di Maria Patrizia Allotta
La locuzione latina Nomen omen, tradotta letteralmente, significa “il
nome è un presagio” oppure “sorte nel nome” e deriva da un’antica credenza
appartenente ai romani secondo i quali nel nome della persona fosse già
indicato il suo destino.
Sembrerebbe però che questo precetto non valga per Serena Lao.
Infatti, considerando il significato analogico o figurato dall’aggettivo
latino serenus riferito al cielo “chiaro, diafano, limpido”, il nome Serena
dovrebbe indicare, appunto, serenità, tranquillità, pace.
Ma l’Autrice della silloge dal titolo Note di Parole - nonostante il significato chiaro e rincuorante del
suo nome - va contro tendenza, essendo incline, per sua stessa natura, a
duellare insistentemente contro se stessa, contro gli altri e, quando
necessario, contro l’intero universo, dando spazio così a un tipico chiaroscuro
esistenziale d’indicibile intensità che la rende fortemente singolare.
Ora, infatti, la vediamo brillare, infinitamente felice, tra i vicoli
della sua indimenticabile Ballarò circondata da allegri catasti di frutta e
verdura, insieme ad antiche sagome familiari dalle voci insolite, tra remoti
ricordi e vecchie reminiscenze che Le toccano il cuore e Le accarezzano
l’anima, ora la cogliamo in un “regno tutto raso al suolo”, dove il “futuro
incerto fa dubitare dell’esistenza” e “un destino segnato” fa piegare “la
speranza all’oscurità assoluta”; ora la scopriamo protagonista del 390° Festino
come ideatrice e vocenarrante dell’intera vicenda umana e
spirituale della sua amatissima “Santuzza”, applaudita da un pubblico
trepidante, circondata d’affetti e assediata da sinceri complimenti, ora
l’avvertiamo tra “aspre tempeste” e “risvegli silenziosi”, “accecata da falsi
miraggi”, imbrogliata in un mondo che non Le appartiene perché fatto di
malvagità e mestizia, dolore e tristezza, volgarità e nichilismo; e ancora, ora
la intravediamo come poetessa, attrice, cantastorie ma soprattutto instancabile
ambasciatrice delle tradizioni popolari con l’unico intento di tutelare e
diffondere la bellezza e l’autenticità della lingua siciliana, ora, con il
cuore infranto, la scorgiamo “sola e straniera” tra “parvenze di attuati
sogni”, calata in una “fallace realtà” dove ricerca “redenzione” o magari lievi
“oasi di pace che leniscano ferite” per riscontrare, invece, un’ “esistenza
priva di significato”, ricca di “silenzi” e “bugie” …. che pure servono “per
non morire” del tutto; infine, ora la cogliamo coperta dalle sue sudate carte,
intenta alla studio e concentrata nella ricostruzione demoantropologica
musicale del suo popolo, cinta dall’alto magistero ideale o reale di artisti
quali Nino Martoglio, Ciccio Busacca e
Rosa Balistreri, tutta presa dal componimento di canti siciliani e dalla
stesura delle sue “operine”, ora le percepiamo tra le sue “sbiadite memorie” accompagnate da quei “lunghi soliloqui a tu per tu”, immersa in
un’ “amata solitudine che come materne braccia (…) cinge e consola offrendo
quieti mari traboccanti di pace”.
“Amata solitudine”, si diceva sopra, che inevitabilmente riconduce alle
parole di quel Petrarca “solo e pensoso”, il quale, nonostante la labilità di
ogni suo sogno, nonostante l’amarezza provata, nonostante il disinganno, riesce
tuttavia ad affrontare il corso della vita a testa alta, proprio come la nostra
Serena Lao, la quale, intessuta fortunatamente di celesti ricordi, ricca di
evanescenti ma importanti amori, strutturata in quei valori etici ed estetici
eterni, malgrado tutto, condivide e sposa una coraggiosa sussistenza.
E in effetti, così come avviene per l’autore del Canzoniere, anche le liriche di Serena Lao ci riconducono al
travaglio della sua avventura vitale - tutt’altro che rettilinea - perché
incessantemente fluttuante tra i beni materiali e quelli incorporei, mondani e
spirituali, terreni e Sacri, in un continuo andare tra terra e cielo, senza mai
un approdo definitivo.
Da qui, lo spasmo, il pathos, il
tormento.
Una lotta impari tra “io”, “Es” e “Super
Io” per dirla secondo Freud, insomma, un accordo quasi alchemico con il “punto
zero” per dirla come Kierkegaard, forse un armistizio necessario, alla maniera
di Haidegger.
Va sottolineato però, che nonostante l’incessante fluttuare e il mancato
approdo, nell’architettura della silloge Note
di parole, rintracciamo, tuttavia, un’unità profonda che è data dal pneuma
prezioso della poetessa il quale si esprime grazie alla sua stessa vicenda
alterna, fatta di abbagli e disinganni, di sogni e di consapevolezza amara, di
dolcezza e malinconia, di coscienza del peccato e ansia di redenzione, in una
summa spirituale complessa e mai conclusa, che dà spazio ad una confessione
intima e recondita, mai inutilmente intimistica, capace di diventare, per ogni
eventuale lettore, paradigma possibile, soprattutto per l’esemplare
celebrazione della solitudine.
Quest’ultima, infatti, secondo il pensiero della Nostra, non è cantata
come necessario isolamento, né come possibile atteggiamento nichilistico, ma
come vettore per cercare se stessi, come possibile strumento per “immergersi e
purificarsi dalle aspre tempeste dell’imperfetta esistenza, riscoprendo
interiorità sgorgate da positivi intuiti”
per “ascoltare i battiti del cuore e risvegliare le placide consapevolezze”
per sentirsi “libera e parte integrante dell’infinito” e soprattutto percepire
- con tutti i possibili dubbi - la “Presenza” di un Assoluto.
Dunque, vera protagonista del testo - edito nel 2016 da Thule, con abile prefazione di Francesca
Luzzio e postfazione di Vito Mauro - è l’anima tormentata della poetessa
palermitana doc, mentre l’aspirazione a una felicità tutta laica e terrena,
certamente non effimera e fugace, rappresenta il quid del versus, il ritmo, poi, è dato dalla musicalità della stessa parola
che risulta essere essenziale, mai ridondante, fondante, capace di generare
quel flatus vocis che da una
dimensione fortemente soggettiva abbraccia e condivide una visione
universalmente valida.
Un naturale ritmo musicale, si diceva sopra, che diviene melodia, armonia,
stile, come dire, arte terapeutica
indispensabile, in un tempo in cui s’invoca salvezza, si supplica
liberazione, si implora Bellezza e Verità, nella speranza di ritrovare quella
dimensione antropica, tristemente andata.
Un regalo quello di Serena Lao allora, uno scrigno prezioso, un magico
dono. E non solo perché ci offre l’essenza della propria interiorità - che già
è tanto - con fatale autenticità, quanto perché riprende quella divina eufonia
che diventa concerto per chi crede ancora nella forza della parola impalpabile
e nella potenza della sacralità del verso diafano.
“Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto”, dice
Pascal.
Serena Lao questo lo sa e, con il cuore
in mano, lo dimostra.
da: "Rassegna Siciliana di Storia e Cultura", n. 41 - 42, 2017
da: "Rassegna Siciliana di Storia e Cultura", n. 41 - 42, 2017
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