giovedì 28 settembre 2017

Ciò che avvenne dopo l’Unità d’Italia nel Sud in un libro di Pino Aprile

di Domenico Bonvegna

Ormai esiste una discreta letteratura sulla conquista del Sud, nel 1860 da parte degli eserciti del Regno di Sardegna. Si potrebbe elencare diverse opere più o meno complete sull'argomento. Per quanto mi riguarda il primo testo che ho letto è quello di Carlo Alianello, “La Conquista del Sud”. Recentemente è stato ripubblicato in versione Pickwick, della Piemme, il libro di Pino Aprile, “Carnefici”. Qui il giornalista e scrittore pugliese, porta a compimento l'inchiesta iniziata con il suo precedente libro “Terroni”. Ha lavorato cinque anni Aprile per arrivare alla tesi che al Sud, gli eserciti piemontesi dei Savoia hanno compiuto un vero e proprio “genocidio”. Centinaia e migliaia di persone scomparse o costrette a subire la deportazione. Rastrellamenti, marce forzate, torture e fucilazioni dei cosiddetti “briganti”, uomini armati, che si sono ribellati al nuovo ordine imposto da Torino.
Aprile ha ricostruito pazientemente con un'incalzante e drammatica ricerca, una mappa di un immenso “Arcipelago gulag”, fatto di una serie di numeri, di dati, di confronti e incroci sulla popolazione meridionale. Praticamente ha pubblicato fonti e documenti, ritrovati nei vari libri consultati, ma anche in archivi, che per troppo tempo sono stati occultati dalla storiografia ufficiale. Il giornalista pugliese oltre a fare riferimento ai tanti storici locali, si appoggia ai vari De Sivo, Molfese, Pedio, Alianello, Zitara, Di Fiore.“Sono ormai decine gli specialisti e i volontari che sventrano archivi ignorati in Italia e all'estero, per trarne e divulgare decine di migliaia (avete letto bene: decine di migliaia) di schede, verbali, rapporti, documenti, promemoria che quasi nessuno ha cercato in un secolo e mezzo. E' la somma di quelle carte che conduce alla parola genocidio.
Chiaramente Aprile, è stato contestato dai vari pasdaram risorgimentisti, mettendo in discussione i suoi dati numerici, hanno cercato di ridicolizzarlo, bollandolo come superficiale e dilettante. Lui stesso è consapevole di non aver raggiunto la scientificità delle sue tesi e lo scrive più volte nel suo testo. E infatti, rinvia ad altri possibili studi demografici al fine di comprendere meglio la portata del massacro di quel periodo, delle popolazioni meridionali. Tuttavia credo che Aprile, nonostante non sia stato in grado di produrre dati numerici esatti sui morti, sia riuscito a far passare la tesi che al Sud i cosiddetti “liberatori” piemontesi hanno compiuto un genocidio. Peraltro Aprile non teme di esagerare utilizzando nel suo libro termini abbastanza forti per descrivere l'aggressione piemontese, come deportazione, spopolamento, occupazione militare, invasione, colonizzazione, pulizia etnica, domicilio coatto. Termini a cui ci aveva abituato il secolo scorso, il terribile Novecento, il secolo delle “idee assassine”.
Tuttavia i meriti di Aprile, potrebbero essere anche altri, come ad esempio quello di rendere più giornalistico il tema della cosiddetta conquista e unificazione del nuovo Regno d'Italia. Carnefici, rappresenta una buona summa dei dieci anni di guerra che si sono svolti nelle province meridionali, oltre che essere un buon manuale per il meridionalismo più o meno nostalgico del borbonismo, anche se non monarchico. Però non è condivisibile quell'astio, quel furore sotteso di Aprile nei confronti della Lega. E' strano che uno come lui abituato ad andare controcorrente, non riesca a comprendere che la Lega, soprattutto quella recente di Salvini (nonostante le sue confusioni) potrebbe essere una alleata del Sud, contro il centralismo statalista romano che danneggia tutti gli italiani. I nemici del Meridione bisogna andarli a cercare altrove caro Aprile.
Il testo di Aprile consiste di quattordici capitoli in 464 pagine molto dense di nomi, di fatti e avvenimenti coinvolgenti.“E' duro il viaggio che vi propongo di rifare in queste pagine; - scrive Aprile - ho cercato di renderlo agevole, perchè ci muoveremo in un'Italia molto diversa da quella che ci è stata raccontata”. L'autore ci avverte che volutamente ricorre alle ripetizioni in forme diverse, proprio per cercare di farsi capire da tutti, per non escludere nessuno. Tutti devono sapere e rendersi conto di quello che hanno fatto al Sud. Infatti il testo è facile, comprensibile, sostanzialmente una specie di bignami divulgativo sui crimini commessi nella guerra del Sud.
Cominciamo dal costo umano sofferto dai meridionali a causa della guerra di aggressione scatenata dai savoiardi. Lo storico Christopher Duggan, in “La forza del destino. Storia d'Italia dal 1796 a oggi”, pur mancando di dati recenti, ritiene che i morti sono oltre 150.000. Mentre per la Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti di allora, sono addirittura oltre un milione. Mentre Aprile si ferma al numero forse più ragionevole di 110.000,120 mila.
“Erano essere umani; stavano a casa loro. E questo divenne il loro delitto”. Oltre ai cosiddetti “briganti” che presero le armi, furono condannate le mogli, “come manutengole con complicità di primo grado. Fanciulle di 12 anni, figlie di briganti, avevano subito condanne di 10 o 15 anni”, scrive Franco Molfese, che ritrovò nella biblioteca della camera dei deputati, resti della relazione Massari sull'opposizione armata al Sud, spacciata per criminalità.
Intanto con il procedere delle ricerche,“si è scoperto che il numero dei deportati civili al Nord fu incredibilmente maggiore di quanto si sapeva, e ancora si trovano insospettati archivi da cui emergono, a migliaia, le tracce di vite distrutte”. Peraltro da questi conti è esclusa la Sicilia, perchè era scandaloso ammettere che l'isola, la culla della rivoluzione, si ribellasse al regno sabaudo. Ancora oggi si ripete che in Sicilia è esistita solo una banda di briganti, invece non è così. Basta solo la rivolta del “Sette e mezzo” a Palermo nel 1866, ma non solo, tutte le altre città della Sicilia si sono ribellate al dispotismo piemontese.
E' incredibile,“non c'è mai stata nelle nostre università, una vera ricerca per sapere quanti furono i meridionali uccisi o fatti morire nella guerra condotta dall'esercito sabaudo contro la popolazione civile (quella con l'esercito borbonico, manco dichiarata, nonostante l'invasione di un Paese ufficialmente amico, finì in pochi mesi; l'altra, contro i cittadini disarmati, e formazioni sparse di ribelli, durò almeno dieci anni)”.
Da più di un secolo e mezzo, scrive Aprile, “gira un balletto di cifre più o meno attendibili sui 'fucilati' (bastava poco: un sospetto, una calunnia, le mire di un vicino sui tuoi beni, persino su tua moglie o tua figlia); o sui 'briganti', abbattuti come tali anche se militari che, con la divisa e le proprie armi, affrontavano da guerriglieri un invasore; o perchè contadini derubati delle terre demaniali[...]”.
Poco si è scritto sulle deportazioni subite dai meridionali. Un garibaldino, un certo Ferrario, passato nell'esercito sabaudo come bersagliere, tornò in Calabria e scrisse un diario sui fatti che risalgono al 1868-69. Lo ha trovato a Novara nel 2015, il professore De Simone, autore di “Atterrite queste popolazioni”. Il diario si riferisce a Rossano, alle carceri grandissime, dove richiudevano i manutengoli ed i conniventi dei briganti. Queste persone, vecchi e lattanti costrette a spostarsi  per 40-50 chilometri, bastonati, senza fermarsi neanche per i bisogni, “venivano sferzati dai carabinieri e dai soldati di scorta”. Qui il diario dell'ex garibaldino è molto preciso, e ci fornisce molti dettagli sulle torture subite da questi poveri cristi. Infatti i carcerieri piemontesi per estorcere informazioni sui briganti, torturavano a più non posso, comportandosi come dei veri e propri carnefici. Queste deportazioni assomigliavano molto a quelle patite all'inizio del novecento dagli Armeni.
Alla fine del primo capitolo brevemente Aprile racconta i vari passaggi della disgregazione dell'antico Regno di Francesco II.
Il complotto anglo-piemontese.“Che non ci fosse 'un piano coordinato' per distruggere il Regno delle Due Sicilie ormai solo i disonesti possono sostenerlo”. E' notorio che la Gran Bretagna, come hanno scritto in tanti, ha complottato per abbattere il Regno Duosiciliano. Sul quale poi si è innestato il piano dei Savoia, “con la lunga opera di corruzione di ministri e alti ufficiali dell'esercito e della Marina napoletani; le trame di Cavour con la Francia; gli accordi con la malavita siciliana, la rete massoniche e liberale allertata per l'insurrezione e l'appoggio ai garibaldini e all'esercito piemontese; le collette dei massoni stranieri per amare la spedizione di don Peppino, rimpolpata da migliaia di 'disertori' sabaudi e mercenari di mezzo mondo, e assistiti dalla flotta britannica [...]”.
L'economia napoletana venne demolita. Chiuse le grandi fabbriche, rubate e spostate al Nord i vari macchinari, stessa cosa per l'oro delle banche, requisiti i beni ecclesiastici che erano parte rilevante del sistema economico. A questo proposito, Aprile, purtroppo, non cita gli interessanti studi di Angela Pellicciari sulla guerra del Risorgimento alla Chiesa Cattolica.
Epurazione nelle scuole. Per quanto riguarda la cultura Aprile ricorda l'epurazione del ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, nelle scuole e nelle università, “per immettervi docenti il cui unico o maggior  pregio era la fedeltà ai Savoia (che molti scoprirono all'istante. E più di sessant'anni dopo, quando Mussolini obbligò i docenti universitari a giurare fedeltà al Fascismo, solo una quindicina su 1.200 rifiutarono)”. Inoltre i piemontesi chiusero tutti gli istituti superiori di Napoli, un migliaio di scuole in tutto il Regno, soprattutto quelle private. Vennero chiuse una trentina di giornali, ecco perché non si è potuto raccontare la vera storia dell'aggressione e conquista militare del Regno da parte dei piemontesi. Chi lo ha fatto doveva usare pseudonimi o pubblicare all'estero.
“Dichiararsi cittadino del proprio Paese invaso divenne reato punibile con la morte, la deportazione, il carcere, la perdita dei beni[...]”. Furono rimossi quasi tutti i vescovi, alcuni esiliati, svuotati e chiusi i conventi, soppressi gli ordini religiosi (meno quelli dei mendicanti che non avevano nulla da farsi rubare), sorvegliate le prediche in chiesa e messi sotto vigilanza i fedeli che frequentavano parrocchie di sacerdoti non filo-piemontesi; avanzata perfino la pretesa di controllare le confessioni.
Praticamente per chi non accettò il nuovo corso o divenne sospetto di non accettarlo o persino di tiepida adesione, la sua vita smise di essere un diritto.
Inoltre il Piemonte come Stato violò ogni accordo, legge, trattato e persino ogni limite di decenza e umanità, in nome di un progetto politico-economico. Torino aveva fortemente bisogno di denaro, il Regno di Sardegna stava fallendo, non avevano più soldi per pagare i dipendenti pubblici e i soldati. Così ne approfittò di inglobare il Regno del povero francischiello.
Sostanzialmente scrive Aprile:“il Piemonte impose se stesso, le sue armi, la sua libertà chiudendo giornali, riempendo le carceri, deportando e fucilando, impose le sue tasse, le sue leggi e persino i suoi impiegati e le sue balie negli orfanotrofi di Napoli, poi disse che gliel'avevano chiesto gli italiani. E quelli che cercarono di smentire o opporsi fecero una brutta fine”.
Pertanto, insiste Aprile:“la dimensione del massacro nascosto sotto il mito del Risorgimento è stata sempre contestata (su come si scrive la storia del nostro Paese, basti dire che l'Istituto cui fu affidato tale incarico, nel Regno di Sardegna che poi divenne d'Italia, aveva il compito di impedire la consultazione dei documenti che potessero offuscare la dinastia sabauda; le carte scomode potevano essere distrutte, e l'elaborazione dei documenti avuti in consultazione era sottoposta a doppia censura durante e dopo la stesura dei testi in cui erano citati)”. Bisogna aspettare il 2014, per intravedere qualcosa sull'enormità del prezzo pagato dal Sud, in vite umane. Un rapporto dello Svimez condotto dal dottor Delio Miotti, svela che nel 1867, la popolazione meridionale diminuì, invece di crescere. Succederà solo altre due volte, in un secolo e mezzo.

Per il momento mi fermo, penso di ritornare sul tema.

Tommaso Romano, "Miniature per l'Arca" (Ed. CO.S.MOS)

di Sandra V. Guddo

Un nuovo tassello va ad arricchire il mosaico della narrazione di Tommaso Romano che con questa operazione culturale, espressa in “ Miniature per l’Arca “, conferma la sua Incontenibile Versatilità, che ho tracciato, in parte, nel volumetto omonimo.
Si tratta di una narrazione lineare che si basa sui due pilastri che l’Autore ritiene fondamentali per chi non vuole piegarsi al disimpegno, al generico, all’anonimato, al divenire del nulla, che sembrano dominare nella società globalizzata.
Non è difficile intuire che i due pilastri a cui mi riferisco sono la Cultura e la Memoria: un binomio inscindibile! Non ci sarebbe cultura degna di essere tramandata senza la conservazione della memoria di quanti, pur in piccola parte, hanno contribuito con le loro opere alla sua costruzione. Più volte infatti Tommaso Romano ha esortato a non bruciare le carte ma a preservarle dall’abbandono e dall’oblio.
Non è certamente un caso che, insieme a tanti altri nomi eccellenti, Egli citi, nella stessa sezione” Graphie ”  Zygmunt Bauman  ( 1925-2017) e Antonino Buttitta  ( 1933-2017).
Il primo, “   geniale, seppur discutibile e controverso, analista sociale ”( pag.135 ), nei suoi numerosi scritti, ha operato una minuziosa disamina della società postmoderna, da lui definita liquida in contrapposizione alla tramontata società che appariva solida in quanto costruita su valori fondamentali per lo stesso genere umano, responsabile del suo operato. Il sociologo polacco ha approfondito il concetto di Cultura che da patrimonio personale e collettivo si è disperso, nella società globalizzata, impoverendosi e disperdendosi nei rivoli della volgarità e del nulla, generando la Bulimia del Consumismo.
Antonino Buttitta  ” Maestro di antropologia e umanista del nostro tempo, libero come pochi ” (pag.132 ) ha insegnato e ribadito, fino all’ultimo dei suoi giorni, il valore della memoria senza la quale un popolo non è più libero, privato della consapevolezza del proprio passato. Così scrive nella introduzione al libro di Vito Mauro, Continuum,” Aristotele ha scritto che la memoria è negata agli schiavi. Apprezzo Romano soprattutto perché, in quanto cultore del passato, vuole restituirci la memoria che il presente ci nega  ”.
Un binomio perfetto di cui, ovviamente, molti altri intellettuali si sono interessati.
 Da qui nasce l’esigenza di Tommaso Romano di ribadire i suoi valori e il suo   impegno a cesellare miniature di persone, divenute personaggi, che si sono distinte dalla greppia con il loro operato affinché la loro memoria venga salvaguardata e custodita in quell’Arca ideale, “ben piantata in terra o vagante nell’acqua. “  In essa  “ troveranno posto uomini, donne, animali, frutti e carte da non bruciare, immagini, suoni, elementi che realmente contano e sono indispensabili per erigere le difese e sostenere le architravi, le merlature, in rettangoli di volontario ammutinamento, in uno spazio per poco o nulla violabile, cioè, riservato all’armonia, alla pratica della temperanza, all’umano, insomma”. ( pag. 6 ).
Miniature per l’Arca comprende quattro sezioni, una delle quali “Graphie” è appunto dedicata a chi è scomparso; esse sono precedute da alcune fondamentali riflessioni del suo Autore che possono fornire una chiara chiave di lettura del testo in cui è possibile rinvenire una malinconica ammarezza per la situazione attuale della società, stantibus rebus, definita civile. Al contempo emerge la reazione consapevole di chi si attrezza per non annegare tra i flutti del nulla e prepara l’Arca della salvezza per sé e per chi ne sia ritenuto degno. Gli operatori della cultura, ognuno secondo il proprio talento, sono presentati nel testo come cesellate miniature, destinate a durare nel tempo, si spera, non soltanto quello terreno.
Francesco di Franco, in una sua estemporanea dichiarazione, ha affermato che” Ricordarsi e riportare in auge chi non c’è, è il modo più bello di continuare la sua attività, l’uomo è quel che fa, e quando la generosità e l’amore per la cultura inducono a riconsegnare lo spirito, è un gesto di grande onore  ” .
E con tale gesto l’Autore fa rivivere, nelle pagine della sua opera, personaggi talentuosi come l’indimenticato Renato Guttuso mentre, poco più avanti, consegna ai posteri il talento artistico di Sebastiano Caracozzo.
Contestualmente, viene raccontata, per grandi linee, l’ascesa ed il declino della monarchia sabauda e del mondo anche valoriale di cui era intrisa, con le sue luci ed ombre.  L’autore se, per un verso, conferma la sua approvazione per l’operato di Vittorio Amedeo di Savoia che regnò in Sicilia dal 1713 al 1720, iniziando alcune riforme di straordinaria importanza nel tentativo di portare l’isola fuori dalle condizioni di arretratezza e di lassismo in cui versava, dall’altro , mitiga la sua condanna all’operato del Regno dei Savoia, durante il processo di unificazione dell’Italia. La visione della conquista della Sicilia, magistralmente raccontata da Tommaso Romano nella sua opera Sicilia 1860 – 1870 – Una storia da riscrivere, Ed. ISSPE ( 2011), appare meno traumatica, sotto la spinta, probabilmente, di un rinnovato desiderio di conciliazione, maturato dall’ autore nel corso di questi ultimi anni.
Tommaso Romano si sofferma ad analizzare la Prima Guerra Mondiale che, aldilà di qualsiasi altra considerazione, fu un vero massacro in cui persero la vita migliaia di giovani, come mette ben in evidenza lo storico revisionista Oscar Sanguineti “ ( … ) A prostrare l’Occidente non è solo la scomparsa di milioni di giovani e di padri di famiglia non è solo l’immenso dispendio di risorse materiali, ma anche l’imprint profondo lasciato nella memoria, nel senso identitario, nelle strutture sociali, nonché, infine nel giudizio disincantato sui reggitori dei popoli che hanno mandato a morire legioni di uomini, imberbi e maturi, ricchi e poveri, fanatici e indifferenti, per vantaggi concreti del tutto meschini ( … ) presto svaniti e spesso ottenibile per via diplomatica.
E’ chiaro l’appello che Tommaso Romano rivolge a tutti i reggitori dei popoli di evitare, in ogni modo, i conflitti e qualsiasi escalation di violenza; ciò non certo per buonismo a buon mercato!
Tutta l’astronave della narrazione, sia che tratti temi che intrecciano arte e religione o che presentino, più spiccatamente, un carattere storico -politico, procede con toni pacati che invitano alla riflessione il lettore che potrebbe anche non condividere in toto le sue dissertazioni. Poco importa! il valore di un libro non si giudica dal suo proselitismo, semmai da quante coscienze riesca ad indurre al dialogo aperto, condotto con i toni della libera espressione sul terreno di un sereno confronto.
 Ma, a mio avviso, ciò che aleggia e vagheggia sull’ intero libro, è lo sguardo appassionato di un uomo innamorato della sua città, della sua terra e della cultura che ha saputo esprimere, attraverso i suoi figli, il meglio di sé. Senza voler fare torto a nessuno, avere citato gli studi di Carmelo Fucarino o di Calogera Schirò e di Giulia Sommariva, o, ancora di Francesco Cangialosi, oppure, il costante contributo della famiglia Notabartolo, rende palese l’impegno civile di Tommaso Romano.
Il suo sguardo attento mitiga l’asprezza con cui noi siciliani, delusi per decenni da una gestione politica ed amministrativa assai carente, siamo propensi a svalutare ciò che ci appartiene di diritto: la nostra terra, il nostro mare, il nostro litorale.
Ecco allora che si fa avanti il nostro Autore che tende a gettare una nuova luce : “Basta allora con il nichilismo distruttore di coscienze, che annichilisce pure i giovani, li fa troppo politicamente corretti; basta con il pianto incapacitante, ( … ) Segnali, anche notevoli, di riconquista identitaria, di luoghi e di spazi, di momenti e di storia ci sono, negarli è negarci, ancora una volta, di esserci, per partito preso.

Infine, dopo la lettura di Miniature per l’Arca, mi rendo conto che l’indiscussa protagonista è ancora una volta la Bellezza.

martedì 26 settembre 2017

Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei Cieli" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Lucio Zinna

Intenso poemetto di Tommaso Romano, neo-umanista panormita di ampi interessi e vasta produzione, a cui si devono in particolare, a far data dal 1969, diverse e apprezzate opere di poesia. In questo singolare lavoro (davvero fuori cliché), edito in 99 copie numerate, il poeta canta il proprio risentimento, il disappunto, per lo svuotamento progressivo, costante, di valori e loro perennità, che affligge il nostro tempo, a causa di quello che chiama “il relativo”: «Tutto è relativo/ormai e tutto è il nulla annunciato/nel deserto dei cuori.»
   Dunque, nella realtà odierna, tutto è “relativo”, dice il poeta. Ma per converso nemmeno tutto è “assoluto”. A quel relativo da cui egli prende le giuste distanze non può essere ascritto, ad esempio,  il tutelabile diritto alla libertà di opinione, che può solo esplicarsi nel rifiuto di ogni dogmatismo. Il relativo stigmatizzato dal poeta è dunque riferibile a tutto quanto comporti il pervicace svuotamento di significato di ciò che rende salda e ancorata la nostra esistenza e la nostra civile convivenza, rese invece sempre più fragili da interessi che gavazzano, più che nel transeunte, nel frivolo e nel provvisorio.
   La riflessione che il poeta ci suggerisce e che deriviamo dalla lettura di questo prezioso libretto è che la nostra pseudo-civiltà viva una grande confusione, nella quale relativo e assoluto finiscono per confondere i loro ruoli, ossia relativizzando l’assoluto e assolutizzando il relativo. Tutto ciò non può avvenire se non a costo di gravi fraintendimenti, sconvolgimenti, negatività. Infatti,  assolutizzando il relativo  si creano idoli (anche nel senso di idola baconiani), si glorifica l’inautentico. A relativizzare l’assoluto si giunge a negare l’essenza a vantaggio dell’apparenza e fare della prima tutt’al più uno strumento da comodato d’uso o un belletto da bancarella.
   In tali fraintendimenti (fra i quali gl’innamoramenti incondizionati al proprio Dio al punto da considerare nemici da abbattere coloro che, appellati infedeli, manifestino fedeltà ad altro Dio), è stato coinvolto Cristo, considerato «profeta tra tanti /forse un po’ petulante», il quale rischia di essere «sfrattato» per un  minareto, osserva amaramente il poeta, il quale mira a ricondurre queste molteplici, contrastanti e fuorvianti dinamiche all’elementarità di un grande principio: quello del «volersi tutti amare».
   E perché possa realizzarsi un tale percorso, volge lo sguardo alla poesia. Una poesia – osserva – che non dimentichi che la bellezza senza amore è dimidiata e votata alla propria vanificazione. L’arte, si sa, è astrazione, ma ogni astrazione (ab traho) non può che muovere dal reale. L’arte è la bellezza che dal reale trae linfa, da esso si eleva, in esso si eterna.

   E come nel messaggio evangelico il nostro poeta trova l’impegnativo iter al Regno dei Cieli, così nella poesia trova accesso al «suo» Regno del Cieli, che dunque può cogliersi anche in terris,  con e nella quotidianità. E per avvalerci di una considerazione di Salvatore Lo Bue nella sua puntuale prefazione, diventa in tal modo possibile vincere il banale, superare quello che il poeta chiama «il deserto dei cuori». E verso la falsa poesia è rivolto un altro strale di questo icastico poemetto: quella che finge di dire e non dice, che si nutre di autocompiacimento senza altri obiettivi, la poesia giocata – come si sarebbe detto in altri tempi – sul “verso che suona e che non crea”. Non “crea” mondi nuovi, di nuova umanità, di sguardi verso orizzonti nuovi.

lunedì 25 settembre 2017

Francesco Maria Cannella, "Non saltare giù dal letto prima di mezzogiorno" (Ed. Thule)

di  Elio Giunta              

Sorprende non poco questo Bukowski palermitano, per il coraggio di provarsi con uno sperimentalismo che oggi parrebbe non avere molto seguito; ma soprattutto per essere riuscito a mantenere per tante pagine, con vena costante, una disinvoltura dissacratrice del sistema narrativo oltre ogni limite. Il richiamo al Bukowski del Taccuino di un vecchio sporcaccione ci sta tutto, solo che, ed è questo che a nostro giudizio conta, c’è una differenza da rimarcare. Nel noto Bukowski c’è l’amarezza dissolutrice quale nella visione morale americana rivestiva anche un senso ideologico; in Cannella c’è, solo come fine a se stesso, il gusto ironico della strafottenza palermitana. Questa l’impressione. Comunque, leggere questo libro e cogliere l’affiorare e dissolversi di situazioni e figure come regolarmente costrette al chiuso del postribolo da un io insistente a far scena, arguto e disarmante, può anche interessare il lettore non comune, purché sia colto e paziente.

                          

domenica 24 settembre 2017

Silvano Lorenzoni: Kant, Brouwer, Lorenzoni




di Fabio Calabrese

Questo nuovo testo di Silvano Lorenzoni è un libro piuttosto sottile, una settantina di pagine, tuttavia credo che si possa considerare un lavoro molto importante, nel quale l’autore ha fissato i fondamenti filosofici del proprio pensiero, anche tramite il confronto con altri due pensatori, il grande Immanuel Kant, padre possiamo dire, della filosofia moderna, e un autore certamente molto meno noto nel quale Lorenzoni ravvisa una profondità di pensiero e un’affinità tematica non dissimili da quelle kantiane, il matematico e filosofo olandese Luitzen Brouwer. La filosofia moderna, si può dire, è dovuta ripartire dall’intuizione kantiana che il mondo che possiamo conoscere è il mondo della nostra esperienza (tecnicamente parlando, il mondo fenomenico), e che per definizione non possiamo avere alcuna idea di che cosa o come sia la cosa in sé (“Ding an sich”), cioè il mondo indipendentemente dal nostro percepirlo o sperimentarlo. Questo fatto, di essere necessariamente contenuti entro i limiti della nostra esperienza, è stato già altre volte definito da Lorenzoni “prigione kantiana”. Secondo Kant, lo spazio, il tempo e la causalità (cioè l’idea che gli eventi sono uniti da legami di causa-effetto), sono categorie a priori che il soggetto mette nell’esperienza.
Luitzen Brouwer è stato un matematico, e ha rivisto l’impostazione kantiana alla luce dell’esperienza di matematico. In matematica l’a priori fondamentale è la successione – pensiamo ad esempio alla serie dei numeri naturali – la successione, quindi il tempo, e la categoria spaziale appare in qualche modo accessoria e derivata rispetto a quella temporale.
Va da sé che questo tipo di impostazione comporta un problema la cui soluzione è tutt’altro che secondaria a tutti gli effetti pratici: se ciascuno di noi è chiuso nella propria soggettività, come può esistere un’intersoggettività, come fanno i soggetti a comunicare? Lorenzoni risolve il problema facendo ricorso al concetto di tunnel della specie elaborato dal biologo baltico Jakob von Uexküll. La “prigione kantiana”, per così dire, non sarebbe composta di celle, ma da un tunnel in cui si troverebbero allineate delle psichicità affini, e l’affinità renderebbe possibile comunicare capendosi. Il tipo di mondo nel quale ciascun tipo di soggetti vive, dipenderebbe dalla sua soggettività specifica (nel senso di appartenente alla specie) per cui i cani vivrebbero in un mondo canino e gli uomini in un mondo umano. Proprio perché non possiamo non percepire il mondo intorno a noi se non come uno spazio “umano”, in esso vale la geometria euclidea (che si basa sul postulato – indimostrabile – di Euclide per cui “per un punto passa una e una sola retta parallela a una retta data”). Geometrie non euclidee, cioè che non si basano sul postulato di Euclide sono concepibili e sono state elaborate dai matematici, e potrebbero trovare applicazione lontano dal “mondo umano”; è un discorso di cui vedremo più avanti le importanti implicazioni. Qui si può prendere in considerazione un’obiezione che si presenterà alla mente dei più, cioè che l’oggettività, l’indipendenza del mondo dal nostro modo di percepirlo, sarebbe dimostrata dall’apparato concettuale e strumentale scientifico e tecnico di cui disponiamo. In realtà non è così, perché non solo tutte le nostre interpretazioni del mondo, ma anche tutto l’apparato tecnico che abbiamo sviluppato, si basano sui presupposti del mondo come spazio e tempo euclidei.
“Tutti gli strumenti manifatturati dagli umani”, ricorda l’autore, “vengono costruiti utilizzando tecniche valide nello spazio euclideo e sotto il presupposto che le cose misurate dai medesimi siano geometricamente euclidee e poste in uno spazio parimenti euclideo. (…). Quindi mai misure fatte con apparecchi geodetici o telescopici, quali possono essere a nostra disposizione, potranno “rivelare” se lo spazio in cui viviamo sia o non sia euclideo”. A questo riguardo Lorenzoni ricorda anche il teorema di Gödel: la validità di un sistema non può essere dimostrata all’interno del sistema stesso. In altre parole, nessuna indagine empirica, nessuna misurazione, nessun esperimento può permetterci di eccedere i limiti della nostra “prigione kantiana”. C’è tuttavia a questo punto una questione estremamente importante che di solito viene semplicemente ignorata: quando i filosofi parlano di “uomo”come creatura raziocinante che, attraverso le categorie a priori dello spazio, del tempo e della causalità si rendono l’esperienza intellegibile e comunicabile, uomo come “animale razionale” prendono a modello essenzialmente se stessi e le persone del medesimo ambiente culturale-sociale-civile, dopo di che estendono implicitamente questa visione a tutte le creature che zoologicamente rientrano nella specie homo sapiens, ora non è affatto detto che le cose stiano in questi termini.
“E’ abbastanza chiaro”, scrive Lorenzoni, “Che già Platone quando si riferiva “all’uomo”, intendeva il greco classico che egli contrapponeva al “resto”. C’è da credere che per Kant “l’uomo” fosse soltanto il civilissimo cittadino di Koenigsberg; e che per Brouwer esso fosse l’olandese e tedesco matematico. Per i selvaggi, gli animali (e sicuramente le piante) sappiamo che la loro “psichicità” – il modo di percepire il mondo – è diversa da quella dell’uomo superiore (europide, centroasiatico, nord-est asiatico); che essa ne è un sottomultiplo e che della medesima viene “a rimorchio” (…). Il selvaggio, per esempio, ha una visione bidimensionale; e quindi ha un modo di percepire otticamente il mondo che è un meno/sottomultiplo di quello dell’uomo superiore Di questo fatto un’analisi interessante è stata fatta dal filosofo ferrarese Raul Cesari che onora lo scrivente della sua amicizia. Quando l’uomo superiore apre gli occhi, gli si squaderna subito davanti lo spazio tridimensionale nel quale le cose stanno a variabile distanza. Il selvaggio invece non percepisce lo spazio ma le cose. Quelle più lontane egli le coglie come un piano di enti di fronte al quale si pone un altro piano di enti e poi un altro e così via fino al piano più vicino e immediato. Lo spazio dell’uomo superiore è unico e in esso le cose si dispiegano in profondità: per il selvaggio (e presumibilmente per l’animale) si tratta di una serie di piani sovrapposti che annullano il senso spaziale nella profondità, quindi visione bidimensionale. Per l’uomo superiore il soggetto è lo spazio, per il selvaggio le cose; per l’uno la profondità viene ad essere la vera essenza delle cose, per l’altro essa non è nemmeno presente.
Per i selvaggi, così come manca la dimensione della profondità dello spazio, manca il senso del futuro nell’ordine del tempo (e la mancanza della percezione del futuro impedisce la possibilità di pianificare). Ma anche il ricordo, che è il “recupero” del passato, una possibilità che hanno anche il selvaggio e l’animale, è diverso fra l’uomo superiore e il selvaggio (…). Mentre nel visualizzare mnemonicamente dei fatti passati, l’uomo superiore vede se stesso anche come attore e non soltanto come spettatore, l’ornitologo Friedrich von Lucanus afferma che l’animale, quando ricorda qualcosa, vede se stesso sempre ed esclusivamente come spettatore. E gli studi fatti dallo scrivente su certi indigeni iberoamericani sembrerebbero indicare che lo stesso vale per i selvaggi”. Qualcuno sarebbe forse tentato di pensare che queste siano affermazioni razziste da suprematista bianco, e allora sarà il caso di ricordare che negli anni ’30 l’antropologo e psicologo sovietico Aleksander Luria ha riscontrato nelle popolazioni selvagge della Siberia situazioni simili. Luria notò che persone appartenenti a queste popolazioni non erano in grado di risolvere problemi del tipo: “Gli orsi che vivono nelle regioni polari sono bianchi. Sei vicino al polo e vedi un orso, di che colore è?” In altre parole in questi nativi mancava il pensiero operativo formale secondo la terminologia di Jean Piaget, il che, secondo lo schema piagettiano equivale a un’età mentale inferiore ai dodici anni, sebbene si trattasse di persone in grado di sopravvivere nel duro ambiente siberiano tra tundra e taiga. Conclusioni avallate dalla massima autorità “socialista”, l’Accademia delle Scienze sovietica. Se questo è razzismo, allora è la realtà a essere razzista.
Ricordiamo che secondo Lorenzoni il selvaggio non è affatto un primitivo, cioè un uomo in una condizione non o non ancora evoluta, ma perlopiù un decaduto, appartenente a popolazioni residue di una condizione civile preesistente venuta meno, e a questo argomento ha dedicato un libro non dei suoi meno importanti: Il selvaggio, saggio sulla degenrazione umana.
Questo lascia la porta aperta a due conclusioni: la prima, ovvia, che la condizione selvaggia è un minus, una “prigione kantiana” più ristretta rispetto a quella dell’uomo civile, la seconda è che, dato che questa non è una condizione “primitiva” risultante dall’attardarsi in un processo evolutivo ascendente, ma il prodotto della decadenza da un livello superiore, nulla vieta di pensare che si tratti di una condizione che il destino potrebbe riservare anche a noi, a scadenza forse nemmeno tanto lontana, in conseguenza dei flussi migratori dal Terzo Mondo e dell’immigrazione. Vi è nel nostro mondo una pattuglia di individui, certo non numerosa ma supportata dalla grancassa mediatica, che vedono nell’abbandono della “ragione cartesiana” qualcosa di positivo, soprattutto fra i cosiddetti “artisti” spregiatori di ordine e regole, a cominciare da Pablo Picasso con la sua ossessione per le maschere africane. Bene, si vede bene a che livello di decadenza costoro, questi fautori della degenerazione e del caos, hanno portato le arti figurative che nel passato hanno prodotto nella cultura europea i templi greci e le cattedrali gotiche, Fidia e Raffaello.
“Nessuno ci pensa seriamente, ma molta parte del senso di precarietà che affligge l’uomo contemporaneo”, ci dice ancora l’autore, “E’ data dalla perdita di identità dovuta al rimescolamento delle razze, rimescolamento spesso discutibile che ha spinto l’uomo sull’orlo della propria prigione kantiana. Può sembrare un paradosso, ma uscire da una prigione non è sempre una conquista: spesso può essere una catastrofe, se questa prigione è stata la nostra culla e il nostro habitat per migliaia di anni.
Uscirne significa andare incontro a traumi psichici, fino all’estrema possibilità di non riconoscere più se stessi, fino all’annientamento”. Qui s’innesta un’altra tematica cui Lorenzoni ha dedicato in passato non poco spazio, quella delle cesure epocali, ossia quegli eventi catastrofici e improvvisi che segnano letteralmente delle fratture nel tempo storico con il passaggio da un’epoca a un’altra, il crollo di una civiltà e – forse – l’inizio di una faticosa ricostruzione, oppure il permanere in una condizione “selvaggia”, catastrofi delle quali non si riesce a conservare che un’eco indistinta perché si passa letteralmente da una “prigione kantiana” a un’altra, e il tunnel uexkülliano della specie si riduce a un sottile filo di memoria. L’ultima di esse ha forse coinciso con l’inabissamento di Atlantide, e oggi siamo forse vicini alla prossima. A lato di questo impianto teorico che certamente non si può prendere alla leggera, il testo esplora un paio di interessanti corollari. Se lo spazio euclideo coincide sostanzialmente con il “mondo umano”, e l’autore ipotizza che esso abbia un limite preciso nelle cinture di radiazioni che avvolgono il nostro pianeta e sono note come fasce di Van Allen, oltre il quale si troverebbe uno spazio qualitativamente diverso soggetto a leggi geometriche non euclidee, “spazio compresso” e “spazio pietrificato” (Per un’analisi più dettagliata si possono vedere i testi precedenti dell’autore, in particolare Kantianità e ghiaccio cosmico), ne consegue l’impossibilità dei viaggi spaziali. Lorenzoni non è il solo a sostenerlo, e si può dire che comincia a esistere una letteratura in merito: l’impresa lunare del 1969 non sarebbe stata altro che un abile falso mediatico creato allo scopo di vincere la guerra psicologica allora in corso con l’Unione Sovietica. Caso strano, oggi che sarebbe possibile sottoporlo a controlli tecnici più raffinati, il filmato originale dello sbarco sulla luna è “inspiegabilmente” scomparso dagli archivi della NASA.
Un’altra questione su cui l’autore è tornato, è il famoso esperimento di Michelson e Morley e la sua relazione con la relatività einsteiniana. Come sapete, anch’io mi sono recentemente occupato della faccenda in un articolo, Scienza e democrazia, terza parte, che si è proprio avvalso dei suggerimenti del nostro amico. Riassumendo brevemente, perché si tratta di una questione di cui ci siamo appena occupati, l’esito di questo esperimento: l’impossibilità di misurare la differenza fra la velocità di un raggio luminoso posto su di una fonte ferma e quella di un raggio su una fonte in movimento, è stato considerato la prova cruciale a favore della relatività einsteiniana. Ora, fa notare l’autore, tale esito può essere spiegato con la contrazione che subisce un corpo nella direzione del movimento, tale contrazione del tutto inavvertibile a velocità ordinarie, diventa rilevante a velocità elevate, prossime a quelle della luce. Questa contrazione, che non è una conseguenza della relatività, ma semplicemente della geometria euclidea, fu scoperta agli inizi del secolo scorso da un fisico tedesco oggi ignorato, Fritz Hasenöhrl. Sfortunatamente, Hasenöhrl cadde in combattimento nel 1915, lasciando spazio al plagiario Einstein. “C’è da credere che l’occultamento del lavoro di Hasenöhrl nel contesto di tutta la faccenda abbia a vedere che i suoi risultati avrebbero ostacolato in modo importante l’ascesa verso la “gloria” di un plagiario criminale,molto ben appoggiato e che adesso sta sugli altari in quanto proclamato il genio per eccellenza. Si intende parlare del fondatore della cosiddetta teoria della relatività, Albert Einstein”.
In conclusione si può dire che si tratta di un testo di non facile lettura nonostante il contenuto numero di pagine, tuttavia si tratta di un testo molto importante per chi voglia avere una panoramica completa del pensiero di Lorenzoni, e soprattutto voglia capire grazie alla guida del nostro autore, i meccanismi che stanno alla base della “scienza” e della cultura contemporanee, nonché ciò che può riservarci un futuro che è ora di smettere di guardare attraverso gli occhiali rosa progressisti.
da: www.ereticamente.net

sabato 23 settembre 2017

Pubblichiamo un articolo pubblicato sul giornale di Sicilia, sulla presentazione del libro "Il Genio Palermo"


Il cristianesimo del filosofo contadino Gustave Thibon

di Alberto Maira

Nel gennaio 2001, a Saint-Marcel-d’Ardèche, in Francia, è scomparso  Gustave Thibon. Ed è scomparso nello stesso luogo in cui era nato novantotto anni prima, nel  1903, da famiglia contadina. In occasione dei funerali il vescovo diocesano, S. E. mons. François Blondel, ordinario di Viviers, ha — fra l’altro — affermato in un messaggio che “la Chiesa di Francia gli è riconoscente” e, dopo averne citato due pensieri — “Porto in me dei morti più viventi dei viventi. Il mio più grande desiderio è di reincontrarli” e “Mio Dio, al momento della mia morte prendetemi come m’avete fatto e come mi sono disfatto, e abbiate pietà in me della Vostra immagine” —, ha auspicato “che il Signore della speranza esaudisca questa duplice preghiera”.
Se la Chiesa di Francia gli deve molto, molti anche fuori della sua patria gli devono tantissimo. Anch’io insieme ai  militanti di Alleanza Cattolica dobbiamo molto della nostra formazione a questo che abbiamo conosciuto come il filosofo- contadino. Tra i primi libri che Giovanni Cantoni, fondatore dell’associazione ci ha proposto sono state le opere di Thibon che ancora studiamo, suggeriamo e diffondiamo.
Anche per questo siamo grati al benemerito Centro Studi Cammarata di S.Cataldo e alle Edizioni Lussografica di Caltanissetta, per il piccolo  ma avvincente saggio “Il cristianesimo radicale del filosofo contadino. Gustave Thibon e il creatodi Sante De Angelis fondatore e rettore dell’Accademia Bonifaciana di Anagni. Il testo non nasconde l’obiettivo di presentare sempre più il Thibon per suscitare curiosità sulla sua vicenda culturale , sulla sua riflessione metafisica, su alcuni aspetti del suo rapporto con lo studio di Virgilio e Friedrich Nietzsche.
Thibon è stato un testimone eminente del secolo XX, vero e proprio autodidatta e vignaiolo almeno fino agli anni 1950. Tornato a venticinque anni alla fede cattolica dalla quale si era allontanato nel corso dell’adolescenza, compie studi di filosofia e di storia del pensiero ed è profondamente influenzato da san Tommaso d’Aquino, da san Giovanni della Croce, nonché dall’amicizia con Jacques Maritain, con Marcel de Corte, con Gabriel-Honoré Marcel  e con Simone Weil. Con la Weil Thibon intesse un profondo dialogo spirituale: ebrea e trotzkysta, “filo-cristiana” ma mai convertitasi alla fede cattolica, ella deve al filosofo-contadino non solo la propria incolumità negli anni della seconda guerra mondiale, ma anche, grazie alla pubblicazione postuma dei diari, l’ingresso nella vita culturale.
Meditando con la sua caratteristica profondità e con la grande semplicità che rendono anche piacevole l’approccio alle sue opere su temi quali Dio, l’amore e la morte, Thibon è fra i più acuti critici del “mondo in frantumi”e della modernità filosofica, ai quali oppone la Croce di Cristo che è la sola a salvare,  pure nei suoi risvolti politici e sociali.
Conferenziere, autore di numerosi saggi e interventi, talora raccolti in volumi a più mani in lingua italiana sono stati editi, fra altri: proprio in Sicilia nel 1947  Quel che Dio ha unito. Saggio sull’amore (Società Editrice Siciliana, Mazara del Vallo [Trapani] ; poi La scala di Giacobbe (Anonima Veritas, Roma 1947); Nietzsche o il declino dello spirito (Edizioni Paoline, Alba [Cuneo] 1963); e L’uomo maschera di Dio (SEI, Torino 1971).
Le sue opere più significative e più note sono Diagnostics. Essai de physiologie sociale, uscita nel 1940 con prefazione di Marcel, e il suo “seguito” Retour au réel. Nouveaux diagnostics, del 1943. A questi due scritti è  legata la “fortuna” italiana di Thibon. Il primo, pubblicato nel 1947 dalla Morcelliana con il titolo Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, viene  riproposto nel 1973 a Roma, con il medesimo titolo, dal generoso mecenate ed editore Giovanni Volpe, facendo seguito alla prima edizione italiana di Ritorno al reale. Nuove diagnosi, del 1972.
La pubblicazione di quest’ultimo testo in Italia è frutto del rapporto culturale e spirituale, appunto come dicevamo nato, e negli anni sviluppatosi, fra il filosofo del reale  e Alleanza Cattolica, per la formazione dei cui militanti Thibon ha svolto e svolge un ruolo di indiscusso riferimento. Le due opere sono state riproposte nel 1998 in un unico volume, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con una premessa di Marco Respinti per i tipi dell’editrice Effedieffe.


venerdì 22 settembre 2017

Maria Patrizia Allotta, "Il giglio e l'ortica" (Ed. Thule)

di Elio Giunta

Accade assai spesso che quando ci si trova con in mano un nuovo libro di versi si avverta in primo luogo un certo disagio, anzi addirittura un senso di ripulsa. Questo perché purtroppo si pubblicano troppi libri di versi a perdere e si ha poca fiducia di trovarne qualcuno buono; ma soprattutto perché si è entrati nella convinzione che, dati i tempi barbari che viviamo, far poesia ed occuparsi di poesia sia troppo fuori moda e inutile. Ma accade anche che, mentre si sfogliano le pagine dell’ultimo libro pervenuto, si resti presi e piacevolmente intrigati a proseguire nella lettura, avendo scoperto singolarità di ispirazione e magari quella pacatezza ed armonia di dettato stilistico che ci riporta ai caratteri della poesia vera, quella a cui restiamo da sempre legati e che non vogliamo siano ancora traditi. E’ il caso di questa silloge di Patrizia Allotta. Essa offre pagine che suscitano immediata partecipazione, giacché fanno avvertire il vibrare sincero di “corde di nostalgia in arpa armoniosa”, cioè con esse si stabilisce senz’altro quella distanza memoriale dell’io con le cose, con la natura, il tempo, il senso dell’esistenza, e con cui il disincanto si fa elezione morale e ragione di esito melodico della parola.

Nell’opera i testi sono distribuiti in due sezioni: l’una ove ogni percezione del reale, intima o riflessiva, pare poggiare più sugli effetti della disillusione, col farsi osmosi tra spirito e realtà appunto rimeditata; l’altra, ove questa realtà è per lo più recupero di incontri umani, anche con le proprie frequenze familiari –indizio questo di una poesia che può restare tale e di buon livello senza pretese di complessità intellettualistiche- ; ma l’una e l’altra risultano realizzate con rara misura di accenti e di uso dell’immagine, con omogenea delicatezza tonale. Ed è soprattutto per questo che il libro può contare come lezione di un verbo lirico che ancora ci persuade e, diciamolo pure, ci conforta.

giovedì 21 settembre 2017

Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei Cieli" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Elio Giunta

Facit indignatio versus: mai ci torna più opportuna la famosa frase come nel leggere questo Nel mio regno dei cieli, un testo approntato da Tommaso Romano sulla scia della sua molteplice attività di intellettuale, impegnato nella vicenda storico-culturale che tutti c’investe. L’opera si presenta come un discorso poematico che sta tra l’intensa polemica e la corrosiva provocazione, nel contempo in cui, proprio per la scelta della forma in versi sciolti e liberi si rimarca una propria, singolare distanza morale e meglio si sintetizzano temi ed intenzioni. Perché quanto si legge, col linguaggio disinvolto che facilmente ci cattura, mentre sembra nascondere e mettere per inciso i motivi di stigmatizzazione, costituisce una lezione civica organica e di spessore, sostenuta da precise convinzioni e riflessioni. Sono le convinzioni che riescono “scorrette ai più”, cioè ai conformisti, in questo secolo di “falso quietismo”, di acquisizione di onori immeritati, “di miseria culturale, di compromesso continuo”, in cui non è la tecnologia a trionfare ma il denaro, con tutto ciò che comporta: cioè l’oligarchia dei pochi ricchi “senza bandiera” e “dei tiranni che cianciano di democrazia”.  Insomma siamo in un’epoca di falsità diffusa, in cui si è persa o viene travisata pure la visione di Dio, tutto livellando alla consuetudine, al relativo, all’acquiescenza che s’appaia al nichilismo.
Tommaso Romano spiega icasticamente il rovesciamento dei valori, tipico come regresso in atto di questa nostra civiltà, malata di laicismo acritico, dove si può andar dicendo che “Il Dio non c’è mai stato” e vige l’illusione del progresso veloce e della gaia scienza ritenuta perfetta. Per cui, se così stanno le cose, al poeta o all’intellettuale non resta che ritrarsi in un proprio regno dei cieli -vedi, a proposito il titolo- e lì darsi un senso di sopravvivenza anche minuscolo, una ragione per esistere.

L’intensa e sollecitante lezione di queste pagine ha in fondo come conclusione la possibile tutela della dignità dell’uomo, il che è, ancora una volta, il compito della poesia. Essa in questo nostro tempo non gode di palcoscenici da cui tuonare, ma sta in covi segreti in cui coltivare fervori di verità ed intelligenza per distanziarsi dalla melma. E’ ancora la poesia che può avere in serbo l’ira salutare che fu quella di Dante contro la “serva Italia di dolore ostello”, o che recuperi l’amara invettiva addirittura di antichi poeti, quali, ad esempio, Teognide (è lo stile lirico-discorsivo di Romano che mi suggerisce il riferimento) contro i rivolgimenti plebei, forieri sempre di declassamento e volgarità. Perché anche quelli erano, come i nostri, tempi di dolorose recriminazioni e di sconsolato pessimismo. 

Giusi Lombardo, "Maredentro" (Ed. Thule)

di Giuseppe La Russa

Una poesia costruita nel tempo e dal tempo, che ne annoda i fili infiniti, che ha la sostanza del passato e fa da cerniera verso il futuro, che profuma di eterno ma si contamina di carnalità quotidiana. La silloge Maredentro di Giusi Lombardo, edita da Thule con prefazione di Giuseppe Bagnasco, lascia questa forte impronta al lettore, un desiderio di infinito, un singulto di eterno.
Già l’immagine del mare, nel titolo e in copertina nel disegno di Gino Frattini, offre l’immagine dello smisurato e della vastità insiti nell’intera raccolta: è questa aspirazione verso una dimensione spirituale totale la spinta continua che permea l’intera antologia di Giusi Lombardo, ma ad una analisi attenta il libro ci offre altri spunti interessanti.
Le note che attraversano l’intera raccolta sono quasi essenzialmente di natura cromatica e, come proprio Giuseppe Bagnasco mette in luce nella sua introduzione, esse giocano sulla diatriba luce/buio, che poi altro non sono che l’attualizzazione visiva della dialettica speranza/disperazione; i testi della raccolta, che appaiono come una accorata confessione, uno struggente grido di umanità e all’umanità, sono l’epifania e la manifestazione, agli occhi dell’autrice, dell’evoluzione perpetua delle cose, del cosmo: e se la deriva più ovvia e naturale potrebbe essere la malinconia (Malinconia è proprio il titolo di una delle poesie), la «commozione di quel che non c’è più», l’intero volume mostra la ricerca e la maturazione di un senso, la lucida consapevolezza che il trascorrere del tempo è un dato incontrovertibile ed è proprio in quello spazio che l’uomo può e deve inserire la propria forza creatrice e poietica, nel segno della luce e della speranza; luce e speranza, si diceva, temi che vengono donati agli occhi del lettore attraverso vistose pennellate cromatiche e mediante il frequente ricorso all’alba, quel momento della giornata in cui tutto è ancora da inventare, da scoprire, da fare: «Poco m’importa se c’è molto da fare,/ se dovrò lottare ancor con menti chiuse,/ ad ogni alba inizia una nuova vita/ e potrò ricominciare a sperare//».
Solo in questa consapevolezza e grazie a questa maturata coscienza, l’autrice può far propria una verità forte ed indissolubile che potremmo riassumere attraverso una massima di Henri Bergson: «Il mio stato d’animo si riempie di continuo della durata che raccoglie». È questa nuova rivelazione che permette all’uomo di cogliere il tempo, oltre che di viverlo, di raccogliere e generare nuova vita dalla più trita quotidianità, di vedere l’eterno nell’attimo, di nascere continuamente in un perpetuo e limpido soffio vitale: «E in un glorioso momento/ un soffio vitale risorge, vola,/ si ferma nel tempo// di un lieve momento/ che sa di eternità//».
Impossibile nascondere le proprie ferite, del corpo e dello spirito, perché anch’esse rendono un uomo ciò che è, perché anch’esse sono vita, ma anche con esse – e grazie ad esse – si può continuare a Vivere ancora, vivere in ogni fruscio, in agno alito di vento, in ogni frammento, perché «Eterno è il tempo/ che mi trasforma e mi evolve/ attimo dopo attimo…//»


sabato 16 settembre 2017

Lina La Mattina, “Sotto nascosta luce” (Ed. Spazio Cultura)

di Salvatore Sciandra

Mi è difficile attribuire a Lina La Mattina delle definizioni, quindi dei confini, utilizzando espressioni e aggettivi che rischierebbero di assumere il tono retorico cerimonioso e adulatorio Eppur c’è un qualcosa di spontaneamente immediato che mi induce ad accomunare la Poesia a Lina La Mattina, e nel frattempo mi solleva dal peso dell’inopportunità e dell’invadenza.
Definire la poesia è stata un'appassionante e nel contempo vacua impresa del pensiero estetico d’ogni tempo. Tempo perso per tutti, persino per i filosofi più razionalisti, meno empirici. Tant’è che nella speculazione di costoro i discorsi su di essa finiscono per assomigliare ai discorsi su Dio: quel Dio che si mostra e si nasconde. Gli eloqui sulla poesia si ridurrebbero  dunque ad una sorta di trattato di teologia negativa: intrattenimento, per dirla alla Maurice Blanchot, in cui la necessità di tacere di fronte ad un’entità indefinibile dà luogo invece a discussioni senza fine. Della qualità ontologica della poesia, che stabilisce cioè i criteri della sua stessa esistenza, non si può parlare poiché il pensiero filosofico diventerebbe “liquido”, vaporante, perderebbe il suo statuto concettuale. In effetti, se i discorsi sulla poesia si rivolgono a detta qualità ontologica, entrerebbero nella dimensione del tautologico cioè, pensando di scoprirne l’essenza, non direbbero altro che: la poesia è quello che è, la poesia è poesia.
Tant'è che Roman Jakobson ha fatto opera di rassicurazione rivestendo l’ontologia di qualità linguistiche. La quidditas della poesia, cioè ciò che distingue un testo poetico da uno non poetico, è quel che lui chiamava la “funzione poetica”, la funzione cioè di non comunicare altro messaggio che il messaggio di comunicare un messaggio fine a se stesso. La lingua poetica, nettamente distinta dalla lingua comune, è tanto più se stessa quanto più si sottrae al vincolo comunicativo. Interrompendo il rapporto con il referente (il contesto, il segno, il messaggio linguistico),  con il destinatario (il lettore),  la lingua poetica si svuoterebbe del significato, tanto da poter definire “delusiva” la sua semantica. Se si accettasse tale teoria, dovremmo concludere sostenendo la poetica dell’Arte per l’Arte: poesia libera da ogni vincolo, compreso quello comunicativo. Mallarmé ne sarebbe l’esempio più attinente quale poeta più lontano dalla prosa. Paradossalmente, anche le Avanguardie novecentesche, quali il Futurismo e il Surrealismo, nemiche della purezza estetica, possono farsi rientrare nell’alveo della poesia pura quando rifiutano, seppur con altre motivazioni, ogni convenzione stilistica, quando negano la rappresentazione e la narrazione. Raccontare, esprimere, ragionare e rappresentare, sia per Breton che per Valéry, sarebbero qualcosa che deve rimanere fuori dalla scrittura poetica.
Questo tipico cammino della modernità poetica viene dato per concluso da tempo eppure il linguaggio poetico ha continuato sulla via della depurazione anti comunicativa, tanto che i giovani autori che hanno cominciato a pubblicare dagli anni settanta in poi si sono formati sullo slogan che in poesia tutto era concesso, tranne dire qualcosa.
Montale e Pasolini sono i primi due casi, forse, di avvicinamento della poesia alla prosa, della liricità alla discorsività. Eppure Montale era stato l’apice della poesia tardo e post-simbolista, un virtuoso manierista del monologo allusivo, mentre Pasolini era partito dal lirismo dialettale per arrivare al poemetto civile. Sia l’uno che l’altro, verso la fine degli anni settanta, portano la poesia verso la prosa. Montale da Satura in poi diventa un poeta satirico, colloquiale, cerimoniale, semi giornalistico. Pasolini, sempre più insoddisfatto di sé, con Transumanar e organizzar, tocca il limite della trasandatezza stilistica: le sue poesie diventano sciatti articoli in falsi versi. Da entrambi l’attenzione tecnica viene spostata verso la prosa polemica. Ma la tendenza della poesia di spostarsi verso la prosa si era notata da tempo in altre letterature.
Per ricondurre questa spero non prolissa introduzione  a Lina la Mattina,  voglio far riferimento a Wystan Hugh Auden. Pochi poeti come Auden hanno colto il senso del cambiamento d’epoca nella poesia moderna. Auden scrive versi a centinaia, come Lina La Mattina, lunghi poemi di riflessione, come Lina La Mattina. Poeta tutt’altro che puro, è capace di versificare qualsiasi cosa (come Lina La Mattina), da un programma pubblicitario per le ferrovie a una ricetta medica. Auden non mette confini tematici di tono e di argomento alla sua poesia, come Lina La Mattina. Può parlare di tutto, come Lina La Mattina. A volte quasi ferocemente giudica la propria epoca, a volte esprime la sua gratitudine di creatura terrestre al supremo ente divino. Diversamente dai simbolisti, dai poeti puri, dagli ermetici, dai visionari e dai metafisici, in Auden, così come in Lina La Mattina, non troviamo immagini e accostamenti per analogia. I suoi versi sono funzionali all’espressione di idee e sentimenti definiti. La teatralità della sua versificazione spinge la poesia nella direzione della conversazione, della satira, dell’invettiva, del sermone. Auden, così come Lina La Mattina,  ha bisogno di una stilistica della vita morale e psichica, nelle diverse gradazioni del privato e del pubblico.

In Sotto nascosta luce Lina La Mattina è ingenua e al tempo sentimentale: e in effetti la vera poesia, il genio poetico puro non può che essere ingenuo. Lina La Mattina, quale vero poeta, è sentimentale nella misura in cui riesce a tornare ingenua, e la sua ricerca della natura, quale tramite per arrivare alla verità e a Dio  o alla verità di Dio, alla maniera romantica, è premiata dalla stessa poesia.  

Gaetano Rasi, "Intervista sul Corporativismo" (Ed. Eclettica)

Nel lessico contemporaneo il  termine  “corporativismo” rappresenta una parola tabù, su cui è calata una sorta di damnatio memoriae, che ne ha snaturato la ragione d’essere e sterilizzato le radici storiche.
Assimilato al fascismo,  il corporativismo è stato così ridotto ai margini del confronto politico-sociale, diventando da una parte sinonimo dell’autoritarismo e del controllo dello Stato, dall’altro segno dell’affermazione esclusivistica degli interessi di uno o più  settori di società. Eppure le radici di questa dottrina politica e sociale sono tutt’altro che banali: affondano nella cultura romana, si rafforzano nel Medioevo fino a rappresentare l’ossatura della Dottrina Sociale della Chiesa, poi del fascismo e, nel dopoguerra, della destra sociale.
Intorno a questo complesso itinerario si interroga Mario Bozzi Sentieri, firma nota ai nostri lettori, che ricostruisce le alterne vicende dottrinarie  del corporativismo ad introduzione di “Intervista sul corporativismo – La via sociale oltre la crisi dei vecchi modelli”( Eclettica Edizioni, pagg. 160, Euro 16,00). Il saggio di Bozzi Sentieri introduce l’ intervista a Gaetano Rasi, storico esponente  del pensiero corporativista post bellico, scomparso nel novembre 2016.
L’intervista nasce da una proposta, fatta dallo stesso curatore a Rasi, alcuni mesi prima della sua scomparsa. L’idea era di riprendere in modo esplicito la riflessione sul corporativismo, partendo dai fondamentali dell’Idea, dalla sua sostanza dottrinale, per offrirla all’attenzione del più vasto pubblico, in particolare giovanile, attraverso la formula semplificata dell’intervista.
Rasi aveva manifestato il suo interesse alla proposta, rimandando la stesura del libro ai primi mesi del 2017, in considerazione dei suoi impegni, legati alla preparazione del secondo volume della Storia del progetto politico alternativo dal Msi ad An.
Partendo dall’ ampia ed articolata produzione sul corporativismo, sviluppata da Rasi a partire dai primi Anni Settanta del ‘900, Bozzi Sentieri ha deciso  di estrapolare, sulla base delle stesse domande   proposte,  a  suo tempo, a Rasi, gli elementi portanti dell’idea corporativa, analizzata dal punto di vista di uno studioso “impegnato” a confrontarsi  con le dinamiche sociali, economiche e politiche della società italiana.
Ne esce un’opera di grande profondità ed insieme di facile lettura, che,  in sei capitoli, tra domande e risposte,  fissa gli elementi essenziali della dottrina corporativa.  
Partendo dalla crisi contemporanea della rappresentanza politica e sociale, ritrovare l’essenza del corporativismo  – attraverso le  parole di Rasi e l’introduzione del curatore dell’intervista – significa immaginare  strumenti rappresentativi  capaci di favorire   una maggiore integrazione dei fattori della produzione e, contemporaneamente,  la specializzazione nello svolgimento dei processi politici, dando voce e spazio al Paese reale, alle categorie produttive, al mondo delle professioni  e delle competenze.
La sfida ha un suo fascino ed una sua attualità, invitando a riposizionare l’intero impianto politico-sociale.  Lungo l’asse portante di questa idea di fondo mutano  la concezione  stessa del  Sindacato, le logiche del profitto e del salario.  Dalla condizione di lavoratore-dipendente, l’uomo moderno passa - nella convinzione interiore, oltre che nella realtà - allo status di «produttore», mentre  l’economia corporativa viene vista quale   economia produttivistica in grado di proporre  l’ottimo nella combinazione dei fattori, al fine di evitare sprechi di energie e di risorse, e di procurare un aumento della ricchezza disponibile da poter ripartire fra consumi e investimenti. Al centro - si evince dal libro  curato da Bozzi Sentieri – l’idea di opporre alla “società del tornaconto” quella della responsabilità,  la concretezza dell’uomo sociale all’homo economicus.

Ritrovate nella loro essenza, le analisi di Rasi sul corporativismo, al di là di ogni contingenza, diventano un utile strumento per orientarsi nella complessa crisi italiana, insieme atto postumo di omaggio al grande Maestro e viatico per quanti sapranno farsi carico del suo messaggio, raccogliendone il testimone. 

giovedì 14 settembre 2017

Paolo Mieli, “La guerra contro il passato” (Ed. Rizzoli)

di Domenico Bonvegna

La più stupida guerra è quella contro il passato, lo scrive Paolo Mieli nel suo “In guerra con il passato”. Sottotitolo:“Le falsificazioni della storia”. A che cosa porta questa guerra contro il passato? A confondere le idee sul presente.
“Se vogliamo essere in pace con il passato dobbiamo essere disposti a rivedere qualcosa di importante, anche pezzi della memoria collettiva a cui siamo legati”. Ma non basta dobbiamo anche“essere disponibili a una rivisitazione – in positivo o in negativo – dei grandi del passato. Personaggi che possono – anzi, devono – essere oggetto di un continuo riesame”.
La pacificazione con il passato ci impone di riconoscere gli errori di qualunque parte e soprattutto di non andare a cercare nella storia antefatti alle prospettive politiche del tempo presente.
Nel libro Paolo Mieli riporta nell'introduzione al libro un episodio, tra l'altro in questi giorni clamorosamente balzato alla cronaca, in merito alla guerra delle statue negli Usa. Si tratta della beatificazione prima da San Giovanni Paolo II e la canonizzazione dopo ad opera di Papa Francesco del gesuita Junipero Serra, nato nel 1713 a Maiorca e trasferitosi nel continente americano, nel settecento aveva evangelizzato la California. Contro questa canonizzazione si è elevato il presidente della tribù Amah Matsun, Valentin Lopez:“Canonizzando Junipero Serra, il papa avvalla e, addirittura, celebra l'uso dell'incarcerazione e della tortura per convertire al cristianesimo gli indiani della California”. Inoltre secondo Ron Andrade, dell'American Indian Commission di Los Angeles, Serra trasformò le missioni in campi di concentramento; in conseguenza del suo operato i nativi furono decimati passando da trecentomila, quanti erano nella seconda metà del Settecento, a centomila, quanti se ne contavano nel 1850. Pertanto, “la sua canonizzazione equivarrebbe alla 'celebrazione del genocidio'”. Papa Francesco, intanto nega e sostiene che fu soltanto un grande evangelizzatore. Pertanto la furia iconoclasta dei militanti “indigenisti” dopo aver colpito la statua di Cristoforo Colombo, hanno imbrattato quella di San Junipero a Los Angeles. Entrambi colpevoli di fomentare l'odio razziale.
Un altro tema da rivisitare che Mieli affronta nel libro, è la questione dell'arretratezza del Sud italiano. Alla fine del Medioevo la Sicilia fu motore economico dell'Italia, produttrice di grano e materie prime indispensabili alla sopravvivenza del Nord.
Lo sostiene David Abulafia, nel testo, “Regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500”. In questo studio Abulafia capovolge i termini della questione meridionale. L'autore, docente di storia del Mediterraneo, all'università di Cambridge, è considerato uno dei massimi studiosi dell'Italia medievale.“ Retrodatare”, la divisione tra Nord e Sud ai secoli XIII e XIV è un grave errore per Abulafia, una prova che i pregiudizi culturali contemporanei possono offuscare anche la visione di esperti in buona fede.
Tuttavia, “il Sud di questo periodo è in realtà molto ricco, produce ampie quantità di cibo che sono indispensabili per la sopravvivenza delle regioni settentrionali. Il commercio tra il Nord e Sud Italia è fiorente e le regioni settentrionali dipendono dal Sud per la fornitura di cibo e materie prime. I mercanti del Nord devono recarsi in Campania e in Sicilia per procurarsi cotone e seta”. Certo se noi guardiamo il passato con gli occhi degli abitanti del XX secolo, riteniamo che sia meno importante la produzione agricola, rispetto agli scambi finanziari. Ma in quel periodo i campi e la produzione di materie prime giocavano un ruolo fondamentale nella vita della società. A questo punto Mieli propone la fatidica domanda:“A quando allora va fatto risalire il divario economico tra Nord e Sud?”.  Secondo l'ex direttore del Corriere della Sera, ai secoli XVI e XVII, quando l'Italia meridionale e la Sicilia caddero sotto il dominio spagnolo, incentrato attorno a uno sfruttamento coloniale di queste terre. Gli spagnoli secondo Mieli erano interessati a ricavare dal Sud grano e materie prime, piuttosto che promuovere la vita economica e culturale della regione. Inoltre non vennero mai gettati semi per costruire grandi città come avvenne al Nord.
Altro tema caldo che Mieli affronta è quello de “L'invenzione delle crociate” dal titolo del libro di Christopher Tyerman, dove si denuncia “il vizio di guardare le crociate attraverso il filtro della propria mente e cultura”.
Manipolazione e contraffazione sono le armi più comuni con le quali si combatte questa guerra al passato.
Il libro consta di quattro capitoli: 1. In guerra con la storia tramandata. 2. In guerra con le religioni armate. 3. In guerra con i miti della guerra. 4. In guerra con i grandi della storia. L'autore ha fatto una selezione, forse per lettori specialisti, di alcuni episodi storici particolari, dove sono protagonisti alcune figure celebri della storia: da Cicerone ad Augusto. Andrea Doria, Enrico di Valois, Mazzarino Lincoln Bismarck, D'Annunzio.
Alessandro Barbero presentando il libro di Mieli, scrive:“è una ricognizione puntuale, erudita e divertita, di questa che è, ripetiamolo, la condizione normale della storiografia. È una rassegna bibliografica che in ogni capitolo, e ce ne sono ben 27, propone un tema storico su cui credevamo di sapere tutto e presenta al lettore gli studi più recenti che ne hanno rinnovato l’interpretazione. Verre era davvero quel politico corrotto che ci presenta Cicerone? Con quali mezzi Augusto arrivò al potere? I martiri di Otranto morirono davvero per la fede? Lincoln fece davvero la guerra per abolire la schiavitù? La Seconda Guerra Mondiale è davvero finita nel 1945? La collusione fra Stato e mafia, in Italia, è davvero una novità della Prima Repubblica?” (A. Barbero, “Non fidatevi della Storia, racconta bugie da millenni”, 27.10.16, La Stampa)
Secondo Barbero, Mieli non può essere ascritto ai revisionisti, infatti non nomina mai la parola “revisionismo”. Invece lo studio di Mieli fa parte,“della naturale dinamica degli studi storici, per cui ogni storico che affronta un argomento anche già molto studiato può sempre aggiungere un punto di vista nuovo, può talvolta scovare nuove fonti, e può spesso modificare l’interpretazione del passato”.
Un'altra interessante recensione è quella di Angelo Panebianco, citando Benedetto Croce, che sosteneva che la Storia, è sempre “storia contemporanea”, anche se lo è in due modi diversi. Scrive Panebianco:Lo è perché il passato viene sempre inevitabilmente riletto alla luce delle preoccupazioni del presente. Ma lo è anche perché la storia viene usata, manipolata, semplificata eccessivamente, banalizzata e anche falsificata per piegarla alle esigenze delle polemiche dell’oggi, per farne uno strumento utile ai nostri scopi, più o meno partigiani, del momento”. E siccome, “il futuro è incerto e largamente imprevedibile, non ci limitiamo a cercare nel passato lumi per comprendere cosa sia meglio fare nel presente (e questo è certamente un modo sano e corretto di fare i conti con la storia), ma ce ne serviamo come arma polemica per imporre, contro le resistenze altrui, la nostra visione delle cose presenti, per spingere gli altri a fare scelte che consideriamo giuste o per noi convenienti, e anche per giustificare scelte già fatte, per esempio per conferire legittimità a un nuovo regime politico”. (A. Panebianco, La storia falsa dei banalizzatori non ci aiuta a capire il presente, 7.10.16, Corriere della Sera)