terreni e Sacri, in un continuo andare tra terra e cielo, senza mai un approdo definitivo.
Da qui, lo spasmo, il pathos, il tormento.
Una lotta impari tra “io”, “Es” e “Super Io” per dirla secondo Freud, insomma, un accordo quasi alchemico con il “punto zero” per dirla come Kierkegaard, forse un armistizio necessario, alla maniera di Haidegger.           
   Va sottolineato però, che nonostante l’incessante fluttuare e il mancato approdo, nell’architettura della silloge Note di parole, rintracciamo, tuttavia, un’unità profonda che è data dal pneuma prezioso della poetessa il quale si esprime grazie alla sua stessa vicenda alterna, fatta di abbagli e disinganni, di sogni e di consapevolezza amara, di dolcezza e malinconia, di coscienza del peccato e ansia di redenzione, in una summa spirituale complessa e mai conclusa, che dà spazio ad una confessione intima e recondita, mai inutilmente intimistica, capace di diventare, per ogni eventuale lettore, paradigma possibile, soprattutto per l’esemplare celebrazione della solitudine.  
     Quest’ultima, infatti, secondo il pensiero della Nostra, non è cantata come necessario isolamento, né come possibile atteggiamento nichilistico, ma come vettore per cercare se stessi, come possibile strumento per “immergersi e purificarsi dalle aspre tempeste dell’imperfetta esistenza, riscoprendo interiorità sgorgate da positivi intuiti”  per “ascoltare i battiti del cuore e risvegliare le placide consapevolezze” per sentirsi “libera e parte integrante dell’infinito” e soprattutto percepire - con tutti i possibili dubbi - la “Presenza” di un Assoluto.       
    Dunque, vera protagonista del testo - edito nel 2016  da Thule, con abile prefazione di Francesca Luzzio e postfazione di Vito Mauro - è l’anima tormentata della poetessa palermitana doc, mentre l’aspirazione a una felicità tutta laica e terrena, certamente non effimera e fugace, rappresenta il quid del versus, il ritmo, poi, è dato dalla musicalità della stessa parola che risulta essere essenziale, mai ridondante, fondante, capace di generare quel flatus vocis che da una dimensione fortemente soggettiva abbraccia e condivide una visione universalmente valida.
   Un naturale ritmo musicale, si diceva sopra, che diviene melodia, armonia, stile, come dire, arte terapeutica  indispensabile, in un tempo in cui s’invoca salvezza, si supplica liberazione, si implora Bellezza e Verità, nella speranza di ritrovare quella dimensione antropica, tristemente andata.     
   Un regalo quello di Serena Lao allora, uno scrigno prezioso, un magico dono. E non solo perché ci offre l’essenza della propria interiorità - che già è tanto - con fatale autenticità, quanto perché riprende quella divina eufonia che diventa concerto per chi crede ancora nella forza della parola impalpabile e nella potenza della sacralità del verso diafano.
   “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto”, dice Pascal.

Serena Lao questo lo sa e, con il cuore in mano, lo dimostra. 

da: "Rassegna Siciliana di Storia e Cultura", n. 41 - 42, 2017

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